City of life and death (2009) di Lu Chuan è un film di produzione cinese che racconta, con un taglio il più possibile imparziale e asciutto, il dramma del cosiddetto Massacro di Nanchino.
A fronte di un budget di circa 12 milioni di dollari, incassò circa 10 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla City of life and death?
Sullo sfondo della tragedia di Nanchino, diversi personaggi si avvicendano sullo schermo con i loro drammi personali e collettivi…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere City of life and Death?
Assolutamente sì.
Ma.
City of life and death è un’opera davvero di grande valore, che non solo racconta una delle vicende più agghiaccianti della storia del Novecento, ma sceglie di farlo con un taglio quasi documentaristico, preciso, e che non mostra più del necessario…
…ma che quel poco che mostra basta per raccontare dinamiche davvero difficili da digerire, e che probabilmente non tutti sono pronti ad affrontare, per quanto sia un prodotto che vale assolutamente la visione.
Insomma, vi ho avvertito.
City of life and death realtà
A cura di Carmelo.
Alcune utili indicazioni per orientarsi nel film.
Il Massacro di Nanchino, conosciuto anche come Stupro di Nanchino, è stato un insieme di crimini di guerra perpetrati dall’esercito giapponese a Nanchino, all’inizio della seconda guerra sino-giapponese.
La città, in quel periodo capitale della Repubblica di Cina, era caduta in mano all’Esercito imperiale giapponese il 13 dicembre 1937 e per circa sei settimane, tra il dicembre 1937 e il gennaio 1938, i soldati giapponesi uccisero circa 300.000 persone.
Ecco una piccola galleria di foto d’epoca.
L’impossibilità della ragione
Fin dal suo incipit, in City of life and death sembra rimbombare la domanda fondamentale de La sottile linea rossa (1998):
Eppure inizialmente in scena vediamo quello che forse è il minore dei mali dello Stupro di Nanchino: un’uccisione sistematica della popolazione cinese, portata avanti sulle prime da un’idea dell’annientamento sistematico del nemico.
La radice di questo grande male può infatti facilmente essere ritrovata all’interno del pensiero e della propaganda anti-cinese tipica di quegli anni in Giappone – un sentimento che non si è ancora del tutto spento – che rendeva del tutto normali certi tipi di azioni.
Un’eliminazione quasi meccanica, fredda, dettata unicamente dal dovere di proteggere la propria nazione dal nemico…
Ma la situazione diventa sempre più incomprensibile più ci si addentra nell’esplosione di violenza incontrollata, fino al punto in cui i soldati giapponesi penetrano negli ospedali improvvisati dei rifugiati per sparare in testa a civili indifesi…
E questo è solo il preludio di un atto ancora più incomprensibile.
Lo stupro sistematico.
Il male comune
Alle donne non basta privarsi del loro essere donne per poter non essere violate costantemente, così come agli uomini non basta fingere di non essere soldati per salvarsi come prigionieri civili: non esiste più la ragione, la razionalità.
L’unico elemento che rimane è la comunità.
E con due significati.
La comunità è quella che un pugno di donne, già ripetutamente violate e che hanno davanti agli occhi nient’altro che disperazione, miseria e lo stupro sistematico dei loro concittadini, scelgono di salvare.
Così, nella devastante sequenza dello stupro di gruppo, questi corpi ormai senza dignità – e, infine, anche senza vita – vengono sistematicamente violati, umiliati, distrutti, quasi a simboleggiare l’agghiacciante stupro che è calato sulla città stessa.
Ma il senso di comunità è anche quello che giustifica non un mero stupro, ma una costante violazione della vita e della dignità di altri esseri umani, una costante umiliazione e una violenza fuori controllo…
Perché, oltre al sentimento di comune disprezzo verso una razza inferiore, quello che muove le azioni dei soldati giapponesi è un senso di liberazione dalla colpa: se tutti sono colpevoli, se tutti stanno perpetrando lo stesso crimine, nessuno è davvero colpevole.
E allora cosa rimane?
Vita e morte
L’unico barlume di ragione dal lato giapponese è il personaggio di Kadokawa: il soldato cerca di ritrovare un qualche parvenza di normalità nel suo attaccamento a Yuriko, con cui spera di condividere qualcosa di più del semplice sesso.
Un amore e, forse, un matrimonio.
Ma la sua ricerca di un mondo razionale è costantemente contrastata da una realtà totalmente irrazionale, di cui fa inevitabilmente parte, e della cui colpa non può privarsi davanti al giudizio della Storia.
Per questo il finale si fonda su un tragico quanto potente contrasto.
Il soldato giapponese sceglie di togliersi la vita, ormai incapace di portarla avanti, tale è la colpa, tale è l’orrore che ha dovuto vedere e compiere, che non gli permetterebbe mai più di tornare ad una vita altra.
Ma la sua morte rappresenta anche la liberazione dei due prigionieri cinesi, in particolare il bambino, che corre spensierato con dei fiori fra i capelli, simbolo della profonda speranza, del profondo sentimento di rinascita che deve accompagnare un orrore che l’aveva ormai spenta.
Così, anche dal cadavere di Kadokawa, dalle rovine di Nanchino, potranno nascere nuovi boccioli.