Il Grinta (2010) è il remake dell’omonimo film del 1969, questa volta sotto la direzione dei Fratelli Coen nell’ultima fase della loro carriera di coppia.
A fronte di un budget medio – 38 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 252 milioni di dollari in tutto il mondo.
Di cosa parla Il Grinta?
Mattie Ross, rimasta orfana di padre, cerca giustizia. Ma la sua giovane età potrebbe essere un ostacolo…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Il Grinta?
In generale, sì.
Il Grinta è il classico Coen minore, che si inserisce nel loro avvicinamento al genere western – già sperimentato in Non è un paese per vecchi (2007) e confermato nel successivo La ballata di Buster Scruggs (2018)…
…e che contiene al suo interno i classici elementi tipici della filmografia coeniana – specificatamente, il criminale inetto e l’ironia surreale – senza brillare particolarmente, ma rimanendo un film nel complesso piuttosto gradevole.
Insomma, non imperdibile, ma vale una visione.
Vantaggio
Mattie è limitata solo dalla sua età.
L’elemento più profondamente coeniano è infatti la brillantezza e intelligenza della protagonista, che risulta così inusuale nel suo costante scontro con la becera ignoranza degli altri personaggi, che cercano costantemente di ingannarla e limitarla nel suo agire.
Infatti il suo personaggio si muove all’interno di un ambiente definito dalla fama e dalla furbizia del singolo, dove l’unica legge è quella della forza e dov’è il valore dell’individuo è definito dalla sua autorità ed esperienza con il mondo…
…che deve piegarsi davanti a questi concetti così estranei di giustizia, contratti e avvocati, così misteriosi da incutere un certo timore nei personaggi con cui Mattie si interfaccia, che infine, volente o nolente, devono piegarsi alla sua volontà.
In questo senso, Rooster è l’esatto opposto.
Imbrigliare
Mattie non è la prima a cercare di imbrigliare Rooster.
L’introduzione del personaggio avviene in un panorama del tutto anomalo: un tribunale in cui è torchiato dalle domande di un avvocato che cerca di chiedergli il conto dei suoi crimini, dei suoi omicidi, in un mondo selvaggio in cui le regole sono messe al bando.
E infatti il vecchio giustiziere arranca fra particolari, sentito dire e una legge sotterranea che non gli ha mai chiesto il conto, ma ha solamente preteso da lui risultati che bene o male, più o meno legalmente, è riuscito infine ad ottenere.
Ma se in quel contesto Mattie potrebbe anche rivalersi, il mondo esterno è ben diverso.
Evasione
Come in altri contesti – specificamente Fargo (1996) – è evidente che anche qui i Coen volessero riscrivere un genere.
Ovvero, il buddy movie – o, meglio, il sottogenere che coinvolge una coppia formata da un giovane e un vecchio.
E proprio per questo, il duo registico si impegna nell’evadere la classica dinamica che costruisce un certo affetto fra i protagonisti, partendo da una condizione di assoluto antagonismo – per quanto, anche qui, ce ne fossero tutti i presupposti.
Sostanzialmente Rooster all’inizio mette più volte Mattie alla prova, finché – attraversando intrepida il fiume a cavallo pur di inseguirlo – la protagonista si guadagna il suo rispetto, concedendole di seguirlo all’interno di un panorama selvaggio ed indomabile.
Infatti la passerella di personaggi che si alterna sulla scena racconta un mondo definito dall’astuzia e dalla prevaricazione, dal guadagno ricercato ovunque – persino in un cadavere, che può essere rivenduto per non pochi soldi.
Un mondo in realtà anche piuttosto meschino e mediocre, come lo stesso Chaney si dimostra, evadendo del tutto il modello del villain temibile e irrefrenabile tipico del genere western, che, insieme alla mancanza di un esplicito happy ending, è la massima evasione del film.
Tuttavia, nel loro voler a tutti i costi cambiare il modello i Coen rischiano di non centrare il punto, arrivando ad un finale che vorrebbe essere amaro e riflessivo come in Fargo, ma che finisce solo per essere insipido e insoddisfacente.