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L’arpa birmana – Il peso della collettività

L’arpa birmana (1956) di Kon Ichikawa è un dramma storico ambientato alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

A fronte di un budget sconosciuto, ha incassato 33 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla L’arpa birmana?

Mizushima è un soldato parte di un battaglione nipponico fermo in Birmania con una particolarità: essere un superbo suonatore d’arpa.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’arpa birmana?

Assolutamente sì.

L’arpa birmana si inserisce nelle produzioni nipponiche che riflettono sul tema della guerra in maniera molto differente da come siamo abituati in ambito occidentale, collegando la tragica sconfitta bellico al sempiterno tema della rinascita del paese.

La particolarità di questo film è che, a differenza di titoli ben più pesanti come City of Life and Death (2009) e La tomba delle lucciole (1886), riesce a riportare la narrazione sul piano più dell’individuo e della pesantezza della responsabilità, verso anche quelle persone che un tempo chiamava amici.

Destino

Mizushima è destinato al suo ruolo.

Il primo contatto con la popolazione locale è ostile quando catartico: viene spogliato sia fisicamente che metaforicamente dei suoi vestiti e quindi della sua identità da soldato e, per estensione, del suo ruolo come portatore di morte che vuole solo fare ritorno in patria.

Elemento ancora più sottolineato dalla inaspettatamente dolcissima scena dell’incontro con l’esercito inglese, che i soldati prima affrontano fingendo di essere in stato di pace e tranquillità, immersi in un momento conviviale senza un pensiero al mondo…

…per poi ritrovarsi immersi in un canto di pace e fratellanza, in cui due popoli così lontani culturalmente e linguisticamente riescono a ritrovarsi nel comune confronto di un conflitto ormai concluso, in un commovente scambio canoro che sembra già da solo chiudere la questione.

Ma non tutti sono d’accordo.

Pace

L’arpa è simbolo di unione…

…o di codardia?

Il protagonista è costantemente scelto nel ruolo di mediatore, proprio forte delle sue melodie che, con un linguaggio non verbale, erano capace di confortare o avvertire i propri compagni, anche nell’incontro con l’altro esercito sicuro della possibilità di una conclusione pacifica.

Eppure proprio in questo frangente emerge un tema ben più doloroso – che sarà poi ampiamente affrontato, fra gli altri, da Lettere da Iwo Jima (2006): il senso di onore di un popolo legato ad una tradizione per cui la vittoria, sia da vivi che da morti, è l’unica via possibile per uscire di scena.

E così, davanti ad una conclusione che sembrava già scritta, Mizushima si scontra violentemente con l’ottusità di questo pensiero, in cui neanche una pace forzata può essere accettata, arrivando inevitabilmente fino al tanto agognato annientamento onorevole.

Eppure, è solo l’inizio.

Rinascita

La rinascita di Mizushima è rappresentativa del Giappone del secondo dopoguerra.

Come all’inizio il protagonista vive ingenuamente nella parentesi bellica con il solo fine di tornare a casa e i suoi compagni si gettano testardamente nel proseguo dello scontro, allo stesso modo il Giappone è intrappolato in sogno di vittoria e onore che è infine costretto a lasciarsi alle spalle.

Infatti, con l’esplosione che segna il fallimento della missione quanto del dramma di Hiroshima, si staglia davanti agli occhi del protagonista la tragedia umana in tutta la sua brutalità, di un popolo inutilmente disperso in un paese straniero.

Per questo, Mizushima non può più tornare indietro.

Prigione

Il protagonista è devastato da una ferita difficilmente sanabile.

Mizushima sceglie consapevolmente di alienarsi dal suo battaglione, dai suoi amici, di cambiare forma e aspetto fino a rendersi irriconoscibile persino a sé stesso, se non fosse per l’elemento che ne ha definito l’identità fino a quel momento, ma ora con un significato totalmente diverso.

L’arpa.

Il fragile strumento sembra l’unico filo che ancora collega il protagonista alla sua vecchia vita, diventando l’eco di una vita a cui non può più tornare, non prima di aver risolto la drammatica responsabilità che senta di portare sulle spalle: rendere giustizia a chi è morto per lui.

E allora per i suoi compagni – e per il suo paese – rimane un’unica, debole testimonianza persa nel tempo: la voce del pappagallo, anzi dei due pappagalli che rappresentano il prima e il dopo, e che restano in mano ai suoi compagni come promessa, forse, un giorno di ricongiungersi…

…o, per un paese, di rinascere.