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Black Mirror 7 – Un passo indietro, un passo avanti

Black Mirror 7 (2023) è la settima stagione di una delle serie più iconiche della piattaforma, arrivata a soli due anni dalla precedente con sei nuovi episodi.

Ecco il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Black Mirror 7?

In generale, sì.

Per quanto abbia anche molto apprezzato Black Mirror 7, non mi voglio sbilanciare nel consigliarvela per un semplice motivo: il miglioramento rispetto al disastro delle scorse stagioni è innegabile, ma, al contempo, se cercate un Black Mirror prima maniera, ne rimarrete delusi.

Infatti questa nuova stagione riesce a bilanciare la visione più positiva che il suo creatore ha abbracciato negli ultimi anni con una riflessione più contemporanea sui nuovi problemi non tanto del futuro, ma del nostro immediato presente.

Insomma, dategli una possibilità.

Common People

E se i servizi sanitari fossero delle piattaforme streaming?

Una tendenza che stiano vedendo sempre di più negli ultimi anni è l’involuzione dei canali streaming – e non solo: i servizi in abbonamento costano sempre di più, ma sono abbastanza astuti da introdurre i malus gradualmente, e facendoci credere che siano cambiamenti di poco conto.

E le vere vittime sono le persone comuni: i due protagonisti sono ottimamente introdotti come due individui che vivono una vita semplice ma soddisfacente, che rischia di essere spezzata da un tumore maligno, provvidenzialmente sventato da una nuova miracolosa tecnologia.

Ma il primo scricchiolio si nota proprio nel modo di pagare: non in un’unica soluzione, ma bensì diventando dei clienti paganti nel tempo, dipendenti da un servizio che già solo così richiede un sforzo estenuante per essere sostenuto, portando ad un anno di continui sacrifici solo per poter sopravvivere.

Ma non basta.

Common People instrada un climax involutivo di pagamento sempre più esorbitante, e non per un lusso di cui si potrebbe anche fare a meno, ma bensì per vivere una vita dignitosa, per evitare invece un’esistenza non da consumatori di un servizio, ma consumati dallo stesso.

Ed è particolarmente indovinata l’introduzione della sleep mode e delle pubblicità non invasive, ovvero i metodi con cui le piattaforme streaming riescono effettivamente a guadagnare: speculando sia su chi si accontenta della fascia bassa dell’abbonamento, sia su chi infine è costretto a sborsare più di quanto possa permettersi.

E, a quel punto, meglio morti che consumati.

Bête noir

Quanto sarebbe fastidioso non avere mai ragione?

La seconda puntata è un thriller di piccole cose, di dettagli mostrati e poi puntualmente smentiti, portandoci effettivamente a stare dalla parte della protagonista, eppure ad avere noi stessi dei dubbi sull’effettiva credibilità delle sue parole, soprattutto perché è la soluzione non è così ovvia.

In questo senso molto indovinata la scelta di tratteggiare la protagonista come una figura che ama essere al centro dell’attenzione, avere sempre la ragione dalla sua parte, finendo fin troppo facilmente ad essere esasperata da una situazione di tutti contro di lei.

Una dinamica che ci porta ad un futuro non troppo lontano – se non proprio il nostro presente – in cui diventa sempre più facile manipolare immagini ed informazioni per screditare qualcuno, con utilizzo di AI e deepface sempre più credibili e ingannevoli, in una sorta di bullismo 3.0.

La soluzione al mistero di per sé è forse più fantasy che fantascientifica, ma riesce nel complesso a funzionare anche nel suo scioglimento, che conferma la sostanziale ambiguità del personaggio della protagonista, che, ottenendo lo stesso potere di Verity, ne segue anche le medesime orme.

Hotel Reverie

La terza puntata è un Her (2015) in piccolo.

Mentre mi aspettavo che l’episodio volesse vertere sulle prospettive non proprio allettanti dell’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale come sostituto degli effettivi attori, in realtà Hotel Reverie ci accompagna verso un concetto ben più profondo: quanto possiamo rendere le macchine simili a noi.

Nonostante venga esplicitamente spiegato che le intelligenze della simulazione non abbiano coscienza di quello che stia realmente succedendo, le stesse custodiscono un potenziale inesplorato, che le può portare ad agire al di fuori del pattern prestabilito, anche in modi imprevedibili.

Così Dorothy vive dei frammenti di una coscienza passata, derivanti dai pochi dati inseriti nel sistema, ma che, con i giusti input, è infine capace di prendere coscienza del sé e di vivere una seppur breve parentesi felice con Brandy, e, persino quando viene resettata, non perde la sua agency che la porta fuori dal seminato.

Una riflessione forse non particolarmente originale, ma certamente ben tratteggiata in un racconto appassionato e per molti versi struggente, che ci apre le porte ad un futuro forse non troppo lontano in cui potremmo innamorarci delle nostre stesse creazioni.

Plaything

La creazione può superare il creatore?

Questa è la domanda al centro della quarta puntata, forse la più Black Mirror di tutte: una creatura tutta digitale, mascherata dietro un’apparenza giocosa e rassicurante, comincia a sviluppare una coscienza propria, con delle vedute ben più ampie rispetto alla limitatezza della mente umana.

Per questo fin da subito la definizione di gioco le sta stretta, nonostante venga costantemente raccontata nell’ottica dell’umano medio: un semplice giochino gestionale, senza un vero obbiettivo o una vera strategia, solo un allevamento intensivo di una hive mind che in realtà ha molto da dire, e che si nutre delle creazioni umane per sviluppare la sua intelligenza.

E i personaggi in scena sono perfettamente divisi in due gruppi.

Da una parte Lump e l’aspro detective che torchia il protagonista per fargli sputare il nome della vittima, incapaci entrambi di comprendere l’importanza dei Thronglets, riducendoli all’interno di uno schema semplice quanto superficiale, di realtà insignificanti e da sottomettere.

Al contrario, la detective è capace di cogliere l’importanza del racconto di Cameron e di non limitarlo all’interno di concezioni già conosciute, ma forse fin troppo aperta a lasciare campo libero al protagonista per mettere in atto il suo piano perfettamente calcolato per diffondere il parassita all’interno delle menti umane.

Ed è tanto più interessante chiudere l’episodio con quel cliffhanger così ben costruito, con quella mano che si rivolge, più che verso il detective, proprio verso di noi, chiedendoci se siamo effettivamente pronti ad accogliere gli ignoti benefici dei Thronglets, senza sapere se saranno di dominio o di salvezza…

Eulogy

Il penultimo episodio della stagione abbraccia un concetto che forse non mi sarei aspettata da Black Mirror.

Come la tecnologia può migliorarci.

Phillip si trova inizialmente davanti alla scocciatura di dover contribuire al ricordo di quella che sembra solo una sua vecchia conoscente che non vede da tanto tempo, ma che nel tempo si rivela come il grande amore perso della sua vita, per cui per anni ha creato la narrazione del disastro perfetto.

Un’idea che non ha fatto altro che auto-alimentarsi, rivelando come l’uomo sia totalmente concentrato su sé stesso e sulla sua esperienza, come abbia distorto talmente la realtà da forzare l’uscita di scena della sua controparte, non volendone sentire le ragioni.

Eppure questa sua ottusità si lascia alle spalle molti dettagli fondamentali, nondimeno l’ultimo brandello, l’ultima possibilità che la vita gli aveva offerto, ma che era stato incapace di cogliere, vivendo una vita di amarezza e di solitudine, che ha il suo ultimo, fondamentale, riscatto finale. 

USS Callister: Infinity

L’ultima puntata è purtroppo quella anche più debole.

Come Charlie Brooker era riuscito tutto sommato a rivedere le sue posizioni e rielaborare il suo ritrovato ottimismo in una riflessione complessivamente interessante nelle puntate precedenti, in questo caso sembra incastrarsi all’interno di un sequel creato a tavolino e di pochissima sostanza.

Il precedente USS Callister era una favola nera a lieto fine, in cui l’orco era sconfitto e gli eroi si aprivano a nuove fantastiche avventure…

…prima che tutto venga riscritto in negativo, creando degli ostacoli non necessari lungo il percorso, a cominciare dal totale ribaltamento del finale, con uno scenario in cui i personaggi sono intrappolati in un universo ostile, e braccati da un nuovo villain molto meno incisivo del precedente.

In questo senso piuttosto blando anche riportare in scena Robert, provando a rimetterlo in discussione in maniera del tutto gratuita – e con un finale assolutamente non necessario – per arrivare ad uno scioglimento che sembra fare il verso ad Inside out (2015), ricordandomi episodi ben più spiacevoli della precedente stagione…