Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri (2023) di Jonathan Goldstein e John Francis Daley è un film d’avventura per ragazzi basato sull’omonimo gioco di ruolo.
A fronte di un budget piuttosto consistente – 150 milioni di dollari – ha aperto con 70 milioni in tutto il mondo: un inizio promettente, ma basterà?
Di cosa parla Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri?
Il bardo Edgin Darvis e la barbara Holga Kilgore sono in prigione da due anni, ma hanno finalmente la possibilità di imbarcarsi in una nuova avventura…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri?
Assolutamente sì.
Almeno, se ci andate con le giuste aspettative.
Io mi aspettavo – e volevo – un prodotto d’intrattenimento, un’avventura per ragazzi leggera e divertente, con un umorismo piacevole e una storia coinvolgente.
Ed è esattamente quello che ho trovato.
Oltre ad avermi piacevolmente intrattenuto, anche andando a valutarlo più analiticamente, non mancano alcuni guizzi registici non indifferenti, e la sceneggiatura si dimostra complessivamente solida.
Per farvi un’idea del tono della pellicola, questa coppia di registi si è occupata della sceneggiatura di film come Spiderman – Homecoming (2018) e Come ammazzare il capo…e vivere felici (2011).
Io, comunque, ve lo consiglio.
Una trama a quest
Proprio per la vicinanza al gioco originale, la trama di Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri è suddivisa in quest.
Una prima parte dedicata all’introduzione dei personaggi, con un racconto piuttosto esplicativo del background del protagonista, in una cornice comica e molto funzionante.
E nel primo atto vengono anche definiti i ruoli in campo, si racconta il tradimento di Forge – interpretato da un Hugh Grant davvero convincente – e il conflitto fra il protagonista e la figlia.
La parte centrale è piuttosto ampia, più di quanto sinceramente mi sarei aspettata, ed è dedicata appunto all’articolata quest centrale, con i personaggi che si muovono in una serie di tappe, fra cui la gustosissima scena del cimitero.
In maniera altrettanto inaspettata, l’atto finale è diviso in due parti, del tutto funzionali a concludere le vicende di entrambi i villain in gioco: quello politico e il vero antagonista – Sofina.
Insomma, una campagna di D&D fatta a film.
Piccoli trucchi, nessuna forzatura
La scrittura gioca sicuramente con alcuni piccoli trucchi per portare a certe svolte di trama.
Quello più evidente è il Bastone Qui-e-là, che arriva piuttosto convenientemente in aiuto ai personaggi proprio quando ne hanno bisogno. Ma la sceneggiatura non è così banale da renderlo del tutto inverosimile, ma si cerca un minimo di giustificarne la presenza. Ed è del tutto verosimile che Holga l’abbia rubato senza sapere di cosa si trattasse.
Al contempo, l’unico momento poco credibile è quando i protagonisti devono attraversare il ponte del dungeon ormai crollato: sarebbe stato del tutto sensato se Doric avesse proposto di trasformarsi e portarli dall’altra parte.
E ci sarebbero stati diversi motivi per cui la stessa non avrebbe potuto farlo – anche solo il fatto di non sapersi trasformare in un certo animale o in uno così grande da poterli sollevare. Ma tacere questo aspetto lascia la questione un po’ in sospeso e toglie leggermente credibilità alle dinamiche in scena.
Ma, tutto sommato, è una piccolezza.
Un’evoluzione equilibrata
Tutti i personaggi, chi più chi meno, godono di un’evoluzione e una caratterizzazione ben precisa.
Fra tutte, quella più rischiosa era quella di Simon, su cui la trama insiste continuamente riguardo ai suoi poteri non sfruttati. E se la sceneggiatura fosse stata messa in mani meno esperte, nel finale il mago avrebbe scoperto il suo vero potere e sconfitto Sofina.
Invece Simon riesce un minimo a tenerle testa, ma non è assolutamente altrettanto capace – e giustamente. La sua evoluzione si è fermata riuscire a credere in se stesso e ad usare l’elmo, e la sconfitta del villain prende altre strade.
E va benissimo così.
La morale
Ho decisamente apprezzato la morale conclusiva legata a Edgin.
Mi ha ricordato moltissimo una delle tematiche centrali di Il gatto con gli stivali 2 (2022): l’importanza della famiglia, anche se non quella di sangue. In conclusione, il bardo capisce che il riportare in vita la moglie morta non farebbe davvero la felicità della figlia – per quanto abbia cercato di convincersi del contrario.
Invece, è piuttosto evidente che la vera madre di Kira è Holga, che l’ha cresciuta proprio come sua figlia e che è ancora importante per la sua vita – e che lo potrà essere anche per il futuro.
Pochi nei in un ottimo equilibrio
Pensando ai (pochi) punti deboli, il primo pensiero va ovviamente a Sofina.
Paragonata a Forge, che risulta un villain molto più intrigante e piacevole, la maga appare invece piuttosto banale, e così anche il suo padrone. Non che manchi un tentativo di costruire meglio la loro backstory, ma che mi è sembrata comunque abbastanza fumosa e poco interessante.
Allo stesso modo l’estetica e la CGI della pellicola falliscono in pochi punti, in particolare nel character design di Sofina e in alcuni dei suoi incantesimi.
Invece, più in generale si è riuscito a trovare un ottimo equilibrio fra un’estetica molto giocosa, quasi cartoon, coerente con l’opera di partenza, e un’ottima tecnica visiva che ha mantenuto alto il livello complessivo del prodotto.