Tornando cinquant’anni indietro, scopriamo l’origine della violenza cieca del killer del primo film…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Pearl?
Assolutamente sì.
Arrivata alla visione del secondo capitolo carica di aspettative, non sono stata per niente delusa:Pearl riprende ed amplia il discorso di X, esplorando un tema sociale particolarmente attuale, anche se in un contesto sociale lontano nel tempo.
Un Ti West, fra l’altro, molto onesto con sé stesso: pur affrontando un tema più impegnativo, mantiene una scrittura ed una messinscena semplice e diretta, portatrice di un messaggio piuttosto immediato, ma non per questo banale.
Ma, ancora una volta, ve lo lascio scoprire.
Sogno
Pearl è una ragazza piena di sogni.
Fin dall’inizio appare immersa nella sua fantasia di cavalcare le scene di Hollywood e così di evadere l’arida realtà in cui è costretta, che infatti irrompe bruscamente nelsuo sogno nelle vesti della severa figura della madre, che fin da subito cerca di distruggere le sue speranze.
E lo scontro fra questi due personaggi non è tanto diverso da quello fra Pearl e Maxine nel primo capitolo: un antagonismo apparentemente distruttivo, in realtà dovuto a cause più profonde, fra l’amarezza del presente e la cautela per il futuro.
La madre infatti cerca di portare Pearl lontano da quello che un tempo era il suo sogno – rappresentato dai vestiti non più indossati – che ormai ha compreso essere impossibile, cercando di proteggerla da insidie a cui la figlia sembra completamente cieca.
Perché della realtà Pearl vede solo una parte.
Fuga
La protagonista è alla ricerca del suo posto nel mondo…
…quello che le appartiene per diritto.
Infatti fin da subito Pearl deve essere la protagonista della scena, deve essere la star, arrivando a punire in maniera molto infantile chiunque sembri mettersi sul suo cammino –persino un’innocente oca che fa capolino in scena, curiosa del suo spettacolo.
E ogni ostacolo è dato in pasto al fedele coccodrillo, il quale, ancora di più rispetto al primo film, può essere letto come rappresentazione di una società solo apparentemente alleata della protagonista nel raggiungimento del suo sogno.
Così nella fuga in città Pearl ritorna finalmente nel suo luogo dei sogni, il cinema, che rappresenta perfettamente il dualismo della pellicola: uno splendido spettacolo di danza preceduto da un angosciante spaccato della guerra ancora in corso.
E proprio qui Pearl dovrebbe trovare la sua via di fuga…
Brandello
Il ragazzo senza nome del cinema è solo una delle tante illusioni di Pearl.
Nient’altro che un brandello di un mondo irraggiungibile, pari il piccolo fotogramma che la protagonista conserva gelosamente sulla via di casa, che inaspettatamente porta anche alla prima effettiva realizzazione del suo sogno…
…ma non più in uno spettacolo cinematografico, ma in una scena erotica – proprio come il porno amatoriale che lo stesso uomo dei sogni le farà vedere di nascosto – e con un fantoccio che rappresenta l’amante proibito che la protagonista è ancora restia ad accogliere.
Ma Pearl è stanca di tutte queste illusioni.
Di fronte alla possibilità concreta di fuggire dalla tediosa esistenza della fattoria, la protagonista comincia effettivamente a disfarsi di quanto la potrebbe ostacolare, prima di tutto l’odioso peso del padre, una delle principali cause della caduta in disgrazia della famiglia.
Ma in realtà la sua prima vittima è la madre, che cerca ancora più bruscamente di riportarla con i piedi per terra, utilizzando la sua sfortunata sorte come monito di quello da cui la figlia dovrebbe stare lontana, piuttosto che abbracciare così ingenuamente.
Ma ormai nessuno può fermare Pearl.
Spettro
Pearl vorrebbe lasciarsi tutto alle spalle, ma non può.
Non davvero.
Lo ben dimostra il sogno in cui Pearl è diventata una star di successo, rovinato dalla inquietante presenza degli spettri del suo passato, maliziosamente presenti fra il pubblico con il volto deturpato dalle colpe della protagonista.
Comincia così una corsa inarrestabile verso l’occasione che le cambierà la vita, in cui persino un ragazzo che solo esprime una comprensibile inquietudine nei confronti dello strano comportamento di Pearl diventa inevitabilmente vittima della sua furia.
E allora, non dovrebbe essere ora si vincere?
Perdere
L’audizione non è una semplice audizione.
Rappresenta invece il momento in cui Pearl mette alla prova il sogno che le è stato venduto, per cui ha letteralmente dato via ogni parte della sua vita, e dal quale ora si sente finalmente di dover essere premiata.
E invece la realtà torna ulteriormente a bussare alla sua porta, mettendola davanti ad un mondo dove non basta essere bravi, ma dove bisogna anche essere nel posto giusto al momento giusto, dove è necessaria anche la faccia giusta…
E con questa amara realizzazione, finalmente Pearl diventa onesta con sé stessa, intraprendendo un intenso dialogo col fantasma del marito, spettro sempre presente anche in precedenza, considerato come l’ostacolo invalicabile per la realizzazione del sogno.
E così, eliminato l’ultimo testimone, non resta che ricostruire un’altra facciata, quella della famiglia perfetta…se non fosse che il cibo in tavola è marcio, due dei convitati sono in putrefazione, e la reazione del marito ritornante è di puro orrore…
…davanti al volto sfigurato della protagonista, che forza un sorriso perfetto, che però gradualmente si scioglie in lacrime di profondo dolore.
Tremila anni di attesa (2022) di George Miller, traduzione abbastanza impropria di Three Thousand Years of Longing, è un incontro piuttosto curioso fra il genere fantastico e il dramma storico.
Alithea è una studiosa britannica che da tempo soffre di apparenti allucinazioni. Ma qualcosa di molto concreto sta per accadere nella sua vita…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Tremila anni di attesa?
Assolutamente sì.
DopoFury Road (2015), anche con Tremila anni d’attesa George Miller ha dimostrato di essere un autore estremamente creativo e multiforme, sostanzialmente incapace di fossilizzarsi sul genere che gli ha sostanzialmente definito il successo ad Hollywood…
…ma volendo sperimentare, qui e altrove, con generi e dinamiche molto diverse fra loro, riuscendo comunque a confezionare un racconto avvincente, impreziosito da una morale per nulla scontata.
Insomma, da riscoprire.
Aspettative
Con tematiche di questo tipo è facile risultare banali…
…soprattutto nel tentativo di essere originali.
Invece, fin da subito, Miller sorprende con dinamiche ben equilibrate e, in qualche modo, persino credibili: Alithea non prova a strofinare la lampada perché pensa che ci sia dentro un genio, ma piuttosto la pulisce con uno spazzolino elettrico…
…e così il djinn non parla immediatamente in inglese, ma comincia col la lingua di Omero.
Allo stesso modo, la reazione della protagonista è piuttosto graduale.
La donna è sulle prime molto – giustamente – sospettosa nei confronti del genio, memore delle innumerevoli storie in cui diversi umani sprovveduti sono stati intrappolati dai loro stessi desideri mal espressi…
E, per questo, deve essere convinta del contrario.
Vittima
Il djinn è, in un certo senso, la vera vittima della storia.
Dopo essere stato imprigionato in una trama dal forte sapore biblico, finisce sfortunatamente nelle mani della classica protagonista delle storie di questo tipo: una sciocca ragazza che si sente fin troppo sicura dei suoi desideri, e che per questo finisce schiacciata dagli stessi.
E, al contempo, il djinndimostra la sua impotenza.
Nonostante sia una creatura millenaria, con poteri inimmaginabili, può poco davanti al reticolo di inganni e di autodistruzione che avvelena la corte, in cui basta un sussurro, un dubbio, per fare cadere un castello di carte già piuttosto fragile…
Ed il genio è tanto più impotente davanti alla scarsa lunghezza di vedute della ragazza, che si dimostra incapace di reagire e di salvare sé stessa – e di conseguenza anche il djinn – andando proprio a sottolineare la sua forte dipendenza dall’umano.
Occasione
Quello che potremmo chiamare l’atto centrale di Tremila anni d’attesa funge più quasi intermezzo.
Il djinn rimane per lungo tempo sullo sfondo della sua stessa storia, ancora una volta articolata su un domino invisibile di eventi che si concatenano e che cambiano da un momento all’altro la sorte dei personaggi – compreso lo stesso genio.
Così l’umore altalenante del sultano viene solo temporaneamente quietato da un innamoramento fin troppo breve, e la sua improvvisa morte getta nel caos il regno stesso, che finisce nelle mani di un bambinone e delle sue concubine, incapaci di gestire alcunché…
…fra cui la sorte dello stesso djinn.
Ma sembra che il destino abbia qualcosa in serbo per lui…
Legame
L’ultima avventura del djinn sembra essere quella decisiva.
Finito nelle mani di una giovane donna con un intelletto sgargiante, imprigionata in un matrimonio soffocante, il djinn ha finalmente la possibilità di realizzare dei sogni che arricchiscono non solo la sua padrona, ma anche lui stesso.
Ma proprio questo è la sua rovina.
Avendo desiderato per millenni di entrare nell’aldilà promesso dei djinn, il protagonista finisce per legarsi in maniera inaspettata con Zefir, con cui concepisce persino un figlio, ma che, nonostante l’incredibile conoscenza acquisita, è come tutti vittima delle sue debolezze.
Infatti, basta un momento di incomprensione per fare esprimere involontariamente alla donna il suo ultimo desiderio, che effettivamente rappresenta la profondità del suo cuore in quel momento, ma che la condanna ad una vita di oblio.
Allora è questa la volta buona per il djinn?
Desiderio
Cosa desidera veramente Alithea?
A differenza di tutti gli altri umani prima di lei, la donna non sembra essere mossa da particolari necessità.
Tuttavia, questa sua ritrosia nel trovare un desiderio soddisfacente è in realtà specchio del suo essersi ormai in qualche modo arresa alla vita: avendo bruciato quell’unica occasione di fuga dalla solitudine, ormai la sua esistenza non ha più bisogno di altri sconvolgimenti.
Eppure, è proprio questo il suo più intimo desiderio.
Il desiderio che la protagonista infine esprime è di realizzare finalmente una relazione duratura e travolgente, che possa compensare a quella solitudine che l’ha turbata più di quanto sarebbe disposta ad ammettere…
…e che porta ad incatenare il djinn su un piano dell’esistenza che non è il suo.
Per questo il finale è così calzante.
Proprio rinunciando al suo desiderio, Alithea si differenzia dagli altri umani che, in un modo o nell’altro, si erano fatti distruggere dalle loro stesse passioni, scegliendo invece una serena esistenza puntellata da poche ma essenziali felicità.
West Side Story (2021) di Steven Spielberg è il remake dell’omonimo cult cinematografico del 1961, tratto dal musical di Leonard Bernstein.
Purtroppo, il progetto si è rivelato un grande insuccesso commerciale: a fronte di un budget piuttosto importante – 100 milioni di dollari – ne ha incassati appena 76 in tutto il mondo…
Di cosa parla West Side Story?
New York, 1957. Tony e Maria sono due giovani innamorati, che però fanno parte di due gang rivali…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere West Side Story?
Assolutamente sì.
Steven Spielberg riesce non solo a superare tutti i limiti della produzione del 1961, ma anche riuscire a rendere incredibilmente più realistico un musical che parlava di conflitti sociali molto forti e reali – e ancora estremamente attuali.
Particolarmente indovinata la rappresentazione della comunità portoricana, non solo con un casting finalmente credibile, ma anche con l’inserimento di diverse battute in spagnolo, finalizzate a un senso di maggior realisticità alla vicenda.
L’unico difetto che si può forse imputare al film è il suo voler essere eccessivamente vicino, per alcuni elementi, all’opera di partenza, non sacrificando alcun numero musicale, persino quelli che inevitabilmente appesantiscono una pellicola di oltre due ore e mezza…
Dominio
La scena di apertura serve non solo a definire gli spazi, ma soprattutto l’intenzione dei Jets di appropriarsene.
Infatti, il gruppo comincia la sua traversata da una terra di nessuno, ormai destinata alla distruzione, per poi muoversi verso quei quartieri che evidentemente non gli appartengono – come si comprende dalle insegne dei negozi in spagnolo…
…ma che cercano di spogliare della presenza straniera, con passi di danza perfettamente integrati nella loro ricerca di dominio, sempre gettati in avanti, a braccia aperte, a pugni chiusi, per coprire più spazio possibile.
Guerra
Questa riappropriazione diventa un effettivo insulto alla comunità portoricana, quando viene infangata la loro bandiera – mentre nel West Side Story del ’61 semplicemente vi era una scritta sul muro molto meno grave, che recitava semplicemente Sharks stinks.
Dopo una lotta senza quartiere, all’arrivo dei poliziotti gli Sharks, ormai scacciati ed umiliati da una giustizia mai veramente a loro favorevole, esplodono in un canto tutto in spagnolo in cui rivendicato con fierezza le loro origini.
Ma ancora più significativo è il discorso del Tenente Schrank, che gli ricorda l’insensatezza della loro lotta: uno scontro fra disperati per un fazzoletto di terra, che fra poco sarà occupato da quelli che dovrebbero essere i loro veri nemici.
Ovvero, la classe dirigente che li ha lasciati ai margini.
Fuori
Spielberg carica il suo protagonista maschile di nuovi sentimenti.
Diventa infatti significativo per Tony rivendicare il suo voler essere esterno alle lotte fra le gang, proprio per essere andato così vicino ad uccidere un ragazzino, ad un passo dal rendere questo evento tutta la sua personalità.
Per questo la sua canzone Something’s Coming assume un nuovo sapore nella bocca di un protagonista che è tornato a casa, ma vuole trovare all’interno della stessa qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso dall’odio che era tutta la sua vita fino a questo momento.
Per questo è fondamentale che il numero si svolga non in solitudine, ma davanti agli occhi speranzosi e quasi ammonitori di Valentina, mentre il ragazzo gli racconta che qualcosa sta per cambiare, che deve cambiare…
Diversa
Ma il cambiamento più significativo è il personaggio di Maria.
Se nella versione del ’61 la protagonista femminile era una ragazzina superficiale e sciocca, che viveva ancora a casa dei suoi genitori, in questo caso presenta un carattere decisamente più irriverente, tanto da mettere più volte in discussione l’autorità del fratello.
Infatti, la sua ribellione, la sua unione con Tony è molto più che un semplice amore impossibile, ma piuttosto un modo in cui Maria decide di definire sé stessa come donna libera, senza che sia il fratello ad imporle un compagno così incolore come Chino.
Così la sua prima vera ribellione alla sua famiglia è proprio quel rossetto rosso che sceglie di mettersi prima di uscire per il ballo, che va in parte a riscrivere quell’aspetto puro e illibato che il vestito bianco dovrebbe conferirgli.
Nascosti
Tony e Maria sanno subito di dover stare nascosti.
Il prologo del loro dramma è proprio il ballo stesso, che perfettamente incorniciata all’interno di dinamiche da musical il bruciante contrasto fra le due gang, per cui qualunque tentativo di pace, persino un’innocua danza, appare assolutamente impossibile.
Infatti, a differenza dell’opera originaria, i due capiscono subito che il loro incontro si deve svolgere nelle retrovie della festa, con uno scambio articolato da alcuni passi di danza ripresi dallo spettacolo e un paio di battute ironiche che raccontano l’inizio dell’intrecciarsi del rapporto.
Rispetto al West Side Story del ’61, questo primo incontro è riscritto in più direzioni e con grande intelligenza: il primo bacio fra i due non è ricercato da entrambi in un commosso crescendo, ma piuttosto voluto dalla stessa Maria, che mostra ancora una volta la sua intraprendenza e sfacciataggine.
Inoltre, il fatto che i due rimangano nascosti per tutto il dialogo – a differenza del film originale, in cui erano in mezzo alla folla – rende ancora più grave la loro situazione: sembra come se Tony avesse preso da parte la giovane ragazza per approfittarsene…
Scoperta
La scena della balconata è semplicemente perfetta.
Spielberg riprende per lunghi tratti le dinamiche del prodotto originale, ma le impreziosisce con una gestione degli spazi magistrale, che racconta quanto la loro relazione sia impervia e apparentemente impossibile, come se ci fosse un blocco, una rete invalicabile fra loro…
…ma che prontamente il baldanzoso Tony supera per raggiungere quella che ha capito essere per nulla una ragazzina indifesa, benché in quel momento appaia fortemente impaurita dalla presenza di Bernardo a pochi passi.
Purtroppo, per così dire, la sceneggiatura non sceglie di fare il passo decisivo per rendere effettivamente più credibile il loro rapporto: subito Tony le chiede di scappare insieme, subito si danno appuntamento per il giorno successivo e si dichiarano il reciproco amore eterno.
America
Una riproposizione decisamente interessante è America.
Come tipico della produzione del ’61, la regia della scena era estremamente statica e limitata ad un solo ambiente, con uno scambio piuttosto animato fra le ragazze della gang e le loro controparti maschili, con un sottofondo fortemente ironico.
Nel remake si sceglie invece di aprire la scena e di distribuirla in diversi ambienti, nonché di caricarla di un significato profondamente drammatico, mostrando quello che effettivamente i due stanno cantando – le proteste della comunità portoricana, l’antagonismo della polizia…
Tuttavia, non sia arriva mai ad una vera conclusione.
Se da una parte Anita si rifiuta di lasciare l’America, in quanto unico luogo dove può effettivamente determinarsi come figura indipendente e lavoratrice, e non invece limitata al ruolo di madre con una prole ingestibile…
…dall’altra Bernardo, fra l’ammonimento e la provocazione, le ricorda che il sogno americano è tanto bello quanto esclusivo dei bianchi – o, in alternativa, delle persone capaci effettivamente di combattere come lui.
Intermezzo
Avrei preferito che la parte centrale fosse più audace nella riscrittura…
…o, ancora meglio, nella selezione.
La sequenza dell’appuntamento fra Tony e Maria, soprattutto nella scena del matrimonio, si sposa in maniera poco convincente con quello raccontato finora dei loro personaggi, e mostra la già citata poca audacia nell’operare fino in fondo una riscrittura più credibile dell’opera.
Altrettanto fine a sé stessa è la scena della stazione di polizia, per quanto ottimamente portata in scena ed interpretata, non aggiungendo di per sé molto al racconto dei Jets e alla loro personalità.
Tuttavia, un elemento è davvero vincente.
Fra i personaggi meglio riscritti del film c’è sicuramente il personaggio senza nome (anybodys) interpretato dall’attore non binario iris menas, che vuole disperatamente far parte di Jets, nonostante sia costantemente bollato come una femmina, e pure piuttosto brutta.
Significativo riscriverlo in questa veste più moderna, sorpassando la banalizzazione dello stesso nel West Side Story del ’61, quando veniva raccontato come semplicemente come un tomboy – un maschiaccio.
Contrasto
Con l’approcciarsi dello scontro, si definisce ancora più il contrasto interno alla pellicola.
In questo senso è stato particolarmente indovinato rimischiare le scene, usando la canzone Cool per raccontare il tentativo di Tony di far ragionare quel ragazzino di Riff, pronto alla lotta senza quartiere con una pistola che non è capace di utilizzare.
Allo stesso modo, vincente la scelta di porre la sequenza I Feel Pretty immediatamente dopo lo scontro fra i Jets e gli Sharks, proprio per raccontare un sogno d’amore ancora intatto e che, almeno sulla carta, dovrebbe superare ogni tipo di conflitto.
All’interno di una regia decisamente più ispirata, lo scontro è tanto più drammatico quanto preceduto dai tentativi disperati di Tony di far ragionare Bernardo e di farsi per questo accettare da lui come compagno della sorella…
…ma arrivando inevitabilmente alla tragedia, all’autodistruzione fra i due maggiori mandanti della stessa, Riff e Bernardo, che si lasciano alle spalle vedove e amici dal cuore spezzato, oltre ad una lotta ancora più feroce e disperata.
Ripensamento
Se nel film del ’61 l‘angoscia dell’ultimo atto veniva in parte spezzata dalla canzone Cool, nella nuova versione la tragica dinamica è incorniciata dalla canzone Somewhere, cantata da Valentina, interpretata dalla vera star della prima versione del musical: Rita Moreno.
La scena più significativa di questo frangente è lo scontro fra Anita e Maria in A Boy like That, brano dai toni molto più malinconici nel ’61, in questo caso invece caricato di un inedito senso di conflitto, con cui la protagonista riesce a raccontare effettivamente l’importanza del suo amore per Tony.
In particolare, decisamente indovinato il momento in cui Maria rinfaccia ad Anita la sua ipocrisia: anche se Tony ha ucciso Bernardo, la donna dovrebbe essere ben consapevole di come il suo amato sia stato il principale artefice della sua distruzione…
…ma nonostante questo, di averlo comunque amato.
Inevitabile
La tragedia sembra inevitabile.
Nonostante Anita si convinca ad aiutare Maria a scappare, si ricrede quando viene salvata all’ultimo da Valentina dal tentato stupro – con un dialogo aperto fra presente e passato, come se Anita salvasse sé stessa…
Conseguentemente, Tony si rende il bersaglio perfetto per la vendetta di Chino, che sceglie infine di sfogare la sua frustrazione per aver sia perso l’amore di Maria, sia per essere stato incapace di difendere Bernardo.
Il finale riprende sostanzialmente le stesse dinamiche del film del ’61, con anche l’ultimo colpo di coda di Maria, che mette le gang davanti alle colpe della loro stupida guerra, ma che infine si arrende, e si unisce silenziosa alla processione funebre che chiude la pellicola.
See how they run (2022) di Tom George, in Italia noto col titolo molto più blando di Omicidio nel West End, è una pellicola di genere giallo whodunit, con una spruzzata di metanarrativa che irride il genere di riferimento.
Una pellicola che purtroppo, come tanti altri film di piccola produzione in questo periodo, è stato un sonoro flop: a fronte di un budget di 40 milioni di dollari, ne ha incassati appena 22 in tutto il mondo.
Di cosa parla See how they run?
Londra, 1953. Durante i festeggiamenti per la centesima rappresentazione teatrale di Trappola per topi, uno dei titoli minori di Agatha Christie, il regista viene assassinato nel backstage. E l’indagine sarà nelle mani di una coppia di poliziotti piuttosto improbabile…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere See how they run?
In generale, sì.
La pellicola è molto forte su alcuni punti, più debole su altri. I punti di forza sono sicuramente l’ambientazione e i personaggi: atmosfere molto curate, dal sapore vintage, che ricordano tanto un film di Wes Anderson e del giallo classico degli Anni Cinquanta.
Al contempo, personaggi piacevoli sul filo del macchiettistico, con due ottimi attori protagonisti: Saoirse Ronan e Sam Rockwell.
Tuttavia, See how they run non vuole essere solamente un giallo, ma in qualche modo giocare con il genere, inserendo elementi metanarrativi anche interessanti, ma che nel complesso risultano abbastanza deboli e non perfettamente congegnati.
Ma nulla che guasti veramente la piacevolezza della pellicola.
Cosa significa il titolo See how they run
Il titolo originale, See how they run, è fondamentalmente incomprensibile se non si è inglesi.
Si riferisce infatti ad un verso di una nursery rhyme, una canzoncina per bambini, Three Blind Mice:
Three blind mice. Three blind mice. See how they run. See how they run. They all ran after the farmer's wife, Who cut off their tails with a carving knife. Did you ever see such a sight in your life As three blind mice?
Tre topolini ciechi, tre topolini ciechi Guarda come corrono, guarda come corrono Corrono tutti dietro alla moglie del fattore, che gli ha tagliato la coda con un coltello Hai mai visto niente di simile nella tua vita Come tre topolini ciechi?
E probabilmente allude anche all’omonima pièce teatrale del 1944, una farsa dal sapore comico basata su scambi di identità ed incomprensioni.
Quindi il titolo in entrambi descrive la natura stessa della storia: un insieme di situazioni comiche e paradossali, proprio come quella di tre topolini ciechi che inseguono la donna che gli ha appena tagliato la coda.
E questo riferimento nella pellicola si intreccia perfettamente con lo spettacolo teatrale che è al centro della storia: Trappola per topi, appunto.
Atmosfere travolgenti
Le atmosfere e l’estetica della pellicola sono ottimamente congegnate
Soprattutto per le prime scene, mi hanno ricordato Grand Budapest Hotel(2014) – e sicuramente Wes Anderson è stato d’ispirazione per il film. Un’estetica davvero curata sia negli ambienti – che sembrano quasi teatrali – sia nei personaggi e nei costumi, perfettamente in linea con le atmosfere e il tono della pellicola.
Anche gli esterni sono piuttosto suggestivi: vicoli fumosi e strade nella penombra, in cui la brillantezza dei colori si scontra con le lunghe ombre che si allungano sulla scena, minacciando i personaggi e al contempo apparendo come irraggiungibili…
Un semplice buddy movie
Nelle dinamiche, See how they run riprende il taglio del buddy movie.
Una scelta che ha favorito anche l’ovvio inserimento di un personaggio femminile come protagonista, che risulta così ben contestualizzato nel contesto temporale: l’unica donna del corpo di polizia che deve farsi largo in un mondo di uomini che la sottovalutano.
In particolare, Stoppard la sottovaluta moltissimo, cerca costantemente di metterla al suo posto ed è quasi infastidito dalla sua eccessiva emozione nel condurre un caso, da cui cerca sistematicamente di escluderla.
Ma entrambi i personaggi hanno due picchi drammatici che raccontano l’evoluzione del loro rapporto: quando il detective mente alla ragazza dicendo di dover andare dal dentista – e viene scoperto – e quando Stalker lo accusa ingiustamente dell’omicidio.
Ma alla fine è la stessa ragazza a salvare il burbero detective.
Don’t jump to conclusions!
L’elemento metanarrativo che meglio funziona è quello del don’t jump to conclusions!
Questo è infatti l’ammonimento che Stoppard fa alla giovane poliziotta, ma in realtà anche allo spettatore: non saltiamo subito alle conclusioni! Infatti è molto tipico di questo tipo di gialli whodunit essere articolati in un susseguirsi di interviste dei sospettati.
E, per ognuno di loro, il flashback mostrato racconta la loro totale colpevolezza, ricalcata in questo caso proprio dall’irruenza di Stalker. Ma siamo appunto anche noi spettatori a saltare subito a queste conclusioni.
E infatti il film riesce comunque a prenderci bonariamente in giro: l’accusa a Stoppard è davvero credibile!
Una metanarrativa debole
Purtroppo la pellicola, volendo così entusiasticamente giocare con il genere, finisce a perdersi in se stessa.
Funziona molto meglio quando questo elemento è sottile – come abbiamo appena visto – molto meno quando la conclusione del film è stata già praticamente raccontata nella prima parte della pellicola, ovvero tramite la sceneggiatura che Leo Köpernick voleva mettere in scena.
E vederla avvenire esattamente come era stata descritta, poteva apparire sulla carta come un’idea brillante e la conclusione più metanarrativamente interessante per la pellicola stessa, ma in realtà mi è parsa solo piuttosto goffa e semplicistica.
Tuttavia, è l’unico vero difetto che mi sento di segnalare.
Il gatto con gli stivali 2 – L’ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford è stata una grande sorpresa fra la fine del 2022 e l’inizio del 2023: un sequel arrivato a più di dieci anni di distanza dal primo – mediocre e dimenticabile – capitolo.
Infatti, aprendo con un incasso non molto promettente – appena 20 milioni negli Stati Uniti – il film ha cominciato la sua scalata verso il successo proprio grazie all’ottimo passaparola, che l’ha fatto arrivare ad incassare 470 milioni di dollari in tutto il mondo, a fronte di un budget di 90.
Ed è un caso più interessante di quanto si potrebbe pensare…
Di cosa parla Il gatto con gli stivali 2?
Il gatto con gli stivali è un eroe amato da tutti, con una vita spericolata e senza freni. Ma un incontro inaspettato gli farà cambiare drasticamente idea…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena vi vedere Il gatto con gli stivali 2?
Assolutamente sì.
Non avevo inizialmente alcun interesse per questa pellicola – né d’altronde per il primo capitolo, che non avevo mai visto. Mi sembrava il solito strascico senza senso di una saga – quella di Shrek– che boccheggiava già con il terzo film della storyline principale.
E per fortuna il passaparola mi ha salvato.
Il passaparola positivo è stato infatti la salvezza di questo prodotto, che inizialmente sembrava destinato al collasso economico – come la maggior parte dei film d’animazione di questo periodo. E ha portato anche me alla visione.
Il gatto con gli stivali 2 è un’ottima pellicola d’animazione, che dopo tanti anni riporta la Dreamworks verso quel taglio narrativo che l’aveva resa così diversa dai prodotti della concorrenza.
A questo si aggiunge una tecnica d’animazione che mischia la grafica 3D con quella 2D, ottimamente realizzata, che ricorda molto la bellezza di altri ottimi prodotti come la serie Arcane (2021 – …) e Spiderman intothe spiderverse (2018).
Insomma, se non l’avete ancora fatto, recuperatelo assolutamente.
Ma passiamo alla domanda fondamentale…
Per vedere Il gatto con gli stivali 2 devo vedere Il gatto con gli stivali del 2011?
Questa sezione è dovuta perché non voglio che voi facciate il mio stesso errore.
Visto il mio totale disinteresse per il primo capitolo – e il mio totale disprezzo per le ultime morenti fasi della saga di Shrek – sono passata direttamente al sequel. Poi, per completezza, ho deciso di vedere anche il primo capitolo.
E ho sbagliato.
Non solo il dislivello fra i due film è immenso, ma la visione del primo capitolo è fondamentalmente inutile per fruire del seguito. E potrebbe anzi avere l’effetto contrario: allontanarvi dalla visione de Il gatto con gli stivali 2.
Purtroppo,Il gatto con gli stivali (2011) è veramente mediocre: una trama banalissima e di nessun interesse, personaggi quasi grotteschi e villain assai deboli e mal costruiti. Per questo, nelle prossime righe vi dirò le poche cose che vi servono per godervi appieno Il gatto con gli stivali 2.
Non proseguire se non vuoi spoiler su Il gatto con gli stivali (2011)!
Quando era solo un cucciolo, il gatto con gli stivali fu adottato da una donna che curava un orfanotrofio, e la stessa gli regalò il suo iconico paio di stivali, simbolo della sua futura vita da eroe.
Nel primo film il gatto conosce anche Kitty Softpaws, che ritorna nel seguito, con cui intraprende una relazione romantica, nonostante la gatta sia una doppiogiochista e nel film si scopre essere parte dell’inganno del villain.
Ora potete vedere Il gatto con gli stivali 2!
La caduta dell’eroe
L’incipit è davvero ottimo.
La pellicola si apre con un rocambolesco numero musicale con protagonista il gatto, a cui segue un combattimento incredibilmente ben realizzato contro il gigante che ha involontariamente risvegliato e che attacca la città.
Questa sequenza ci racconta tutto quello che dobbiamo sapere sul nostro protagonista.
Il gatto con gli stivali vive una vita a metà fra l’eroismo e la criminalità: salva la città ed è ammirato dal popolo, ma in parte osteggiato dai personaggi più in vista, di cui si approfitta, conducendo una vita piuttosto spericolata e dissoluta.
Ma non è una scelta sostenibile nel tempo.
Il viaggio della maturità
Il film racconta la maturazione del protagonista, una sorta di passaggio da un’esistenza più giovane e, volendo, adolescenziale, verso una vita più adulta e consapevole.
Infatti, all’inizio della pellicola il gatto viene messo davanti alle sue responsabilità: ha sparato tutte le cartucce che gli hanno permesso di ridere in faccia alla morte, vivere senza pensare alle conseguenze…
…e gli è rimasta una sola vita.
Inizialmente il protagonista si rifiuta di accettare questa possibilità, e sceglie di continuare a vivere come ha sempre fatto. Il momento del drastico cambio di idea, e della decisione di spogliarsi della sua identità, è l’incontro con la Morte.
La Morte è infatti l’unica cosa che fa davvero pauraal protagonista.
Un’inquietante ombra che lo insegue per tutta la sua avventura, senza che il gatto sia – per la maggior parte del tempo – capace neanche di raccontarlo ai suoi compagni. E la sua maturazione sta proprio nel come affrontare la Morte o, meglio, la responsabilità di avere una sola vita da vivere, e per questo di trattarla con cura.
E infatti il primo istinto del protagonista è di aggirare il problema, concedendosi ancora molte vite e molte occasioni da utilizzare, ma, soprattutto, da sprecare.
Ma nel finale la sua scelta di non sfuggire dalla morte, ma di guardarla in faccia e sfidarla, è quello che fa capire alla stessa che il gatto non è più quello di una volta, non è più l’eroe sfacciato che non aveva alcun interesse o cura della sua esistenza. E per questo lo lascia andare.
Le favole adulte
Con Il gatto con gli stivali 2 finalmente la Dreamworks torna a delle scelte narrative più interessanti e mature, in questo caso portando in scena le versioni adulte delle favole stesse, che in certo senso rispecchiano anche il pubblico di riferimento.
La favola di più immediata comprensione per il pubblico europeo è quella di Riccioli d’oro, che ormai è una giovane adulta che vive insieme a tre orsi: un simpatico quanto temibile quartetto di criminali.
Anche più interessante è la riscrittura della storia di Little Jack Horner– nel film Big Jack Horner, per ovvi motivi. La sua favola proviene da una canzoncina del folklore inglese, che recita quanto segue (la traduzione è mia):
Little Jack Horner Sat in the corner, Eating his Christmas pie; He put in his thumb, And pulled out a plum, And said, “What a good boy am I!”
Little Jack Horner Stava seduto in un angolo Mangiando la sua mince pie Vi mise dentro il pollice E tirò fuori una prugna E disse: “Che bravo bambino che sono!”
Quindi la storia di un bambino incredibilmente viziato e dispettoso, per cui i genitori stravedevano e a cui permettevano di fare tutto quello che voleva, fra cui mettere il pollice dentro le torte, appunto.
E, da bambino capriccioso è diventato un adulto capriccioso, che vuole tutto per sé: colleziona ogni oggetto magico esistente, ma ancora non gli basta.
E per questo è un villain perfetto.
Un terzetto di villain
Mentre in un altro contesto la presenza di così tanti villain poteva impattare negativamente sul risultato finale, nel caso de Il gatto con gli stivali 2 questa scelta favorisce invece una narrazione articolata e senza tempi morti.
Il primo gruppo di villain – o quasi – è quello di Riccioli D’oro e i Tre Orsi.
Alle spalle dei Tre Orsi, la ragazza vuole portare indietro i suoi genitori perduti, in un atto di totale egoismo e di mancanza anche di rispetto nei confronti di personaggi che si dimostrano veramente accoglienti e amorevoli nei suoi confronti.
Un bellissimo racconto di come una famiglia si possa formare anche al di fuori dei perimetri più tradizionali, portando Riccioli D’oro ad una consapevolezza non tanto dissimile da quella del protagonista: essere felici della propria vita, che può essere già piena e soddisfacente senza dover inseguire sogni di felicità solo apparentemente risolutivi.
Due sono gli elementi di forza di Big Jack Horner: il suo ruolo nella trama e il non abbandonare mai la sua natura malvagia.
Per fortuna per il sequel si è scelto di non perpetuare il tremendo e ridondante errore del primo film: far diventare buono il villain. Una scelta solo apparentemente diversa, in realtà diventata col tempo piuttosto prevedibile, con risultati veramente mediocri se gestita così male come in Il gatto con gli stivali (2011).
Invece Jack dice esplicitamente di essere morto dentro, e, nonostante i tentativi del Grillo Parlante di farlo rinsavire, rimane cattivo fino alla fine. E la sua disfatta determina anche la definitiva maturazione dei personaggi positivi, che si alleano ai suoi danni e rinunciano al desiderio tanto ambito.
La sua gestione è altrettanto ottima nel finale: Jack viene messo temporaneamente da parte – apparentemente sconfitto – per far spazio alla Morte.
Morte Il gatto con gli stivali 2
La Morte è uno dei migliori villain mai creati dalla Dreamworks.
Finalmente si ritorna a nemici nello stile di Kung Fu Panda, profondamente malvagi e temibili. In questo caso la Morte è veramente un avversario spaventoso, nell’aspetto e nei comportamenti, e che, soprattutto, viene sconfitto dalla maturità del protagonista.
E fa tanto più paura in quanto si contrappone un animale così possente e pauroso – almeno nel folklore – del lupo, armato di due mannaie, con quello che in fin dei conti è un piccolo gattino, che quasi scompare davanti alla possanza del suo nemico…
Un film per tutte le età
Il grande pregio de Il gatto con gli stivali 2 è stata la scelta di tornare ad un target variegato come era stato per i suoi brand di successo, soprattutto quello da cui deriva: Shrek. Ed è possibile grazie alla scelta di un gruppo di personaggi piuttosto variegato che riesce ad agganciare diversi tipi di pubblico.
Il protagonista racconta una fascia di pubblico intermedia, di giovani adulti che si trovano ad abbandonare l’adolescenza per abbracciare la complessità della vita adulta, con grandi dubbi e paure, ma anche importanti soddisfazioni.
Per un pubblico più giovane e adolescenziale, il punto di riferimento è Riccioli D’oro, che rappresenta proprio la classica adolescente insicura e dal brutto carattere, che però riesce a rendersi conto del valore della famiglia e, in generale, degli affetti che la circondano.
Ma anche il pubblico infantile rimane soddisfatto grazie a Perrito, l’adorabile cagnolino che diventa l’improbabile compagno di avventure del gatto e di Kitty. Il cucciolo – da cui il nome, perrito – racconta proprio lo sguardo infantile e sognante, offrendo quel tocco di dolcezza e tenerezza che non poteva mancare.
Un cambio di passo?
Proprio in questa scelta di un pubblico così variegato come ai vecchi bei tempi io spero di vedere l’inizio di un ripensamento di questa casa di produzione: dopo il cambio di direzione del 2016 – ma per certi versi anche da prima – la Dreamworks ha perso del tutto la sua identità.
Infatti ha cercato di mimare i successi della Illumination Entertainment – madre dei grandi successi della saga di Cattivissimo me e Sing – ma finendo solo per snaturarsi: a differenza dei grandi incassi dei concorrenti – quasi un miliardo solo per il recente Minions 2(2022) – alla Dreamworks sono rimaste solo le briciole.
Infatti, quando ormai i grandi successi della saga di Shrek erano lontani, dal 2016 i tentativi di rilanciarsi con prodotti solo destinati al pubblico infantile come Trolls o Baby Boss, ma solo il secondo è riuscito a fare un incasso dignitoso.
Per il resto, solo poche centinaia di milioni di incasso per ogni film, se non veri e propri flop.
Tàr (2022) di Todd Field è un film thriller che ha acquisito un’inaspettata popolarità nella stagione dei premi 2023. E questo anche per merito di un’attrice protagonista d’eccezione: Cate Blanchett.
A fronte di un budget (stimato) di 35 milioni di dollari, ne ha incassati finora appena 19 in tutto il mondo – ma c’era da aspettarselo per una pellicola di questo genere, quasi introvabile nei cinema italiani a due settimane dall’uscita.
Lydia Tàr è una famosa e incredibile direttrice d’orchestra, che non si è mai fatto scrupoli nell’utilizzare la sua posizione a suo vantaggio…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Tàr?
Assolutamente sì.
Per quanto – per vari motivi – Tàr non sia esattamente un film per tutti i palati, per me è stata un’esperienza incredibile.
E lo è stata nonostante la durata piuttosto robusta (due ore e quaranta), che però non mi è pesata per nulla. Ed è stato possibile grazie al profondo coinvolgimento che mi ha regalato la pellicola, merito anche del montaggio frenetico e dell’incredibile interpretazione di Cate Blanchett.
Se vi appassionano i prodotti enigmatici e complessi, che lasciano spazio allo spettatore per portare le proprie conclusioni e giudizi, non ve lo dovete davvero perdere.
Una stronza?
La protagonista è una stronza.
Ce lo racconta lo stesso film, mettendo in bocca questo giudizio ad un personaggio apparentemente positivo, ma che Lydia scredita totalmente, etichettandolo come il classico millennial che si nutre e si conforma alla narrazione dei social media.
Nonostante sia evidente – e lo diventa sempre di più nel corso della pellicola – che Tàr non sia una persona di specchiata moralità, non ho potuto che sentirmi vicina alla sua visione del mondo.
Infatti Tàr respinge totalmente un pensiero che cerchi di etichettare ed escludere determinati artisti per via delle loro posizioni politiche – senza considerare, fra l’altro, il contesto storico di riferimento. E lo fa indubbiamente in maniera assai tagliente ed aggressiva, ma esprimendo concetti che in gran parte mi sento di condividere.
Nonostante la stessa sia del tutto condannabile per le sue azioni.
Presagi oscuri
In qualche misura, la protagonista è consapevole di essere colpevole.
Lo si vede bene dal profondo contrasto fra gli ambienti puliti e meticolosi, che si scontrano con realtà invece disordinate, selvagge, pericolose. Un mondo di suoni e pericoli: le urla lontane di una donna al parco, il suono ritmico della macchina che tiene in vita una vecchia morente, oggetti che si spostano…
…e una costante sensazione di essere osservata.
Un sottosuolo di immagini – che spesso è davvero sottoterra – che rivela una realtà ben più marcia, che racconta la verità sulla protagonista. Una donna geniale e talentuosa, che però utilizzava – e utilizza – la sua posizione per ottenere dei favori sessuali, come un Harvey Weinstein qualunque.
E allora la pellicola ci mette davanti a due domande fondamentali
È giusto che Tàr non possa più dirigere un’orchestra?
È il solito discorso di distinguere l’artista dalla sua vita personale: un discorso per cui non esiste una risposta giusta. Con l’esclusione di Lydia, il mondo della musica ha perso una direttrice d’orchestra con un’abilità difficilmente ritrovabile altrove.
Ma d’altronde la colpa non è del colpevole?
Oltre a questo, possiamo ancora essere vicini alle sue idee, nonostante lei stessa sia parte del problema? Tàr può facilmente essere tacciata di ipocrisia e le sue opinioni potrebbero essere cancellate, svalutate. Ma in questo caso non sarebbe più giusto considerare le idee solamente come idee, non dando peso a chi le abbia formulate?
Un intreccio verboso
A latere, vale la pena di analizzare la messinscena.
Il film di Todd Field è scandito soprattutto da dialoghi frequenti e complessi: discorsi che confondono facilmente lo spettatore, ma che al contempo danno valore alla pellicola. Infatti quest’opera non vuole piegarsi ad una semplificazione a favore del pubblico, ma vuole anzi mettere in scena un mondo con le sue regole e i suoi discorsi, pure se complessi da seguire.
E il risultato è una rappresentazione realistica e credibile di una realtà lontana dalla maggior parte di chi guarda, con una rete di relazioni complesse, discorsi pieni di tecnicismi e riferimenti a prima vista incomprensibili.
E sta allo spettatore mettere insieme i pezzi.
Tàr spiegazione
In chiusura, un tentativo di spiegare per filo e per segno la storia di Tàr.
Lydia ha la brutta abitudine di cercare favori sessuali nelle persone a lei sottomesse, in cambio di supporto di altro tipo. Un comportamento ben noto nell’ambiente e ben chiaro nell’assegnazione delle borse di studio create da Tàr stessa per favorire le donne nel settore.
Krista era l’eccezione.
Con ogni probabilità la ragazza si era rifiutata di sottostare alle richieste di Lydia, e per questo aveva perso ogni possibilità di far carriera e di inserirsi in questo mondo – come le email ben testimoniano. Le stesse email sono la prova fondamentale per incastrare Tàr, motivo per cui la donna controlla il PC di Francesca per essere sicura che le abbia cancellate.
Cosa succede nel finale di Tàr
E la cosa le si rivolta contro.
Anche se non è del tutto esplicito, evidentemente Lydia aveva sedotto Francesca, arrivando infine – per motivi non chiari – a non darle il ruolo da lei tanto sperato. Così la stessa si è licenziata e ha consegnato alla polizia la corrispondenza fra Tàr e Krista.
Contemporaneamente, Tàr cerca di far entrare nelle sue grazie Olga, la talentuosa violoncellista cui assicura l’assolo. Anche con lei prova ad avere favori sessuali, ma la ragazza si sottrae esplicitamente, in particolare quando rifiuta l’invito a cena, ma poi comunque esce la stessa sera senza dirle nulla.
Le motivazioni potrebbero essere duplici: Olga potrebbe aver scoperto, tramite il video incriminante sui social, le accuse nei confronti della donna e per questo l’avrebbe evitata.
Al contempo, data la sua posizione già di per sé privilegiata, potrebbe non aver considerato conveniente sottomettersi alle sue richieste.
Infine Lydia viene condannata, viene esclusa dalla Filarmonica di Berlino – nonostante cerchi di riprendersi violentemente il posto – e la moglie le toglie la possibilità di vedere la figlia. Infine è costretta a ricostruire la sua immagine, cominciando dalla direzione di un’orchestra in evento di fan di Monster Hunter.
Top Gun Maverick (2022) di Joseph Kosinski è il sequel del (quasi) omonimo cult del 1986, uno fra i prodotti che lanciarono la carriera di Tom Cruise, insieme alla saga di Mission impossible.
Un prodotto che è più che altro un miracolo: programmato inizialmente per il 2020, è stato rimandato più e più volte, anche su insistenza dello stesso attore protagonista, che voleva assolutamente farlo uscire al cinema. Infine è giunto nelle sale a Maggio 2022, tenendo banco al box office internazionale per tutta l’estate seguente.
Miglior film Miglior sceneggiatura non originale Migliore canzone Miglior sonoro Miglior montaggio Migliori effetti speciali
Di cosa parla Top Gun Maverick?
A più di trent’anni di distanza, il Capitano Mitchell, aka Maverick, non è riuscito a fare carriera nella Marina, a causa della sua insubordinazione e la sua nota testa calda. Gli viene data un’ultima occasione per guidare una missione molto importante…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Top Gun Maverick?
In generale, sì.
Top Gun Maverick è complessivamente un buon film di intrattenimento e sopratutto un ottimo film action, che segna degli importanti passi avanti rispetto al primo capitolo, di cui comunque è una buona continuazione.
La trama è ben costruita e tiene facilmente sulle spine per tutto il tempo, mettendo diversi ostacoli davanti ai protagonisti, ma permettendo loro di avere anche tutto lo spazio di cui hanno bisogno per migliorarsi ed evolversi.
E lo dice una spettatrice poco appassionata al genere, che aveva paura di annoiarsi.
Ma passiamo alla domanda fondamentale.
Sì e no.
Sopratutto per un particolare elemento, secondo me Top Gun Maverick è più godibile avendo fruito anche della prima pellicola.
Tuttavia, se lo guarderete senza avere idea di cosa sia successo prima, diciamo che non vi troverete troppo spaesati: il film si impegna molto a recuperare tutti i fili narrativi del primo film, anche con effettivi inserimenti di scene in forma di flashback.
Inoltre, la maggior parte dei personaggi in scena sono del tutto nuovi, e il film cerca continuamente di convincerti che il protagonista li conosceva già da molto tempo (anche se magari erano solo citati nella prima pellicola).Quindi, almeno per questo aspetto, si parte tutti quasi dallo stesso punto.
Lo stesso protagonista
La prima scelta veramente azzeccata è stata di mantenere il protagonista quasi nella stessa situazione in cui si trovava nella prima pellicola.
Sì, è un capitano pluridecorato, ma è sempre alla base della gerarchia sociale della Marina, tanto da essere comandato da persone ben più giovani di lui. E questo per motivi che, ancora una volta, lo rendono vicino allo spettatore: il protagonista è emarginato perché, nonostante sia il migliore di tutti, ha una condotta fin troppo irruenta e fuori dagli schemi.
Ma per questo è anche una figura eroica, da ammirare, in primo luogo dallo spettatore stesso: un uomo capace di andare contro tutti i limiti, e, proprio per questo, vincere dove altri falliscono.
Un obbiettivo chiaro…
Un altro elemento positivo, anzi migliorativo, della pellicola rispetto alla precedente, è la struttura della trama.
Ben definita nei suoi tre atti canonici, con un obbiettivo preciso e una tensione sempre presente, che serve ben ad accompagnare la crescita e l’evoluzione dei personaggi. Fra l’altro con un ritmo incalzante e con un montaggio semplice ma piuttosto indovinato, che coinvolgono fortemente lo spettatore in questo viaggio apparentemente impossibile.
Anche se in alcuni punti sembra che devi leggermente dal suo percorso e utilizzi davvero tanto tempo per raccontarti i personaggi principali, non è di fatto un elemento che va a rovinare complessivamente la godibilità della pellicola, anzi.
E per il finale…
…ma uno svolgimento strano
A fronte di una buona costruzione, mi ha abbastanza stranito la gestione del finale.
Mi aspettavo che il focus sarebbe stato sulla missione stessa, a fronte dei due minuti di durata – anche se la stessa poteva essere gestita diversamente per mantenere alta la tensione. Invece il punto di arrivo della trama passa in un attimo
Si sceglie piuttosto di lasciare il finale per la costruzione del rapporto fra Rooster e Maverick, anche con una costruzione intrigante e piena colpi di scena, dove si vede finalmente il protagonista affrontare quei tanto pericolosi nemici – continuamente citati, e mai mostrati.
Una scelta strana, ma non meno funzionante.
Giochiamo alla guerra?
Un aspetto che avevo previsto, ma che non di meno mi ha infastidito, è l’idealizzazione della guerra.
Un concetto presente, e che non vanifica comunque nulla di quanto detto finora.
Così, nella più classica ingenuità di un prodotto statunitense medio, i protagonisti sono i buoni della situazione, gli eroi da sostenere e che riescono a vincere la battaglia e così la guerra. E, proprio per questo, i pochi nemici che si vedono hanno il volto totalmente coperto, non parlano, in modo da renderli il più anonimi possibile e lontani dallo spettatore.
E così lo stesso spettatore applaude entusiasta quando questi vengono uccisi…
Come hanno fatto Top Gun Maverick?
La produzione di Top Gun Maverick è parte anche del suo fascino.
Il motivo per cui sembra davvero che gli attori stiano pilotando gli aerei è grazie al campo di pre-addestramento organizzato dallo stesso Tom Cruise per far davvero immergere gli attori nella parte.
Il resto del merito va alle telecamere IMAX installate dentro i veicoli, che fra l’altro gli attori dovevano gestire automaticamente quando erano a bordo, mentre erano pilotati da veri piloti professionisti, che conducevano tutte le acrobazie.
Perché Top Gun Maverick è un successo?
Top Gun Maverick è stato uno dei più grandi successi cinematografici del 2022, insieme a Avatar – La via dell’acqua.
E la motivazione è abbastanza evidente: la pellicola è riuscita ad intercettare diverse fasce di età, sia i genitori cresciuti con il mito della pellicola del 1986, sia gli spettatori più giovani che potevano facilmente rivedersi nei nuovi protagonisti.
La qualità complessiva della scrittura e l’intrattenimento che riesce a colpire veramente chiunque – persino me – ha fatto il resto.
E, ancora una volta, Tom Cruise ha vinto la sua scommessa e ha salvato il cinema.
Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022) di Edward Berger è un film che racconta la fine della Prima Guerra Mondiale dal lato tedesco attraverso il punto di vista di uno dei soldati.
Il film è stato presentato al Toronto International Film Festival 2023 e distribuito in poche sale, per poi essere rilasciato a livello internazionale su Netflix. Fra l’altro un prodotto con un budget sorprendentemente contenuto: appena 20 milioni di dollari.
Candidature Oscar 2023 per Niente di nuovo sul fronte occidentale(2022)
(in nero i premi vinti)
Miglior film Miglior film internazionale (Germania) Miglior fotografia Miglior scenografia Miglior trucco e acconciatura Migliori effetti speciali Miglior sceneggiatura non originale Miglior sonoro Migliore colonna sonora
Di cosa parla Niente di nuovo sul fronte occidentale?
1917, Germania. L’appena diciottenne Paul Bäumer si arruola nell’esercito tedesco per combattere nella Prima Guerra Mondiale. Ma i suoi propositi di eroismo si dimostrano fin da subito un miraggio…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Niente di nuovo sul fronte occidentale?
Assolutamente sì.
Niente di nuovo sul fronte occidentale è un film che mi ha veramente sorpreso: non sono una grande amante dei film di guerra – soprattutto quando vi trovo un’eccessiva idealizzazione o un pietismo troppo spinto.
E forse proprio per questo mi è piaciuta questa pellicola.
Un’opera profondamente cruda e realistica, che riesce a raccontare un’esperienza traumatizzante e profondamente ingiusta come la Prima Guerra Mondiale. Il tutto con una regia piuttosto indovinata, interpretazioni più che ottime e una fotografia spettacolare.
Anche per questo, un trigger alert è dovuto: si tratta di un film davvero molto realistico, con scene e inquadrature estremamente esplicite e di grandissimo impatto. Alcune probabilmente non ve le toglierete mai più dalla testa…
Ho voluto inserire nella recensione alcuni versi della canzone “La guerra di Piero” di Fabrizio De Andrè, che si adatta perfettamente alla pellicola.
Nessun eroe
L’incipit racconta già tutto del film.
Siamo immediatamente portati al fronte, a seguire la storia di un giovanissimo soldato – Heinrich Gerber. A sorpresa, però, non è il protagonista del film: in appena cinque minuti vediamo come il ragazzo muore sul campo, viene spogliato dei suoi vestiti da soldato, che vengono raccolti e riciclati perle future reclute.
La pellicola ben racconta come i protagonisti della Prima Guerra Mondiale non erano uomini, ma pedine sul campo, soldatini usa-e-getta che potevano essere usati e buttati via, avendone sempre di nuovi per ogni occasione e necessità.
Un meccanismo terrificante, alimentato dalle false promesse di eroismo.
La guerra degli altri
A capo di questo meccanismo, gli uomini di potere alimentati da un arrogante desiderio di rivalsa, oltre ad una totale cecità sulla realtà del fronte.
Diverse inquadrature del film sono volte a sottolineare la vita agiata e priva di ogni preoccupazione che era condotta da chi decideva della vita e della morte di migliaia – se non milioni – di uomini. Fra l’altro un’esistenza immersa in ambienti silenziosi e quieti, con grande contrasto con il chiasso assordante del fronte.
Il personaggio più rappresentativo in questo senso è il Generale Friedrichs: per sua stessa ammissione non ha mai messo piede in un campo di guerra, ed insiste fino all’ultimo testardamente per portare a casa una vittoria che porti gloria al suo paese – e a sé stesso.
E ottiene solo un’altra carneficina senza significato.
L’alienazione
Questa guerra era senza significato tanto più che nessuno dei soldati ha volontà di essere un eroe o difendere la propria patria.
Infatti, si combatte per la sopravvivenza.
Uomini che nella loro vita non avrebbero alzato le mani contro nessuno, costretti a gettarsi in campo come automi senza volontà, uccidendo con disperazione, prima di tutto per salvare la propria vita. Del tutto alienati, in una realtà dove l’umanità non esiste, dove implorare pietà è inutile.
In più momenti il protagonista si trova faccia a faccia con il nemico, e basta un momento per guardare negli occhi un altro uomo, un ragazzo non tanto diverso da sé stesso. Inquadrature drammatiche e travolgenti, in cui per pochi momenti il protagonista sfugge a questa alienazione e si rende conto delle sue azioni.
Ed è devastante.
Da questo punto di vista emerge una possibile critica.
La scrittura dei personaggi non è particolarmente approfondita, ma definita da pochi tratti, e così la storia non è particolarmente originale, ma strettamente legata alla realtà storica. Insomma, al pari di Babylon (2022), è un film che vuole più raccontare delle situazioni e dei personaggi tipo piuttosto che una storia vera e propria.
E questo può piacere o non piacere.
Personalmente questo elemento – che comunque ho notato – non mi ha rovinato la piacevolezza complessiva del film, anzi per certi versi mi ha permesso di immergermi più profondamente nella vicenda raccontata: la poca caratterizzazione del protagonista lo rende un personaggio in cui chiunque può rivedersi.
La fortuna maligna
Proprio come non ci sono eroi, non serve alcuna abilità per sopravviverealla guerra.
Solo la fortuna.
La sopravvivenza è determinata dalla pura coincidenza, dal non mettere il piede nel punto sbagliato, dal non far scoppiare una mina, dal non beccarsi un colpo mortale, dal non avere esitazioni…
E, proprio come ogni morte del finale si sarebbe potuta evitare se Paul e Kat non avessero rubato le uova, se il protagonista non avesse dovuto tornare in campo, più in generale si sarebbero salvate 37 milioni di vite se l’arroganza di pochi non avesse determinato la sorte di molti.
Aftersun (2022) di Charlotte Wells è uno di quei piccoli film indipendenti che emergono a sorpresa nella stagione dei premi. In questo caso, con una distribuzione italiana unicamente sulla piattaforma streaming MUBI.
Il budget è ignoto, ma probabilmente è davvero risicato – sul milione di dollari, anche meno – con un incasso al contempo assai contenuto: 4,7 milioni di dollari in tutto il mondo.
Candidature Oscar 2023 per Aftersun (2022)
(in nero i premi vinti)
Miglior attore protagonista a Paul Mescas
Di cosa parla Aftersun?
Inizio Anni Duemila, Turchia. L’appena undicenne Sophie è in vacanza col padre, che sta per compiere trentuno anni. Un’estate come tante…?
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Aftersun?
Assolutamente sì.
Ma…
Aftersun è un film davvero piacevole e di grande profondità, ma non è per tutti i palati. Mi verrebbe da paragonarlo alla serie Afterlife (2019-22) e al film C’mon C’mon(2021): una pellicola che basa la sua forza nell’essere molto verosimile e realistica nella recitazione e nella storia raccontata.
Un prodotto per prendersi una pausa da un cinema contemporaneo che – anche comprensibilmente – cerca costantemente di colpirti e catturarti con effetti speciali e storie travolgenti.
Aftersun è invece un film che ti cresce dentro, minuto per minuto.
Non subito
Solitamente quando si guarda un film – sopratutto nel caso di prodotti molto commerciali – l’attenzione dello spettatore è destata fin da subito, in vari modi e sopratutto raccontando la maggior parte dell’antefatto e della caratterizzazione dei personaggi il prima possibile.
Non è il caso di Aftersun.
La pellicola procede indipendente dalle aspettative dello spettatore, volendo raccontare la vicenda nella maniera più realistica e credibile possibile, ovvero nel suo naturale svolgimento. L’antefatto e il rapporto fra i personaggi viene svelato poco a poco, tramite dialoghi casuali.
Mi ha particolarmente colpito uno scambio fra Calum e Sophie: mentre la bambina sta leggendo un libro che il padre le ha consigliato, gli dice che le sembra molto difficile. E l’uomo, dall’altro lato della stanza, le risponde:
Il mio rapporto con il film stesso in a nutshell, in sostanza.
Frammenti di felicità
L’elemento centrale della narrazione – e della sperimentazione registica – è la videocamera.
Attraverso di essa Sophie racconta la visione che aveva al tempo di quella vacanza, così felice e spensierata, in particolare attraverso il filtro della fotocamera, in cui ogni volta si racconta la realtà un po’ più piacevole e bella di quanto effettivamente fosse.
Al di fuori del mondo della telecamera, particolarmente quando Calum chiede a Sophie di spegnerla, si consuma l’angoscia del padre, della sua incapacità – o volontà – di tenere insieme la famiglia, nonostante l’affetto che ancora prova.
E la consapevolezza arriva solamente dopo.
La misteriosa cornice
Proprio nella filosofia di svelamento passo passo, la cornice narrativa è rivelata in pochi, fatidici momenti.
Il tutto si ricollega al filmato delle vacanze di quell’anno, che è rivisto dalla Sophie adulta, che troviamo convivere con la sua compagna e con un figlio. La donna sembra guardare indietro nel tempo, voler rivivere quel frammento di felicità che si era potuta godere un tempo, prima che – probabilmente – tutto finisse.
È infatti emblematico il gioco di montaggio sia all’inizio che alla fine, in cui le immagini di Sophie da bambina che balla col padre si alternano a questa scena a prima vista quasi incomprensibile, in cui la Sophie adulta cerca di chiamare disperatamente il padre, che però alla fine si sottrae.
E qui nasce la domanda fondamentale.
Cosa succede nel finale di Aftersun?
Il finale di Aftersun a primo impatto può apparire piuttosto oscuro.
Non nascondo che io ho dovuto informarmi per riuscire a fare luce su questa enigmatica conclusione. In poche parole, Sophie da adulta, nel riguardare il filmino della sua vacanza col padre, probabilmente sta ricordando l’ultimo momento in cui lo vide.
O, almeno, l’ultimo momento felice.
Vista anche la scena del ballo – che nel flashback è un momento felicissimo, nel presente è invece quasi orrorifico – la donna sta probabilmente inseguendo qualcosa che le è imprescindibilmente sfuggito di mano.
E infatti, ferma la registrazione su quell’ultimo frame in cui salutava il padre, che per tutta la pellicola – e la vacanza – ha cercato di essere felice per lei, ma che in realtà era evidentemente e profondamente angosciato.
E che, per questo, si è probabilmente tolto la vita.
Cosa significa il titolo di Aftersun?
Il titolo di Aftersun ha una doppia valenza.
A livello prettamente materiale, l’aftersun è il doposole che Calum mette ogni sera alla figlia, per evitare le scottature. A livello invece metaforico, l’aftersun può essere letto come una sorta di cura per il trauma subito dalla protagonista – ovvero la perdita del padre.
E la cura può essere proprio la visione del filmino delle vacanze…
Gli spiriti dell’isola (2022) di Martin McDonagh – traduzione piuttosto maldestra del titolo originale The Banshees of Inisherin – è uno dei più importanti film candidati agli Oscar 2023, oltre ad essere una delle maggiori sorprese di quest’anno.
Candidature Oscar 2023 per Gli spiriti dell’isola (2022)
(in nero i premi vinti)
Miglior film Miglior regista Miglior attore protagonista a Colin Farrell Miglior attore non protagonista a Brendan Gleeson Miglior attore non protagonista a Barry Keoghan Miglior attrice non protagonista a Kerry Condon Migliore colonna sonora Miglior sceneggiatura originale Miglior montaggio
Di cosa parla Gli spiriti dell’isola?
1923, Irlanda. L’amicizia fra Pádraic e Colm si interrompe improvvisamente, per volontà del secondo, che si rifiuta addirittura di parlargli. E la sua ottusità raggiunge livelli inaspettati…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Gli spiriti dell’isola?
Assolutamente sì.
Gli spiriti dell’isola è un film particolarissimo, e neanche facilmente digeribile – complice l’umorismo veramente nerissimo e la profonda angoscia che lascia a visione conclusa. Una di quelle pellicole incredibili in cui, da un momento all’altro, riesci a passare da una risata fragorosa ad un totale ammutolimento.
Ma, proprio per questo, un film assolutamente da recuperare.
Il titolo originale è The Banshees of Inisherin.
Inisherin è semplicemente il luogo dove è ambientata la vicenda, mentre per le banshee bisogna fare un discorso a parte.
Il film dà abbastanza per scontata la conoscenza di tale figura mitologica, ma in realtà è meno diffusa di quanto si potrebbe pensare. Per esempio, io non conoscevo la mitologia specifica, ma le reinterpretazioni della serie tv Teen wolf e del videogame The Witcher 3.
La banshee è una creatura leggendaria dei miti irlandesi e scozzesi, la quale, a seconda delle tradizioni, ha un’accezione positiva o negativa. In generale, si tratta di una figura mitologica legata alla morte.
È infatti invisibile agli occhi degli esseri umani, se non quando questi sono prossimi aldecesso, mostrandosi avvolta in un pesante velo, piangendo o addirittura gridando davanti all’inevitabile trapasso.
Sotto la superficie
Apparentemente Gli spiriti dell’isola racconta la storia di un’amicizia finita, che prende delle vie sempre più surreali e grottesche per via dell’ottusità di Colm.
In realtà, la pellicola racconta molto di più.
L’indizio visivo principale viene mostrato quando, all’inizio del film, Pádraic vede una colonna di fumo che rappresenta i lontani disordini della Guerra Civile. E la stessa colonna di fumo la vede quando dà fuoco alla casa del suo amico.
E proprio in questo parallelismo si racchiude il vero significato del film.
Proprio parallelamente alla storia principale della pellicola, si svolgono gli avvenimenti della Guerra Civile Irlandese. La stessa scoppiò a seguito della Guerra d’Indipendenza Irlandese, che portò ad un trattato di pace con l’Impero Britannico.
Un trattato che, però, non venne accettato da tutti.
E, nonostante diversi tentativi di rappacificamento delle parti, scoppiò una guerra drammaticamente sanguinosa, dove si trovano a combattere l’uno contro l’altro amici e persino fratelli, tutto per l’ottusità, da entrambe le parti, di non voler arrivare ad un compromesso.
Il picco avvenne negli ultimi momenti del conflitto, quando ci furono il maggior numero di vittime e diversi incendi alle case dei nemici.
Vi suona familiare?
Gli spiriti dell’isola è sostanzialmente una Guerra Civile Irlandese in piccolo.
L’ottusità e le cinque dita
Il perpetuarsi del conflitto è quasi del tutto dettato dall’ottusità di Colm, che si rifiuta insistentemente di riallacciare i rapporti con il suo amico.
E proprio la sua ottusità viene ben rappresentata dalla minaccia – e realizzazione – dell’amputazione delle dita, che si presta a diverse interpretazioni. Andando infatti ad indagare le intenzioni del regista, la stessa può essere ricollegata ad una paura atavica dell’artista: perdere lo strumento della sua arte.
Tuttavia Colm concretizza questa realtà volontariamente, quasi a volersi togliere ogni possibilità di diventare veramente l’artista che sogna di essere, ricordato nei secoli, in una sorta di perversa spirale autodistruttiva.
Ma, più semplicemente, può essere letta come rappresentazione di quanto Colm creda nella distruzione del rapporto con Pádraic.
Umani
La forza de Gli spiriti dell’isola è di riuscire a raccontare, pur nella sua follia, una vicenda profondamente umana.
Colm e Pádraic hanno due caratteri totalmente opposti, ed è anche in qualche misura comprensibile che il più vecchio dei due non abbia voglia di perdere altro tempo con il più giovane e la sua insopportabile stupidità. Andandosi, fra l’altro, del tutto ad isolare in un contesto già molto isolato.
E le dinamiche con cui i due personaggi si relazionano appaiono vere e profonde, anche quando virano sul lato più surreale e grottesco.
La scena che mi ha più colpito è quella in cui Pádraic viene colpito dal poliziotto, e Colm lo raccoglie da terra e conduce il suo carro fino a casa. In quel momento di apparente calma e riconciliazione, Pádraic scoppia in un pianto sommesso ma profondamente sofferto, un pianto nostalgico per qualcosa di apparentemente irrisolvibile.
La morte
Gli spiriti dell’isola parla non solo di amicizia e conflitto, ma anche e soprattutto di morte.
E il titolo ne è indizio fondamentale.
La banshee più facilmente identificabile è ovviamente Mrs. McCormick, che appare proprio come la vecchia megera, l’uccellaccio che prevede – e augura – la morte. In realtà, come abbiamo visto, queste figure mitologiche non sono altro che osservatrici e cassandre, quindi si limitano ad annunciare la morte imminente.
E il titolo non indica una sola banshee, ma diverse banshee.
In questo caso si aprono più interpretazioni: si potrebbe considerare come banshee tutti i membri della comunità dell’isola, che vedono chiaramente lo scoppio del conflitto con le sue nefaste conseguenze.
Oppure, più sottilmente, si potrebbero considerare banshee gli animali stessi, che sono parte dominante della scena in diverse occasioni, testimoni silenziosi del dramma in atto.
Da notare anche l’interessante foreshadowingsul destino nefasto di Dominic: fin dall’inizio il ragazzo tiene in mano uno strumento di morte, il bastone che serve per raccogliere i cadaveri caduti in acqua, dove infatti morirà.
E lo stesso bastone, dopo la sua morte, sarà in mano aMrs. McCormick…