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Triangle of sadness – Siamo tutti uguali

Triangle of sadness (2022) è l’ultima opera di Ruben Östlund, regista svedese che ha conquistato per la seconda volta la Palma d’Oro a Cannes, dopo averla già vinta col precedente The Square (2017).

Un film che è passato fondamentalmente sotto silenzio, e che in Italia si è cercato di vendere come un film molto divertente. In realtà è una pellicola devastante, e per diversi motivi. E non a caso, davanti ad un budget risicatissimo (13 milioni di euro), ha incassato comunque pochissimo: per ora, appena 7 milioni.

E non potrei essere meno sorpresa.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Triangle of sadness (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior regista
Migliore sceneggiatura originale

Di cosa parla Triangle of sadness?

Carl e Yaya sono due modelli, che si trovano a gestire la loro insidiosa relazione, sullo sfondo di una crociera di lusso che prende una piega inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Triangle of sadness?

Harris Dickinson in una scena di Triangle of Sadness (2022) di Ruben Östlund, palma d'ora al Festival di Cannes 2022

È complicato.

Io di mio l’ho trovato un film davvero incredibile, fra i migliori usciti quest’anno. Ma, al di là del mio apprezzamento personale e del grande valore artistico e politico della pellicola, è potenzialmente una pellicola che molti potrebbero profondamente odiare.

Diciamo che se non riuscite a ritrovarvi in una humor nerissimo, che gioca moltissimo sulle battute paradossali e al limite dell’angosciante, potrebbe darvi solo fastidio. È un film da cui bisogna lasciarsi davvero rapire, con tutto il suo devastante significato.

Se vi sentite pronti, guardatelo.

Prologo

Harris Dickinson in una scena di Triangle of Sadness (2022) di Ruben Östlund, palma d'ora al Festival di Cannes 2022

Una volta conclusa la pellicola, la prima parte dedicata ai due apparenti protagonisti potrebbe apparire fondamentalmente inutile alla storia.

In realtà, tutta la prima parte, se la si guarda con attenzione, è un gigantesco foreshadowing del terzo atto del film. Infatti all’inizio Yaya racconta come la relazione con Carl non sia frutto dell’amore, ma di un rapporto di mutuo vantaggio.

Anche se non viene spiegato esplicitamente, è probabile che si intenda che, come Yaya ottenga maggiore attenzione potendo pubblicizzare la sua relazione con un bel ragazzo come Carl, così Carl possa vivere della luce di lei.

E così la ragazza racconta come l’unico modo in cui può uscire dal lavoro sfiancante del mondo della moda è quello di diventare una moglie trofeo per qualcun altro, idealmente Carl.

Così nel terzo atto Carl stesso diventa il marito trofeo di Abigail, sempre in una relazione non amorosa, ma di vantaggio: la donna può intrattenersi con un ragazzo piacente, mentre quello stesso ragazzo può avere un vantaggio sociale nella loro piccola comunità.

Incomprensione

Sunnyi Melles in una scena di Triangle of Sadness (2022) di Ruben Östlund, palma d'ora al Festival di Cannes 2022

Uno degli elementi principali della pellicola è la totale incomprensione della classe sociale più agiata verso la realtà del mondo.

Il momento più agghiacciante in questo senso è quando Vera costringe tutto l’equipaggio della nave a scendere dallo scivolo della nave e a farsi un bagno.

Dal suo (apparente) punto di vista, in questo modo avviene una giocosa inversione dei ruoli. In realtà è solo una donna potente che ha fatto uso del suo potere per utilizzare i suoi sottoposti come preferisce.

Altrettanto graffiante la scena in cui la coppia anziana che vende bombe raccoglie candidamente la mina antiuomo, e la donna chiede

È una delle nostre?

A seguito di un dialogo anche più agghiacciante avvenuto prima fra la coppia e i due protagonisti, in cui i due raccontano candidamente e in maniera così paradossale da essere esilarante, di come i loro affari siano stati guastati dagli stupidi tentativi dell’ONU di evitare spargimenti di sangue.

Ma è un mondo fragile e illusorio.

Fragilità

Vicki Berlin Tarp, Dolly Earnshaw de Leon e Charlbi Dean Kriek in una scena di Triangle of Sadness (2022) di Ruben Östlund, palma d'ora al Festival di Cannes 2022

Una volta sbarcati sull’isola, i sistemi della società si azzerano, principalmente per mano di Abigail. Infatti la donna, una volta pescato il polpo, si rende subito conto del valore del suo operato, e ne sfrutta tutto il vantaggio.

E, anche se Paula cerca immediatamente di ridimensionarla, i bisogni primari sono così pressanti che il nuovo ordine viene subito stabilito.

Ed è tanto più evidente da dove nasceva la scintilla di questa nuova idea quando Abigail si trova improvvisamente seduta su un piccolo tesoro di acqua e cibo tanto desiderato, e a malincuore (e pure ingiustamente) deve cederlo a chi non ha nessun motivo di averlo.

E questo porta anche ad un’interessante riflessione sulla fragilità della società capitalista: basta davvero così poco per stravolgerla e mettere di nuovo al primo posto chi di fatto porta un vero valore alla società?

A quanto pare, sì.

Angoscia

Come detto, se si riesce ad essere coinvolti con l’umorismo del film, può risultare incredibilmente divertente.

Io personalmente raramente mi sono divertita così tanto.

Tuttavia, è una risata angosciante, che ti fa ridere solo superficialmente, ma che, se si ragiona veramente sul significato dei dialoghi e delle scene, è incredibilmente angosciante – fra l’altro, con molto spesso una regia che gioca molto sul contrasto fra l’incredibilmente divertente e il drammaticamente devastante.

Due fra tutte: i discorsi surreali di Dimitry e del capitano Thomas, assolutamente spassosi che fanno però da sottofondo ad inquadrature particolarmente tragiche degli ospiti della nave impauriti.

Anche di più quando Dimitry discute concitato con Paola e Nelson accusando quest’ultimo di essere un pirata, mentre vediamo Theresa, una donna disabile che non ha più nessuno ad aiutarla, impotente nella scialuppa.

E la regia stessa spesso sacrifica la più basilare grammatica della messa in scena per farci immergere nei personaggi e nelle loro espressioni.

A volte inserendo degli effettivamente elementi di disturbo nella scena, che servono a sottolineare la drammaticità di fondo, come l’insopportabile mosca quando Carla e Yaya discutono sulla nave.

Una società di simboli

Molto interessante è stato rappresenta la società della ricca borghesia come basata su un sistema di simboli in cui viene dato un valore più di rappresentanza che economico.

Così i due ricconi, Dimitry e Jarmo, cercano di pagare il loro ingresso nella scialuppa offrendo orologi di lusso. Così Carl è particolarmente contento quando trova un profumo fra i detriti. E tanto più grottesco quando Dimitry ritrova il corpo della moglie e la cosa più importante è recuperare i gioielli dal suo cadavere.

Cosa succede nel finale di Triangle of Sadness?

Il finale di Triangle of sadness è molto ambiguo, ma la dinamica è del tutto chiara: mentre Yaya offre ad Abigail di diventare la sua assistente, la donna si rende conto di come uscire dalla piccola società che si è creata la depotenzierà, ma, soprattutto, la riporterà in un mondo ingiusto e castrante.

Per me quindi quel colpo è stato calato.

E per lo stesso motivo Carl, il personaggio più vicino a comprendere il dramma di Abigail, alla fine sta forse cercando di correre in aiuto alla fidanzata. Oppure alla donna prima che abbia un risvolto violento.

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Scream 5 – Just another requel

Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett rappresenta il secondo e più recente rilancio della saga omonima, presa in mano da due giovani registi emergenti, dopo la triste dipartita di Wes Craven.

Una riproposizione del brand che, nonostante poche e contenute sbavature, riesce a riportare in scena un cult ormai nato quasi 30 anni fa e che è sempre riuscito a riproporsi e ad adattarsi ai nuovi tempi.

E con Scream 5 lo fa quasi con la stessa freschezza di Scream 4 (2011).

Tuttavia, in questo caso fu anche un successo commerciale: con un budget molto più contenuto del precedente (21 milioni contro 40 milioni di dollari) e con un incasso anch’esso contenuto, tuttavia portando complessivamente ad un film molto redditizio: 140 milioni dollari in tutto il mondo.

E infatti è già pronto il sequel, Scream 6 (2023).

Di cosa parla Scream 5?

Dopo 30 anni dall’inizio della scia di sangue di Woodsboro, la saga ricomincia nella stessa città, con questa volta due nuove protagoniste, Tara e Sam, perseguitate dal loro passato legato agli eventi del primo film…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scream 5?

Jenna Ortega in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Per quanto mi riguarda, assolutamente sì.

Scream 5 è un fresco e piacevole rilancio della saga, riuscendo ad adeguarsi ai nuovi gusti, ma mantenendo gli schemi classici dell’horror slasher e della saga in generale. La grande novità della pellicola è che, a differenza degli altri film, dove di solito si instaurava un dialogo metanarrativo con il film stesso, in questo caso il dialogo è con lo spettatore.

Una bella scelta che riesce a rinnovare la colonna portante della saga.

Inoltre gli elementi degli scorsi film sono utilizzati con maggiore consapevolezza e capacità, in maniera pure superiore a Scream 4, che comunque io avevo apprezzato, ma che forse come punto debole aveva proprio il rimettere troppo in scena i vecchi personaggi.

Qui è tutto perfettamente equilibrato.

Un nuovo horror

Jenna Ortega in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Ask me about Hereditary! Ask me about It follows!

Chiedimi di Hereditary! Chiedimi di It follows!

Il primo passo che il film doveva fare era riuscire a rimettersi in contatto con il nuovo pubblico e il nuovo gusto in fatto di horror. Non essendo fan dell’horror mainstream contemporaneo e quindi conoscendone poco, avevo paura di rimanere spaesata.

E invece il film ha voluto sorprendermi.

Quando a Tara nella prima scena viene chiesto quale sia il suo film horror preferito, lei risponde molto candidamente Babadook (2014), elogiando anche la profondità del racconto e della trama. E così dopo continua citando altro horror autoriale come The Witch (2015), Hereditary (2018) e It follows (2014).

Così si racconta un panorama del cinema horror davvero mutato, dove i film autoriali non sono più così tanto di nicchia, ma riescono anzi ad incontrare il gusto di un pubblico più ampio, e in generale ad essere elogiati, come viene fatto anche nel film.

Una scelta davvero azzeccata.

Dialogare col pubblico

Jack Quaid in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Real Stab movies are meta slasher whodunits, full stop

Un vero film di Stab è uno slasher metanarrativo di stampo giallo, fine.

Come anticipato, la grande novità del film è il dialogo fra il film e il pubblico.

Il punto centrale del film è come gli stessi registi fossero consapevoli che ci sarebbero state molte critiche nei confronti della loro pellicola da parte dei nostalgici, che avrebbero voluto rivedere una riproposizione della trilogia originale.

E infatti questa è la tendenza generale di molte riproposizioni di cult (horror e non), fra cui l’esempio più evidente è sicuramente Halloween, che utilizza ancora schemi narrativi dei primi slasher, gli stessi che Scream derideva negli Anni Novanta.

E gli stessi killer infatti sono dei fan incalliti di Stab, che vogliono creare una storia vera da utilizzare per un sequel degno di questo nome.

Anche se in certi momenti risulta eccessivo da questo punto di vista, è davvero interessante includere nel film un discorso così vero e attuale, anticipando appunto le stesse critiche del film, anche a fronte dell’insuccesso di Scream 4, che era molto innovativo rispetto all’originale.

La regola del prevedibile

Ghostface in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Uno dei punti forti del primo Scream era la sua prevedibilità.

Davanti ad un pubblico abituato all’idea che il killer non è mai la persona più prevedibile, Scream scelse come uno dei killer proprio la persona più prevedibile. In Scream 5 praticamente dall’inizio sentiamo la soluzione del mistero dalla bocca di Dwight:

Never trust love interest

Mai fidarsi del proprio fidanzato

e infatti uno dei killer è Richie, il ragazzo di Sam, come fra l’altro le sottolinea proprio nel momento della sua rivelazione. Fra l’altro scelta eccellente castare un attore come Jack Quaid, conosciuto in questo periodo soprattutto per il suo remissivo personaggio di Hughie in The Boys.

E sempre Dwight aggiunge:

The first victim always has a friend group that the killer is a part of

La prima vittima ha sempre un gruppo di amici di cui il killer fa parte

E infatti l’altro killer è Amber, che sembra anche il personaggio che, paradossalmente, più si preoccupa della salute di Tara.

Inserire l’originale con il nuovo

Melissa Barrera in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Come detto, Scream 5 riesce in maniera pure migliore di Scream 4 ad aggiornare effettivamente le protagoniste del film, che sono davvero al centro della scena e della storia.

Mi è piaciuta particolarmente Tara: Jenna Ortega, non comunque alla sua prima esperienza e pronta ad esplodere con la prossima serie tv Wednesday, è riuscita a portare in scena in maniera davvero convincente tutto il dolore fisico e reale del suo personaggio.

Mi ha leggermente meno convinto il personaggio di Sam, che viaggia pericolosamente sul filo del trash: il fatto che veda il padre Billy Loomis che la incita a fare quello che fa nel finale, dove sfoga la sua furia omicida, è un elemento che potrebbe facilmente sfuggire di mano, sopratutto in un sequel.

Ben organico invece l’inserimento di Sidney e Gale, che sono solo delle spalle dei protagonisti che riescono ad arricchire il racconto e ad aiutare i personaggi a risolvere il mistero con la loro esperienza passata, ma senza mai rubare la scena alle protagoniste.

Ed era ora di passare la fiaccola.

Una nuova regia

Marley Shelton in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

La regia di Scream 5 mi ha piacevolmente sorpreso.

Uno degli elementi più piacevoli della saga è sempre stata la regia molto ispirata e con non pochi guizzi, fin da Scream (1996). E uno degli elementi più importanti da gestire sono sempre state le morti e la violenza, riuscendo sempre a renderle spettacolari e quasi artistiche.

Altrettanto bene riesce questa coppia di autori a portare una regia interessante e con non pochi momenti di rara eleganza. Anzitutto, l’uso del sangue, che ho trovato veramente magistrale, andando non poche volte a creare quasi dei quadri grotteschi e drammaticamente splendidi da osservare.

Ma la sequenza che mi ha davvero colpito è stata quella riguardante la morte di Judy e del figlio Wes. La genialità nasce quando al telefono Ghostface dice alla donna

Ever seen the movie Psycho?

Hai mai visto Psycho?

e poi si stacca con un’inquadratura eloquente sulla doccia che si sta facendo Wes, che è una delle inquadrature iconiche della famosa scena della doccia di Psycho (1960), appunto. Fra l’altro, come viene anche raccontato in Scream 4, il capolavoro di Hitchcock è considerato fra i capostipiti del genere slasher.

E si prosegue con una lunghissima sequenza in cui la camera gioca continuamente con lo spettatore, con Wes che apre e chiude infiniti sportelli dietro ai quali ci aspetteremmo di vedere il killer che sappiamo essere in casa.

Puoi essere più metanarrativo di così?

Ghostface in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Stop fucking up my ending

Basta rovinare il mio finale

Nonostante non sia l’elemento principale, la metanarrativa e la consapevolezza dei protagonisti degli schemi del film stesso che stanno vivendo è presente, e pure fatta bene.

L’unica sbavatura che mi sento di segnalare è che tutto questo elemento avrebbe dovuto essere nelle mani di Mindy, la quale da un certo punto in poi prende le redini di questo discorso come erede spirituale di Randy.

E infatti è la stessa che diventa la protagonista della scena più metanarrativa del film: Mindy che grida a Randy in Stab di girarsi che ha il killer alle spalle, mentre lo stesso grida la medesima cosa a Jamie Lee Curtis in Halloween, mentre Mindy stessa ha alle spalle il killer.

Ed è la stessa che anche racconta la questione dei requel, ovvero di remakesequel che effettivamente abbondano in questo periodo e che, in un certo senso è pure Scream 5. E quando siamo alle porte del terzo atto, ovvero quello della rivelazione, Mindy istruisce Amber di cosa non fare per non essere uccisa dal killer, con anche diversi finti colpi di scena sull’identità del killer.

Con la stessa Amber che annuncia l’inizio dell’ultimo atto del film:

Welcome to act three

Benvenuti nel terzo atto
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Everything everywhere all at once – Forse troppo

Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche è un film totalmente surreale, che riesce ad unire il genere fantascientifico e fantastico con il dramma familiare.

Un prodotto tanto creativo e profondo tanto, per certi versi, difettoso.

Il film è stato un successo di pubblico incredibile, sopratutto al botteghino statunitense: a fronte comunque di un budget non irrisorio di 25 milioni di dollari, è arrivato ad incassare ben 140 milioni in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Everything everywhere all at once (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior regista
Migliore sceneggiatura originale

Miglior attrice protagonista a Michelle Yeoh
Miglior attore non protagonista a Ke Huy Quan
Migliore attrice non protagonista a Jamie Lee Curtis

Migliore attrice non protagonista a Stephanie Hsu
Miglior montaggio
Migliori costumi
Migliore colonna sonora
Miglior canzone originale

Di cosa parla Everything everywhere all at once?

Evelyn è una donna immigrata che si spacca la schiena dietro alla gestione della sua lavanderia a gettoni e della sua complicata famiglia. Un giorno viene improvvisamente contattata da un uomo che dice di venire da un altro universo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Everything everywhere all at once?

Michelle Yeoh in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Dipende.

Everything everywhere all at once è uno di quei classici film che spaccano il pubblico: è in effetti un prodotto particolarissimo, neanche facilissimo da seguire, ma che, se siete ben disposti, vi entrerà nel cuore.

Insomma, se state cercando un film che è un’esplosione di creatività e di pura estetica, che cerca di trasmettere dei profondi messaggi sulla vita e sulla famiglia, riuscendo anche ad essere discretamente divertente, potrebbe fare per voi.

Se invece non siete propensi ad accettare un film che dà più valore al messaggio e all’estetica che alla trama di per sé, potreste genuinamente odiarlo.

Essere disastrosamente creativi…

Stephanie Hsu in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

La creatività e l’estetica di questo film è non solo ammirabile, ma davvero sensazionale.

Sopratutto con i diversi costumi e aspetti di Joy, riesce a sperimentare e a portare in scena veramente di tutto, con una varietà e una cura del suo personaggio che mi ha fatto veramente impazzire.

Al contempo, anche se le idee raccontate magari non sono il massimo dell’originalità, ma anzi pescano a piene mani da cult come Matrix, i registi riescono comunque a sbizzarrirsi parecchio.

Sopratutto particolarmente divertenti sono i trampolini, anche se ammetto che ho riso meno dei miei compagni in sala (e forse anche di voi), per certe battute.

Insomma, per me l’umorismo è vincente fintanto che non scade nello slapstick.

…ma dimenticarsi del resto

Michelle Yeoh e Jamie Lee Curtis in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Per quanto un film possa essere incredibilmente creativo e artistico, non può dimenticarsi di avere una struttura narrativa, a meno che non voglia lanciare una corrente cinematografica che si ribella alle strutture narrative stesse (e non credo sia questo il caso).

Penso sia più probabile che questa coppia di fantasiosi ma anche talentuosi registi si sia trovata con un’ottima idea fra le mani, ma non sono stati in grado di esplicarla efficacemente in una struttura narrativa.

Infatti sembra che la trama parta in un certo senso immediatamente, senza neanche una introduzione effettiva che porti ad un secondo atto, che si espanda disordinatamente fino ad un finale che è pure efficace, ma che non arriva in maniera organica.

Non del tutto da buttare, ma un pochino più di ordine e di idee chiare avrebbe indubbiamente giovato al film.

La spirale dell’autodistruzione

Stephanie Hsu in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Uno dei punti fondamentali del film è il racconto di questo senso di fallimento e del volersi del tutto annullare.

Volendo andare a leggere più drammaticamente il black bagel, è possibile che si volesse raccontare in maniera anche un po’ più scanzonata la depressione e probabilmente anche il suicidio.

Joy sembra infatti volersi lasciare totalmente travolgere da questo senso di inadeguatezza e di fallimento.

È invece la madre, Evelyn, che accetta infine il suo fallimento, di essere la sua versione peggiore possibile, ma comunque di riuscire ad apprezzare la bellezza di quel poco che ha e di tutto il valore che può avere anche solo stare con suo marito, cosa che in altri universi di successo non ha.

Un finale quasi da commedia, ma ben contestualizzato e che ti scalda il cuore.

Contro il sogno americano

Michelle Yeoh in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Due elementi mi hanno particolarmente colpito della pellicola: la scelta della protagonista e il racconto del sogno americano.

Anzitutto, particolarmente raro vedere come protagonista di un film con elementi anche action una donna di mezza età, con anche la sua controparte di Deirdre, interpretata da un’esplosiva Jamie Lee Curtis.

Altrettanto dissacrante il fatto che la realizzazione personale della protagonista, almeno in potenza, non avvenga negli Stati Uniti, la terra promessa, ma in patria. Anzi, la scelta di immigrare negli Stati Uniti è quello che l’avrebbe portata più alla povertà e alla poca realizzazione.

Una certa novità in un panorama recente che racconta di come gli immigrati negli Stati Uniti che hanno solo da guadagnare nella nuova situazione: basta guardare Shang-chi e la leggenda dei dieci anelli (2021) e Red (2022) per capire la tendenza.

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Blonde – Un’icona fragile

Blonde (2022) di Andrew Dominik è un film Netflix incentrato sulla figura di Marilyn Monroe, tratto dall’omonimo romanzo del 1999. Romanzo che, specifichiamo, non è una biografia dell’attrice, ma un racconto romanzato della sua vita.

Personalmente (e non penso di essere l’unica), mi aspettavo un biopic in senso classico, che banalmente ripercorresse, pur in una veste più intima e drammatica, la tragica vita dell’attrice icona degli Anni Cinquanta.

Niente di più sbagliato.

Di cosa parla Blonde?

Blonde ripercorre gli anni della vita di Marilyn Monroe, al secolo Norma Bates, partendo dall’infanzia e percorrendo tutti i momenti più salienti della sua carriera attoriale e della sua vita personale.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perchè Blonde è un prodotto diverso dal solito

Ana De Armas in una scena di Blonde (2022) di Andrew Dominik, film Netflix

Come anticipato, mi aspettavo un biopic nel senso più classico: il materiale al riguardo non mancava. Invece, mi ha sorpreso. Nonostante parta effettivamente come il più classico prodotto di questo genere, nel giro di poco dimostra la sua natura.

Indubbiamente racconta la vita di Marilyn, ma è il come la racconta: una regia incredibilmente sperimentale, drammaticamente onirica, che non manca di sbavature, ma che al contempo riesce ad ipnotizzarti con proposte visive sempre nuove e sorprendenti.

Tuttavia, non è un film semplice, anzi: oltre alla durata davvero importante (due ore e quarantasette), è comunque un film straziante, che ti immerge nella vita di questa icona del cinema, ma prima di tutto di questa donna dalla vita davvero tragica.

Da vedere, ma prendendosi il proprio tempo.

Un pezzo di carne

Ana De Armas in una scena di Blonde (2022) di Andrew Dominik, film Netflix

Il film è molto incentrato sul corpo di Marylin, tanto da arrivare a spogliarlo continuamente (e anche troppo per i miei gusti), e di come fosse sessualizzato e posseduto continuamente. Al cinema, l’attrice era l’oggetto del desiderio, la donna ammiccante e impossibile, considerata per la maggior parte della sua vita più per il suo corpo che per il suo talento.

Così al primo provino viene stuprata, al secondo non viene considerata la sua performance, ma solamente il suo bel fondoschiena.

E così anche nella sua vita privata, in particolare con il primo matrimonio con Joe di Maggio: uomo che, nascondendosi dietro alla scusa di non voler che la moglie si butti via, fa di tutto per avere il controllo sul suo corpo, che può essere solo suo.

Vivere all’ombra di Marilyn

Ana De Armas in una scena di Blonde (2022) di Andrew Dominik, film Netflix

I invented you

Io ti ho creata

Tanto più evidente e drammatico è come la fama le stesse stretta: il vero desiderio di Marylin non era diventare famosa, ma di riuscire a costruire una famiglia felice come quella che non aveva mai avuto.

E invece il suo maggiore successo fu proprio il suo essere iconica, ma portando in scena un personaggio che era stato costruito, che si vede la grande differenza fra lei e Norma. La protagonista è infatti una ragazza ingenua e molto fragile, con desideri semplici che le vengono sempre portati via.

Molto diversa invece dall’icona sexy che venne messa in scena, l’oggetto di desiderio di ogni uomo.

I padri

Ana de Armas e Adrien Brody in una scena di Blonde (2022) di Andrew Dominik

Il rapporto con gli uomini non fu mai felice.

Secondo la visione del film, Norma visse la sua vita nell’inseguire l’immagine del padre mai incontrato, e che di fatto non si mise mai in contatto con lei. E non è un caso che Norma si mise sempre insieme a uomini con almeno vent’anni più di lei.

E il rapporto era proprio quello fra un padre e una figlia, più che quello fra due innamorati. Tanto più sconvolgente quando il Kennedy la forza ad una prestazione orale e gli dice proprio di non essere timida, proprio come se fosse una bambina.

L’eccesso

Ana de Armas in una scena di Blonde (2022) di Andrew Dominik

Come anticipato la regia è molto sperimentale. Ed è una cosa positiva e negativa allo stesso tempo.

Positiva perchè comunque riesce a rendere più interessante e innovativo un biopic, con idee sempre diverse per ogni scena e che riescono a rendere maggiormente viva e interessante la scena, sopratutto tramite le scene dal taglio onirico. In particolare molto interessante la messa in scena delle sequenze di sesso (o stupro), che riescono a dire tutto senza mai sfociare nella volgarità.

Negativa perchè certe volte questo sperimentalismo sfocia nell’eccesso e quasi nel cattivo gusto. A posteriori ho poco apprezzato questo uso poco chiaro del cambio fra immagini a colori e in bianco e nero, così come il cambio di formato video. Allo stesso modo piuttosto grottesco (e nel senso più negativo possibile) il dialogo che Norma ha con il bambino nascente.

È l’anno di Ana de Armas per Blonde?

Ana de Armas in Blonde è stata incredibile.

Sono rimasta semplicemente stregata dalla sua interpretazione, nel modo in cui è riuscita ad entrare nel personaggio, con moltissime scene anche molto dolorose e tragiche. E per quanto mi riguarda per me sarebbe un crimine non candidarla, se non addirittura farle vincere una statuetta ai prossimi Oscar.

Molto probabilmente questo film sarà uno dei prodotti che Netflix porterà ai prossimi Academy Awards (nonostante l’uscita abbastanza anticipata rispetto alla premiazione), insieme a Bardo (2022) di Alejandro Iñárritu, in uscita a Dicembre.

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Don’t Worry Darling – È ora di essere felici?

Don’t worry darling (2022) è l’ultima pellicola di Olivia Wilde con protagonisti Harry Styles e Florence Pugh. La seconda pellicola della regista, dopo l’ottimo Booksmart (2019), in Italia noto con l’infelice titolo di La rivincita delle sfigate.

Una pellicola circondata da moltissimi pettegolezzi (che non ho intenzione di approfondire) e la cui presenza di Harry Styles potrebbe essere un boomerang (di cui bisogna parlare).

Per ora ha aperto molto bene nel primo weekend, con 30 milioni in tutto il mondo. A fronte di un budget di 35 milioni di dollari, è possibile che ci sia un buon rientro economico.

Di cosa parla Don’t worry darling?

Alice e Jack sembrano vivere una vita perfetta, in una perfetta comunità esclusiva degli Anni Sessanta. Ma le anomalie del mondo che li circonda sono sempre più evidenti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Don’t worry darling?

Florence Pugh in una scena di Don't worry darling (2022) di Olivia Wilde

Davanti ad una pellicola complessivamente interessante e godibile, non è un film che considero personalmente imperdibile. Non mi verrebbe per nulla di bocciarla (come tanti hanno fatto), ma neanche di esaltarla.

Nonostante la regia sia dinamica e la storia abbastanza interessante, presenta una sceneggiatura in non pochi punti difettosa, arrivando ad una conclusione non banale, ma neanche del tutto soddisfacente.

Insomma, se volete dargli una chance, dategliela. Ma non aspettatevi qualcosa di alto livello o davvero originale come era stato per il precedente film della regista.

Harry Styles ha attirato il pubblico sbagliato?

Anche senza aver visto il film, appare del tutto evidente che non stiamo parlando di un filmetto da pomeriggio di Italia 1, nè di un prodotto esattamente per tutti i palati.

Tuttavia, dalla mia esperienza in sala, ho scoperto che questa pellicola ha attirato non pochi spettatori non abituati alla sala e sopratutto attirati solamente dalla presenza di Harry Syles.

Ed è un peccato.

Perché a parte tutto posso dirvi che Harry Styles non è un attore di richiamo messo lì apposta e senza nessun talento, ma un neonato attore che in questa pellicola ha davvero dato il suo meglio.

Tuttavia, visto anche il riscontro tiepido (se non peggio) della pellicola, la presenza di questo interprete potrebbe renderlo un successo economico, ma essere bocciato da un pubblico che è corso in sala per un film che non era pensato per lui.

Fuggire la realtà

Florence Pugh in una scena di Don't worry darling (2022) di Olivia Wilde

La rivelazione finale è stata da parte mia non poco apprezzata, in quanto riesce ad aggiornare ai giorni nostri un film con una dinamica piuttosto tipica, con piccoli cult come La donna perfetta (2004). E infatti io mi aspettavo un finale simile.

E invece mi ha sorpreso.

Da questo punto di vista racconta un problema sociale che, con le dovute differenze, è assolutamente presente, ovvero il fuggire dal mondo reale in quello virtuale. Come Jack porta all’estremo questo concetto rinchiudendo la compagna in una realtà virtuale, così non poche persone ritrovano una vita alternativa e più soddisfacente online che offline.

Il che può essere una cosa positiva come molto negativa.

Jack, perché?

Harry Styles in una scena di Don't worry darling (2022) di Olivia Wilde

Per quanto le motivazioni di Jack non siano più di tanto approfondite, bastano poche battute per comprendere il suo personaggio. Jack di fatto si incasella in quella pressione sociale maschile di sostenere la sua donna, nonostante la stessa sia perfettamente capace di farlo da sola.

Emblematico in questo senso quando, in uno dei flashback, Jack dice ad Alice E ora come farò a prendermi cura di te?, proprio a sottolineare proprio questo tipo di esigenza. La stessa trova poi sfogo nell’idea mondo virtuale dove di fatto rinchiudere le donne, probabilmente anche con l’idea di renderle più controllabili.

E non è un caso che il mondo sia ambientato in un contesto storico per nulla favorevole per l’emancipazione femminile.

Di fatto Jack non è un villain, ma un personaggio molto diviso con se stesso e che sente dentro di sè di star veramente facendo la cosa giusta.

Troppo poco (ma non sempre)

Olivia Wilde e Nick Kroll in una scena di Don't worry darling (2022) di Olivia Wilde

Uno dei grandi difetti della pellicola è il poco approfondimento che viene dato a certi aspetti della storia. In particolare viene dato tanto, forse troppo, spazio alla scoperta del mistero da parte di Alice (cosa non per forza negativa) e la rivalsa finale è invece molto più rapida e, di fatto, carente.

Il film lascia troppe domande senza risposta: perché se si muore nel mondo virtuale si muore anche in quello reale? L’areoplano che vede Alice è un bug del sistema? Perché effettivamente la moglie di Frank lo accoltella? E si potrebbe andare avanti…

Al contrario mi sento del tutto di approvare la scelta di un finale aperto, che ci salva da quei noiosissimi finali consolatorio dove il protagonista, una volta che si è salvato, riesce a recuperare la sua vita.

Questo finale è invece proprio quello che serviva per non appesantire la narrazione.

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Do Revenge – L’adolescenza a mille

Do Revenge (2022) è un teen movie recentemente uscito su Netflix, per la regia di Jennifer Kaytin Robinson, che ricordiamo con piacere (?) per essere stata alla sceneggiatura del recente Thor: Love & Thunder (2022). Un film che mi era stato consigliato e che avevo guardato in prima battuta con grande superficialità.

Tuttavia, andando avanti, mi sono resa conto di quanti spunti di riflessione offrisse.

Così l’ho visto una seconda volta.

Di cosa parla Do Revenge?

Drea è una ragazza al penultimo anno di una high school privata e prestigiosa, in cui è entrata grazie ad una borsa di studio. Nonostante faccia parte del gruppo dei ragazzi più popolari (e ricchi) della scuola, la sua vita viene rovinata dalla diffusione di un suo video intimo, probabilmente per mano del suo ex-ragazzo.

Per questo, con la complicità della nuova arrivata, Eleanor, decide di vendicarsi.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Do Revenge?

Camilla Mendes e Alisha Boe in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Non fatevi (del tutto) frenare dal fatto che si tratti di un teen movie e dal fatto che appaia potenzialmente molto trash: è indubbio che faccia parte di quel genere, ma non raggiunge mai picchi di narrazione scadente ed esagerata. Personalmente io sono un’amante del genere, ma mi rendo anche conto che, essendo uscita ormai da un pezzo da quella fase della mia vita, questi film spesso non parlino più la mia lingua.

Tuttavia, questo succede quando un teen movie non ha altro da aggiungere alla trama se non una semplice crescita dei protagonisti, tipicamente con focus sulle dinamiche amorose. In una scala di gravità, mettiamo al punto più alto prodotti come Tutte le volte che ho scritto ti amo (2018), nel mezzo film anche piacevoli come Love, Simon (2018), nel punto più lontano capolavori di genere come Mean Girls (2004).

Poi c’è Do Revenge.

Quando i teen movie sono godibili anche se non sei teen

L’ostacolo che pongono i teen movie solitamente è che non sono pensati solamente per un pubblico di adolescenti, con un linguaggio cinematografico e generazionale che può essere facilmente incomprensibile nel caso in cui si faccia parte di quella generazione.

Quindi sono anche prodotti con una data di scadenza: senza niente togliere a chi sia piaciuto, il già citato Tutte le volte che ho scritto ti amo probabilmente non sarà considerato dalla prossima generazione ed è talmente un prodotto usa-e-getta ancorato al suo genere di appartenenza è difficile che sia apprezzato al di fuori del target di riferimento.

Al contrario abbiamo prodotti come Mean Girl per gli Anni Duemila e Clueless (1995) per gli Anni Novanta che sono dei cult intramontabili, assolutamente apprezzabili anche oggi.

Perchè sono prodotti non del tutto legati al loro genere, che riescono a raccontare dinamiche intergenerazionali, e a mischiarsi con altri generi cinematografici. Come Mean Girl aveva un taglio surreale e quasi grottesco, Clueless è una brillante riproposizione del romanzo Emma di Jane Austen.

Do Revenge, senza poter raggiungere quelle vette, riesce comunque a raccontare tematiche profonde e anche impegnative, come la difficoltà del coming out, il classismo, il sessismo sotterraneo, e via dicendo. Questo, riuscendo anche a incontrarsi quasi con il genere thriller.

Un film che non manca di ingenuità, ma che vale la pena di recuperare.

Anche se non vi piacciono i teen movie.

Un uomo, un harem

Austin Abrams in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

La parte forse più interessante della pellicola è il villain maschile, ovvero Max.

Max è una sorta di Regina George, che però ha il grande merito di raccontare il nuovo gusto estetico di questa generazione. Si può notare infatti come abbia un abbigliamento vagamente queer: gli orecchini, lo smalto alle unghie, le camicie ampie che lasciano scoperto il petto glabro.

Un tipo di estetica che è nata recentemente intorno a personaggi come Harry Styles e Timothée Chalamet, che raccontano un maschile che riesce finalmente a liberarsi di opprimenti stereotipi sociali. E che si sente di sperimentare con abbigliamenti stereotipicamente attribuiti all’altro sesso.

Senza che per questo sia additato come meno maschile, appunto.

Il sessimo in Do Revenge

Austin Abrams in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Oltre a questo, Max è un villain davvero interessante perchè racconta una dinamica drammaticamente reale, ovvero quella di un’uomo che, avendone le possibilità, si attornia di donne che utilizza come oggetti, unicamente per accrescere il suo ego.

E la rivelazione finale è significativa in questo senso: Max ha rovinato con odio e cattiveria la vita di Drea semplicemente perchè lei non era stata evidentemente grata nei suoi confronti per averla resa importante.

Si vede che c’è anche una dinamica simile per esempio con Tara, l’ex migliore amica della protagonista, il cui padre è aiutato da Max nella sua carriera al senato. E la stessa, nonostante si senta in colpa per aver escluso Drea, supporta continuamente Max, anche quando si dimostra un evidente traditore.

La difficoltà di raccontare personaggi queer

Maya Hawke in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Il personaggio di Nora è interessante quanto problematico.

Da una parte è lodevole veder raccontare, in un prodotto comunque pensato per un target molto giovane, la difficoltà del coming out per un adolescente queer e l’omofobia sotterranea che deve sopportare. La storia di Nora è particolarmente drammatica: era riuscita a dichiararsi alla sua ragazza dei sogni, di cui era evidentemente innamorata, ed è stata non solo respinta, ma sotterrata da un pesantissimo pettegolezzo.

Questo aveva fra l’altro fatto ritornare la sua fidanzata, Carissa, nello stanzino, ovvero rendendola incapace di vivere serenamente la sua sessualità. E così Nora si incattivita, si è chiusa in se stessa, sentendosi (ed essendo effettivamente percepita) come un’intoccabile, arrivando pure a sottoporsi alla chirurgia estetica in giovanissima età.

Ed è ancora più insicura per l’omofobia sotterranea che serpeggia nel suo ambiente sociale, già solamente per come Drea definisce Carissa, abbastanza con disprezzo ed etichettandola come

That crunchy granola lesbian

Quella lesbica hippie

Gli stereotipi di Do Revenge

Maya Hawke in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Il problema tuttavia rimane per come Nora e gli altri personaggi femminili queer vengono rappresentati, ovvero come diversi dagli altri, o trasandati (come Nora prima del makeover) oppure associati ad una estetica da tomboy. Una rappresentazione che ho idea che non sia stata fatta con malizia, ma con sincera ingenuità, ma che è comunque un grave errore all’interno di un prodotto con questi propositi.

Il problema del classismo

Camilla Mendes e Alisha Boe in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Un altro macrotema della pellicola è il classismo che strozza la società americana.

Nella società statunitense è veramente difficile emergere se non si hanno i soldi per farlo, anzi è un paese con una mobilità sociale piuttosto bassa. Per questo Drea si prende sulle spalle l’impegno di sopravvivere l’ultimo anno in un contesto che è diventato per lei l’inferno, perchè è l’unico modo in cui può entrare in una università importante e così costruirsi una vita migliore.

Perchè lei, provenendo da una famiglia non abbiente, non riesce ad entrare così facilmente come le sue amiche che, grazie ai soldi e alla loro posizione sociale, corrono in una corsia prioritaria.

Svelare l’ipocrisia

Austin Abrams in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Ad oggi le maggiori aziende non cercano più di convincerti sulla qualità del prodotto, ma sui valori dell’azienda stessa. Così funziona per certi versi anche col personal brand, elemento centrale del personaggio di Max.

Un ragazzo che è in realtà incredibilmente egocentrico, sessista e che usa ed oggettifica le donne, ma che vuole vendersi come invece progressista. Così per l’improbabile club dei CIS Hetero Man Championship Female Idenfying Student League (non significa fondamentalmente nulla), con l’idea di portare un San Valentino più inclusivo e scardinare l’idea delle relazioni monogame.

Concetti che sono di per sè anche giusti, ma che vengono dalla bocca di una persona che è appunto a parole in un modo, ma che nella realtà (come si vede alla fine) non ha alcun rispetto per le donne nè crede in nessuno di questi concetti che propone.

L’elemento thriller

Maya Hawke in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Un elemento davvero gustoso della pellicola è il taglio thriller sul finale.

La rivelazione di per sè non annulla la costruzione del personaggio di Nora, che comunque rimane una ragazza con tante difficoltà nel trovarsi le giuste amicizie e a relazionarsi con gli altri. Cosa che fra l’altro la rende così violenta e macchinatrice, come si era mostrata fin dall’inizio.

Ed è esilarante la scena in cui aspetta Drea a casa come se fosse proprio un serial killer che aspetta la sua vittima, scena fra l’altro che è stata retta benissimo sulle spalle di Maya Hawke: in mano ad un’altra interprete meno capace, la stessa sequenza sarebbe risultata inevitabilmente ridicola.

Tuttavia, andando a portare questo elemento così forte come plot-twist, si rende leggermente meno credibile la riconciliazione finale fra le protagoniste, che sono di fatto ridimensionate nella loro cattiveria perchè riescono a confrontarsi e perchè si mettono contro con un personaggio indubbiamente negativo e per nulla pentito delle sue azioni.

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Bullet train – Perché gli action movie sono noiosi?

Bullet train (2022) di David Leitch è un action movie uscito recentemente in sala. O, meglio, uno dei migliori action movie che potreste vedere negli ultimi tempi. Non è un caso che alla regia ci sia l’autore di due dei migliori film d’azione degli ultimi anni: John Wick (2014) e Atomica Bionda (2017). E, per non farsi mancare nulla, è stato anche regista di Deadpool 2 (2018).

E si vede.

Ad oggi ha incassato 213 milioni in tutto il mondo, a fronte di un budget di 90: rientrati pienamente nel budget, anche se meritava di più.

Di cosa parla Bullet train?

La trama ruota intorno a diversi personaggi, accomunati dall’essere invischiati con i peggiori boss del crimine al mondo. Fra colpi di scena e voltafaccia, come sempre nulla è come sembra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché guardare Bullet train?

Brad Pitt in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

Bullet train è un film da vedere per vari motivi, anzitutto per il fatto che prende i maggiori problemi degli action movie e li supera egregiamente. Quindi ve lo consiglio particolarmente se non vi piace particolarmente il genere.

La pellicola è incredibilmente divertente e intrattenente, costruendo anche un piccolo ma avvincente mistero che serpeggia per tutta la sua durata. Una bella sorpresa, per un autore di valore, che vale assolutamente la pena di recuperare.

Perchè gli action movie sono noiosi

Non me ne vogliano gli appassionati del genere: se non vi piace semplicemente (e anche giustamente) vedere la gente menarsi con grandi frasi ad effetto, è facile che vedendo molti action movie, soprattutto quelli poco ispirati, vi annoierete a morte.

Un film come The Gray Man, per capirci.

I due più importanti problemi degli action movie puri sono la mancanza di originalità (e chiarezza) nelle scene di azione e il prendersi incredibilmente sul serio.

E Bullet train supera entrambi questi problemi.

Anzitutto, come ci si potrebbe facilmente aspettare da questo regista, le scene di azione non solo sono piuttosto originali, ma spesso anche divertenti e, soprattutto, dirette con una regia dinamica, frizzante e chiarissima.

Inoltre, il film scherza spesso con se stesso e con gli stereotipi del genere a cui appartiene, non prendendosi mai veramente sul serio, ma riuscendo ad ironizzare su tutto, alleggerendo la situazione nei momenti giusti.

Mettere insieme i pezzi

Aaron Taylor-Johnson e Brian Tyree Henry in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

Una colonna portante di Bullet train, nonché uno degli aspetti che gli impedisce di essere un pallido film action, è la sua componente mistery. Un elemento che non è affrontato dai personaggi come se dovessero effettivamente investigare la questione, andando anzi a tentoni e mettendo insieme i pezzi quasi casualmente.

Infatti chi deve mettere insieme gli indizi, anche prima dei personaggi stessi, è lo spettatore stesso, cui viene fornita una pista visiva inequivocabile. Così come il figlio di Morte Bianca è morto piangendo sangue, così anche tutti gli invitati al matrimonio di Wolf muoiono nella stessa maniera.

E qui il film dà la prima finta soluzione: il cameriere che urta Wolf al matrimonio e che di fatto gli impedisce di bere il vino è Ladybug. Ma, differentemente da quello che si pensa, non l’ha fatto appositamente. E, soprattutto, il veleno non era nel vino che Wolf non ha bevuto, ma nella torta che Hornet aveva preparato.

Tutti i pezzi vanno al loro posto quando si racconta la fuga del serpente e poi l’introduzione di Honert, che chiude il cerchio.

Creare un universo di ironia

Brad Pitt in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

Quando si scrive un film comico, o quando comunque si vuole inserire una linea comica all’interno di un prodotto, la strategia migliore è quella di farlo affezionare alla comicità del film.

Nel caso di Bullet train con pochi tocchi e scelte indovinate si è riuscito a creare un universo di ironia perfettamente funzionante.

Già l’immagine di Lemon, un uomo adulto che giudica le persone tramite un cartone per bambini, anche portandosi dietro gli stickers della serie, è esilarante. Ma questo elemento viene ancora più intelligentemente sviluppato in due direzioni.

Da una parte le battute comiche, che incredibilmente non smettono mai di far ridere. Dall’altra, con un effetto anche drammatico e funzionale alla storia: sul treno sono tutti dei Diesel, perché bluffano.

E ha anche una funzione nella trama: Lemon lascia lo sticker di Diesel su Prince per far capire all’amico che non è una persona di cui fidarsi. E, nel piccolo monologo dopo la sua morte, gli dice che lui era come Thomas.

Personaggi mai banali

Brad Pitt e Brian Tyree Henry in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

Complessivamente i personaggi del film sono tutti a loro modo interessanti, mai banali e con la loro unicità. Infatti, a differenza di altri film di questo genere in cui i personaggi sono solo figurine sullo sfondo, ognuno ha i suoi tratti caratteristici. Tangerine è iroso e impulsivo, Lemon è un uomo semplice ma anche spietato, LadyBug è la linea comica ed un uomo ossessionato dalla sua crescita personale.

E così via.

La sceneggiatura riesce insomma a mettere in scena un piccolo universo di personaggi che riescono perfettamente ad incastrarsi fra loro in maniera mai banale e scontata, ma in continuo cambiamento e in maniera sempre interessante.

Con splendide eccezioni…

I pochi difetti?

Joey King in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

I pochi difetti del film si concentrano tutti intorno ai momenti in cui si prende sul serio. In particolare, riguardo ai personaggi di Morte Bianca e The Prince. La figlia di Morte Bianca non è di per sé un personaggio poco interessante, ma alla lunga l’ho trovata leggermente ridondante nei suoi comportamenti. E ha una fine non soddisfacente, ma distrutta dall’elemento comico: per quanto abbia riso quando Lemon la investe per vendicarsi della morte del fratello, mi aspettavo una conclusione più interessante.

Ancora meno convincente ho trovato Morte Bianca, che è un personaggio fortemente costruito all’interno del film, arrivando ad un reveal finale che ho trovato complessivamente poco soddisfacente. Il suo personaggio mi è parso troppo stereotipato e poco tridimensionale per l’importanza che gli era stata data nel film.

Insomma, tutti i momenti in cui il film è troppo attaccato al suo genere mi è piaciuto di meno.

Pochi tocchi di David Leitch

Zazie Beetz in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

In questo film troviamo diversi elementi quasi tipici di questo regista: eredita anzitutto da Deadpool 2 il cameo di Ryan Reynolds, nonchè l’attrice di Hornet, Zazie Beetz, che in Deadpool 2 intepretava Domino, la ragazza fortunata.

Dallo stesso film conferma il suo gusto nell’inserire cameo di attori famosi: come nel cinecomic aveva messo Tom Cruise, qui vediamo anche Channing Tatum e il già citato Ryan Reynolds.

Ovviamente poi conferma la sua capacità di raccontare scene d’azione in maniera appassionante e mai banale, fra l’altro ancora con la splendida scelta di sparatoria dalle macchine come in John Wick.

Cosa succede in Bullet train?

Se non siete sicuri di aver compreso tutta la trama di Bullet Train, ecco una spiegazione per voi.

La trama prende le mosse dal piano di Morte Bianca, che ha portato a bordo del treno le diverse persone che considerava come colpevoli della morte della moglie. Anzitutto Lemon e Tangerine, che dovevano salvare il figlio, che sono gli stessi autori della strage in Bolivia degli uomini del boss, che ha dovuto andare a gestire la situazione e quindi non essere sulla macchina in cui c’era la moglie.

Al contempo la moglie è morta perchè l’unico chirurgo che doveva salvarla era stato avvelenato da Hornet, che quindi Morte Bianca ha ingaggiato per uccidere il figlio, promettendogli i soldi della cauzione per il rapimento dello stesso. E l’omicidio del figlio era voluto perchè la sua ulteriore bravata era stato il motivo per cui la moglie era sulla macchina in cui poi è stato uccisa. Infine LadyBug era sul treno al posto di Carver, che era l’autore della morte della donna.

Joey King in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

The Prince non fa parte del piano di Morte Bianca, ma aveva un piano tutto suo: ha attirato il figlio di Yuichi sul tetto di un centro commerciale per spingerlo giù e poi rivelare al padre che era stata lei a mandarlo in ospedale, riuscendo così ad attirarlo sul treno.

Infatti Yuichi gli serve per uccidere Morte Bianca: l’uomo avrebbe dovuto cercare di uccidere il boss, con un tentativo che sarebbe ovviamente andato a vuoto come tutti i precedenti, e a quel punto Morte Bianca l’avrebbe ucciso, come sua abitudine, tramite la stessa arma dell’attentato. E quell’arma conteneva un meccanismo per cui, premendo il grilletto, scoppiava in faccia al malcapitato.

La valigetta con il meccanismo analogo serviva come piano di riserva per lo stesso fine.

Il bullet train esiste veramente?

Sì, il bullet train esiste veramente.

Inoltre, come viene mostrato nel film, in Giappone vi è una rete di treni ad alta velocità che collega le maggiori città. La velocità si aggira sui 320 km/h: per fare un paragone, un nostro Frecciarossa può raggiungere i 400 km/h.

Però no, in cinquant’anni di servizio, non vi è stato un solo incidente a bordo di questi treni.

E alla fine arriva Sandra Bullock a rovinarmi il film. E vabbè.

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Crimes of the future – (Ri)scoprire il corpo

Crimes of the future (2022) di David Cronenberg è l’ultima pellicola del maestro dell’orrore dopo quasi dieci anni di assenza dalla sala. Ed è stato anche il mio battesimo del fuoco per la sua cinematografia, che conosco molto marginalmente e che non ho mai veramente affrontato.

E, dopo la visione, non vedo l’ora di scoprirne di più.

La pellicola si è rivelata purtroppo un incredibile flop commerciale, anche se certamente non è stata pensata per un ritorno economico consistente: ha incassato appena 3.4 milioni di dollari in tutto il mondo, a fronte di una spesa di 35 milioni.

Di cosa parla Crimes of the future?

Cosa succederebbe se il corpo non potesse più provare dolore e l’uomo si evolvesse per essere sempre più affine ad un mondo di plastica e spazzatura?

Questo è il mondo in cui vivono Saul e Caprice, due artisti performativi che portano in scena spettacoli davvero peculiari: a Saul crescono organi anomali nel suo corpo, che vengono tatuati e poi estratti dalla sua partner durante lo spettacolo.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Crimes of the future?

Viggo Mortensen in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Dipende.

Partiamo col dire che Crimes of the future non è un film per nulla semplice.

La trama non è di per sé centrale, ma è al contrario un veicolo per raccontare un mondo futuristico e desolante, spoglio e senza speranza. Un mondo concentrato unicamente sul corpo e sulle sue trasformazioni, senza più paura per l’orrore e per il grottesco.

Quindi, se non vi piace particolarmente il body horror e un tipo di orrore particolarmente materiale, è probabile che questo film non faccia per voi. Come prodotto lo posso in parte paragonare a Mad Max – Fury road (2015): un film incredibile, basato molto su un orrore spettacolare e corporeo, ma in cui la trama è di fatto secondaria.

Una società perduta?

Viggo Mortensen in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Nel film vediamo un mondo spoglio, fatto di rottami, spazzatura e degrado.

E non sembra che la cosa interessi a nessuno.

L‘intero focus è sull’uomo, sulle sue trasformazioni, in una sorta di neo-umanesimo. L’evoluzione è talmente rapida che non è neanche possibile definirla e regolarla: continuamente nel film si parla di come certe cose siano concesse, altre non ancora, e sembra sempre di agire nelle zone d’ombra della legge.

La stessa tecnologia sembra vecchia e datata, e non sembra esserci altro desiderio di quello di curare il corpo, plasmarlo a proprio piacimento, non cercando per la bellezza, ma il grottesco, che diventa in qualche modo anche erotico.

Arrivando all’estremo con la cosiddetta chirurgia da tavolino, ovvero la chirurgia improvvisata, di strada.

La corporeità

La corporeità domina ogni elemento.

Perfino la tecnologia stessa sembra essere definita tramite la corporeità, non cercando delle linee eleganti e futuristiche, ma dei macchinari che sembrano delle creature fatte di pezzi di corpo, di ossa bianche e lucide.

Il desiderio di corporeità arriva fino a fare dei concorsi di bellezza per la bellezza interiore, di fatto quella degli organi interni, a creare degli spettacoli concentrati sull’estrazione dell’organo più artistico e addirittura il desiderio erotico di vedere un’autopsia dal vivo.

E un’autopsia sul corpo di un bambino.

Kristen Stewart: c’è sempre una prima volta

Kristen Stewart in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Se avete letto la mia recensione di Spencer (2021) sapete cosa ne penso di Kristen Stewart, che qui interpreta la timida impiegata Timlin. E devo dire che è la prima volta, da quando ha cominciato a recitare, che l’ho vista veramente recitare in un ruolo.

Indubbiamente non è del tutto uscita dalla sua comfort zone della ragazza timida e impacciata, elemento che spesso accomuna i suoi personaggi, anche in prove attoriali assolutamente non pessime (ma neanche grandiose) come in Spencer, appunto.

Spero sia un primo passo nella giusta direzione.

Per ora, ha la mia attenzione.

Crimes of the future spiegazione finale

Personalmente ho trovato difficile comprendere il finale, che è definitivo praticamente dal dialogo fra Saul e il Detective Cope: non riuscendo a seguirlo, complice forse il doppiaggio poco indovinato, non sono riuscita (sul momento) a capire il resto.

Se siete anche voi nella mia situazione, siete nel posto giusto.

Nel finale il detective rivela a Cope che il Vice Department ha sostituito gli organi del bambino per evitare che si scoprisse questa realtà di evoluzione umana, che si adattava a questo ideale di nutrirsi della plastica e degli scarti industriali.

Viggo Mortensen in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Per questo le due impiegate che dovrebbero apparentemente controllare il funzionamento dei macchinari, in realtà erano in combutta con la stessa polizia. E per questo hanno ucciso il dottore (che forse ci viene fatto intendere avere la stessa mutazione di Becker) e il padre del bambino ucciso.

Alla fine Saul decide di allontanarsi dalla polizia e del suo lavoro, cominciando a nutrirsi di plastica e capendo che questo è quello che il suo corpo vuole: l’ultima inquadratura mostra un Saul molto rilassato e, finalmente, felice.

Qual è il significato di Crimes of the future?

Partendo dal fatto che il film a mio parere è del tutto godibile senza dover dare alcuna interpretazione, il significato della pellicola è in realtà abbastanza intuitivo.

Cronenberg ci vuole raccontare di un futuro desolante, ma anche possibile: un futuro in cui le guerre climatiche e la distruzione delle risorse ha portato a una realtà degradante, dove l’uomo comincerà a non potersi (o non volersi) più nutrire dei prodotti naturali, ma piuttosto di quelli artificiali.

Viggo Mortensen in una scena di Crimes of the future (2022) di David Cronemberg

Un futuro in cui si adatterà semplicemente alla distruzione che lo circonderà, concentrandosi solo su sé stesso, in maniera quasi ossessiva.

La volontà di nutrirsi di rifiuti industriali sarebbe l’ultimo passo verso questa idea di essere un tutt’uno con l’orrore che lo circonda.

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Nope – L’orrore di concetto

Nope (2022) è l’ultima pellicola di Jordan Peele, cineasta diventato famoso per Get out (2015) e poi per Us (2019).

Una pellicola dove il regista statunitense compie un ulteriore passo avanti nella sua produzione, portando un prodotto più complesso, maturo ed intrigante, che si spoglia del didascalismo che aveva un po’ guastato la sua seconda pellicola.

Purtroppo il film non sta incassando moltissimo, essendo già uscito da un mese in quasi tutto il mondo: davanti ad una produzione di 68 milioni, finora ne ha incassati solo 115.

Di cosa parla Nope?

OJ è un giovane addestratore di cavalli per produzioni cinematografiche, che si trova ad affrontare un misterioso nemico che infesta i cieli delle sue praterie…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Nope?

Steven Yeun in una scena di Nope (2022) nuovo film di Jordan Peele in uscita l'11 Agosto 2022

Assolutamente sì: dopo aver sperimentato con il genere horror, Peele si contamina con il genere sci-fi e western in maniera originale e assolutamente iconica.

Se siete già appassionati al cinema di Jordan Peele, non potete assolutamente perdervelo. Se avete paura di trovarvi davanti ad un horror davvero spaventoso e violento, non preoccupatevi: il film crea una tensione non da poco, con concetti non poco disturbanti, ma non mostra mai una violenza sanguinosa e spaventosa.

Un orrore più sottile, che ti entra sottopelle, ma che è di concetto e lasciato in parte all’immaginazione dello spettatore, più che veramente mostrato.

Uno dei migliori film di quest’anno finora, senza dubbio.

Cosa significa nope e altri piccoli concetti essenziali

Il senso del titolo purtroppo si perde del tutto nel doppiaggio, ma era inevitabile: nope è un modo più colloquiale di dire no, nel senso no, neanche per sogno: per citare UrbanDictionary, un no definitivo, che nega in qualunque modo quello di cui si sta parlando. Quindi, se lo vedete doppiato, ricordatevi che a volte, quando sentirete gli attori dire no, in originale dicono nope. Parola che ha un significato ben più ampio e preciso, appunto.

Sono state date non poche interpretazioni su questo titolo, ma Peele ha assicurato che voleva solo che fosse la reazione dello spettatore davanti alla pellicola.

Oltre a questo, per capire una battuta che altrimenti cadrebbe piatta, History Channel è un canale televisivo statunitense noto per trasmettere documentari pseudo scientifici e scandalistici, di fatto delle riconosciute bufale.

Infine, il nome del protagonista è OJ, omonimo di O.J. Simpson, che è stato al centro di uno dei più famosi casi di cronaca nera in ambito statunitense negli Anni Novanta.

Ora siete pronti per vedere il film. 

Raccontare il mostro

Per raccontare il mostro, Peele non poteva prendere come modello un caposaldo della cinematografia occidentale: Lo squalo (1972), pellicola che è citata continuamente.

Infatti, se si confronta la modalità di svelamento del nemico di Nope con il capolavoro di Spielberg, l’omaggio è evidente: prima mostrato in maniera sfuggevole, tanto che non si vede neanche la sua forma, poi come ombra, infine potentemente presente in scena.

Ed è incredibile come il mostro faccia paura appunto come concetto: vediamo uomini vivi all’interno del suo apparato digerente, li vediamo urlare, ma non capiamo perchè dovremmo aver paura. Ma, quando lo capiamo, è tremendamente disturbante.

A vedersi, il nemico non è un mostro pauroso, ma anzi molto enigmatico. Sembra al contempo limitato ad una bocca enorme ed a degli occhi che non possiamo vedere, ma poi appare molto più complesso e incomprensibile quando rivela tutta la sua natura sul finale.

Alzare lo sguardo

Daniel Kaluuya in una scena di Nope (2022) nuovo film di Jordan Peele in uscita l'11 Agosto 2022

La tecnica registica è veramente un tocco di classe: in non poche scene Peele riesce non solo farti seguire con lo sguardo la visione dei personaggi verso il mostro, ma ti porta veramente ad alzare gli occhi verso il margine dello schermo, quindi a diventare tu stesso un protagonista della scena.

Oltre a questo le scene sono incredibilmente travolgenti per questo uso dell’inquadratura che taglia di sbieco il soggetto, lasciandolo ai margini e insistendo sul cielo dove dovrebbe apparire il mostro. Come se il regista si dimenticasse di star girando un film volesse solo riuscire a catturare questa incredibile creatura.

Gordy: rafforzare un concetto

La storia secondaria e parallela è quella di Jupe, traumatizzato dalla visione in gioventù della strage della scimmia Gordy. Il collegamento con la trama principale è veramente debole ed è un aspetto che a mente fredda potrebbe pure essere considerato un difetto.

Ma la scena di Gordy serve a rafforzare un concetto, ad irrobustire la sensazione di inquietudine e di pericolo della vicenda. L’animale del film è quello che l’uomo cerca di domare, ma che in realtà è un predatore, una bestia incontrollabile, che semplicemente non puoi addomesticare.

Come la creatura protagonista del film, Gordy non ha un aspetto inquietante e minaccioso, anzi era un personaggio simpatico portato all’interno di una sit-com televisiva di successo. E questa tecnica è amplificata anche dal personaggio di Haley, la ragazza che partecipava allo show insieme a Jupe, e che rivediamo fra il pubblico durante il suo spettacolo. Una figura muta e inquietante, che porta le terribili conseguenze dell’attacco.

Di nuovo, un personaggio che non aggiunge niente alla trama, ma che arricchisce la scena dell’attacco.

La non-lettura

Daniel Kaluuya in una scena di Nope (2022) nuovo film di Jordan Peele in uscita l'11 Agosto 2022

Ho sentito molte interpretazioni date a questa pellicola: riferimenti al mondo delle maestranze del cinema, al ruolo degli attori neri nel cinema, al COVID… Per me la bellezza di questa pellicola è la mancanza di una spiegazione chiara e l’apertura a molteplici interpretazioni.

Non avendo letto immediatamente alcun significato ulteriore, preferisco non trovarne alcuno, ma considerarlo semplicemente un ottimo film horror che gioca con generi diversi e che definisce un definitivo passo avanti per la cinematografia di questo regista.

La fantascienza credibile

Steven Yeun in una scena di Nope (2022) nuovo film di Jordan Peele in uscita l'11 Agosto 2022

In questa pellicola Peele non solo è riuscito a sperimentare con generi diversi, ma a portare una fantascienza che per certi versi mi ha ricordato Arrival (2016): una fantascienza credibile. In particolare si smarca dall’immaginario collettivo, alimentato da diversi film sci-fi e catastrofici dagli Anni Settanta in poi: l’idea che gli extraterrestri, se ci invadessero, sarebbero esseri molto più intelligenti di noi, capaci di dominarci.

Invece l’alieno, se così vogliamo considerarlo, di Nope è niente di più che una bestia, un animale primitivo che caccia l’uomo e che l’uomo deve cacciare per sopravvivere. Un concetto che è stato rafforzato da una scena apparentemente inutile, ma che è pregna di significato: quando i ragazzini cercano di terrorizzare OJ travestendosi da alieni.

In quel momento lo spettatore viene ricondotto su binari consueti, pensando che quelli che vede sono la minaccia del film. Invece quelle figure non sono altro che uno scherzo, un gioco con lo spettatore e con le sue aspettative. Il nemico del film, infatti, è tutta un’altra cosa.

Chi è il mostro?

Nel film non viene spiegata per nulla l’origine della creatura, ma la pellicola sembra suggerire che sia in circolazione dagli Anni Cinquanta e che per tanto tempo sia stato confuso con un disco volante. In realtà, a meno che non si voglia pensare che sia stato particolarmente attivo in quella zona perché Jupe gli offriva in pasto i cavalli per il suo spettacolo, non sembra molto credibile.

Tuttavia qui si apre la strada alle interpretazioni e all’immaginazione dello spettatore. E la scelta di lasciare questo spazio al pubblico è stata una delle più indovinate, evitando di andare ad incagliarsi in spiegazioni non del tutto soddisfacenti come in Us, appunto.

Un grande passo avanti, appunto.

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The Gray Man – Niente di più, niente di meno

The Gray Man (2022) è un action movie uscito recentemente su Netflix. La pellicola si porta dietro un team che prometteva meraviglie: non solo i Fratelli Russo, registi di Captain America – The Winter Soldier (2014), Avangers Infinity War (2018) e Avengers Endgame (2019), ma anche gli sceneggiatori che si occuparono di tutti i loro prodotti per l’MCU.

Purtroppo The Gray Man conferma come ottimi registi e sceneggiatori, tolti dal contesto giusto, possano dimostrarsi meno capaci di quanto ci si potrebbe aspettare. Questa pellicola si inserisce infatti nella scia di prodotti di poco o nessun successo cui i Fratelli Russo hanno partecipato al di fuori dell’MCU, come Cherry (2021) e City of Crime (2019), in quest’ultimo caso come produttori.

Di cosa parla The Gray Man?

Court Gentry è un galeotto con ancora almeno dieci anni di reclusione davanti, che viene inaspettatamente reclutato dalla CIA per far parte di un progetto ombra, chiamato il progetto Sierra. Tuttavia, a dieci anni di distanza, Court comincia a scoprire inquietanti retroscena…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare The Gray Man?

Ryan Gosling in una scena di The Gray Man (2022) dei Fratelli Russo

In generale no, ma ci sono buoni motivi per cui questo film potrebbe quantomeno intrattenervi. Bisogna ammettere che ancora una volta i Fratelli Russo si dimostrano ben più di mestieranti, cercando di portare una regia interessante e dinamica.

Il principale problema è infatti rappresentato dalla sceneggiatura, di una povertà creativa devastante, che snocciola mano a mano tutti gli stereotipi del genere. E in generale, c’è anche poco tempo per la storia, visto che due terzi del film sono scene di azione neanche troppo originali. Insomma, non stiamo parlando di John Wick.

Per questo è un film che, se non siete patiti degli action movie, soprattutto di quelli più banali, non vi consiglio di guardare. Io, personalmente, me ne sono ampiamente pentita.

Non saper essere originali (ma proprio in niente)

Ryan Gosling in una scena di The Gray Man (2022) dei Fratelli Russo

Un grande problema, se così vogliamo dire, di The Gray Man è la sua totale mancanza di originalità. Il film è incredibilmente piatto, non porta nessuna idea interessante sul tavolo, ma è proprio il classico prodotto in serie basato sulle solite dinamiche che funzionano per il cinema commerciale.

E potrebbe essere la pellicola giusta all’interno della strategia di Netflix di rilasciare una marea di film ogni anno: prodotti usa e getta di cui si parla per un paio di giorni, per poi finire totalmente nel dimenticatoio. Tenendo però sempre alta l’attenzione sulla piattaforma.

Chris Evans: crederci

Chris Evans in una scena di The Gray Man (2022) dei Fratelli Russo

Personalmente sto assolutamente adorando la rinascita attoriale di Chris Evans, che sta cercando in tutti i modi di allontanarsi dalla figura di Captain America. E così, come in Knives Out (2019), anche in questa pellicola interpreta un personaggio anomalo e negativo.

Per questo ho ampiamente apprezzato l’ironia e l’impegno che Chris Evans ci ha messo in questa parte, pur probabilmente consapevole anche lui di star lavorando in un film di livello molto mediocre. E non è un caso che, per quanto mi riguarda, il suo personaggio è l’unico veramente interessante e convincente dell’intera pellicola.

Che bella cagnara

Ryan Gosling in una scena di The Gray Man (2022) dei Fratelli Russo

Come Chris Evans è stato convincente, il resto del cast è un generale pianto. Lo spreco maggiore è stato indubbiamente Ryan Gosling, attore con un’espressività molto particolare e che deve essere maneggiato con cura, posto nei giusti ruoli e con la giusta direzione creativa, come è stato per The First Man (2018).

In questo caso invece si vede quanto Gosling fosse poco convinto del prodotto e quanto poco questo ruolo fosse adatto a lui. Ed è atroce quando cercano di affidargli delle battute comiche, che cadono totalmente piatte per incapacità o cattiva direzione. La chimica fra lui e Evans, poi, è assolutamente inesistente.

E non è neanche la parte peggiore.

Ma che bei personaggi femminili all’avanguardia!

Ana De Armas in una scena di The Gray Man (2022) dei Fratelli Russo

Al di là in generale dei dimenticabilissimi personaggi secondari, è stato al limite dell’imbarazzo vedere personaggi femminili inseriti così forzatamente per fingersi inclusivi, quando la storia è così evidentemente maschile (e non dovrebbe neanche essere un problema di per sé).

Poche volte ho visto personaggi femminili così insipidi, piatti e poco interessanti, che hanno un ruolo del tutto accessorio alla trama. Non si voleva appiattirli nel ruolo di femme fatale o di interesse amoroso dei protagonisti maschili. E quindi si è giustamente deciso di renderle totalmente futili alla narrazione.