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The last of us – Il miglior adattamento?

The Last of Us (2023 – …) è una serie tratta dall’omonimo videogioco, di cui condivide showrunner e creatore – Neil Druckmann. Un elemento che è stata la forza e la sconfitta della serie…

Nonostante evidentemente non ci fosse sicurezza al riguardo, The Last of Us è stata una serie da record: se si guardano gli indici degli ascolti, gli stessi sono raddoppiati nel corso della messa in onda degli episodi.

Di cosa parla The Last of Us?

Un virus parassita si diffonde all’improvviso, a macchia d’olio, distruggendo la società dalle fondamenta. Vent’anni dopo, ancora non si trova una cura e il mondo è a pezzi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale pena di vedere The last of Us?

In generale, sì.

Non ho (ancora) giocato al videogioco, ma la mia ignoranza non mi ha portato alcun reale problema: la storia è perfettamente fruibile anche senza avere la minima idea del mondo di gioco, forte anche della fedeltà e della coerenza delle trame raccontate rispetto al prodotto originale.

Tuttavia, non manca di difetti e potrebbe essere meno attraente di quello che il trailer suggerisce: di fatto è un road movie, concentrato più sulle relazioni fra i personaggi che sul mondo di gioco, con un focus molto forte sui suoi protagonisti

In più – ed è il principale problema – non ha una narrazione effettivamente organica, ma piuttosto episodica. Insomma, non aspettatevi una grande serie con una storia unitaria di zombie, ma piuttosto un buddy movie ambientato in un mondo post apocalittico, cadenzato con la cosiddetta avventura della settimana.

Insomma, apprezzabile, ma da approcciare con la giusta forma mentis.

Un inizio troppo vicino

Bella Ramsey in una scena di The Last of Us

L’inizio di The Last of Us è forse la parte più azzeccata.

La serie si apre con una sequenza che getta le basi per farci comprendere la natura dei fungi e quindi dell’epidemia che presto prenderà piede. Segue una lunga sequenza dedicata a mostrarci i personaggi nel passato, che vivono la loro vita ignari di quello che sta già succedendo intorno a loro.

Con una tensione palpabile e perfetta per trenta lunghissimi minuti.

Pedro Pascal in una scena di The Last of Us

E poi tutto crolla: in un attimo la società è distrutta alle fondamenta. Non ci sono più uomini o donne, non ci sono più esseri umani, ma solo potenziali infetti. E capiamo – e sentiamo – profondamente il trauma di Joel…

E il salto in avanti di vent’anni riesce, in pochi minuti, a raccontare perfettamente quanto la situazione sia persino peggiorata: un innocente bambino viene accolto in una QZ, ma è infetto. Nella scena successiva lo troviamo nella pila di cadaveri che Joel sta raccogliendo…

E quei cartelli di avvertenze su come comportarsi vi ricordano qualcosa?

Costruire una relazione

Pedro Pascal e Bella Ramsey in una scena di The Last of Us

Il cuore della narrazione è la relazione fra Joel e Ellie.

Spesso il resto della storia viene sacrificato per dare sempre maggior spazio al costituirsi del loro rapporto. Rapporto che, soprattutto sulle prime, è fortemente antagonistico: Joel vive Ellie come un peso.

Infatti l’uomo è stato indurito dalla vita, dalla morte della figlia e dai venti durissimi anni dove ha visto il mondo crollare. E infatti la loro relazione si costruisce a poco a poco: per un terzo degli episodi Joel tratta la ragazzina anche piuttosto sgarbatamente, cercando di domare la sua sfacciataggine.

Pedro Pascal e Bella Ramsey in una scena di The Last of Us

Ma Ellie è un personaggio talmente frizzante e piacevole che per Joel è impossibile non affezionarsi e ritrovare in lei la figlia perduta. E, il misto di piccoli momenti che strappano una risata inaspettata – le terribili barzellette – e delle grandi sfide davanti alle quali i protagonisti vengono messi, costruisce un rapporto importante ed intenso.

E questo è possibile soprattutto per i due attori protagonisti.

Anche senza conoscere il videogioco, posso sicuramente dire che Pedro Pascal e Bella Ramsey siano stati due ottimi protagonisti, che sono riusciti a portare in scena una coppia intrigante e in continua evoluzione, per quanto opposta nel carattere.

Ma l’importanza della loro storia è anche parte del problema.

Un mondo senza pericoli

La totale centralità della loro relazione è soffocante per tutto il resto.

Non che manchi in realtà un buon world building: vengono raccontate le varie facce di questo nuovo e spietato mondo post apocalittico, frantumato in piccole comunità che pensano solo a se stesse, per cui il resto del mondo è il nemico.

Tuttavia, si sente la mancanza di una minaccia.

Gli infetti ci sono e quando ci sono sempre terrificanti, rubano la scena persino ai protagonisti, in particolare nel picco del quinto episodio, con la terrificante orda che azzanna, distrugge e smembra tutto quello che gli capita a tiro.

E gli attori degli infetti sono stati veramente ottimi.

Tuttavia la loro presenza è troppo sporadica: manca un numero sufficiente di scene che riesca a giustificare la continua tensione che dovremmo provare quando i personaggi escono dalle zone sicure.

Anzi, spesso viene anche detto che in determinate luoghi gli infetti non ci sono proprio…

La mancanza di organicità

Melanie Lynskey in una scena di The Last of Us

The Last of Us sembra voler raccontare una storia unitaria e un viaggio piuttosto lineare, con alcune deviazioni lungo il percorso.

Tuttavia, manca di un’effettiva organicità.

Ci sono fin troppe puntate in cui il viaggio si ferma per fin troppo tempo, con episodi che non sono semplici deviazioni, ma intere storie a parte o occasioni per approfondire meglio la psicologia dei personaggi.

Pedro Pascal in una scena di The Last of Us

Nonostante molte di queste storie siano indubbiamente interessanti e introducano personaggi indimenticabili – fra cui la bellissima storia di Bill e Frank – al contempo rovinano inevitabilmente il ritmo della storia principale, che risulta eccessivamente spezzettata e troppo sbrigativa in alcuni snodi cruciali.

Lo svolgimento sembra voler portare una storia unitaria e completamente focalizzata sul mondo e soprattutto i protagonisti, ma al contempo si perde appunto in molte altre storie tangenziali. Non sarebbe stato per questo più onesto portare una serie con una struttura verticale – ovvero episodica – senza sforzarsi nell’altro senso?

Il finale

Pedro Pascal in una scena di The Last of Us

Il finale di The Last of Us è stato molto discusso.

Si è criticato soprattutto il minutaggio troppo ridotto per portare in scena un momento così importante della storia di Joel e Ellie. Personalmente io ho trovato la durata dell’episodio più che giusta, e non ho sentito il bisogno di avere a disposizione più tempo per raccontare questo importante momento conclusivo.

Al contrario, accolgo la critica circa la mancanza di introduzione di questo finale: niente nell’episodio precedente racconta l’approcciarsi ad una conclusione – e sarebbe bastato veramente poco. E l’episodio stesso non sembra una conclusione, se non quando effettivamente i protagonisti arrivano al punto di arrivo.

Tuttavia, ho trovato estremamente interessante il dubbio morale che il finale vuole trasmettere: stiamo dalla parte di Joel o la sua è solamente una scelta egoistica? Un tema che sarà indubbiamente esplorato nella seconda stagione, e che rivela la precarietà del rapporto fra i protagonisti…

Recensione The Last of Us

Il prezioso contributo di Cristiano (@cristianodalianera), con un’opinione forse non tanto diversa dalla mia, ma sicuramente più colorita…

Il preambolo

Pedro Pascal in una scena di The Last of Us

L’attesa di The Last of Us era vincolata all’aspettativa, altissima, che il progetto videoludico aveva instillato.

Una videogame action-survival horror tutto trama, con complicate digressioni emotive e un sottobosco di non detto ad arricchire la narrazione. Praticamente Resident Evil diretto da Alejandro González Iñárritu (anche grazie alle suggestioni sonore di Gustavo Santaolalla), cosa poteva andare storto?

Pedro Pascal in una scena di The Last of Us


Infatti il gioco – uscito nel 2013 – è stato devastante sul fronte pubblico e critica, alzando l’asticella della qualità e diventando, a tutti gli effetti, il canto del cigno della PlayStation 3. Naughty Dog, nella persona dell’ideatore Neil Druckmann, deve aver pensato: ho un prodotto cinematografico fatto e finito!

Ed è partito subito il progetto per un lungometraggio che, in origine, prevedeva la regia di Sam Raimi ed un cortometraggio animato sotto l’egida Sony Pictures.

Ma qualcosa è andato storto.

L’adattamento

Pedro Pascal in una scena di The Last of Us

Una produzione che ha preso piede con un cattivo auspicio: la critica al casting di Bella Ramsey per il personaggio di Ellie. L’accusa è stata di non essere bella abbastanza per interpretare la protagonista. Su Pedro Pascal un dubbioso assenso: alla fine Joel è musone quanto basta.

Risolto il problema delle facce, bisognava affrontare il problema della storia.

Come affrontare la trasposizione del videogame?

Pedro Pascal e Bella Ramsey in una scena di The Last of Us

Le vie maestre sono due: quella lunga e quella corta.

La via lunga prevede un approfondimento costante, lo sviluppo di una trama orizzontale complessa, avvincente, appassionante. Una sorta di soap-opera con un substrato di apocalisse che aromatizzi il tutto, lasciando sedimentare l’affetto per i personaggi in una crosta cementizia inscalfibile.

La via breve prevede una serie di episodi dalla trama pressoché verticale, rifacendo shot-for-shot intere sequenze del videogame, ad uso e consumo del videogiocatore incallito (e un po’ tossico) che opera la metà della magia della messa in scena: lo dimo ma non lo famo, e la fantasia dello spettatore ci mette il resto.

Il risultato

Spaparanzati davanti al primo episodio, già assaporavamo la lentezza della costruzione narrativa di una serie di spessore, un lungo viaggio nell’abisso e nella risalita. Una collocazione da manuale per tempi tecnici e narrativi, condito dalla necessaria crudeltà che è ingrediente imprescindibile a far montare la rabbia che ci tiene incollati allo schermo: vogliamo tutto e lo vogliamo ORA.

Il secondo episodio prosegue, un po’ in sordina, ma è preparatorio. Ci sfreghiamo le mani in attesa del bagno di sangue, della fuga rocambolesca, del salvataggio all’ultimo minuto.

Episodio tre: La Casa nella Prateria prepper edition.

Beh, sono scelte narrative. Il review bombing dell’episodio a causa dei temi LGBTQ+ me l’ha fatto stare persino simpatico, anche se realizzato in maniera eccessivamente ruffiana. Vabbè, alla fine ci sta una battuta d’arresto.

Magari non è uscita proprio come uno s’aspettava.

Bella Ramsey in una scena di The Last of Us

Quattro e Cinque, con uno straccio di orizzontalità, sembrano andare troppo a rilento ed in maniera abbastanza inconcludente. La quinta è tipo la versione tamarra di Zombie di Romero, con un finale wtf che riporta la speranza alla quota di sicurezza.

È il giro di boa – uno pensa – da qui in poi è il delirio.

Episodio sei: latte alle ginocchia feat. cameo del cane Chopper di Stand by me.

Episodio sette: sismance in flashback feat. UNO DI NUMERO infetti. Grossa suspense.

Episodio otto: Ellie ingoia Hannibal Lecter, ah-ah-ah.

Episodio nove: Joel ingoia Chuck Norris.

La critica

Bella Ramsey in una scena di The Last of Us

La qualità del prodotto, tecnicamente parlando, è sopraffina.

Inquadrature, sequenze, fotografia, scenografia, recitazione. Tutto, davvero eccellente. La narrativa, presa per singolo episodio, è superiore alla media per tantissimi versi.

Nell’insieme, invece, è sconclusionata e, come dicono quelli bravi, anti-climatica.

La gestione dei tempi, relativamente coerente col singolo episodio, è stata gravemente sottostimata nell’ottica della serialità. Si iniziava a sentire il prurito alle corna dall’episodio tre, che nella prospettiva della serie completa risulta essere una colossale perdita di tempo, preziosissimo tempo da investire nella costruzione del rapporto fra i protagonisti.

Bella Ramsey in una scena di The Last of Us

E non è stata l’unica.

L’episodio sei è una serie di montagne russe in accelerazione e decelerazione su cose essenziali, se la serie avesse avuto davanti altre dodici puntate. Il tutto si traduce in un filler-spiegone dall’effetto soporifero che ammazza una tensione emotiva già moribonda.

L’inseguimento dei tempi videoludici si è fatto, tra l’episodio cinque e sei, insostenibile. E mentre il giocatore incallito si è esaltato nella riproposizione pedissequa delle sequenze di gioco, lo spettatore medio si infilata schegge di bambù sotto le unghie.

Pedro Pascal in una scena di The Last of Us

La costruzione del rapporto padre-figlia si risolve in un vortice di frasi fatte e ripescaggio di formule abusate. Il ruolo del cattivo poggia tutto sulle spalle del genere umano – homo homini lupus – che occhei vabbene abbiamo capito.

Gli infetti compaiono quattro volte in nove puntate, livello di pericolosità: li elimina una donna in travaglio con un temperamatite.

Alla fine The Last Of Us si è rivelato un enorme equivoco.

Bella Ramsey in una scena di The Last of Us

Chi si aspettava il taglio epico del videogame ha dovuto fare i conti con l’assenza della componente interattiva, che trasporta lentamente il videogiocatore nella storia e gode di un lusso che questa serie non si è concessa: il tempo.

Chi si aspettava la narrazione autoriale di La Guerra Mondiale degli Zombi – il libro di Max Brooks, non il film – attraverso gli occhi di due anime perse nella fine del mondo ha dovuto fare i conti con una realizzazione confusionaria e frammentata che pecca nell’unica cosa di cui si senta davvero la mancanza: il tempo.

La conclusione

Pedro Pascal in una scena di The Last of Us

Una promessa mancata che si divide tra chi la difenderà a spada tratta – Guarda! L’hanno rifatta uguale! – e chi l’ha subita maturando lo spegnimento per ogni forma di entusiasmo.

Personalmente ho ravvisato una fortissima componente riempitiva, sia emotiva che sostanziale, da chi conosceva la trama e chi era pieno di aspettative. In realtà il migliore adattamento da un videogame non c’è stato, e la serie ondeggia fra la mediocrità e la sufficienza.

L’esperimento mentale necessario sarebbe quello di togliere dal prodotto il brand The Last of Us e darlo in pasto allo spettatore qualunque: si toccherebbero vette di disinteresse che sono la cifra di un prodotto tenuto in vita da un pernicioso fungo parassita che assomiglia all’accanimento terapeutico.

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Tàr – Andante impetuoso

Tàr (2022) di Todd Field è un film thriller che ha acquisito un’inaspettata popolarità nella stagione dei premi 2023. E questo anche per merito di un’attrice protagonista d’eccezione: Cate Blanchett.

A fronte di un budget (stimato) di 35 milioni di dollari, ne ha incassati finora appena 19 in tutto il mondo – ma c’era da aspettarselo per una pellicola di questo genere, quasi introvabile nei cinema italiani a due settimane dall’uscita.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Tàr (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior regista
Miglior attrice protagonista
Miglior sceneggiatura originale
Miglior montaggio
Migliori fotografia

Di cosa parla Tàr?

Lydia Tàr è una famosa e incredibile direttrice d’orchestra, che non si è mai fatto scrupoli nell’utilizzare la sua posizione a suo vantaggio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Tàr?

Cate Blanchett in una scena di Tàr (2022) di Todd Field

Assolutamente sì.

Per quanto – per vari motivi – Tàr non sia esattamente un film per tutti i palati, per me è stata un’esperienza incredibile.

E lo è stata nonostante la durata piuttosto robusta (due ore e quaranta), che però non mi è pesata per nulla. Ed è stato possibile grazie al profondo coinvolgimento che mi ha regalato la pellicola, merito anche del montaggio frenetico e dell’incredibile interpretazione di Cate Blanchett.

Se vi appassionano i prodotti enigmatici e complessi, che lasciano spazio allo spettatore per portare le proprie conclusioni e giudizi, non ve lo dovete davvero perdere.

Una stronza?

Cate Blanchett e Nina Hoss in una scena di Tàr (2022) di Todd Field

La protagonista è una stronza.

Ce lo racconta lo stesso film, mettendo in bocca questo giudizio ad un personaggio apparentemente positivo, ma che Lydia scredita totalmente, etichettandolo come il classico millennial che si nutre e si conforma alla narrazione dei social media.

Nonostante sia evidente – e lo diventa sempre di più nel corso della pellicola – che Tàr non sia una persona di specchiata moralità, non ho potuto che sentirmi vicina alla sua visione del mondo.

Infatti Tàr respinge totalmente un pensiero che cerchi di etichettare ed escludere determinati artisti per via delle loro posizioni politiche – senza considerare, fra l’altro, il contesto storico di riferimento. E lo fa indubbiamente in maniera assai tagliente ed aggressiva, ma esprimendo concetti che in gran parte mi sento di condividere.

Nonostante la stessa sia del tutto condannabile per le sue azioni.

Presagi oscuri

Cate Blanchett in una scena di Tàr (2022) di Todd Field

In qualche misura, la protagonista è consapevole di essere colpevole.

Lo si vede bene dal profondo contrasto fra gli ambienti puliti e meticolosi, che si scontrano con realtà invece disordinate, selvagge, pericolose. Un mondo di suoni e pericoli: le urla lontane di una donna al parco, il suono ritmico della macchina che tiene in vita una vecchia morente, oggetti che si spostano…

…e una costante sensazione di essere osservata.

Un sottosuolo di immagini – che spesso è davvero sottoterra – che rivela una realtà ben più marcia, che racconta la verità sulla protagonista. Una donna geniale e talentuosa, che però utilizzava – e utilizza – la sua posizione per ottenere dei favori sessuali, come un Harvey Weinstein qualunque.

E allora la pellicola ci mette davanti a due domande fondamentali

Cate Blanchett in una scena di Tàr (2022) di Todd Field

È giusto che Tàr non possa più dirigere un’orchestra?

È il solito discorso di distinguere l’artista dalla sua vita personale: un discorso per cui non esiste una risposta giusta. Con l’esclusione di Lydia, il mondo della musica ha perso una direttrice d’orchestra con un’abilità difficilmente ritrovabile altrove.

Ma d’altronde la colpa non è del colpevole?

Oltre a questo, possiamo ancora essere vicini alle sue idee, nonostante lei stessa sia parte del problema? Tàr può facilmente essere tacciata di ipocrisia e le sue opinioni potrebbero essere cancellate, svalutate. Ma in questo caso non sarebbe più giusto considerare le idee solamente come idee, non dando peso a chi le abbia formulate?

Un intreccio verboso

A latere, vale la pena di analizzare la messinscena.

Il film di Todd Field è scandito soprattutto da dialoghi frequenti e complessi: discorsi che confondono facilmente lo spettatore, ma che al contempo danno valore alla pellicola. Infatti quest’opera non vuole piegarsi ad una semplificazione a favore del pubblico, ma vuole anzi mettere in scena un mondo con le sue regole e i suoi discorsi, pure se complessi da seguire.

E il risultato è una rappresentazione realistica e credibile di una realtà lontana dalla maggior parte di chi guarda, con una rete di relazioni complesse, discorsi pieni di tecnicismi e riferimenti a prima vista incomprensibili.

E sta allo spettatore mettere insieme i pezzi.

Tàr spiegazione

In chiusura, un tentativo di spiegare per filo e per segno la storia di Tàr.

Lydia ha la brutta abitudine di cercare favori sessuali nelle persone a lei sottomesse, in cambio di supporto di altro tipo. Un comportamento ben noto nell’ambiente e ben chiaro nell’assegnazione delle borse di studio create da Tàr stessa per favorire le donne nel settore.

Krista era l’eccezione.

Con ogni probabilità la ragazza si era rifiutata di sottostare alle richieste di Lydia, e per questo aveva perso ogni possibilità di far carriera e di inserirsi in questo mondo – come le email ben testimoniano. Le stesse email sono la prova fondamentale per incastrare Tàr, motivo per cui la donna controlla il PC di Francesca per essere sicura che le abbia cancellate.

Cosa succede nel finale di Tàr

E la cosa le si rivolta contro.

Anche se non è del tutto esplicito, evidentemente Lydia aveva sedotto Francesca, arrivando infine – per motivi non chiari – a non darle il ruolo da lei tanto sperato. Così la stessa si è licenziata e ha consegnato alla polizia la corrispondenza fra Tàr e Krista.

Contemporaneamente, Tàr cerca di far entrare nelle sue grazie Olga, la talentuosa violoncellista cui assicura l’assolo. Anche con lei prova ad avere favori sessuali, ma la ragazza si sottrae esplicitamente, in particolare quando rifiuta l’invito a cena, ma poi comunque esce la stessa sera senza dirle nulla.

Le motivazioni potrebbero essere duplici: Olga potrebbe aver scoperto, tramite il video incriminante sui social, le accuse nei confronti della donna e per questo l’avrebbe evitata.

Al contempo, data la sua posizione già di per sé privilegiata, potrebbe non aver considerato conveniente sottomettersi alle sue richieste.

Infine Lydia viene condannata, viene esclusa dalla Filarmonica di Berlino – nonostante cerchi di riprendersi violentemente il posto – e la moglie le toglie la possibilità di vedere la figlia. Infine è costretta a ricostruire la sua immagine, cominciando dalla direzione di un’orchestra in evento di fan di Monster Hunter.

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Top Gun Maverick – Giochiamo alla guerra?

Top Gun Maverick (2022) di Joseph Kosinski è il sequel del (quasi) omonimo cult del 1986, uno fra i prodotti che lanciarono la carriera di Tom Cruise, insieme alla saga di Mission impossible.

Un prodotto che è più che altro un miracolo: programmato inizialmente per il 2020, è stato rimandato più e più volte, anche su insistenza dello stesso attore protagonista, che voleva assolutamente farlo uscire al cinema. Infine è giunto nelle sale a Maggio 2022, tenendo banco al box office internazionale per tutta l’estate seguente.

Ha incassato la bellezza di quasi un miliardo e mezzo di dollari.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Top Gun Maverick (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior sceneggiatura non originale
Migliore canzone
Miglior sonoro
Miglior montaggio
Migliori effetti speciali

Di cosa parla Top Gun Maverick?

A più di trent’anni di distanza, il Capitano Mitchell, aka Maverick, non è riuscito a fare carriera nella Marina, a causa della sua insubordinazione e la sua nota testa calda. Gli viene data un’ultima occasione per guidare una missione molto importante…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Top Gun Maverick?

Tom Cruise in una scena di Top Gun Maverick (2022) di Joseph Kosinski

In generale, sì.

Top Gun Maverick è complessivamente un buon film di intrattenimento e sopratutto un ottimo film action, che segna degli importanti passi avanti rispetto al primo capitolo, di cui comunque è una buona continuazione.

La trama è ben costruita e tiene facilmente sulle spine per tutto il tempo, mettendo diversi ostacoli davanti ai protagonisti, ma permettendo loro di avere anche tutto lo spazio di cui hanno bisogno per migliorarsi ed evolversi.

E lo dice una spettatrice poco appassionata al genere, che aveva paura di annoiarsi.

Ma passiamo alla domanda fondamentale.

Sì e no.

Sopratutto per un particolare elemento, secondo me Top Gun Maverick è più godibile avendo fruito anche della prima pellicola.

Tuttavia, se lo guarderete senza avere idea di cosa sia successo prima, diciamo che non vi troverete troppo spaesati: il film si impegna molto a recuperare tutti i fili narrativi del primo film, anche con effettivi inserimenti di scene in forma di flashback.

Inoltre, la maggior parte dei personaggi in scena sono del tutto nuovi, e il film cerca continuamente di convincerti che il protagonista li conosceva già da molto tempo (anche se magari erano solo citati nella prima pellicola). Quindi, almeno per questo aspetto, si parte tutti quasi dallo stesso punto.

Lo stesso protagonista

Tom Cruise in una scena di Top Gun Maverick (2022) di Joseph Kosinski

La prima scelta veramente azzeccata è stata di mantenere il protagonista quasi nella stessa situazione in cui si trovava nella prima pellicola.

Sì, è un capitano pluridecorato, ma è sempre alla base della gerarchia sociale della Marina, tanto da essere comandato da persone ben più giovani di lui. E questo per motivi che, ancora una volta, lo rendono vicino allo spettatore: il protagonista è emarginato perché, nonostante sia il migliore di tutti, ha una condotta fin troppo irruenta e fuori dagli schemi.

Ma per questo è anche una figura eroica, da ammirare, in primo luogo dallo spettatore stesso: un uomo capace di andare contro tutti i limiti, e, proprio per questo, vincere dove altri falliscono.

Un obbiettivo chiaro…

Un altro elemento positivo, anzi migliorativo, della pellicola rispetto alla precedente, è la struttura della trama.

Ben definita nei suoi tre atti canonici, con un obbiettivo preciso e una tensione sempre presente, che serve ben ad accompagnare la crescita e l’evoluzione dei personaggi. Fra l’altro con un ritmo incalzante e con un montaggio semplice ma piuttosto indovinato, che coinvolgono fortemente lo spettatore in questo viaggio apparentemente impossibile.

Anche se in alcuni punti sembra che devi leggermente dal suo percorso e utilizzi davvero tanto tempo per raccontarti i personaggi principali, non è di fatto un elemento che va a rovinare complessivamente la godibilità della pellicola, anzi.

E per il finale…

…ma uno svolgimento strano

Tom Cruise e Jennifer Connelly in una scena di Top Gun Maverick (2022) di Joseph Kosinski

A fronte di una buona costruzione, mi ha abbastanza stranito la gestione del finale.

Mi aspettavo che il focus sarebbe stato sulla missione stessa, a fronte dei due minuti di durata – anche se la stessa poteva essere gestita diversamente per mantenere alta la tensione. Invece il punto di arrivo della trama passa in un attimo

Si sceglie piuttosto di lasciare il finale per la costruzione del rapporto fra Rooster e Maverick, anche con una costruzione intrigante e piena colpi di scena, dove si vede finalmente il protagonista affrontare quei tanto pericolosi nemici – continuamente citati, e mai mostrati.

Una scelta strana, ma non meno funzionante.

Giochiamo alla guerra?

Un aspetto che avevo previsto, ma che non di meno mi ha infastidito, è l’idealizzazione della guerra.

Un concetto presente, e che non vanifica comunque nulla di quanto detto finora.

Così, nella più classica ingenuità di un prodotto statunitense medio, i protagonisti sono i buoni della situazione, gli eroi da sostenere e che riescono a vincere la battaglia e così la guerra. E, proprio per questo, i pochi nemici che si vedono hanno il volto totalmente coperto, non parlano, in modo da renderli il più anonimi possibile e lontani dallo spettatore.

E così lo stesso spettatore applaude entusiasta quando questi vengono uccisi…

Come hanno fatto Top Gun Maverick?

La produzione di Top Gun Maverick è parte anche del suo fascino.

Il motivo per cui sembra davvero che gli attori stiano pilotando gli aerei è grazie al campo di pre-addestramento organizzato dallo stesso Tom Cruise per far davvero immergere gli attori nella parte.

Il resto del merito va alle telecamere IMAX installate dentro i veicoli, che fra l’altro gli attori dovevano gestire automaticamente quando erano a bordo, mentre erano pilotati da veri piloti professionisti, che conducevano tutte le acrobazie.

Perché Top Gun Maverick è un successo?

Top Gun Maverick è stato uno dei più grandi successi cinematografici del 2022, insieme a Avatar – La via dell’acqua.

E la motivazione è abbastanza evidente: la pellicola è riuscita ad intercettare diverse fasce di età, sia i genitori cresciuti con il mito della pellicola del 1986, sia gli spettatori più giovani che potevano facilmente rivedersi nei nuovi protagonisti.

La qualità complessiva della scrittura e l’intrattenimento che riesce a colpire veramente chiunque – persino me – ha fatto il resto.

E, ancora una volta, Tom Cruise ha vinto la sua scommessa e ha salvato il cinema.

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Niente di nuovo sul fronte occidentale – L’altro lato del fronte

Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022) di Edward Berger è un film che racconta la fine della Prima Guerra Mondiale dal lato tedesco attraverso il punto di vista di uno dei soldati.

Il film è stato presentato al Toronto International Film Festival 2023 e distribuito in poche sale, per poi essere rilasciato a livello internazionale su Netflix. Fra l’altro un prodotto con un budget sorprendentemente contenuto: appena 20 milioni di dollari.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior film internazionale (Germania)

Miglior fotografia
Miglior scenografia

Miglior trucco e acconciatura
Migliori effetti speciali
Miglior sceneggiatura non originale
Miglior sonoro
Migliore colonna sonora

Di cosa parla Niente di nuovo sul fronte occidentale?

1917, Germania. L’appena diciottenne Paul Bäumer si arruola nell’esercito tedesco per combattere nella Prima Guerra Mondiale. Ma i suoi propositi di eroismo si dimostrano fin da subito un miraggio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Niente di nuovo sul fronte occidentale?

Albrecht Schuch in una scena di Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022) di Edward Berger

Assolutamente sì.

Niente di nuovo sul fronte occidentale è un film che mi ha veramente sorpreso: non sono una grande amante dei film di guerra – soprattutto quando vi trovo un’eccessiva idealizzazione o un pietismo troppo spinto.

E forse proprio per questo mi è piaciuta questa pellicola.

Un’opera profondamente cruda e realistica, che riesce a raccontare un’esperienza traumatizzante e profondamente ingiusta come la Prima Guerra Mondiale. Il tutto con una regia piuttosto indovinata, interpretazioni più che ottime e una fotografia spettacolare.

Anche per questo, un trigger alert è dovuto: si tratta di un film davvero molto realistico, con scene e inquadrature estremamente esplicite e di grandissimo impatto. Alcune probabilmente non ve le toglierete mai più dalla testa…

Ho voluto inserire nella recensione alcuni versi della canzone “La guerra di Piero” di Fabrizio De Andrè, che si adatta perfettamente alla pellicola.

Nessun eroe

Albrecht Schuch e Felix Kammerer in una scena di Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022) di Edward Berger

Chi diede la vita ebbe in cambio una croce

L’incipit racconta già tutto del film.

Siamo immediatamente portati al fronte, a seguire la storia di un giovanissimo soldato – Heinrich Gerber. A sorpresa, però, non è il protagonista del film: in appena cinque minuti vediamo come il ragazzo muore sul campo, viene spogliato dei suoi vestiti da soldato, che vengono raccolti e riciclati per le future reclute.

La pellicola ben racconta come i protagonisti della Prima Guerra Mondiale non erano uomini, ma pedine sul campo, soldatini usa-e-getta che potevano essere usati e buttati via, avendone sempre di nuovi per ogni occasione e necessità.

Un meccanismo terrificante, alimentato dalle false promesse di eroismo.

La guerra degli altri

Felix Kammerer in una scena di Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022) di Edward Berger

Sparagli Piero, sparagli ora
E dopo un colpo sparagli ancora

A capo di questo meccanismo, gli uomini di potere alimentati da un arrogante desiderio di rivalsa, oltre ad una totale cecità sulla realtà del fronte.

Diverse inquadrature del film sono volte a sottolineare la vita agiata e priva di ogni preoccupazione che era condotta da chi decideva della vita e della morte di migliaia – se non milioni – di uomini. Fra l’altro un’esistenza immersa in ambienti silenziosi e quieti, con grande contrasto con il chiasso assordante del fronte.

Il personaggio più rappresentativo in questo senso è il Generale Friedrichs: per sua stessa ammissione non ha mai messo piede in un campo di guerra, ed insiste fino all’ultimo testardamente per portare a casa una vittoria che porti gloria al suo paese – e a sé stesso.

E ottiene solo un’altra carneficina senza significato.

L’alienazione

Albrecht Schuch in una scena di Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022) di Edward Berger

Ma il tempo a me resterà per vedere
Vedere gli occhi di un uomo che muore

Questa guerra era senza significato tanto più che nessuno dei soldati ha volontà di essere un eroe o difendere la propria patria.

Infatti, si combatte per la sopravvivenza.

Uomini che nella loro vita non avrebbero alzato le mani contro nessuno, costretti a gettarsi in campo come automi senza volontà, uccidendo con disperazione, prima di tutto per salvare la propria vita. Del tutto alienati, in una realtà dove l’umanità non esiste, dove implorare pietà è inutile.

In più momenti il protagonista si trova faccia a faccia con il nemico, e basta un momento per guardare negli occhi un altro uomo, un ragazzo non tanto diverso da sé stesso. Inquadrature drammatiche e travolgenti, in cui per pochi momenti il protagonista sfugge a questa alienazione e si rende conto delle sue azioni.

Ed è devastante.

Albrecht Schuch in una scena di Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022) di Edward Berger

Da questo punto di vista emerge una possibile critica.

La scrittura dei personaggi non è particolarmente approfondita, ma definita da pochi tratti, e così la storia non è particolarmente originale, ma strettamente legata alla realtà storica. Insomma, al pari di Babylon (2022), è un film che vuole più raccontare delle situazioni e dei personaggi tipo piuttosto che una storia vera e propria.

E questo può piacere o non piacere.

Personalmente questo elemento – che comunque ho notato – non mi ha rovinato la piacevolezza complessiva del film, anzi per certi versi mi ha permesso di immergermi più profondamente nella vicenda raccontata: la poca caratterizzazione del protagonista lo rende un personaggio in cui chiunque può rivedersi.

La fortuna maligna

Proprio come non ci sono eroi, non serve alcuna abilità per sopravvivere alla guerra.

Solo la fortuna.

La sopravvivenza è determinata dalla pura coincidenza, dal non mettere il piede nel punto sbagliato, dal non far scoppiare una mina, dal non beccarsi un colpo mortale, dal non avere esitazioni…

E, proprio come ogni morte del finale si sarebbe potuta evitare se Paul e Kat non avessero rubato le uova, se il protagonista non avesse dovuto tornare in campo, più in generale si sarebbero salvate 37 milioni di vite se l’arroganza di pochi non avesse determinato la sorte di molti.

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2022 Dramma familiare Drammatico Film Nuove Uscite Film Oscar 2023

Aftersun – Sotto lo stesso sole

Aftersun (2022) di Charlotte Wells è uno di quei piccoli film indipendenti che emergono a sorpresa nella stagione dei premi. In questo caso, con una distribuzione italiana unicamente sulla piattaforma streaming MUBI.

Il budget è ignoto, ma probabilmente è davvero risicato – sul milione di dollari, anche meno – con un incasso al contempo assai contenuto: 4,7 milioni di dollari in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Aftersun (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior attore protagonista a Paul Mescas

Di cosa parla Aftersun?

Inizio Anni Duemila, Turchia. L’appena undicenne Sophie è in vacanza col padre, che sta per compiere trentuno anni. Un’estate come tante…?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Aftersun?

Assolutamente sì.

Ma…

Aftersun è un film davvero piacevole e di grande profondità, ma non è per tutti i palati. Mi verrebbe da paragonarlo alla serie Afterlife (2019-22) e al film C’mon C’mon (2021): una pellicola che basa la sua forza nell’essere molto verosimile e realistica nella recitazione e nella storia raccontata.

Un prodotto per prendersi una pausa da un cinema contemporaneo che – anche comprensibilmente – cerca costantemente di colpirti e catturarti con effetti speciali e storie travolgenti.

Aftersun è invece un film che ti cresce dentro, minuto per minuto.

Non subito

Paul Mescal e Francesca Corio in una scena di Aftersun (2022) di Charlotte Wells

Solitamente quando si guarda un film – sopratutto nel caso di prodotti molto commerciali – l’attenzione dello spettatore è destata fin da subito, in vari modi e sopratutto raccontando la maggior parte dell’antefatto e della caratterizzazione dei personaggi il prima possibile.

Non è il caso di Aftersun.

La pellicola procede indipendente dalle aspettative dello spettatore, volendo raccontare la vicenda nella maniera più realistica e credibile possibile, ovvero nel suo naturale svolgimento. L’antefatto e il rapporto fra i personaggi viene svelato poco a poco, tramite dialoghi casuali.

Mi ha particolarmente colpito uno scambio fra Calum e Sophie: mentre la bambina sta leggendo un libro che il padre le ha consigliato, gli dice che le sembra molto difficile. E l’uomo, dall’altro lato della stanza, le risponde:

Stay with it. I think you’ll like it

Continua a leggerlo. Penso ti piacerà molto.

Il mio rapporto con il film stesso in a nutshell, in sostanza.

Frammenti di felicità

Paul Mescal in una scena di Aftersun (2022) di Charlotte Wells

L’elemento centrale della narrazione – e della sperimentazione registica – è la videocamera.

Attraverso di essa Sophie racconta la visione che aveva al tempo di quella vacanza, così felice e spensierata, in particolare attraverso il filtro della fotocamera, in cui ogni volta si racconta la realtà un po’ più piacevole e bella di quanto effettivamente fosse.

Al di fuori del mondo della telecamera, particolarmente quando Calum chiede a Sophie di spegnerla, si consuma l’angoscia del padre, della sua incapacità – o volontà – di tenere insieme la famiglia, nonostante l’affetto che ancora prova.

E la consapevolezza arriva solamente dopo.

La misteriosa cornice

Paul Mescal e Francesca Corio in una scena di Aftersun (2022) di Charlotte Wells

Proprio nella filosofia di svelamento passo passo, la cornice narrativa è rivelata in pochi, fatidici momenti.

Il tutto si ricollega al filmato delle vacanze di quell’anno, che è rivisto dalla Sophie adulta, che troviamo convivere con la sua compagna e con un figlio. La donna sembra guardare indietro nel tempo, voler rivivere quel frammento di felicità che si era potuta godere un tempo, prima che – probabilmente – tutto finisse.

È infatti emblematico il gioco di montaggio sia all’inizio che alla fine, in cui le immagini di Sophie da bambina che balla col padre si alternano a questa scena a prima vista quasi incomprensibile, in cui la Sophie adulta cerca di chiamare disperatamente il padre, che però alla fine si sottrae.

E qui nasce la domanda fondamentale.

Cosa succede nel finale di Aftersun?

Il finale di Aftersun a primo impatto può apparire piuttosto oscuro.

Non nascondo che io ho dovuto informarmi per riuscire a fare luce su questa enigmatica conclusione. In poche parole, Sophie da adulta, nel riguardare il filmino della sua vacanza col padre, probabilmente sta ricordando l’ultimo momento in cui lo vide.

O, almeno, l’ultimo momento felice.

Paul Mescal e Francesca Corio in una scena di Aftersun (2022) di Charlotte Wells

Vista anche la scena del ballo – che nel flashback è un momento felicissimo, nel presente è invece quasi orrorifico – la donna sta probabilmente inseguendo qualcosa che le è imprescindibilmente sfuggito di mano.

E infatti, ferma la registrazione su quell’ultimo frame in cui salutava il padre, che per tutta la pellicola – e la vacanza – ha cercato di essere felice per lei, ma che in realtà era evidentemente e profondamente angosciato.

E che, per questo, si è probabilmente tolto la vita.

Cosa significa il titolo di Aftersun?

Il titolo di Aftersun ha una doppia valenza.

A livello prettamente materiale, l’aftersun è il doposole che Calum mette ogni sera alla figlia, per evitare le scottature. A livello invece metaforico, l’aftersun può essere letto come una sorta di cura per il trauma subito dalla protagonista – ovvero la perdita del padre.

E la cura può essere proprio la visione del filmino delle vacanze…

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2023 Antman Avventura Azione Cinecomic Comico Drammatico Fantascienza Film MCU Nuove Uscite Film

Antman and the Wasp: Quantumania – Is this Antman?

Antman and the Wasp – Quantumania (2023) di Peyton Reed è il terzo film dedicato al personaggio di Antman – o, almeno, lo dovrebbe essere. Un prodotto che neanche si pensava di fare in prima battuta, visto lo scarso riscontro commerciale dei film dedicati a questo personaggio.

Nonostante tutto, il film ha incassato finora 357 milioni di dollari in tutto il mondo, prospettando un buon guadagno, che sicuramente ripagherà l’investimento di 200 milioni.

Di cosa parla Antman and the WaspQuantumania?

Dopo gli eventi di Endgame, Scott Lang sta cercando di vivere una vita normale con la sua famiglia, in particolare con la figlia adolescente. Ma la stessa ha una sorpresa in serbo per lui…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea – ma vi sconsiglio di guardarlo, visto quanto è spoileroso:

Vale la pena di vedere Antman and the WaspQuantumania?

Paul Rudd e Evangeline Lilly in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

Sì e no.

Non lo considero un film totalmente da buttare: ha molte idee buone sulla carta e un villain veramente incredibile, ma entrambi sono davvero mal sfruttati, per via di una scrittura molto carente, in particolare nei dialoghi e in certe battute al limite dell’agghiacciante – livello Thor Love & Thunder (2022) per capirci.

Un film che non sconsiglio in toto, ma che non mi sento di raccomandare se cercate un film su Antman.

Non lo è.

Un inizio brillante

Paul Rudd e Kathryn Newton in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

Nelle battute iniziali del film ero fiduciosa.

L’incipit sembra davvero proprio di un film di Antman, con la sua gustosa ironia e con Scott al centro della scena. E ho anche il sospetto che fosse veramente l’incipit di un film dedicato ad Antman, ma che poi risulta del tutto inutile nel contesto generale della pellicola.

Infatti, a parte questi pochi minuti iniziali, il film manca totalmente di un atto introduttivo, che lasci un po’ di respiro allo spettatore prima di immergerlo nel cuore della narrazione. Così, nel giro di neanche venti minuti, i protagonisti sono già nel Regno Quantico e già si parte immediatamente con l’azione.

E non è neanche il problema principale…

Senza sapore

Jonathan Majors in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

L’idea sulla carta era quella di costruire un primo atto basato sulla minaccia incombente di Kang, spiegare il passato di Janet tramite flashback, mostrare la potenza e la malvagità del villain e poi arrivare allo scontro finale.

Nella pratica, queste idee non sono sorrette da una buona scrittura.

La maggior parte degli snodi narrativi non sono ben raccontati e appaiono poco credibili. Due su tutti: la genialità riscoperta di Cassie e del suo macchinario costruito in segreto, e sopratutto Janet che non racconta qualcosa di così fondamentale come la presenza di Kang. Senza parlare della conversione di Modok: sulla carta ha perfettamente senso, ma accade per tutti i motivi sbagliati.

Jonathan Majors in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

E questo anche per i dialoghi veramente scritti male, deboli e per certi versi imbarazzanti, sopratutto quando scadono in un umorismo davvero infantile, che probabilmente potrà far divertire un pubblico molto giovane, ma che a me non ha per nulla coinvolto.

Altrettanto poco mi ha coinvolto la sottotrama dei popoli distrutti da Kang: gli viene dedicato pochissimo spazio, tanto che non abbiamo modo per conoscere i personaggi e la loro storia, a cui invece era importante dedicare la parte centrale.

In questo modo, invece, non sappiamo niente di loro e ancora meno ci interessa della loro sorte nella battaglia finale.

Parliamo di Kang

Jonathan Majors in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

Kang è l’elemento più forte del film.

Ma anche lui non manca di difetti.

Jonathan Majors riesce indubbiamente, con la sua presenza scenica, a raccontare un villain minaccioso e profondamente malvagio, un villain da temere. Tuttavia, la messinscena non lo premia del tutto in questo senso: viene raccontato il suo enorme ed inimmaginabile potere, ma alla fine lo stesso non viene davvero mostrato nell’effettivo.

Si temeva l’effetto Captain Marvel, per cui il personaggio sarebbe risultato troppo potente?

Comunque tutta la drammaticità e l’interesse per il personaggio mi è abbastanza scesa nel mid-credit con i vari Kang: nonostante indubbiamente l’attore si sia impegnato nel caratterizzare diversamente le sue varie versioni, il loro character design mi è sembrato veramente molto dozzinale.

Senza considerare i preoccupanti cori da stadio dei vari Kang, quasi scimmieschi…

Il ridicolo

I prodotti MCU sono sempre stati per la maggior parte caratterizzati da un umorismo piuttosto frizzante e giocoso.

Tuttavia, ultimamente, hanno smesso di farmi ridere, complice un umorismo davvero infantile e poco indovinato, che purtroppo ha cominciato a caratterizzare questi prodotti già con Thor Love & Thunder (2022) e con She Hulk (2022).

In questo film, il picco di bruttezza per me è Modok.

Il suo personaggio è veramente troppo, da ogni punto di vista: non mi ha fatto ridere sostanzialmente mai, e mi sono sentita in particolare veramente imbarazzata davanti alla sequenza dedicata alla sua morte. Ed è anche preoccupante che lo abbiano caricato della maggior parte della linea comica, quando il film ha – o dovrebbe avere – come protagonista un personaggio che si presta così ben al ruolo di comic relief.

Un rapporto buttato in faccia

Paul Rudd e Kathryn Newton in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

Il rapporto fra Cassie e Scott era sempre stato molto importante sia per la caratterizzazione del protagonista, sia per il coinvolgimento emotivo che portava.

Era evidente che a questo punto il loro rapporto doveva essere riscritto e raccontato in una veste nuova, in quanto Cassie è ormai un’adolescente. Tuttavia, l’inizio del loro arco narrativo doveva essere posta nell’incipit, ma, come abbiamo visto, a questa parte si lascia pochissimo spazio.

Durante il film più in generale la costruzione del loro rapporto è molto debole e vive di spunti poco esplorati. Ma, nonostante questo, il loro rapporto è continuamente sbattuto in faccia allo spettatore, in maniera alla lunga davvero fastidiosa – quasi come se la pellicola fosse consapevole della mancanza di ulteriori elementi a supporto…

Una trama per tutti

Paul Rudd, Kathryn Newton e Kathryn Newton in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

A visione conclusa, mi sono resa drammaticamente conto di come questo non sia un film su Antman.

È un film su Kang.

Evidentemente Antman and the Wasp – Quantumania è stato pensato per introdurre Kang come villain della Fase Multiversale, che avrà il suo picco con Avengers: Secret Wars (2026). E, per questo, molti altri personaggi si sarebbero prestati perfettamente per questa trama e per questa ambientazione – i Guardiani e Thor, per esempio.

Quindi, con ogni evidenza questo non è un film ideato per chiudere la trilogia di Antman.

La bellezza del personaggio infatti era di essere un eroe urbano con ambientazioni molto terrene, con un taglio narrativo simpatico e giocoso. E nonostante si potessero esplorare anche ambientazioni e trame differenti, sarebbe stato bello se lo si fosse fatto avendo in mente di mettere in scena un film dedicato a questo personaggio, appunto.

E la mancanza dei personaggi secondari degli altri due film è piuttosto indicativa in questo senso…

Dove si colloca Antman and the Wasp: Quantumania?

Antman and the Wasp – Quantumania è fondamentale nel racconto complessivo dell’MCU, soprattutto della nuova fase.

Infatti introduce sul grande schermo il villain della Fase Multiversale ed è non molto successivo a Endgame (2019), quindi si ambienta probabilmente nel 2024.

È il primo film della Fase 5.

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2022 Avventura Commedia nera Dramma storico Drammatico Film Humor Nero Martin McDonagh Nuove Uscite Film Oscar 2023 Surreale

Gli spiriti dell’isola – La piccola guerra

Gli spiriti dell’isola (2022) di Martin McDonagh – traduzione piuttosto maldestra del titolo originale The Banshees of Inisherin – è uno dei più importanti film candidati agli Oscar 2023, oltre ad essere una delle maggiori sorprese di quest’anno.

A fronte di un budget piuttosto risicato – appena 20 milioni di dollari – ha prevedibilmente incassato davvero poco: appena 33 milioni di dollari in tutto il mondo (finora).

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Gli spiriti dell’isola (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior regista
Miglior attore protagonista a Colin Farrell
Miglior attore non protagonista a Brendan Gleeson
Miglior attore non protagonista a Barry Keoghan
Miglior attrice non protagonista a Kerry Condon
Migliore colonna sonora
Miglior sceneggiatura originale
Miglior montaggio

Di cosa parla Gli spiriti dell’isola?

1923, Irlanda. L’amicizia fra Pádraic e Colm si interrompe improvvisamente, per volontà del secondo, che si rifiuta addirittura di parlargli. E la sua ottusità raggiunge livelli inaspettati…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gli spiriti dell’isola?

Colin Farrell in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Assolutamente sì.

Gli spiriti dell’isola è un film particolarissimo, e neanche facilmente digeribile – complice l’umorismo veramente nerissimo e la profonda angoscia che lascia a visione conclusa. Una di quelle pellicole incredibili in cui, da un momento all’altro, riesci a passare da una risata fragorosa ad un totale ammutolimento.

Ma, proprio per questo, un film assolutamente da recuperare.

Il titolo originale è The Banshees of Inisherin.

Inisherin è semplicemente il luogo dove è ambientata la vicenda, mentre per le banshee bisogna fare un discorso a parte.

Il film dà abbastanza per scontata la conoscenza di tale figura mitologica, ma in realtà è meno diffusa di quanto si potrebbe pensare. Per esempio, io non conoscevo la mitologia specifica, ma le reinterpretazioni della serie tv Teen wolf e del videogame The Witcher 3.

La banshee è una creatura leggendaria dei miti irlandesi e scozzesi, la quale, a seconda delle tradizioni, ha un’accezione positiva o negativa. In generale, si tratta di una figura mitologica legata alla morte.

È infatti invisibile agli occhi degli esseri umani, se non quando questi sono prossimi al decesso, mostrandosi avvolta in un pesante velo, piangendo o addirittura gridando davanti all’inevitabile trapasso.

Sotto la superficie

Colin Farrell e Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Apparentemente Gli spiriti dell’isola racconta la storia di un’amicizia finita, che prende delle vie sempre più surreali e grottesche per via dell’ottusità di Colm.

In realtà, la pellicola racconta molto di più.

L’indizio visivo principale viene mostrato quando, all’inizio del film, Pádraic vede una colonna di fumo che rappresenta i lontani disordini della Guerra Civile. E la stessa colonna di fumo la vede quando dà fuoco alla casa del suo amico.

E proprio in questo parallelismo si racchiude il vero significato del film.

Colin Farrell e Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Proprio parallelamente alla storia principale della pellicola, si svolgono gli avvenimenti della Guerra Civile Irlandese. La stessa scoppiò a seguito della Guerra d’Indipendenza Irlandese, che portò ad un trattato di pace con l’Impero Britannico.

Un trattato che, però, non venne accettato da tutti.

E, nonostante diversi tentativi di rappacificamento delle parti, scoppiò una guerra drammaticamente sanguinosa, dove si trovano a combattere l’uno contro l’altro amici e persino fratelli, tutto per l’ottusità, da entrambe le parti, di non voler arrivare ad un compromesso.

Il picco avvenne negli ultimi momenti del conflitto, quando ci furono il maggior numero di vittime e diversi incendi alle case dei nemici.

Vi suona familiare?

Gli spiriti dell’isola è sostanzialmente una Guerra Civile Irlandese in piccolo.

L’ottusità e le cinque dita

Colin Farrell e Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Il perpetuarsi del conflitto è quasi del tutto dettato dall’ottusità di Colm, che si rifiuta insistentemente di riallacciare i rapporti con il suo amico.

E proprio la sua ottusità viene ben rappresentata dalla minaccia – e realizzazione – dell’amputazione delle dita, che si presta a diverse interpretazioni. Andando infatti ad indagare le intenzioni del regista, la stessa può essere ricollegata ad una paura atavica dell’artista: perdere lo strumento della sua arte.

Tuttavia Colm concretizza questa realtà volontariamente, quasi a volersi togliere ogni possibilità di diventare veramente l’artista che sogna di essere, ricordato nei secoli, in una sorta di perversa spirale autodistruttiva.

Ma, più semplicemente, può essere letta come rappresentazione di quanto Colm creda nella distruzione del rapporto con Pádraic.

Umani

Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

La forza de Gli spiriti dell’isola è di riuscire a raccontare, pur nella sua follia, una vicenda profondamente umana.

Colm e Pádraic hanno due caratteri totalmente opposti, ed è anche in qualche misura comprensibile che il più vecchio dei due non abbia voglia di perdere altro tempo con il più giovane e la sua insopportabile stupidità. Andandosi, fra l’altro, del tutto ad isolare in un contesto già molto isolato.

E le dinamiche con cui i due personaggi si relazionano appaiono vere e profonde, anche quando virano sul lato più surreale e grottesco.

La scena che mi ha più colpito è quella in cui Pádraic viene colpito dal poliziotto, e Colm lo raccoglie da terra e conduce il suo carro fino a casa. In quel momento di apparente calma e riconciliazione, Pádraic scoppia in un pianto sommesso ma profondamente sofferto, un pianto nostalgico per qualcosa di apparentemente irrisolvibile.

La morte

Barry Keoghan in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Gli spiriti dell’isola parla non solo di amicizia e conflitto, ma anche e soprattutto di morte.

E il titolo ne è indizio fondamentale.

La banshee più facilmente identificabile è ovviamente Mrs. McCormick, che appare proprio come la vecchia megera, l’uccellaccio che prevede – e augura – la morte. In realtà, come abbiamo visto, queste figure mitologiche non sono altro che osservatrici e cassandre, quindi si limitano ad annunciare la morte imminente.

E il titolo non indica una sola banshee, ma diverse banshee.

Colin Farrell e Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

In questo caso si aprono più interpretazioni: si potrebbe considerare come banshee tutti i membri della comunità dell’isola, che vedono chiaramente lo scoppio del conflitto con le sue nefaste conseguenze.

Oppure, più sottilmente, si potrebbero considerare banshee gli animali stessi, che sono parte dominante della scena in diverse occasioni, testimoni silenziosi del dramma in atto.

Da notare anche l’interessante foreshadowing sul destino nefasto di Dominic: fin dall’inizio il ragazzo tiene in mano uno strumento di morte, il bastone che serve per raccogliere i cadaveri caduti in acqua, dove infatti morirà.

E lo stesso bastone, dopo la sua morte, sarà in mano a Mrs. McCormick…

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2022 Biopic Drammatico Film Musical Oscar 2023

Elvis – Il divo in vendita

Elvis (2022) di Baz Luhrmann è un biopic dedicato alla figura immortale di Elvis Presley, icona assoluta della musica rock. Un prodotto che avrebbe potuto seguire le vie più semplici e monotone tipiche del genere.

E invece, nonostante tutto, mi ha sorpreso.

Un buon incasso per una pellicola sicuramente ambiziosa: 85 milioni di dollari di budget e un incasso di 287 milioni di dollari in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Elvis (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior attore protagonista per Austin Butler
Migliori costumi
Miglior sonoro
Migliore trucco e acconciatura
Miglior scenografia
Migliore fotografia
Miglior montaggio

Di cosa parla Elvis?

La pellicola è dedicata alla parabola di crescita e rovina di una delle più importanti star della storia della musica, raccontata attraverso lo sguardo del suo manager, accusato di averlo sfiancato fisicamente ed emotivamente...

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Elvis?

Austin Butler come Elvis Presley in una scena di Elvis (2022) di Baz Luhrmann

Assolutamente sì.

Elvis sicuramente non è un film perfetto, indubbiamente basa la sua trama su una costruzione emotiva molto – forse troppo – polarizzata, forse anche a discapito della realtà storica della vicenda.

Tuttavia, tutta la costruzione tecnica e artistica è spettacolare.

Dopo avermi ampiamente emozionato con Il Grande Gatsby (2013), a dieci anni di distanza Baz Luhrmann continua a sorprendermi con la sua creatività esplosiva, la sua cura nei dettagli, la sua perfetta conduzione degli attori.

Senza parlare poi dell’incredibile performance attoriale di Austin Butler.

Un nuovo divo?

Austin Butler come Elvis Presley in una scena di Elvis (2022) di Baz Luhrmann

Parlando di Elvis, non si può non elogiare l’incredibile performance di Austin Butler – per cui fra l’altro è stato candidato per Miglior attore protagonista agli Oscar 2023.

Non solamente questo promettente attore ricalca in maniera assolutamente credibile la fisionomia della star che interpreta, ma è riuscito a stupire il pubblico spingendo i limiti della sua recitazione al massimo delle sue possibilità.

E per un ruolo tutt’altro che semplice.

È davvero meraviglioso vedere attori che si sono fatti la gavetta per anni in prodotti di seconda (se non terza) categoria – nel caso di Butler in The Carrie Diaries e The Shannara Chronicles, fra gli altri – sbocciare fra le mani di un capacissimo regista.

Ma già in Once upon a time in Hollywood (2019) si era fatto conoscere…

Il potere del make-up

Tom Hanks e Austin Butler come Elvis Presley in una scena di Elvis (2022) di Baz Luhrmann

Per Tom Hanks è praticamente impossibile interpretare personaggi negativi.

Infatti, con quel suo volto rassicurante, non sarebbe mai credibile nel ruolo di villain. Ma Luhrmann non si è sicuramente fatto frenare, utilizzando sapientemente tutto il potere trasformativo del make-up e lasciando il resto in mano a questo fantastico interprete.

E, nella sua follia, Tom Hanks è stato perfetto nel ruolo dell’avido approfittatore, della serpe in seno, riuscendo, con le sue grandi capacità retoriche, ad ingabbiare il divo per tutta la sua vita.

Ma, al contempo, è anche un difetto della pellicola.

La polarizzazione

Tom Hanks e Austin Butler come Elvis Presley in una scena di Elvis (2022) di Baz Luhrmann

Un difetto della pellicola è l’eccessiva polarizzazione dei personaggi.

Personalmente non conosco nei dettagli la biografia di Elvis Presley. Tuttavia, mi viene anche facile pensare che la sua storia fosse meno netta di come il film la racconta. In Elvis il protagonista è la totale vittima della situazione, senza che venga messo in scena nessun suo possibile – e probabile – difetto.

Anzi, il problema più importante – la mancata presenza in famiglia – è ridimensionato proprio raccontandolo come vittima, anche di se stesso.

Un difetto, se così vogliamo chiamarlo, che non mi ha guastato la godibilità della pellicola, né che in realtà va eccessivamente a rovinare la bellezza del prodotto. Tanto più che non spinge troppo l’acceleratore su un altro problema tipico di questo tipo di pellicole.

La drammatizzazione.

Non drammatizzare

Austin Butler come Elvis Presley in una scena di Elvis (2022) di Baz Luhrmann

Le storie di questi personaggi, queste icone, è facilmente puntellata da grandi e piccole tragedie.

E fin troppo spesso si tende a creare dei prodotti molto standardizzati, il cui andamento è assolutamente prevedibile: la star viene scoperta, raggiunge l’apice, vive un momento di dramma, sipario. Anche andando ampiamente ad inventare, come era stato per esempio con il recente Bohemian Rapsody (2018).

Non è il caso di Elvis.

Nonostante la vita del protagonista sia stata indubbiamente molto tragica, non si è voluto eccessivamente raccontare una tragedia, né seguire un percorso già rodato. Al contrario il film racconta più che altro una vicenda di alti e bassi, che era drammatica fin dall’inizio.

E con una chiusura senza sbavature.

L’erotizzazione del maschile in Elvis

Un focus interessante della pellicola è sull’erotismo di Elvis come chiave del suo successo (e insuccesso).

All’interno di un contesto come quello degli Anni Cinquanta – Sessanta in cui la sessualità – sopratutto quella femminile – era molto limitata, financo castrata, vedere un certo tipo di movenze e di atteggiamenti non poteva che far perdere la testa.

E si mostra bene la naturalezza del personaggio in questi atteggiamenti, lasciando anche il giusto spazio ad una sorta di queerness, che divenne poi col tempo tipica delle star della musica rock, ma che al tempo era considerata scandalosa.

Un elemento non solo ottimamente trattato, ma che mi permesso di scoprire qualcosa di nuovo sul suo personaggio.

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2022 Comico Damien Chazelle Dramma storico Drammatico Film Nuove Uscite Film Oscar 2023

Babylon – Il cinema che resta

Babylon (2022) è l’ultima pellicola di Damien Chazelle, regista che ha avuto il suo picco di popolarità con La la land (2016), ma che ha già dimostrato di poter spaziare in diversi generi.

Anche in questo caso.

Il film si sta purtroppo rivelando un flop commerciale: a fronte di un budget di 75 milioni di dollari, finora ne ha incassati solo 15…

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Babylon (2022)

(in nero i premi vinti)

Migliori costumi
Miglior scenografia
Migliore colonna sonora

Di cosa parla Babylon?

All’interno del cinema della fine degli Anni Venti, sulla soglia della sua più grande rivoluzione, si intrecciano le storie di diversi personaggi.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Babylon?

Margot Robbie e Diego Luna in una scena di Babylon (2022) di Damien Chazelle

Assolutamente sì.

Nonostante la pellicola sia stata seppellita dalla critica statunitense – anzi, forse proprio per questo motivo – Babylon è arte pura, un racconto del profondo amore di Chazelle per la Settima Arte.

Pur con una durata veramente importante, è un film che racchiude l’apice della capacità artistica di questo regista, con degli interpreti straordinari, in particolare una Margot Robbie al massimo della forma.

Consiglio a latere: se non avete mai visto Singing in the rain (1952), vi consiglio caldamente di recuperarvelo prima della visione.

Un cinema vero

Brad Pitt in una scena di Babylon (2022) di Damien Chazelle

Un grande pregio di Babylon è il riuscire a raccontare, fra il drammatico e il grottesco, cosa significava – e cosa significa – girare un film.

Un cinema disordinato, caotico, genuinamente pericoloso, dove soprattutto le più umili maestranze e comparse venivano facilmente sacrificate – anche letteralmente. Un cinema più complesso, in cui si girava tutto con la luce naturale, con mezzi quasi casalinghi.

E il passaggio al cinema degli studios non rese le cose più semplici…

Con risultati fra il comico e il grottesco.

Jack Conrad

La morte del divo

Brad Pitt in una scena di Babylon (2022) di Damien Chazelle

Jack Conrad è la figura più drammatica fra i protagonisti.

Inizialmente lo vediamo come il divo intoccabile, che si muove in una consolidata rete di conoscenze e favori, la quale, insieme alla sua furbizia, gli permette di avere successo. Tuttavia da metà film la sua stella comincia lentamente a calare, in maniera inizialmente quasi impercettibile.

Ma inevitabile.

Segue fondamentalmente lo stesso arco del protagonista di The Artist (2011), ma con un esito molto più drammatico.

Ma proprio intorno a lui si sviluppa il principale concetto della pellicola: essere parte di un cinema che rimarrà, anche se ora sembra spacciato. Ma, alla fine, la pesantezza di questa conclusione, la sensazione di non avere più posto nel mondo che dava tutto il senso alla sua esistenza, costringe Jack ad uscire di scena.

Nellie LaRoy

Un minuto di fama

Morgot Robbie in una scena di Babylon (2022) di Damien Chazelle

Nellie racconta in maniera molto disincantata la difficoltà di sfondare ad Hollywood, su come sia tutto basato su raccomandazioni e colpi di fortuna.

Del tutto casualmente infatti Nellie riesce a mostrare il suo talento nella recitazione – la classica situazione di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. E Margot Robbie regge perfettamente la parte, riuscendo con grande abilità ad entrare e uscire dal personaggio in scena.

Ma la fama improvvisa, come prevedibile, svanisce nel giro di pochi anni.

Perché, come tante dive prima di lei, Nellie è schiava dei vizi e dell’eccesso, e, quando arriva il momento, non riesce in alcun modo a riabilitare la sua immagine davanti alla buona società.

Così in qualche modo non riesce mai ad uscire dal suo personaggio, lo stesso che l’aveva portata alla gloria.

E infine viene inghiottita dal buio della scena.

James Mckay

La discesa nell’inferno

Tobey Mcguaire in una scena di Babylon (2022) di Damien Chazelle

Prima di parlare del vero protagonista del film, voglio fare una menzione d’onore a Tobey Maguire.

Lontano dalle scene per tanto tempo e tornato solo recentemente per Spiderman – No way home (2021), in Babylon dimostra che qualcosa è cambiato. Sarà perché nelle abili mani di Chazelle, l’attore è riuscito a portare un personaggio che funziona perfettamente fra l’orrore e il grottesco.

La sua sequenza è un’effettiva discesa negli inferi, definita da lugubri tinte rossastre, in cui Mckay ci accompagna, ci trascina attraverso questa tenebra paurosa. Un paesaggio pieno di mostri, violenza e erotismo.

La versione orrorifica della sequenza iniziale della festa.

Manny Torres

Il cinema che rimane

Diego Luna in una scena di Babylon (2022) di Damien Chazelle

Manny Torres rappresenta perfettamente il modello del self-made man.

Partendo dal nulla, ricoperto da sterco di elefante, riesce, sempre grazie all’ultimo capriccio del divo, a farsi prepotentemente strada nel mondo dello show business. Ma il suo vero obbiettivo è quello di salvare Nellie, il suo oggetto del desiderio.

Da questo punto di vista è davvero interessante il racconto di come si costruisce – e ricostruisce – l’immagine pubblica di un attore.

Ma Nellie è insalvabile.

E alla fine Manny sceglie di scappare e salvare sé stesso, tornando ad Hollywood solamente molti anni dopo, quando il cinema è profondamente cambiato.

Regalandoci una scena di incredibile potenza visiva.

Raccontare il cinema

Se non si ha una conoscenza almeno basilare della storia del cinema – anche legittimamente – si potrebbe non comprendere fino in fondo la potenza della sequenza finale.

In generale, Babylon è un enorme omaggio a Singing in the rain (1952), che è proprio il film che Manny va a vedere in sala. In quel momento si rende conto di quanto, nonostante la fine drammatica degli altri personaggi, le loro storie abbiano contribuito a scrivere e costruire la storia del Cinema.

E da lì parte una lunga sequenza in cui sì va avanti e indietro nel mostrare tutto quello che il Cinema ci ha regalato – da L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat (1896) a Un chien andalou (1929), fino ad arrivare ad Avatar (2009).

Fino a distruggere l’immagine in semplici colori primari che si susseguono.

Con il finale che racconta la sua commossa consapevolezza.

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Bardo – Alla ricerca del nulla

Bardo La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu è un film di genere surreale misto al biopic, prodotto e distribuito da Netflix. Il regista, che ha avuto il suo successo internazionale con Birdman (2014) e The Revenant (2015), torna sui suoi passi con un’opera più intima e personale.

Forse anche troppo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Bardo – La cronaca falsa di alcune verità (2022)

(in nero i premi vinti)

Migliore fotografia

Di cosa parla Bardo?

Silverio è un giornalista e documentarista messicano, che verrà premiato negli Stati Uniti per il suo ultimo documentario. E questo gli crea diversi ripensamenti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Bardo?

Daniel Giménez-Cacho García in una scena di Bardo - La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu

Tendenzialmente, no.

Avendo avuto già una complessiva piacevole esperienza con il cinema di Iñárritu, riesco ad essere leggermente più morbida nella valutazione di questa pellicola, e non cadere nel totale respingimento come era stato per Madre! (2017).

E per certi versi i due film non differiscono molto.

Mi sono trovata davanti, in entrambi i casi, a due prodotti con un’interessante idea alle spalle, che però il regista è stato incapace di portare sullo schermo in maniera veramente interessante, diventando eccessivo e inutilmente ridondante.

È il classico film che potrebbe essere adorato da alcuni, anche per affezione nei confronti del regista, e invece odiato da altri. Se vi sentite molto vicini al suo cinema e ad Iñárritu umanamente parlando, e sopratutto vi piacciono i film con taglio profondamente onirico e surreale, potrebbe anche piacervi.

Io, personalmente, non lo consiglio.

Il problema del surreale

Daniel Giménez-Cacho García in una scena di Bardo - La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu

Il genere surreale è uno dei miei preferiti, a livello davvero crossmediale: che sia cinema, fumetti, libri, è un taglio narrativo che apprezzo quasi sempre.

Proprio amandolo così tanto, sono anche consapevole che sia un’arma a doppio taglio: alla base di un racconto di questo tipo ci deve essere un’idea forte, che funzioni, e che riesca ad essere distribuita organicamente all’interno di una storia.

E non è così semplice.

Se non si riesce a gestirla con la giusta capacità e intelligenza, si rischia facilmente di andare ad impelagarsi in una narrazione che appare fine a se stessa, che magari ha un significato di base, ma che alla fine non si riesce a trasmettere.

E questo è un po’ tutto il problema di questa pellicola.

Inaccessibile

Daniel Giménez-Cacho García e Fabiola Guajardo in una scena di Bardo - La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu

Per quanto un autore voglia arroccarsi nella sua torre d’avorio e sentirsi incompreso, se la sua opera non viene letta e fruita, scompare.

E così, se un film è comprensibile solo per il suo autore, è un film solo per se stesso.

In Bardo troviamo un racconto fondamentalmente autobiografico e sicuramente sentito, ma che per molte parti diventa comprensibile solamente al regista stesso. Se infatti lo spettatore può complessivamente comprendere il messaggio di base, si perde inevitabilmente nell’oceano di riferimenti e di costruzioni della pellicola.

Ovviamente non mancheranno molti spettatori che avranno solo che piacere a perdersi nell’immensità del racconto dell’interiorità del regista, andandone a scovare tutti i significati nascosti.

Non è il mio caso.

Mancanza di interesse

Daniel Giménez-Cacho García in una scena di Bardo - La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu

A livello di esperienza personale, il film non solo mi ha confuso, ma ha smesso di interessarmi praticamente da subito.

Infatti ho seguito la narrazione di Iñárritu fin dove questa mi intrigava, ma mi sono bloccata davanti alla mancanza di chiavi di lettura possibili e a questa narrazione sicuramente intima e sentita, ma inaccessibile e, in ultimo, poco interessante.

Esistono diverse opere – anche al di fuori dal mondo del cinema – che sono difficili da leggere e che presentano diverse chiavi di lettura. È il caso ad esempio di I’m Thinking of Ending Things (2020), uno dei film più complessi che abbia mai visto in vita mia. Tuttavia, in quel caso, mi sono trovata davanti ad un’opera aperta e piena di significati, che avevo interesse di scoprire.

In questo caso, l’unico modo per comprenderla sarebbe farmela spiegare dal regista stesso.

Mettere le mani avanti

Daniel Giménez-Cacho García in una scena di Bardo - La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu

C’è solo un elemento che mi ha fatto veramente arrabbiare di questa pellicola.

Come anche abbastanza comprensibile, davanti ad un’impresa così complessa come questa produzione Iñárritu si è sentito già sommerso dalle critiche che avrebbe potuto ricevere. E per questo ha deciso di rispondere alle stesse nella pellicola.

E nella maniera più antipatica e pretenziosa possibile.

Durante la festa infatti, il protagonista parla col pomposo Luis, che critica pesantemente il suo documentario. Così, metanarrativamente parlando, critica l’opera stessa di cui fa parte, dando voce a delle critiche che sinceramente io mi sento abbastanza di avvallare:

I think it’s pretentious. It’s pointless oneric. It’s oneiric cover up for your mediocre writing.

È pretenzioso. Inutilmente onirico. Lo è per mascherare la scrittura mediocre.

E davanti alla scena in cui il personaggio, e quindi il regista stesso, silenzia questa opinione – letteralmente – mi sono sentita personalmente colpita.

E non positivamente.