Anatomia di una caduta (2023) di Justine Triet è stato uno dei film più chiacchierati della Stagione dei Premi 2024, grazie alla vittoria della Palma d’Oro a Cannes.
A fronte di un budget molto ridotto – appena 6,2 milioni di dollari – complessivamente è stato un successo commerciale: 26 milioni di incasso in tutto il mondo.
Candidature Oscar 2024 per Anatomia di una caduta(2023)
in neretto le vittorie
Miglior film Miglior regia Migliore attrice protagonista a Sandra Hüller Miglior sceneggiatura originale Miglior montaggio
Di cosa parla Anatomia di una caduta?
Samuel muore per via di una misteriosa caduta. E tutto punta verso la moglie, Sandra…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Anatomia di una caduta?
Assolutamente sì.
Anatomia di una caduta è uno splendido legal drama che riesce dove molti film del genere di riferimento falliscono: essere una storia credibile, in cui molti spettatori possono potenzialmente riconoscersi.
Infatti, in qualche modo noi stessi diventiamo i giurati che assistono alla cinica e spietata dissezionedella vita della protagonista e del suo rapporto col marito, tutto tranne che chiaro, anzi piuttosto fraintendibile…
Insomma, da non perdere.
Sandra Hüller
Sandra è una cattiva madre.
Infatti, dalle prove emerge come tutto il peso della famiglia e del benessere del figlio fossero sulle spalle del marito, e di come lei fosse invece profondamente egoista e poco presente.
Ancora di più, durante il processo viene tenuta lontano dal figlio, non solo per motivazioni legali, ma anche e soprattutto per evitare che possacorrompere il bambino con le sue ideedeviate.
Sandra è una ladra.
La sua colpa è di aver rubato un’idea strabiliante del marito e di averla resa sua, creando un prodotto di successo, per cui non ha mai avuto un’effettiva approvazione da parte del suo compagno.
Al riguardo, Samuel utilizza un verbo piuttosto specifico: plunder, saccheggiare, come se la moglie fosse un intruso che avesse messo le mani su una cosa sua, arricchendosi alle sue spalle…
Sandra Hüller
Sandra è una straniera.
Nonostante abbia accettato di vivere nella casa natale del marito, ancora non è capace di esprimersi chiaramente in francese, tanto da infine preferire l’utilizzo dell’inglese anche durante il processo.
Così è come se la donna e l’accusa parlassero due lingue differenti: da una parte una cauta difesa ad una situazione piuttosto fumosa e fraintendibile, dall’altra una lingua netta e feroce che la vuole mettere alla gogna.
Sandra è una traditrice.
Proprio quando il marito avrebbe avuto più bisogno di lei, ha scelto di tradirlo, prima dicendoglielo direttamente, poi agendo ancora una volta alle sue spalle – e, ancora una volta, umiliandolo.
Un tradimento che, per la sua stessa natura di ambigua bisessuale, era sul punto di compiersi sicuramente anche nel giorno della stessa morte del marito, della sua ulteriore umiliazione.
Sandra è violenta.
Da quelle registrazioni fatte alle sue spalle viene fatta apparire come un’attaccabrighe. come una donna tremendamente apatica, che ha messo le mani addosso al compagno una volta…
…e allora come potrebbe non averlo fatto una seconda?
Eppure, Sandra è la vittima.
Vittima di un uomo che non riusciva più a vivere serenamente, che aveva da tempo abbandonato un’idea costruttiva della sua vita, per farsi invece travolgere da una spirale autodistruttiva…
…in cui lui figurava come l’unica, intoccabile vittima.
Samuel Anatomia di una caduta
Samuel è la vittima.
Per anni ha cercato di sfondare, di essere una persona di successo, di creare qualcosa di concreto, qualcosa di suo, di cui potersi vantare, e non invece di cui essere semplicemente e inevitabilmente invidioso.
Così ha finito per lasciare incompiuto un possibile bestseller di grandissimo successo, proprio per quel blocco dello scrittore che nessuno sembrava capire, e per cui non ha mai ricevuto nessun aiuto.
Samuel è un papà speciale.
Benché colpevole della disabilità del figlio, ha cercato di guarirla, occupandosi direttamente della sua educazione, del dargli punti di riferimento per muoversi in uno spazio completamente nuovo.
Un lavoro che, almeno nella sua idea, gli ha permesso di intrecciare con il bambino un rapporto speciale, che altrimenti non sarebbe stato possibile, ma che al contempo gli ha impedito di essere uno scrittore di successo.
Samuel è un ottimo marito.
Un marito che ha cercato di riparare al suo matrimonio trascinando la moglie in una realtà sconosciuta e ostile, proprio per riuscire a ricostruire qualcosa – la loro nuova casa – ma, proprio come il libro, finendo per lasciarla a metà.
Come se questo non bastasse, Samuel è diventato paranoico davanti ai possibili nuovi tradimenti della moglie, che potevano avvenire in un qualunque momento, persino per via di un’innocua intervista.
Samuel è la vittima…
…ma di sé stesso.
Accorgendosi di non aver costruito la vita che desiderava, la carriera dei sogni, ha cominciato sistematicamente a piangersi addosso, a cercare i veri colpevoli del suo fallimento.
E così ha messo in scena l’omicidio perfetto, in cui pezzi del puzzle meticolosamente scelti andavano a raccontare un matrimonio violento e ostile, una vita sofferta, ma un uomo che non si era mai arreso…
The Holdovers (2023) di Alexander Payne è stata la grande rivelazione della stagione dei premi 2024, facendo incetta di riconoscimenti.
A fronte di un budget di circa 70 milioni, si sta purtroppo rivelando di un grande insuccesso commerciale, con appena 30 milioni di incasso…
Candidature Oscar 2024 per The Holdovers (2023)
in neretto le vittorie
Miglior film Miglior sceneggiatura originale Migliore attore protagonista a Paul Giamatti Miglior attrice non protagonista a Da’Vine Joy Randolph Miglior montaggio
Di cosa parla The Holdovers?
Paul Hunham è un bisbetico professore di un collegio, che si trova a dover gestire un gruppo di adolescenti durante le vacanze natalizie…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere The Holdovers?
Assolutamente sì.
The Holdovers è stata una piccola scoperta di quest’anno, per una commedia piacevolissima ed estremamente irriverente, che però riesce a rimanere sempre con i piedi per terra e a non scadere mai nel facile dramma – per quanto ce ne fossero tutti i presupposti…
Paul Giamatti e la stella nascente Dominic Sessa sono una coppia irresistibile in una storia agrodolce e che non manca di interessanti colpi di scena, oltre ad una morale di fondo che per lunghi tratti mi ha ricordato L’attimo fuggente(1989).
Insomma, da non perdere.
Dominic Sessa The Holdovers
Nonostante cerchi di raccontarsi diversamente, Angus è un emarginato.
Fin dalla sua prima apparizione ci troviamo davanti un personaggio che cerca costantemente di fare il gradasso, riempiendosi la bocca di battute cattive e taglienti, proprio per mostrarsi ribelle, sfacciato, senza freni.
In realtà questa apparente ribellione è un disperato grido d’aiuto di un giovane che non riesce a trovare un posto in un mondo che sembra costantemente respingerlo – eproprio quando avrebbe più bisogno di essere accolto…
E questa sua solitudine lo rende ancora più cattivo.
Sarebbe superficiale derubricare il suo accanirsi contro Teddy come una reazione semplicemente al comportamento spaccone del suo compagno – sopratutto nel suo prendersela con i più deboli.
In realtà, evidentemente Angus sfoga la sua frustrazione dell’essere stato abbandonato dalla sua famiglia su quello che sembra il bersaglio ideale, proprio per definirsi in opposizione.
Angus The Holdovers
Infatti, dopo aver millantato di non essere uno degli sfigati che rimangano al collegio e di avere davanti a sé una vacanza favolosa, quando Angus riceve quella terribile telefonata dalla madre non è triste solo perché non può godere del winter break…
…ma piuttosto perché si sente abbandonato dalla sua famiglia.
Per questo, quando se la prende con Teddy, quando gli sputa in faccia parole di rara cattiveria – i tuoi genitori non ti vogliono, la ristrutturazione è solo una scusa – non fa altro che raccontare il dramma interiore che sta vivendo.
Una situazione tanto più grave quando il protagonista ha finalmente l’occasione di sfuggire all’incubo del collegio, ma la madre ancora una volta è assente e incapace di stargli accanto proprio quando ne avrebbe più bisogno.
Angus The Holdovers
Da questa situazione scaturisce una ribellione ancora più violenta.
Ritrovandosi come l’unico ragazzo veramente abbandonato dalla sua famiglia, Angus sceglie di prendere di petto quell’insopportabile adulto che cerca, come tutti gli altri, di domarlo invece che comprenderlo.
La sua ribellione si spinge fino all’autodistruzione, al dolore fisico, che ha il suo picco nella scena dell’ospedale: l’urlo straziante in cui Angus esplode non è altro che una rappresentazione effettiva della disperazione che lo sta divorando.
Ma da questa occasione scaturisce anche qualcos’altro.
Anche se apparentemente il protagonista è solo un attaccabrighe, già prima aveva dimostrato di essere molto più di buon cuore di quanto sembrasse – aiutando il povero ragazzino che aveva sporcato il letto.
Questa bontà si riflette anche in diversi momenti con Paul, con cui intreccia uno strano rapporto – diventa prima suo figlio, poi suo nipote – scegliendo in più momenti di aiutarlo e reggergli il gioco.
Angus è insomma alla ricerca di un padre
La perdita del genitore è infatti devastante su due fronti: da una parte, il ragazzo ha visto la sua famiglia andare in pezzi, proprio durante i momenti fondamentali della sua crescita – da cui la sua discontinuità nel frequentare la scuola.
Come se questo non bastasse, nell’esplosione di violenza e di irragionevolezza del genitore, in Angus è scaturita una paura quasi altrettanto illogica, ma inevitabile: diventare come suo padre.
Per questo infine Paul riesce a salvarlo.
Proprio quando Angus si trova ad un passo dalla totale distruzione, da quella svolta – passare ad una scuola militare – che lo annienterebbe e gli farebbe perdere definitivamente sé stesso…
…il professore ne prende sorprendentemente le parti, anzi si rende protagonista di quella colpa che colpa non è – il desiderio di vedere il padre – e gli offre una fondamentale seconda occasione per riscattarsi.
Paul Giamatti The Holdovers
La personalità di Paul sembra chiara fin dalla prima scena.
Un insegnante bisbetico e insostenibile, il classico bersaglio delle più crudeli dicerie e prese in giro, che non sembra fare il minimo sforzo per farsi benvolere – anzi, esattamente l’opposto.
Come se non bastasse, il personaggio di Giamatti si rifiuta di sottostare a qualunque tipo di diktat, che questo venga dalle pressioni politiche dei facoltosi genitori dei suoi studenti, o dai suoi stessi colleghi e superiori.
Insomma, la sua solitudine sembra inevitabile.
Infatti, in qualche modo Paul si è arreso.
Cresciuto in un mondo perennemente ostile – il padre opprimente, il classismo castrante – il professore ha scelto di rispondere alla violenza con una violenza anche peggiore…
…sia protestando con furia contro l’assoluta ingiustizia di essere incolpato dallo stesso colpevole, sia cercando il più possibile di mettere in riga i suoi studenti, non riuscendo però così a trasmettere loro quegli insegnamenti fondamentali di cui potrebbe farsi portatore.
Il confronto con Angus è indicativo in questo senso.
Nonostante Paul cerchi costantemente di punzecchiarlo, il ragazzo a sorpresa parla la sua stessa lingua, riesce a capire i sottili riferimenti dei suoi discorsi e comincia a scavare nella personalità di questo personaggio apparentemente così bidimensionale.
Ne emerge un uomo che sembrava destinato ad essere solo – per la puzza, per il suo aspetto poco attraente – e a non riuscire ad avere il suo riscatto sociale neanche quando viene incoraggiato a farsi avanti con la dolce Lydia.
Paul Giamatti The Holdovers
In realtà, la fuga dalla Barton Academy è la sua vera vittoria.
Paul vede moltissimo di sé stesso nel suo giovane ed improbabile compagno di viaggio: la problematicità della figura paterna, il desiderio di ribellione, l’essere ad un passo dall’autodistruggersi...
E invece, affrontando di petto i genitori di Angus, il bisbetico professore li mette finalmente davanti alle loro colpe, e finalmente si libera da quella gabbia dorata in cui si era rifugiato.
Infatti, Paul si era rintanato all’interno di un comodo guscio in cui poter essere riconosciuto per la sua bravura di insegnante, e, al contempo, grazie al quale ha potuto insabbiare la vergogna di non aver mai ottenuto quel riconoscimento accademico che evidentemente si meritava.
Ma, lasciando il collegio, Paul offre un importante insegnamento ad Angus quando a sé stesso:
Da’Vine Joy Randolph The Holdovers
Mary non vuole essere una vedova.
La donna sta soffrendo profondamente, come si nota dai suoi primissimi sguardi che vagano intorno al collegio, alla ricerca del volto di quel figlio che gli è stato così ingiustamente strappato.
Ma non per questo vuole la pietà di nessuno: più volte si rifiuta di essere al centro della facile commiserazione degli altri personaggi, persino quando ha un comportamento totalmente fuori controllo ed evidentemente bisognoso di cure.
Ma il percorso di Mary è il più costruttivo.
Nonostante il destino abbia deciso che non potesse avere né un compagno né un figlio, la donna trova il suo riscatto nell’aiuto degli altri, pur con un atteggiamento più severo e ammonitore che materno.
Da un breve sguardo del rapporto con la sorella incinta, si può intuire che Mary le stia donando i vecchi vestiti da neonato del figlio defunto, proprio per investire su quella nuova vita in arrivo.
Mary The Holdovers
Inoltre, per quanto la donna sembri un personaggio di contorno, in realtà è una figura essenziale per il rapporto fra Paul e Angus: in tutti i momenti in cui il professore si spazientisce con il ragazzo e lo punisce ingiustamente, Mary è sempre la voce della ragione.
Se non fosse stato per lei, infatti, probabilmente Paul non si sarebbe mai reso conto della sua cattiveria immeritata contro il ragazzo, né avrebbe fatto quei timidi sforzi nella sua direzione – il viaggio a Boston quanto l’albero di Natale.
E infine Mary diventa un supporto diretto per Angus, offrendogli un conforto fisico che probabilmente il ragazzo non riceveva da tempo, per quanto in diverse occasioni si fosse dimostrata allergica al contatto con gli altri.
Così, come Paul sfugge dal collegio e da tutto quello che rappresentava, Mary decide infine di non fuggire il suo dolore, ma invece di conviverci, di partire dallo stesso per avviarsi verso un futuro pieno di vita.
Poor Things (2023) rappresenta la seconda collaborazione dopo La Favorita (2018) fra Tony McNamara e Yorgos Lanthimos, regista greco ormai affermato nel panorama hollywoodiano.
A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 35 milioni di dollari – dopo un mese di programmazione negli Stati Uniti ha incassato appena 17 milioni…
Candidature Oscar 2024 per Poor Things (2023)
in neretto le vittorie
Miglior film Migliore regista Miglior sceneggiatura non originale Migliore attrice protagonista a Emma Stone Migliore attore non protagonista a Mark Ruffalo Miglior montaggio Migliore fotografia Migliore scenografia Migliori costumi Miglior colonna sonora Miglior trucco e acconciatura
Di cosa parla Poor Things?
In una Londra vittoriana ucronica, Godwin Baxter è un chirurgo di grande fama, particolarmente avvezzo alla sperimentazione umana…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Poor Things?
Dipende.
Poor Things è un film incredibilmente ambizioso e squisitamente provocatorio, facilmente avvicinabile a Barbie (2023) per tematiche e dinamiche, pur con un taglio molto più maturo e sfacciato, soprattutto per l’importante presenza di nudi e di scene erotiche.
Per questo, non la considero una pellicola esattamente per tutti i palati.
In generale, il messaggio di fondo è ben raccontato, pur inciampando in certi momenti in un didascalismo quasi pedante – ma pur sempre ben contestualizzato – e in qualche sbavatura di eccessivo virtuosismo che non mi ha del tutto convinto.
Ma, se questi elementi non vi disturbano, lo potreste facilmente amare.
Nascita
Poor Things è quasi del tutto sorretto dalla splendida recitazione vocale e corporea di Emma Stone.
Soprattutto nel primissimo atto era fondamentale rendere credibile il comportamento di Bella, una bambinonaincapace di muoversi senza barcollare, con un vocabolario limitato a poche parole e un linguaggio sgrammaticato e stentato.
Particolarmente in questo senso efficace la messinscena dei suoi capricci, propri di un qualunque bambino che cerca costantemente di capire i propri limiti sociali, e che per questo si comporta in maniera quasi selvaggia pur di ottenere quello che vuole.
Ovvero, nel caso di Bella, la libertà.
Piccata e piuttosto graffiante la sua scoperta della sessualità – in un contesto in cui nessuno si è preoccupato di spiegargliela – fra l’altro rappresentata da un simbolo piuttosto eloquente e che ben si integra nella simbologia piuttosto intuitiva del Paradiso Terrestre prima della Caduta.
Non a caso Bella, novella Eva, si masturba per la prima volta con una mela, simbolo della Conoscenza, mentre sia il suo creatore – che lei chiama God, Dio – sia il futuro marito, Max – Adamo – cercano di limitarla e rinchiuderla all’interno di uno stringente regolamento sociale.
Scoperta
Il secondo atto è il momento della scoperta.
Del tutto ignara delle dinamiche sociali che le impedirebbero di vivere al di fuori del futuro matrimonio, Bella si sottrae all’eden di Godwin – che le concede benevolmente il libero arbitrio – e si lascia conquistare dalle tentazioni di Duncan, che le promette la tanto ricercata libertà.
In realtà, questo ingannevole casanova vorrebbe solamente approfittarsi di lei, usandola come la classica amante usa-e-getta, cercando fra l’altro fin da subito di porre un ulteriore controllo su di lei – piuttosto tipico per le figure femminili di oggi e di ieri.
Ovvero, il controllo sul cibo.
Non a caso, fra le prime esperienze che Bella si concede mentre vaga nella città, vi è il rimpinzarsi di quei dolci che Duncan gli aveva negato, finendo per utilizzare il suo amante solamente come strumento per esplorare e godere delle meraviglie dell’esperienza sessuale.
Ma al di sotto della maschera da bambina capricciosa, la protagonista è semplicemente una donna che si rifiuta sistematicamente di sottostare a qualunque tipo di norma sociale – nel sesso quanto nelle chiacchiere futili – desiderando solamente esplorare il mondo terreno ed erotico.
Per questo, Duncan cerca ancora di più di rinchiuderla.
Recinto
Facendola entrare con l’inganno dentro ad un baule, Duncan cerca di riportare Bella in un recinto.
In realtà la crociera è il momento di maggiore esplorazione di Bella, che comincia anche il suo viaggio intellettuale, arrivando fino alla scoperta del lato più marcio di una società macchiata da un profondo e apparentemente insanabile classismo.
Tuttavia, in questa sequenza si trova anche uno dei pochi elementi che non mi hanno convinto nel film.
Per quanto evidentemente Poor Things voglia abbracciare un femminismo intersezionale e anticapitalista, fallisce nel portare una narrazione incisiva al riguardo, soprattutto considerando quanto spazio invece concede al tema dell’esplorazione sessuale.
La perdita dei soldi sembra infatti quasi un meccanismo della trama per passare all’atto successivo, ripreso solamente dai discorsi proto-socialisti in cui la protagonista si imbatte, ma che vengono affrontati in maniera molto superficiale e senza un adeguato approfondimento.
Identità
Il penultimo atto è per certi versi quello più difettoso.
Il punto più interessante è rappresentato dalla varietà delle esperienze di Bella, che si sottrae ancora una volta alla dicotomia sociale che la vorrebbe incasellare solamente in un ruolo – o madre di famiglia o troia – scegliendo invece di utilizzare il suo corpo come fonte di guadagno – e senza alcuna vergogna.
Così il film ci mette davanti ad una delle sue più graffianti provocazioni.
Secondo Poor Things, se non vivessimo in una società così bigotta, la prostituzione – in questo caso ovviamente idealizzata – potrebbe essere lo strumento attraverso il quale le donne otterrebbero la propria libertà – sessuale e, soprattutto, economica.
Messaggio indubbiamente interessante – articolato anche nelle ulteriori rivendicazioni di Bella riguardo la scelta del partner – che però è stato forse eccessivamente diluito all’interno di un atto che a tratti sembra quasi un intermezzo non così essenziale all’economia narrativa…
Vendetta
L’ultimo atto è il momento della verità.
Bella si ricongiunge con la sua famiglia, soprattutto con i due goffi personaggi maschili – Godwin e Max – che si rivelano benevoli nei suoi confronti, riuscendo infine ad arrivare al matrimonio, ma finalmente con condizioni non opprimenti come quelle inizialmente pensate.
Questo momento di apparente ricongiunzione viene però interrotto dall’inizio dell’avventura definitiva della protagonista, che sceglie volontariamente di reimmergersi nel suo misterioso quanto doloroso passato, pur decisa di non farsi nuovamente sottomettere dallo stesso.
Infatti, il suo alter ego viveva il più classico dei drammi di una nobildonna dell’epoca.
Ovvero, essere intrappolata in matrimonio violento ed opprimente, con un marito crudele ed oppressivo, a cui si era trovata ancora più legata per via del parto imminente, riuscendo a salvare sé stessa solo tramite il suicidio.
La sua condizione – come quella di Bella – era ancora più aggravata dal peso della colpa che le veniva messa sulle spalle, legata prima e dopo alla sua sessualità, talmente esuberante da essere considerata sostanzialmente isterica e, per questo, da domare.
Tuttavia, lo scioglimento della vicenda sembra più che altro ideologico.
Morale
Se fino a questo momento Bella era un personaggio sostanzialmente positivo, diventa incredibilmente grigio quando sceglie di sparare al marito ed infine di sottoporlo ad un trattamento simile a quello che lei stessa aveva subito, ma in maniera molto più crudele.
Anche se questo finale narrativamente parlando è del tutto coerente, rappresenta anche una scelta che, soprattutto nel contesto del finale in cui evidentemente il femminile è infine dominante, offre forse il fianco ad un tipo di femminismo più radicale e vendicativo che non mi sento di accogliere…
Al riguardo, si viaggia nel periglioso terreno dell’interpretazione personale.
Se infatti da una parte si potrebbe dire che non è corretto considerare Bella come un personaggio effettivamente positivo e rappresentativo del femminile, proprio per la sua apatia e a tratti anche crudeltà…
…allo stesso modo sarebbe stato molto più intelligente inserire un elemento veramente mancante nella pellicola.
Ovvero, un’effettiva maturazione di Bella dal punto di vista relazionale, non solo attraverso la liberazione sessuale, ma anche con la presa di consapevolezza del rispetto necessario fra le parti all’interno di una relazione sana.
Invece alla fine sembra che Bella voglia più sminuire Max che riappacificarsi con lui, in un finale in cui i ruoli sembrano definiti all’interno di una gerarchia, e non di uno stato di parità…
Il ragazzo e l’airone (2023) – traduzione piuttosto impropria di 君たちはどう生きるか, lett. E voi come vivrete? – è l’ultimo (per ora) film creato dalla meravigliosa mente di Hayao Miyazaki.
A fronte di un budget piuttosto importante per un film animato orientale – 64 milioni di dollari – si sta rivelando uno dei maggiori incassi del genere degli ultimi anni:137 milioni di dollari in tutto il mondo.
Candidature Oscar 2024 per Il ragazzo e l’airone (2023)
in neretto le vittorie
Miglior film d’animazione
Di cosa parla Il ragazzo e l’airone?
Tokyo, 1943. Nel bel mezzo del Secondo Conflitto Mondiale, il giovane Mahito e il padre si ritirano nella loro tenuta di campagna. Sarà l’occasione per il protagonista per riscoprire sé stesso e il suo passato…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Il ragazzo e l’airone?
Dipende.
Non voglio assolutamente sminuire il grande valore artistico de Il ragazzo e l’airone, ma mi rendo conto che è un film che potrebbe lasciare spiazzati molti spettatori, soprattutto se abituati alle altre opere di Miyazaki, in cui l’elemento simbolico è sempre secondario rispetto all’impianto narrativo.
Al contrario, con la sua ultima fatica, il maestro nipponico confeziona un’opera incredibilmente metaforica e simbolica, che si apre a diverse e variegate interpretazioni, in cui i temi tanto cari al regista – l’ambientalismo e la guerra – si intrecciano al racconto del suo passato e del suo presente.
Insomma, un’esperienza a cui bisogna arrivare pronti.
Il ragazzo e l’airone storia
A cura di Carmelo.
La scena di apertura del film ricorda da vicino un momento storico piuttosto doloroso del Secondo Conflitto Mondiale.
Nella notte tra il 9 e 10 Marzo del 1945 le fortezze volanti B17 e B29 americane bombardarono Tokyo con bombe incendiare al Napalm.
Il raid è ricordato come il più letale rivolto ad una popolazione civile inerme: ci furono tra le 200.000 e i 300.000 morti carbonizzati dalla fiammate, che venivano spostate dal vento, tanto che chi si proteggeva nelle case in cemento (la maggioranza delle case era in legno) veniva squagliava vivo per il calore.
In Giappone viene ricordata con il nome de La notte della neve nera, in rimando alle macerie carbonizzate che venivano trasportate dal vento in tutta la zona.
In questa occasione l’imperatore Hirohito, in visita alla città, si rese conto che il Giappone non poteva più continuare la guerra, in quanto letteralmente in ginocchio a livello industriale ed umano.
Il ragazzo e l’airone la notte della neve nera
Cercò così di trattare con gli alleati grazie all’aiuto dei ministri Togo e Suzuki, ma venne ostacolato dai militari nazionalisti guidati dal ministro Anami, che volevano continuare la guerra ad oltranza…
…fino alla distruzione totale del paese stesso, arrestando e giustiziando chiunque parlasse di resa, considerandoli come traditori della patria.
Le Bombe Atomiche di Hiroshima e Nagasaki(6 e 9 agosto 1945) affrettarono solo la capitolazione del Giappone, ma il punto di svolta fu proprio questo evento, che sancì la resa del paese.
Fra l’altro la scena in Il ragazzo e l’airone cita l’inizio de Una tomba per le lucciole (1988):
ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.
Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.
Nel caso di Il ragazzo e l’airone il pericolo non esiste.
Perché?
Dopo tanti anni di attività, la Lucky Red ha finalmente deciso di affidare il doppiaggio a qualcuno che non sia Cannarsi. E, per questo, finalmente è un film godibile anche doppiato.
Evviva, evviva!
Questa recensione non sarà fatta in ordine cronologico, ma personaggio per personaggio, elemento per elemento, proprio per la natura stessa dell’opera.
Il ragazzo
Mahito si presta ad un ampio ventaglio di interpretazioni.
La lettura più semplice è ritrovare nel protagonista Miyazaki stesso, andando a ricalcare alcuni momenti chiave della sua vita – pur con date e situazioni diverse – e il suo ritrovarsi sotto la guida di Yasuo Ōtsuka, il suo maestro, per poi intraprendere la propria personale carriera artistica.
Ribaltando invece i ruoli, il protagonista potrebbe in qualche misura rappresentare Hiromasa Yonebayashi, collaboratore storico dello Studio Ghibli, che ha lavorato alla maggior parte dei titoli prodotti dallo stesso, proponendone anche uno proprio – Quando c’era Marnie (2013)…
…ma che nel 2015 ha scelto di distaccarsi da Miyazaki e fondare il proprio studio – lo Studio Ponoc.
Quindi forse una delle poche persone che erano interne allo Studio Ghibli in cui Miyazaki vede una sua possibile eredità artistica – lo stile di Yonebayashi è evidentemente erede di quello del maestro – davanti all’evidente incapacità del figlio – di cui bisogna fare un discorso a parte.
Il ragazzo e l’airone
Ad un livello invece più generale, Mahito può rappresentare la generazione post-atomica.
Il tema della rinascita dopo la tragedia della bomba atomica – e del secondo conflitto mondiale in generale – è estremamente tipico del cinema orientale – lo si può trovare esplicitamente in Gen di Hiroshima (1983) e City of life and death(2009), o, più indirettamente, in Akira(1988).
Di fronte alla drammaticità di eventi che segnarono così profondamente l’immaginario nipponico, il protagonista de Il ragazzo e l’airone potrebbe appunto rappresentare una generazione che ha deciso di non arrendersi, di non rifugiarsi in una realtà altra, ma di trovare il meglio possibile nella propria.
L’airone
L’airone è una figura incredibilmente enigmatica.
Ad un livello prettamente narrativo, il suo personaggio è la maligna presenza che cerca di attirare il protagonista nella torre per volontà del prozio stesso, per poi riuscire a convincerlo a prenderne il posto.
Leggendo invece il suo personaggio da un punto di vista artistico, l’airone potrebbe rappresentare le creazioni stesse di Miyazaki – è infatti la creazione del prozio – che in più occasioni ha sperimentato con creature fra l’animale e l’umano – si veda Haku in La città incantata(2001) e, soprattutto, Howl in Il castello errante di Howl(2004).
In questo senso – e riabbracciando l’interpretazione per cui Mahito rappresenta Hiromasa Yonebayashi – l’airone rappresenterebbe l’eredità artistica di Miyazaki, e così il suo tentativo di conciliare la stessa con un suo possibile successore.
Questa interpretazione ben si accorda con la malvagità della pietra con cui è creato il mondo alternativo, come una sorta di ripensamento disilluso del maestro nipponico riguardo la sua opera, che appare ad oggi mancante di un vero futuro.
Il ragazzo e l’airone
Secondo un’altra interpretazione, l’airone potrebbe essere Gorō Miyazaki.
Se infatti Yonebayashi si è dimostrato un buon erede del maestro, lo stesso non si può dire per il figlio di Miyazaki, particolarmente nel suo tentativo del tutto fallimentare di rilanciare lo studio con l’animazione 3D con Earwig e la strega (2020).
Forse nella severità del prozio nei confronti della sua creatura possiamo intravedere un sofferto ammonimento del maestro nei confronti del figlio, ma anche un tentativo di conciliazione delle parti – Yonebayashi e Gorō – per trarre il meglio della sua eredità.
Ma il figlio si può ritrovare anche in un terzo personaggio.
Il limbo
La realtà sotterranea rappresenta indubbiamente un mondo altro e forse ultraterreno – da cui la frase, tratta da Inf. III, 5, fecemi la divina podestate.
Proprio come l’airone, il mondo immaginario al di là della torre potrebbe essere una rappresentazione degli alti e dei bassi – almeno secondo la visione di Miyazaki – della sua produzione – e la difficoltà dello stesso di tenerla ancora insieme.
All’interno di questo mondo altro il Re Parrocchetto potrebbe essere una punzecchiata proprio al figlio, che si credeva ormai padrone dello Studio Ghibli, cercando di far cambiare totalmente strada allo stesso, ma risultando infine del tutto incapace.
In un altro senso, nel mondo sotterraneo è racchiusa un’amara riflessione sull’umano.
Trovandosi in una realtà in cui non si riconosce più, il prozio del protagonista si è rifugiato in un mondo alternativo, creandolo, proprio come un dio, secondo la sua visione, trovandosi tuttavia infine a creare un’alternativa per nulla migliore rispetto al mondo di partenza.
In questa realtà alternativa, infatti, l’umano si è comportato al suo peggio, in particolare nei confronti degli animali, diventati aggressivi e davvero umani, ma proprio perché costretti dallo stesso a diventare tali.
Non a caso, Kiriko spiega che in quel mondo ormai ci sono più morti che vivi.
Il creatore
L’azione del creatore è in ultimo fallimentare.
In questo senso è molto più probabile che in questa figura Miyazaki volesse rappresentare un sé stesso ormai incapace di tenere in piedi un mondo – lo Studio Ghibli – che lui stesso ha creato, nonostante ci siano tutte le possibilità per farlo – la pietra buona che infine trova per ricostruirlo.
Al contempo, la sua posizione è definita dai simboli della vita e della morte.
Questa dicotomia è racchiusa nelle due sorelle, Hisako e la zia Natsuko.
La gravidanza contenuta dentro al mondo del prozio potrebbe rappresentare un desiderio sopito, ma forse impossibile, di produrre ancora qualcosa – anche non in prima persona – all’interno dello Studio Ghibli.
In questo senso, non è decisamente un caso che questa pellicola, creata a seguito dal suo abbandono dalle scene, sia un’opera così poco tipica…
Il ragazzo e l’airone
Allo stesso modo Hisako può rappresentare sia la tragedia storica – la bomba atomica – sia la tragedia personale – la morte della madre di Miyazaki e, soprattutto, l’improvvisa scomparsa del suo compagno ed amico, nonché cofondatore dello Studio Ghibli, Isao Takahata.
Il protagonista prende infine le mosse dalla stessa, accettandola dentro sé stesso e decidendo così di proseguire con la sua vita: così Miyazaki ripensa al suo essere riuscito a proseguire con la sua carriera pure dopo la morte dell’amico proprio con questa pellicola…
…volendo forse incoraggiare un suo possibile erede – chiunque sia – a continuare la sua eredità nonostante la situazione dubbia dello Studio.
Ma, proprio per questo, Miyazaki gli chiede: E tu, come vivrai?
A dieci anni di distanza, con Il ragazzo e l’airone Miyazaki porta nuovamente in scena la sua tecnica precisa e impeccabile, pure con qualche novità.
L’evoluzione più evidente è l’animazione di alcune scene particolarmente intense – specificatamente quelle dell’incendio – con una tecnica magnetica e ricca di movimento, che riprende le mosse da Si alza il vento (2013):
Se invece per buona parte dei volti umani Miyazaki rimane su tratti semplici e simili all’opera precedente…
…stupisce con le nuove e ampie sperimentazioni sui volti anziani:
E, al contempo, per la prima volta utilizza un modello di un volto maschile per un volto invece femminile:
Ma la punta di diamante è indubbiamente lo splendido character design dell’airone, con il suo aspetto estremamente mutaforme, e le splendide animazioni che lo portano in vita:
Maestro (2023) è la seconda opera, dopo A Star Is Born, in cui Bradley Cooper si cimenta come regista.
Il film è stato distribuito limitatamente negli Stati Uniti, per poi essere rilasciato direttamente su Netflix.
Candidature Oscar 2024 per Maestro (2023)
in neretto le vittorie
Miglior film Migliore attore protagonista a Bradley Cooper Miglior attrice protagonista a Carey Mulligan Miglior sceneggiatura originale Migliori fotografia Migliore trucco Migliore sonoro
Di cosa parla Maestro?
La pellicola ripercorre per sommi capi la vita di Leonard Bernstein, importantissimo direttore d’orchestra e compositore di brani iconici, fra cui spicca West Side Story.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Maestro?
In generale, sì.
Bradley Cooper si cimenta in una regia ambiziosa, con interessanti tocchi e sperimentazioni artistiche, a fronte di una storia non particolarmente interessante, anzi che rappresenta dinamiche piuttosto comuni di un classico dramma familiare.
Oltre alla regia, l’attore statunitense si impegna anche in un‘interpretazione estremamente varia e coinvolgente, che riesce a portare sullo schermo in maniera verosimile un uomo dal carattere esplosivo quando estremamente imprevedibile.
Il sogno
Il primo atto di Maestro è il momento del sogno.
Il protagonista si sveglia improvvisamente, appena visibile nelle tenebre della stanza, e comincia a parlare sommesso e ansioso al telefono, immerso in un’atmosfera quasi lugubre, che farebbe pensare a tutto tranne che ad una buona notizia…
…e invece la scena si rianima improvvisamente, immersa in una luce e in un’atmosfera festosa in cui il Leonard comincia a parlare concitato ed eccitato, correndo verso l’occasione della vita: condurre la sua prima orchestra in pubblico.
Questa atmosfera festosa si trascina fino all’incontro con Felicia.
Per le loro sequenze Cooper sperimenta in maniera piuttosto equilibrata con l’elemento metanarrativo, per cui il protagonista e la futura moglie entrano ed escono più volte come dal palcoscenico…
…fino al momento in cui Leonard prende parte ad uno dei suoi brani più famosi – New York, New York – che racconta proprio il futuro che gli si apre davanti agli occhi e la crescente creatività ed emozione che accompagna la sua arte.
Ma non mancano gli elementi di disturbo…
Il risveglio
Il secondo atto è visivamente contraddittorio.
Negli ultimi momenti della prima parte già si intravedevano le prime ombre sia del personaggio, sia del suo rapporto con Felicia – il discorso sul desiderio di morte del padre e la malinconica chiusura della relazione con David.
Degli elementi che ben si integravano all’interno del rigoroso e romantico bianco e nero, ma che risultano davvero fuori posto nelle tinte piene della seconda parte, con un protagonista ormai incanutito, ma ancora del tutto incapace di rimanere fedele alla moglie.
Infatti, Leonard si sente in una gabbia.
Da un lato non è del tutto sicuro della sua prossima avventura artistica, sentendo la passione e la creatività che si spengono, vedendo che l’estate che non gli parla più come un tempo, mentre si districa in un mare di appuntamenti e riconoscimenti da cui non si sente rappresentato.
Al contempo, per quanto il protagonista cerca di chiudere gli occhi davanti alla ruggine che emerge con Felicia, la donna è sempre più evidentemente stanca ed insoddisfatta, quasi esasperata dal comportamento infantile del marito.
L’apice è raggiunto dall’angosciante confronto con la figlia, dopo essere stato comandato a bacchetta dalla moglie di non rivelare il suo segreto, una parte di sé che si sente sempre più esasperato nel dover nascondere…
Ritorno
A questo punto, si apre una breve parentesi di smarrimento.
Con il concerto successivo, finalmente Leonard si apre al mondo e si sottrae alla sua famiglia, diventando sempre più assente con gli affetti e incontrollato nei comportamenti, cercando ancora costantemente di scappare dai suoi legami.
Ma il ricongiungimento è possibile ancora tramite la musica: pur essendosi convinta di star bene da sola, in realtà Felicia cova una profonda tristezza nell’essersi separata dal marito, rianimandosi quando lo vede condurre con incontenibile passione l’orchestra che tanto ama.
Così, finalmente, capisce e apprezza il lato buono della sua personalità.
I momenti conclusivi sono profondamente malinconici.
La chiusura di Felicia è la sezione più drammatica, con la regia che indugia costantemente sul suo volto provato, e non ci nasconde il suo struggimento, il suo desiderio di isolarsi, ormai inevitabilmente pronta alla morte.
Leonard dal canto suo riflette mestamente sugli ultimi anni della sua vita, in cui non si è mai veramente lasciato alle spalle le avventure sentimentali, riuscendo anche al contempo a mettersi da parte e a lasciare il posto ai futuri talenti.
Ma nel suo discorso commosso capiamo che l’unica parte della sua vita che ricorda davvero con felicità è quella con Felicia.
Napoleon (2023) è un biopic dedicato alla figura del mitico condottiero che portò la storia europea ad una nuova era politica e militare, ma con un taglio piuttosto inaspettato…
La pellicola ripercorre le più importanti tappe della vita di Napoleone Bonaparte, con un particolare focus sulla turbolenta relazione con la prima moglie, Joséphine.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Napoleon?
Dipende.
Se vi aspettate un racconto preciso e documentaristico della vita politica e della strategia militare di Napoleone, non è il film che fa per voi: anche per via di un obbiettivo squilibrio fra le parti, il film di Ridley Scott si propone di raccontarne solo le tappe più importanti – e spesso in maniera neanche molto approfondita.
Al contrario, se vi può interessare una visione più brutalmente verosimile del dietro le quinte, un’effettiva distruzione del mito di uno dei personaggi più importanti della storia europea, potrebbe essere una visione gratificante.
A voi la scelta.
L’uomo
La parte più strettamente umana di Napoleon è quella più discussa.
Il Napoleone presentato è piuttosto lontano dal mito creato da lui stesso e dai vari storici nel corso dei secoli, andando invece a tratteggiare un uomo quasi ridicolo, pieno di debolezze e piccole e grandi ossessioni.
Ma, a differenza di quanto potrebbe sembrare, il ritratto del Napoleone di Scott è molto credibile.
Per quanto fosse un abile stratega e osservatore – come viene fra l’altro rappresentato – è altrettanto vero che, agli occhi delle grandi case aristocratiche europee, Napoleone non era altro che un buzzurro con un’origine non particolarmente brillante – la tristissima Corsica.
Allo stesso modo, Bonaparte era profondamente legato alla tradizione corsa, nello specifico al suo stringente tradizionalismo – infatti non fece certamente sue grandi battaglie sociali – e mosso da una strabordante ambizione.
In questo senso, per quanto sia d’accordo sul fatto che Phoenix sembri un po’ imbrigliato in una recitazione a tratti limitante, allo stesso modo la performance che ci porta in scena racconta perfettamente questo carattere ambiguo, con le sue luci e ombre…
Lo stratega e…
In Napoleon Scott si impegna a rappresentare lodevolmente la parte più meritevole dell’opera di Napoleone.
Ovvero, la sua capacità da stratega.
Bonaparte visse una carriera militare piuttosto lampante, che gli permise di collocarsi nel solco della Rivoluzione Francese, e così acquisire una posizione di grande potere politico, fino a diventare l’Imperatore della Francia post-rivoluzionaria.
Pur piegando date ed eventi a suo favore, in particolare nella scena della decapitazione di Maria Antonietta – storicamente inesatta – l’occhio attento di Bonaparte sull’apice della Rivoluzione ne racconta indirettamente la consapevolezza del mutato scenario politico tutto da riscrivere.
Per questo si impegnò in diverse campagne militari, sempre necessarie per riuscire a mantenere il potere politico, con una serie di guerre lampo – forse in questo caso anche troppo frettolosamente raccontate – che lo portarono agilmente al successo.
Per questo la scena del bombardamento in Egitto e dell’incendio in Russia sono complementari: in entrambi i casi Scott racconta in maniera molto semplice ed immediata per uno spettatore inesperto due momenti fondamentali della carriera militare del protagonista.
Infatti come l’Egitto fu una vittoria schiacciante e determinante per la sua popolarità, allo stesso modo l’incendio a Mosca – nella realtà storica solo accidentale – rappresenta il fuoco distruttivo di tutte le altre potenze europee che, infine, lo schiacciarono.
E, nondimeno, quell’incendio fu anche rappresentazione di un successo molto precario e momentaneo: anche a fronte di ambiziose conquiste come una capitale così simbolica, allo stesso modo le fondamenta del suo potere erano fin troppo fragili…
Concetto raccontato anche, con un simbolismo piuttosto calzante, nella scena del faccia a faccia con la mummia, a cui un Napoleone ancora all’inizio della sua ascesa pone in testa il suo capello, quasi si rivedesse in quella rappresentazione di una gloria assai passeggera…
Josephine o…
Il focus fondamentale di Napoleon è il rapporto con Josephine.
Lo stesso, ha più funzioni.
Anzitutto, un racconto abbastanza naturale del proseguire degli eventi: tramite le lettere appassionate all’amata, Napoleone riesce a raccontare lo svolgersi degli eventi militari e politici, soprattutto quando era lontano dalla Francia.
In secondo luogo, rappresenta la grande debolezza del personaggio: anche se appassionatamente innamorato – come dimostrano le varie lettere a lei dedicate – Napoleone era anche un personaggio piuttosto opprimente dal punto di vista relazionale.
Se da una parte si dimostrò più volte un genitore e un amante affettuoso, è altrettanto vero che aveva una visione molto tradizionalista della donna, da cui l’atteggiamento oppressivo nei confronti di Josephine, e lo squallore delle scene di sesso, finalizzate unicamente ad un consolidamento della sua posizione.
E infine, Napoleone arrivò a soffocare la sua amante, tenendola da parte in un cassetto e portandola solamente ad essere più sola e triste, impedendole di vivere veramente una seconda vita relazionale al di fuori di lui.
Ma è possibile anche una seconda interpretazione.
…la Francia?
L’importanza del personaggio di Josephine all’interno della pellicola permette una seconda interpretazione.
In questa visione, la donna amata di Napoleone simboleggia la Francia stessa: qualcosa di cui Bonaparte, nonostante le sue origini, era profondamente innamorato, ma che gli portò anche diversi dispiaceri e angosce.
In questo senso il brusco ritorno in patria dall’Egitto – del tutto reale e documentato – per via del tradimento della moglie – non altrettanto veritiero – può essere letto come una sorta di presa di consapevolezza dello stato deplorevole della Francia in sua assenza – come testimoniato dal suo stesso scambio col Direttorio.
E così, la necessità di rimetterla in riga.
Allo stesso modo, la conclusione del matrimonio racconta un’altra tendenza del personaggio.
Napoleone non si accontentò mai di rendere sicura e compatta la Francia, ma aspirò sempre ad avere il controllo su molti altri territori, rivaleggiando con le diverse potenze europee, tanto da finire per utilizzare milizie non francesi per il suo esercito.
Una scelta spesso considerata motivo del fallimento finale della sua avventura, e che potrebbe essere proprio traslato nella scelta di abbandonare l’amore per Francia – Josephine – per conseguire le sue ambizioni politiche, proprio sposando una straniera – Maria Luisa d’Austria.
La riscrittura del mito
Questa riscrittura storica potrebbe turbare molti spettatori.
Ma è proprio questo il punto.
La vera vittoria di Napoleone non è stata tanto l’aver incarnato il cambiamento della Rivoluzione e l’aver fatto tremare l’intera Europa per vent’anni, ma l’essere riuscito a costruire e a mantenere un mito personale che perdura tutt’oggi.
Questo elemento si nota particolarmente nell’ultima scena, che fa riferimento al fondamentale Memoriale di Sant’Elena: Napoleone fu, fino all’ultimo, attivo nel tramandare una storia e un’immagine di sé stesso il più vantaggiosapossibile, anche se deviata.
Non a caso, se si vanno meglio ad indagare i singoli eventi fondamentali – fra tutti, la possibile disfatta al Parlamento, salvata in extremis dal fratello Luciano – si scopre tutta la fragilità del mito e della quantità di momenti in cui la fortuna salvò la sua ascesa.
Per questo, è così sbagliato provare a mettere in bocca allo spettatore una storia che non ha mai sentito, piuttosto che la solita celebrazione di cui siamo ormai ubriachi?
Killers of the flower moon (2023) è l’ultima fatica di Martin Scorsese, autore arrivato a ormai più di cinquant’anni di carriera, ma ancora capace di sorprendere.
Candidature Oscar 2024 per Killers of the flower moon (2023)
in neretto le vittorie
Miglior film Migliore regista Migliore attrice protagonista a Lily Gladstone Miglior attore non protagonista a Robert De Niro Miglior fotografia Miglior montaggio Migliori costumi Migliore scenografia Migliore colonna sonora Miglior canzone
Di cosa parla Killers of the flower moon?
Anni Venti, Oklahoma. I membri della Nazione Osage scoprono un ricco giacimento di petrolio che li renderà ricchi. Ma non sono gli unici a metterci gli occhi sopra…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Killers of the flower moon?
Sì, ma…
Killers of the flower moon non è un film che si potrebbe definire scorrevole – né vuole esserlo: Scorsese torna al cinema con un film impegnato e pregno di significato, difficilmente apprezzabile se non ci si lascia travolgere dalla narrativa del film.
In un certo senso il regista statunitense scommette con lo spettatore, proponendogli un tipo di prodotto a cui non è abituato, con ritmi lenti e cadenzati, che vanno di pari passo con una regia molto curata ed una storia che necessita di un certo tipo di andamento per essere raccontata…
Siete pronti ad accettare la sua scommessa?
La baraonda, la calma
Dopo un breve prologo che racconta i sentimenti contrastanti degli Osage – l’euforia della ricchezza scoperta e la mestizia per il loro futuro incerto – l’arrivo di Ernest in scena mostra in poche sequenze la natura del mondo in cui è approdato.
Una realtà caotica, in cui domina una violenza senza significato, in cui due popoli si sono mischiati e sembrano in totale sintonia, almeno all’apparenza…
Poi, improvvisamente, la calma.
Il trasferimento nella più pacifica residenza di William Hale ci illude di essere sfuggiti alla baraonda, e così il pacato colloquio fra il patriarca e il protagonista: lo scambio appare con il più classico dei dialoghi fra il nonno e il nipote, che aggiorna il suo vecchio sull’andamento della sua vita.
Sulle prime ci lasciamo ingannare dalle parole di Bill, dal suo raccontarsi come amico degli indiani, del tutto fuori dalle dinamiche di guadagno e di potere che coinvolgono gli altri bianchi della città, invece unicamente interessato all’idea che il nipote si sistemi con una bella ragazza locale.
Ma la realtà è ben diversa.
La via obbligata
L’amore fra Mollie e Ernest sulle prime sembra genuino.
Il giovane uomo corteggia la donna che appare – anche comprensibilmente – molto restia a dargli confidenza, pienamente consapevole di come i bianchi stiano eliminando il suo popolo nelle retrovie, uno dietro l’altro…
Tuttavia, dal momento che la sua famiglia al tempo non è stata ancora toccata, infine Mollie si decide a sposare l’uomo.
Ma ci troviamo sulla soglia della tragedia.
In questo senso, da notare come Zio Bill si rivolge alla prima vittima dell’ancora non svelato piano di eliminazione sistematica.
La donna appare sofferente, provata, e l’uomo la sovrasta con tutta la sua statura e in maniera estremamente opprimente, rincuorandola su come potrà prendersi cura di leie darle tutte le medicine di cui ha bisogno per farla stare meglio, quando è lui stesso ad essere il mandante della sua angosciante dipartita.
Una tragedia giustificata
Nel secondo atto, Bill rivela finalmente sua natura.
Il suo personaggio è indubbiamente il più significativo per il concetto fondamentale del film: al contrario di quei selvaggi violenti autori della strage di Tulsa, il caro zio è invece una figura accogliente, che voleva solamente fare in modo che le due famiglie si unissero pacificamente.
…rivelando in realtà una sorta dirazzismo benevolo: per quanto Bill possa aiutarli, gli indiani rimangono comunque una razza inferiore, che viene facilmente stroncata da diverse malattie – anzitutto il diabete – per il naturale svolgersi degli eventi.
E allora è meglio salvare quello che si può salvare…
Una convinzione che il suo personaggio mantiene fino all’ultimo…
Il non colpevole.
Ma Ernest è anche peggiore.
L’uomo si mostra fin da subito come un personaggio piuttosto ingenuo, la preda perfetta per le maligne bugie di Bill, pronto a farsi sottomettere e punire come un bambino a sculacciate, per non aver saputo tenere una mano ferma nel controllare la sua famiglia.
Ed infatti la sua mano è sempre incerta quando comincia a somministrare quella miracolosa medicina alla moglie, soprattutto quando deve sottoporle il siero letale, talmente combattuto con sé stesso da berne pure un bicchiere, come se questo potesse liberarlo dai suoi peccati…
Per questo, ad indagine avviata, Ernest diventa un burattino nelle mani delle due parti, convincendosi infine a mordere la mano del suo padrone, vedendo in questo gesto una possibilità per potersi redimere dalle proprie colpe, di potersi ricongiungersi pacificamente con la moglie e la sua famiglia.
L’ultimo degli Osage
Quando sposa Ernest, Mollie si fida ciecamente.
Non a caso davanti alle continue morti della sua famiglia, fino all’ultimo si fida del marito, si fida a lasciare solamente a lui la gestione delle sue medicine, e fino all’ultimo non ha il minimo dubbio che i colpevoli siano da ricercare altrove, tanto che, ormai distrutta dal veleno, mentre viene portata via, chiede dove si trovi Ernest…
E così, dopo essersi ripresa nella mente e nel corpo, sceglie di dare al marito la possibilità di ricominciare, raccontargli prima un sogno in cui congiuntamente si lasciano alle spalle le colpe, ricominciando così a camminare insieme, per poi metterlo davanti alla domanda fondamentale:
Cosa c’era veramente in quella medicina?
Ma Ernest è incapace di prendersi le sue responsabilità, ormai sentendosi rassicurato nell’idea di aver aiutato la giustizia e di aver trasferito i suoi peccati sul capro espiatorio di turno, rimanendo così indenne dalle condanne, soprattutto agli occhi della moglie.
Invece così Mollie capisce che non potrà più fidarsi del marito.
Ma il suo non è un finale positivo.
Fuori scena scopriamo che la donna è morta comunque piuttosto giovane, distrutta da una malattia che i bianchi salvatori non hanno saputo curare, dopo essere stata al centro di una tragedia che una giustizia tardiva e approssimativa non è stata capace di salvare dalla dimenticanza di una storia scritta da vincitori.
Elemental (2023) di Peter Sohn è uno dei film Pixar più sfortunati degli ultimi anni, che ha avuto una sorte particolarissima al box office.
Partendo da un budget piuttosto elevato – ma medio per un prodotto Pixar – di 200 milioni di dollari, per via di un marketing scandalosamente superficiale è stato il peggior esordio per la casa di produzione, ma ha recuperato grazie al passaparola, arrivando ad incassare 484 milioni in tutto il mondo.
Comunque un flop, ma un flop molto meno grave di quanto si prospettava.
Candidature Oscar 2024 per Elemental (2023)
in neretto le vittorie
Miglior film d’animazione
Di cosa parla Elemental?
Bernie e Cinder Lumen sono una coppia di immigrati ad Element City, una città poco accogliente per la loro razza, ma in cui riescono a ricreare la loro comunità, sicuri di poter lasciare la loro eredità alla figlia, Ember…
Vi lascio il trailer, ma vi sconsiglio di guardarlo in quanto davvero poco rappresentativo del film:
Vale la pena di vedere Elemental?
In generale, sì.
Per quanto non sia uno dei migliori prodotti della Pixar – anche per la poca esperienza da sceneggiatore e regista di Peter Sohn – è un film piacevole, e che anzi si impegna a raccontare in maniera piuttosto interessante il tema dell’immigrazione e dell’integrazione sociale.
Purtroppo, il film soffre di una debolezza complessiva della scrittura, che sembra voler raccontare solo pochi concetti fondamentali, ma incapace di portarli in scena con una storia davvero convincente e ben strutturata.
Comunque, vale una visione.
La barriera all’ingresso
L’inizio del film è anche la parte più interessante e incisiva.
I genitori di Ember arrivano in una città in cui vivono tutti i problemi che gravano sulle spalle degli stranieriche cercano di integrarsi in una nuova realtà sociale: la barriera linguistica – i loro nomi vengono adattati – le porte sbattute in faccia, una città non adatta alla loro sopravvivenza.
In particolare quest’ultimo aspetto è affrontato sotto diversi punti di vista: sia la ghettizzazione delle comunità immigrate, che la comunità è incapace di integrare, sia per il conseguente odio indiscriminato dei reietti verso l’ostica Elemental City.
Così i due sono riusciti a costruire un punto di riferimento per il resto degli immigrati del fuoco che non trovano un posto altrove, ma che anzi costruiscono la loro città– o ghetto, più giustamente – intorno proprio al Focolare.
Al contempo il padre è costantemente inacidito contro il popolo dell’acqua, che considera nemico a prescindere, nonostante i diversi tentativi della figlia di fargli comprendere che una persona non rappresenta tutta la sua comunità.
E questo è proprio il cuore della sua evoluzione.
Creazione e distruzione
Ember, proprio per via dell’educazione del padre, è un personaggio incredibilmente chiuso in sé stesso, che ha un solo obiettivo nella vita – prendere possesso del negozio e così far felice il genitore – e per questo rifugge ogni contatto con l’esterno della sua comunità, non uscendo mai da Fire City.
Ma al contempo la protagonista è evidentemente molto fuori luogo nella stessa, incarnando l’aspetto più distruttivo del fuoco, e non riuscendo a vedere oltre lo stesso.
In realtà Ember ha molto più da offrire
Durante la pellicola riscopre il lato positivo del suo elemento, ovvero quello creativo: se fino a quel momento aveva usato il suo potere solamente per rimediare agli errori – le tubature, la diga rotta – con la cena con la famiglia di Wade si affaccia finalmente agli orizzonti di possibilità che le sue capacità le offrono.
Lo stesso incontro le permette di comprendere la limitatezza del suo pensiero fino a quel momento, aprendosi finalmente all’idea che due comunità diverse possono riuscire a convivere, pur con i giusti compromessi.
Persino con un elemento così opposto come l’acqua.
Persino l’incontro apparentemente disastroso fra Wade e Barnie, si rivela invece una possibilità di unione: un piatto così tanto caldo – con un gioco di parole sul doppio significato di hot, che significa anche piccante – può essere addolcito con un po’ d’acqua, rendendolo più digeribile anche al di fuori del popolo del fuoco.
Favola e realtà
Ma se le tematiche e la simbologia di Elemental sono complessivamente riuscite, al contrario la resa narrativa non è particolarmente vincente.
Elemental vuole sostanzialmente raccontare il comporsi e ricomporsi di due rapporti: quello di Ember con il padre e con il nuovo interesse amoroso, Wade. Il primo è quello che ho trovato complessivamente più azzeccato, soprattutto godendo di un minutaggio piuttosto importante.
Non a caso, è anche il rapporto più importante della pellicola, che viene suggellato nel finale, il momento di vero confronto, quando Ember richiede quell’approvazione paterna per lei fondamentale, che il padre non aveva trovato al tempo nella sua famiglia.
Un momento toccante e centrale nella narrazione, a fronte di un primo ricongiungimento fra i due personaggi non adeguatamente incisivo.
Wade e Ember Elemental
Al contrario, il rapporto con Wade non mi ha convinto fino in fondo.
Il film si propone di seguire strade piuttosto consolidate, con una sorta di enemy to loversmolto simile al ben più efficace Rapunzel (2010), che però sembra reggersi unicamente sui momenti fondamentali del loro rapporto, che mancano però di una costruzione sufficientemente robusta.
Sarebbe stato molto più interessante instaurare anche un piccolo mistero sulla diga – alla Zootropolis (2016), per intenderci – la cui risoluzione portava anche allo sbocciare dell’amore fra i protagonisti.
Al contrario, la questione della diga è un elemento molto più debole di quanto mi aspettassi, quasi un meccanismo della trama, e allo stesso modo il regalo di Wade ad Ember – la visita del Garden Central Station – non ha abbastanza mordente.
Ancora meno mi è piaciuto il taglio favolistico, quasi tragico, che è stato affibbiato al loro rapporto: al di là della costruzione non del tutto convincente, l’ho trovata una scelta narrativa che risulta piuttosto stridente e fuori luogo in un film che si propone di essere per molti tratti estremamente verosimile.
Ma non è tutto da buttare.
Elemental animazione
L’animazione di Elemental è impeccabile.
Non è un caso che Peter Sohn – qui regista e co-sceneggiatore – lavori da più di vent’anni come animatore per innumerevoli prodotti Pixar (e non) e che sia riuscito ancora una volta a portare una tecnica e un character design davvero ineccepibili.
Era così semplice scadere nel banale per dei personaggi rappresentativi degli elementi naturali, e invece il film riesce a portare in scena delle figure infuocate e acquatiche vive e credibili.
Non a caso le fiamme del corpo di Ember e degli altri del Popolo del Fuoco continuano a muoversi e definiscono altri tratti del loro viso, in particolare il naso, così la rappresentazione dell’Acqua è molto variegata, giocando su diversi elementi, fra cui le onde del mare.
Ma il fiore all’occhiello è indubbiamente l’incontro fra fuoco e acqua, che porta Wade inizialmente a bollire e Ember a spegnersi, ma che poi cambia proprio la chimica dei due elementi, rendendoli compatibili.
Oppenheimer (2023) è il film forse più ambizioso della filmografia di Christopher Nolan, già costellata di pellicole di grande successo, che si distinguono ogni volta per la loro superba qualità tecnica.
La pellicola si è rivelata uno dei più grandi incassi del 2023 – al terzo posto nella classifica mondiale – con quasi un miliardo di incasso in tutto il mondo a fronte di appena 100 milioni di dollari di budget.
Candidature Oscar 2024 per Oppenheimer (2023)
in neretto le vittorie
Miglior film Migliore regista Miglior sceneggiatura non originale Miglior attore protagonista a Cillian Murphy Migliore attore non protagonista a Robert Downey Jr. Migliore attrice non protagonista a Emily Blunt Miglior colonna sonora Miglior fotografia Migliori costumi Miglior montaggio Migliore trucco e acconciatura Migliore scenografia Miglior sonoro
Di cosa parla Oppenheimer?
La pellicola segue la storia di Robert Oppenheimer, considerato impropriamente padre della bomba atomica, ma sicuramente una delle figure più interessanti e complesse del secolo scorso.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Oppenheimer?
Assolutamente sì.
Oppenheimer è un film che mi ha letteralmente travolto, per il suo ritmo frenetico e incalzante, il suo apparato tecnico elegantissimo e sublime, oltre ad una scelta di interpreti di prim’ordine, a partire dell’attore feticcio di Nolan – ma mai protagonista finora – Cillian Murphy.
Anche se le tre ore di durata possono far paura, personalmente non riesco a considerare questa pellicola pesante, proprio per la scelta di far proseguire la trama spedita e su più piani temporali: al più la definirei una pellicola complessa, ma in generale anche comprensibile dagli spettatori meno esperti.
Per me, Nolan ha finalmente raggiunto il suo capolavoro.
In questa recensione ho scelto di seguire la scansione temporale cronologica del film, così da fare chiarezza circa eventi raccontati.
Il profeta acerbo
Sulle prime, Oppenheimer è un profeta acerbo.
Immerso nelle visioni di un mondo spaventoso e incomprensibile – la realtà quantica – ma incapace per questo di applicare le sue conoscenze al mondo reale e pragmatico – da cui i suoi fallimenti in laboratorio.
Disprezzato da compagni e professori, Oppenheimer infine si decide a tornare in America per esportare il bagaglio di conoscenze acquisito, non arrendendosi neanche davanti alla presenza di un unico studente al suo primo giorno di corso.
Ma in poco tempo l’aula si riempie di nuovi volti, di seguaci che gli permettono di far conoscere le sue teorie, che beneficiano anche dell’impossibilità di essere dimostrate pragmaticamente, rimanendo ancora limitate ad un mondo astratto e puramente concettuale.
Ma la guerra è alle porte.
La corsa cieca
Davanti alla sua crescente popolarità nel mondo accademico, il protagonista viene scelto come salvatore del mondo libero.
Los Alamos nel suo piccolo rappresenta il sentimento statunitense durante la Grande Guerra: una corsa sfrenata verso la vittoria, malamente smorzata da tentativi fin troppo deboli di tenere a freno l’ambizioso Progetto Manhattan.
Infatti, al tempo ancora incapaci di comprendere l’immensità della loro creazione, le menti dell’Atomica si ribellano coscientemente alle più basilari direttive governative volte al mantenimento della segretezza del progetto, limitate in realtà da un controllo fin troppo clemente.
Se nel dopoguerrale simpatie comuniste e i sospetti di tradimento riemergeranno in tutta la loro gravità, durante la corsa alla bomba molte macchie sul curriculum vengono celate, molti timori vengono nascosti sotto al tappeto.
Ma l’atomica è ancora una bomba di carta.
Finché si spazia nella pura teoria, in un mondo di fatto amorale, Oppenheimer può sentirsi al sicuro. Ma una più angosciosa previsione smorza momentaneamente l’entusiasmo: la possibilità di diventare il tanto temuto distruttore di mondi.
E non bastano i più semplici e saggi consigli di Einstein circa l’idea abbandonare il progetto, ma è sufficiente abbassare la possibilità di un’apocalisse a quasi uno zero per dimenticarsi quasi del tutto dell’assennato consiglio di Niels Bohr:
Ma l’angoscia permane.
L’epifania
E infine anche la realtà materiale viene a bussare alla porta.
Se fino a quel momento il protagonista – e i suoi colleghi – erano quasi dei cani sciolti, quando gli Stati Uniti vedono un’occasione per raggiungere la pace e la fine della guerra tramite la loro invenzione, cominciano a metterli alle strette con dei frettolosi ultimatum.
Pur fuori posto per molti versi nella realtà politica del suo paese, Oppenheimer ritrova comunque conforto nell’astrattismo dei numeri che raccontano le vite salvate grazie all’uso dell’atomica, intestardendosi quasi fino all’ultimo sull’efficacia della stessa per la pace eterna.
Ma la vera epifania avviene durante il test.
Se fino a quel momento la bomba era una realtà astratta, al pari di una stella morente visibile solamente nei sogni più sfrenati, con l’approcciarsi della messa in attol’angosciosa consapevolezza della pericolosità dell’operazione riaffiora nel suo creatore.
Non a caso, durante Trinity Oppenheimer organizza una sorta di via di fuga, ascoltando finalmente i saggi consigli di Einstein dell’abbandonare il progetto qualora la distruzione mondiale si rivelasse qualcosa di effettivamente reale.
Ma a poco serve scegliere il giovane Kenneth Bainbridge come guardiano dell’umanità: la bomba infine si mostra nella sua immensità, con un interminabile silenzio punteggiato dai respiri ansiosi degli astanti, per poi rivelare infine la sua forza distruttiva in un assordante boato.
Così quella tesa quiete rappresenta gli anni della riflessione e ideazione, lo scoppio la nuova realtà inarrestabile che prende piede.
Contro la bomba
Dopo un’euforia iniziale per il successo del progetto, Oppenheimer comincia ad essere divorato da una bruciante angoscia, scatenata in primo luogo dall’impossibilità di avere ulteriore voce in capitolo sull’uso della sua creatura.
E così il mondo materiale comincia a mutare: richiamato a confermare il suo successo, il protagonista si limita a vuoti slogan ad effetto, oppresso da quella verità sempre più concreta che non riesce a togliersi da davanti agli occhi, ma che sembra invisibile al resto del mondo.
Non riuscendo fra l’altro a concepire l’effettiva immensità della tragedia solo per la limitatezza della sua fantasia…
E quando comincia a combattere contro la bomba, entra in scena Strauss.
La visione di questo ambizioso politico è del tutto opposta a quella del protagonista: un mondo dominato dal bianco e nero, simbolicamente rappresentativo della sua ristrettezza di vedute, il mondo di un bambino che capricciosamente non vuole rinunciare al suo giocattolo – o bomba che sia.
Nel mondo di Strauss, Oppenheimer non è più l’eroe che ha salvato l’America, ma invece l’antagonista, il guastafeste, la voce sempre più fastidiosa che vuole mettere a tacere la folle prospettiva di creazione di un mondo atomico ormai pericolosamente vicino.
Lewis Strauss Oppenheimer
Così Oppenheimer capisce la ristrettezza delle sue vedute.
Durante la creazione dell’atomica, il protagonista pensava di poterne definire i limiti d’uso.
La realtà della Guerra Fredda è ben diversa: un mondo del tutto politico, materialistico, in cui gli Stati Uniti ambiscono a diventare la più grande potenza mondiale e sbaragliare ancora una volta il nemico, con lo sguardo fisso unicamente sulle tensioni dello scacchiere internazionale.
Un mondo in cui il vero colpevole di una delle più grandi tragedie dell’umanità – il presidente Truman – offre ad Oppenheimer un fazzoletto per pulirsi il sangue di centinaia di migliaia di vittime, rivendicando con orgoglio la sua scelta, e anzi disprezzando il protagonista per le sue infantili proteste.
Ormai Oppenheimer è un personaggio da mettere da parte.
Punizione…
La punizione di Oppenheimer è subdola.
Un personaggio già di per sé così problematico, ma che, soprattutto, si rifiuta di accettare il meraviglioso passo avanti del nuovo mondo atomico – la Bomba H – va distrutto dalle fondamenta.
Oppenheimer viene riportato sui banchi di scuola, in uno spazio angusto e claustrofobico, per la resa dei conti, per riuscire a giustificare l’ingiustificabile: la sua opposizione instancabile alla sua stessa creazione.
Un caso costruito ad arte, una vendetta personale non solo da parte di Strauss, ma di tutti gli Stati Uniti, per mettere finalmente a tacere le sciocche opposizioni di una parte del mondo accademico così geniale nelle creazioni, ma così poco pragmatico sul piano del reale.
Le motivazioni – anche per portare ad un’idea folle come la collaborazione con i Sovietici – non mancano: le simpatie comuniste, la pochezza della gestione della sicurezza a Los Alamos, un pensiero troppo contraddittorio e poco ambizioso per essere accettato.
E tanto basta per mettere Oppenheimer da parte.
…e riscatto
Ma bastano cinque anni per ottenere il riscatto.
Come Einstein gli aveva predetto, quando gli Stati Uniti lo hanno punito abbastanza da renderlo un martire, lo fanno ritornare ad essere l’eroe americano.
Uno scenario grottesco, dove finalmente l’America sceglie di mettersi un freno e accettare quella dolorosa macchia sul curriculum, intraprendendo la via più ragionevole – e pacifica – per evitare l’Apocalisse nucleare.
E per liberarsi dei propri peccati, è necessario un eroe, una Cassandra per tanto tempo rimasta inascoltata, che viene riportata alla ribalta come simbolo del cambio di passo, con un Oppenheimer fin troppo felice di lasciarsi usare.
Ma come ci sono i vincitori, ci sono anche i vinti.
Per un crudele gioco del destino, pochi anni dopo Strauss viene punito nella stessa maniera con cui aveva punito Oppenheimer: rimesso davanti alla sua vita e alle sue scelte, svelato per la sua vera natura e per i suoi preziosi altarini.
E, nella furia amara per la sconfitta, questo politico ormai decaduto si mostra ancora una volta cieco davanti ad una realtà più profonda, e derubrica la sua disfatta ad una vendetta personale di Oppenheimer e del mondo scientifico, da sempre contro di lui.
Ma il Nuovo Mondo è molto più complesso.
La distruzione silenziosa
Il vero significato di Oppenheimer viene rivelato nelle sue ultime battute.
Il protagonista dà finalmente sfogo alle sue crescenti paure, davanti all’unica persona che sembra capace di comprenderle – nonché l’autore della miccia iniziale (pur inconsapevole) che ha portato al Mondo Atomico.
La distruzione è avvenuta, ma è invisibile: dalla creazione dell’atomica l’uomo ha perso la sua natura umana, ha smesso di combattere con delle mere armi mortali, ascendendo ad essere divino, e potenziale responsabile della sua stessa distruzione.
È diventato onnipotente, ma mai davvero consapevole della sua incapacità di esserlo.
Barbie (2023) di Greta Gerwig è uno dei film più chiacchierati dell’anno, che a tratti ha entusiasmato, a tratti ha totalmente indignato il pubblico, viste le tematiche molto controverse che ha portato in scena.
Un film che più che un film è stato un evento cinematografico come non se ne vedevano da Spider-Man No Way Home (2021), con 1,4 miliardi di dollari di incasso – a fronte di un budget di appena 145 milioni di dollari – diventando il maggior incasso del 2023.
Candidature Oscar 2024 per Barbie (2023)
in neretto le vittorie
Miglior film Migliore sceneggiatura non originale Miglior attore non protagonista a Ryan Gosling Migliore attrice non protagonista a America Ferrera Miglior scenografia Migliori costumi Migliore canzoneWhat Was I Made For? Migliore canzone I’m Just Ken
Di cosa parla Barbie?
In Barbieland le varie Barbie vivono in armonia nelle loro case da sogno, con delle esistenze sempre più perfette ogni giorno. Ma qualcosa è cambiato per la nostra protagonista…
Vi lascio qui il trailer, ma vi sconsiglio di guardarlo: come tutta la campagna marketing di questo film, è incredibilmente ingannevole, in quanto asciuga la pellicola di tutti i suoi significati, facendola apparire solo come una commedia leggera.
A voi la scelta:
Vale la pena di vedere Barbie?
Assolutamente sì.
Barbie è uno dei film più interessanti del 2023, un’operazione molto intrigante e ben pensata per lanciare messaggi che, pur nella loro estrema semplicità, sono assolutamente fondamentali per comprendere la società odierna.
Oltre a questo, dal punto di vista totalmente intrattenitivo, è un film delizioso, nutrito di un’ottima ironia, spesso anche volutamente metanarrativa, sia sul mondo di Barbie, le sue dinamiche e la sua storia, sia per le interazioni della protagonista con il Mondo Reale.
Insomma, guardatelo e fatevi una vostra opinione.
Un mondo perfetto?
Uno degli elementi più geniali di Barbie è la rappresentazione di Barbieland.
Si sarebbe potuta scegliere una blanda messinscena del mondo di Barbie come semplicemente una realtà più colorata e da sogno, ma sostanzialmente verosimile. E invece Barbieland è esattamente un giocattolo a grandezza naturale.
Tutto è di plastica, tutto è finto: dalle bottiglie non escono liquidi, il cibo è già pronto, le onde sono di plastica e non esistono le scale, ma solo gli scivoli e le mani invisibili dei bambini che muovono le bambole.
L’incrinatura di questa perfezione arriva quando appaiono i Ken in scena.
In questo senso il film lavora su due livelli: storico-sociale e metanarrativo.
Infatti, Ken come giocattolo nasce proprio come accessorio di Barbie, la vera protagonista della storia, tanto che molte delle bambine che ci hanno giocato si ricorderanno come il compagno maschile apparisse del tutto superfluo, facilmente sostituibile da altri generici personaggi maschili.
Dal punto di vista invece storico-sociale, i Ken sono sostanzialmente il corrispettivo delle donne nel Mondo Reale – ovviamente in maniera molto semplificata, e anche con riferimento ad epoche molto meno felici della nostra storia, senza quindi voler fare un parallelismo così netto.
I Ken vivono sostanzialmente in funzione delle Barbie che comandano il mondo, non hanno una propria casa – quindi una propria indipendenza economica – non hanno nessun merito e nessun riconoscimento dalle stesse, e appaiono anche piuttosto superficiali e sciocchi – proprio perché non hanno i mezzi e il background necessarioper essere altrimenti.
Insomma, vivono oppressi in un matriarcato.
L’intrusione del tragico
L’intrusione del tragico nella vita di Barbie è dovuta alla sua stretta correlazione con la bambina che gioca con lei.
Proprio per il fatto che Barbie, per sua natura, permette alle bambine di essere quello che vogliono, le stesse riversano nel gioco anche i loro sentimenti. Nel caso di Gloria, le insoddisfazioni e le paure di una bambina ormai cresciuta, che vive nell’ombra del modello irraggiungibile di Barbie.
In questo senso, anche vista la proposta della protagonista umanasul finale, la pellicola denuncia le pressioni sociali della donna contemporanea, spesso frustrata da modelli irraggiungibili – reali o ideali – che le impediscono di vivere ed essere felice anche nella sua ordinarietà.
Anche in questo caso si parla di un discorso molto semplicistico e volutamente accessibile, ma che racconta come il femminile a livello sociale non abbia ancora trovato la sua dimensione mediana, ma di come sia continuamente spinto a riconoscersi in modelli predefiniti – madre, donna in carriera, puttana – senza la possibilità di una via di mezzo.
L’oggettificazione
L’arrivo della protagonista nel Mondo Reale è una delle parti più riuscite del film.
La forza di questa sequenza è che non si parla mai esplicitamente di cat calling o oggettificazione – anzi, è la parte meno didascalica del film – ma si sceglie piuttosto di raccontare le sensazioni che prova una donna all’interno di un mondo ancora dominato dal punto di vista maschile.
Il corpo della donna, volente o nolente, è sempre un oggetto di discussione.
Nonostante Barbie scelga degli outfit normalissimi – anche se datati – nonostante non voglia essere un oggetto sessuale, lo diventa comunque: continue allusioni, battute dirette, anche con la volontà di far sentire in colpa la vittima della situazione per non accettare dei complimenti.
Una realtà che purtroppo è incredibilmente reale e che porta spesso le donne a non sentirsi libere di vestirsi come meglio credono…
Alla scoperta di patriarcato
Il percorso di Ken richiede tutto un discorso a parte.
Ken, come detto, parte da una situazione di totale svantaggio ed esclusione sociale, vivendo appunto totalmente in funzione di Barbie – e delle donne in genere.
Appena approda nel Mondo Reale capisce che esiste una realtà dove, tutto sommato, non viene discriminato, ma anzi accettato e glorificato, in cui trova anche una coesione sociale con gli altri uomini, non divisi dalle invidie per le attenzioni di Barbie come in Barbieland.
Ovviamente anche in questo caso è una visione semplicistica e funzionale alla storia, nonché apertamente comica.
Il risultato è, tuttavia, quello di sostituire un mondo ingiusto con un’altra realtà ancora ingiusta, ma in senso contrario: non sono più le donne a dominare il mondo, ma gli uomini, con le figure femminili che diventano del tutto ancillari e, di fatto, totalmente accessorie.
Tuttavia, appare evidente come lo stesso patriarcato danneggi gli uomini stessi: ubriacati in questo sogno di potenza, oltre a non rispettare le donne, sono così sicuri di sé stessi da apparire di fatto ridicoli e, soprattutto, facilmente manipolabili.
Oltretutto, l’odio intestino che sembrava essere risolto con l’avvento del patriarcato, in realtà è ancora più radicato, in una competizione per l’invidia e il possesso delle loro compagne che sfocia in una vera e propria guerra.
Il femminismo intergenerazionale
Uno dei discorsi più interessanti di Barbie è il femminismo intergenerazionale.
La figura di Barbie, modello per la generazione precedente – Millennials e Gen X – viene del tutto rigettata dalla Gen Z, rappresentata da Sasha, che vede in questa icona molto controversa più gli elementi negativi che positivi.
Effettivamente Barbie è di per sé una figura contrastante: nata – come ci spiega l’inizio del film – anche con l’obbiettivo di dare alle bambine una prospettiva diversa sulla loro vita e il loro futuro, al contempo ha rappresentato negli anni un modello irraggiungibile di perfezione femminile.
Per questo Sasha la respinge in toto.
Tuttavia, la ragazzina col tempo si ricrede e infine accetta il modello che ha definito la crescita e la consapevolezza della madre – e quindi della generazione precedente – arrivando, su un altro piano, ad accettare le conquiste di un femminismo forse più datato, più controverso, ma assolutamente essenziale per le conquiste presenti e future.
E, anzi, come abbiamo visto sopra, proprio questa esperienza spingerà sia Barbie che Gloria a riscrivere in un certo senso l’icona della Mattel in qualcosa di più inclusivo.
Le strade si dividono
Il finale di Barbie è uno degli elementi più controversi del film.
La parte apparentementepiù problematica è quella di Ken: con una lunga – e già iconica – canzone, il protagonista maschile esprime i suoi sentimenti e racconta di come si senta sempre il numero due, sempre messo da parte, vivendo in una costante insoddisfazione.
Per questo Barbie viene in suo aiuto con una riflessione che serve ad entrambi: la scelta di evadere i modelli, i simboli che sembravano definirli – sia nel patriarcato che nel matriarcato – ed intraprendere invece un percorso che li porti alla scoperta di una propria identità.
Insomma, come Ken ha un risveglio di coscienza grazie alle parole di Barbie – che ammette anche i suoi errori nell’averlo dato per scontato – allo stesso modo le Barbie, che erano state manipolate per accettare la semplicità del patriarcato, proprio come le donne di ieri, diventano consapevoli dell’ingiustizia della nuova realtà e decidono di ribellarsi.
E qui arriviamo al punto più discusso del film.
Nonostante non abbiano fatto lo stesso percorso di Barbie, anche le altre donne di Barbieland sono più consapevoli, e capiscono che non possono tornare in toto ad una realtà matriarcale ed esclusiva come quella in cui vivevano precedentemente.
Tuttavia, davanti alle richieste dei Ken di acquisire finalmente un ruolo di potere fondamentale, la Presidentessa sceglie invece di dargli un piccolo ruolo amministrativo – quello che potremmo definire ministero senza portafoglio.
Al che segue la seguente battuta della voce fuori campo:
Barbie finale spiegazione
La battuta è volutamente ironica e cattiva, e vuole raccontare quanto il problema delle discriminazioni e dell’inclusione sociale non si risolve per magia o con i buoni sentimenti, ma che serve un lavoro duro, continuativo e difficile, anche solo per arrivare ad un briciolo di parità sociale.
E, secondo me, è la scelta perfetta.
Sia perché non porta in scena una risoluzione ideale, nonché totalmente irrealistica e poco consapevole, sia perché non si sbilancia nella glorificazione femminile – in un film già molto sbilanciato in quel senso: in situazione analoga a quella del patriarcato, le donne avrebbero altrettanta difficoltà cedere i propri diritti e il proprio potere quanto gli uomini di oggi.
Un concetto che vuole ancora una volta dimostrare come non sia un problema od una colpa da addossare agli uomini in quanto uomini– come purtroppo certe correnti femministe si ostinano a sostenere – ma piuttosto un problema sistemico e sociale che va risolto dalle fondamenta.
La scelta di Barbie
La scelta finale di Barbie è forse la parte ancora meno compresa della pellicola.
Dopo aver vissuto nel Mondo Reale, con le sue difficoltà e incomprensioni, Barbie man mano durante la pellicola si libera sempre di più di quegli elementi e simboli che la definivano nell’apparentemente perfetto matriarcato in cui viveva – e che non voleva cambiare.
Una scelta sempre più consapevole di cercare la propria identità altrove rispetto al modello di Barbie Stereotipata – e quindi vuota – a cui si era rifatta per tutta la vita, scegliendo di vivere in un mondo molto più difficile ad antagonistico, ma che le offre anche molte alternative.
Ed è ancora più indovinato il finale in cui la novella Barbara sceglie come primo passo di farsi visitare dalla ginecologa, ad indicare come non sia immediatamente fatta assorbire dal modello capitalista per cui il valore di una persona passa dal suo lavoro.
Piuttosto la protagonista sceglie di scoprirsi in questo nuovo corpo, diventando finalmente più consapevole e serena per lo stesso.
Barbie 2023 citazioni
Barbie è un film pieno di citazioni ad altre pellicole.
Ecco le più interessanti.
Quella più evidente è ovviamente 2001: Odissea nello Spazio (1968) nell’iconico incipit, che è stato usato come teaser trailer per il film stesso:
Quando Barbie sceglie il suo outfit all’inizio del film, è un evidente omaggio al teen movie Clueless (1995) – in Italia noto come Ragazze a Beverly Hills – nella famosissima scena in cui la protagonista si prepara per andare a scuola:
La scena danzante nella mega party di Barbie alla fine della sua giornata è un riferimento visivo alla fantastica scena in discoteca in La febbre del sabato sera (1977):
All’inizio del film si cita anche Matrix (1999): invece che fra la pillola blu o la pillola rossa, Barbie deve scegliere fra la Birkenstock e Scarpa col tacco:
Nella scena in cui Barbie torna a Barbieland e vede i Ken giocare a pallavolo, si cita la scena analoga in Top Gun (1986):
Infine, l’ormai iconica scena di ballo della canzone I’m just Ken è un mix di riferimenti a Singin’ in the rain (1952) e Grease (1978):