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Robin Hood – Definire l’eroe

Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman è il ventunesimo Classico Disney basato sulla leggenda dell’omonimo eroe popolare.

A fronte di un budget medio per i prodotti animati del periodo – 5 milioni di dollari – è stato un enorme successo commerciale: 33 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Robin Hood?

In un medioevo occidentale dominato da animali antropomorfi, Robin Hood e la sua gente devono vivere sotto lo scacco dell’avido principe Giovanni, usurpatore al trono. Ma una ribellione è ancora possibile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Robin Hood?

Robin Hood in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Assolutamente sì.

La versione animalesca di Robin Hood riesce ad essere particolarmente vincente grazie al viscerale e irresistibile umorismo della pellicola, che vivacizza una storia che in realtà è tutt’altro che felice, non mancando anzi di frangenti piuttosto drammatici e angoscianti.

Ma Robin Hood è soprattutto vincente nel riuscire a dare la giusta importanza ad ogni momento della pellicola: anche quelli che potevano essere semplici siparietti comici, sono invece perfettamente integrati all’interno di una storia avvincente e ben strutturata, popolata da personaggi divenuti iconici.

Insomma, da riscoprire.

Parti

Robin Hood in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Robin Hood è un ottimo esempio di come gestire i caratteri in scena. 

Infatti fin da subito vengono introdotte le parti in gioco, con un antagonismo fra l’eroe e il villain che si esplica ancora prima che si incontrino: Robin Hood, nelle vesti di un’agile e furbissima volpe, è piuttosto abile nel mutare aspetto e nell’adattarsi alle diverse situazioni ed insidie.

Il Principe Giovanni si succhia il pollice in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Al contrario, il principe Giovanni, una versione felina di Giovanni Senzaterra, è un leone che non ha alcuna caratteristica tipica della sua specie: il corpo fragile e sottile affoga nei suoi vestiti regali e regge a malapena una corona che evidentemente non è fatta per lui.

E infatti basta pochissimo per gabbarlo.

Con un facile gioco di costumi, Robin e Little John diventano due avvenenti chiromanti che predicono il futuro che il principe si aspetta, ovvero quello di una vittoria sconfinata della sua persona e della sua dinastia…

…che lo distrae dal presente in cui viene sistematicamente derubato.

Irresistibile la dinamica che si esplica già da questo frangente, con il serpentesco consigliere, unico personaggio capace di vedere gli inganni di Robin Hood, che viene costantemente maltrattato e zittito, spesso persino confinato in spazi minuscoli che gli tolgono ogni accesso alla scena.

Ma se questo è il lato più giocoso…

Pugno

Lo sceriffo di Notthingam ruba la moneta a Scheggia in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Da solo, il Principe Giovanni non può essere un villain credibile.

Infatti la malvagità del suo personaggio è definita dalle figure che gli stanno intorno: oltre alla ben sorvegliata carrozza da animali imponenti e minacciosi, l’effettiva negatività del Principe si esplica nella figura dello Sceriffo di Nottingham, un lupo proponente e borioso.

Robin Hood come mendicante in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Viene così dipinta la tragicità di un regnante che riduce allo stremo la sua popolazione, come ben racconta la scena del compleanno del piccolo Saetta, che non può neanche godersi la minuscola moneta in regalo, perché per lo Sceriffo ogni occasione è buona per far cassa e per rivalersi sui più deboli.

Ma questa dinamica permette allo stesso Robin di definirsi definitivamente come protagonista positivo: non solo un abile furfante che fa le scarpe all’usurpatore di turno, ma bensì un eroe popolare che cerca di contrastare la fragile condizione dei suoi compaesani, regalandogli tutte le ricchezze che riesce a sottrarre.

Ma ancora non basta.

Obbiettivo

Lady Marian guarda il manifesto di Robin Hood in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Se la storia si fosse fermata qui, Robin Hood sarebbe stato fin troppo ripetitivo .

Infatti l’idea di salvare il suo popolo è vincente come obbiettivo, ma altrettanto importante che lo stesso si intrecci con altri obbiettivi secondari: in particolare, conquistare il cuore di Marian, personaggio quasi trascinato in scena dall’intrufolarsi maldestro della freccia di Scheggia nel suo castello.

Una piccola introduzione essenziale anche per dare maggior valore alla successiva gara di tiro con l’arco, che altrimenti poteva sembrare una sequenza fine a sé stessa, ma che invece non solo conferma le abilità del protagonista come teatrante – cambiando perfino specie di appartenenza – ma anche il suo ruolo centrale nella salvezza del regno.

Ed è arrivato il momento di farlo davvero.

Conferma

Fino a questo Robin non aveva fatto che grattare la superficie del problema…

…finché questo non diventa ben più incisivo di quanto anticipato.

La tristissima sequenza delle segrete del castello, accompagnata dalla melanconica melodia di Cantagallo, è l’occasione perfetta per Robin per dare una chiusura degna alla vicenda, per riuscire davvero ad umiliare Giovanni, di cui ormai è diventato il nemico designato.

Robin Hood ruba il sacchetto dei soldi al Principe Giovanni in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Così la pellicola mette in scena un divertentissimo teatrino che replica sostanzialmente le stesse dinamiche di Giovanni e Sir Bliss, con il borioso sceriffo che è così sicuro di sè da non voler dare ascolto alle giuste proteste delle sue guardie, che lo avvertono del pericolo imminente.

E così la liberazione fisica della popolazione si accompagna ad una liberazione sociale, con ogni soldo sottratto che viene recuperato, con un Robin disposto persino a rischiare la sua stessa vita per mettere tutti in salvo, portando alla angosciosa sequenza della sua presunta morte…

…che invece ci accompagna alla definitiva sconfitta del Principe Giovanni, ultimo atto di una tirannia ormai giunta al termine, come conferma il lieto finale, in cui il sogno d’amore di Robin e Marian riesce definitivamente a coronarsi…

…benedetto anche dal ritorno dal tanto sospirato Giovanni Cuor di Leone, che, con la sua robustezza e bonarietà, anticipa un futuro luminoso per Nottingham.

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Gli Aristogatti – L’iconicità del secondario

Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman è il ventesimo Classico Disney e il film di apertura del cosiddetto Medioevo Disney.

A fronte di un budget medio per le produzioni animate del periodo – 4 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 18 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Gli Aristogatti?

Duchessa e i suoi cuccioli vivono in una condizione di assoluto privilegio, come beniamini di una vecchia signora che li assicura tutti i comfort. Eppure un’insidia è proprio dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gli Aristogatti?

Bizet, Matisse e Minou in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

In generale, sì.

Per me Gli Aristogatti, parlando di altri film animaleschi, si pone fra l’ottimo La carica dei centouno (1961) e il più mediocre Lilli e il vagabondo (1955): non propriamente una raccolta di scenette fine a sé stesse come il secondo, ma neanche una storia così d’impatto come il primo.

Ed è tanto più curioso notare che sono stati proprio gli intermezzi della storia a diventare i più noti della pellicola, forti di una grande originalità di scrittura e nel loro essere piuttosto pittoreschi – quanto efficaci – nell’umanizzare in maniera divertita i personaggi animali.

Insomma, da riscoprire.

Privilegio

Duchessa e Adealide in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

La condizione iniziale dei gatti protagonisti è volutamente alienante…

…ma nondimeno mai banale.

Gli Aristogatti si sarebbe potuto incastrare in una dinamica che avrà una grande fortuna nel cinema del secolo successivo, in cui il gruppo di protagonisti è viziato, snob e in una condizione di assoluto privilegio, per poi essere catapultato in una realtà molto più difficile…

…il cui contrasto avrebbe rappresentato l’intera comicità del film.

Matisse in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

E invece la pellicola ci stupisce.

La caratterizzazione degli Aristogatti è piuttosto variegata, e li vede da una parte alle prese con attività del tutto umane – in una delle sequenze più iconiche del film – ma non manca anche di tratteggiare i cuccioli di Duchessa come dei bambini piuttosto litigiosi ed attaccabrighe.

Minou in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

E tutta la dinamica in cui le loro passioni si intrecciano e si scontrano è irresistibilmente comica, ma mai esasperata, anzi controllata proprio dalla figura materna, che li osserva amorevolmente mentre si sbizzarriscono nelle loro passioni in maniera disordinata quanto divertita.

E l’intrusione del villain è piuttosto…naturale?

Avidità

Edgar in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

Come Crudelia un decennio prima, anche la profondità della malvagità di Edgar non è di immediata comprensione per un pubblico infantile.

Infatti l’ascolto delle intenzioni della padrona lo porta ad un ragionamento piuttosto bislacco, quanto rivelatorio della sua spregevole avidità: incapace di avere la pazienza e la bontà di continuare a vivere nella magione della nobildonna insieme ai suoi amati gatti, il maggiordomo capisce che deve liberarsi di loro.

Bizet, Matisse e Minou e Contessa in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

E la modalità è ancora più malvagia: i protagonisti, fidandosi totalmente delle sue buone intenzioni, si gustano la sua famosa prelibatezza – l’iconica Crema della Crema alla Edgar – del tutto ignari di essere caduti vittime della sua trappola, il cui svelamento è affidato ad un personaggio che, come altri nella pellicola, è totalmente strumentale: il topolino Groviera.

Così la dinamica della fuga notturna fa da apripista per forse il punto più forte del film, ovvero le scene estremamente dinamiche, che riescono ad utilizzare la comicità slapstick in maniera mai banale, con punte di assurdità nell’inseguimento sotto al ponte dei due cani contro Edgar.

E così il primo atto si chiude sulla triste inquadratura della cuccia dei gatti abbandonata sotto la pioggia, mentre un pensieroso Groviera comincia a mettere insieme i pezzi del machiavellico piano del maggiordomo prima che lo stesso glielo sbatta in faccia.

E l’atto centrale è tutto un programma.

Quadri

I gatti jazzisti in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

Forse la narrazione centrale de Gli Aristogatti non si può definire propriamente per quadri

…ma poco ci manca.

All’interno di un road movie solitamente i personaggi incontrati lungo la strada sono funzionali alla maturazione dei protagonisti, confluendo spesso nel finale in un ruolo funzionale, proprio per dare organicità alla narrazione e non ridurla appunto ad una semplice collezione di intermezzi.

Le sorelle BlaBla in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

In linea generale, Gli Aristogatti riesce a seguire questa direzione, tramite il personaggio di Romeo – indispensabile aiutante e vettore della narrazione e della morale della storia – e con la scena che sembra il più fine a sé stessa possibile, e che invece diventa fondamentale per più motivi nel finale: i gatti jazzisti.

Al contrario, l’incontro con le sorelle Blabla è davvero un semplice intermezzo che non ha particolare utilità all’interno della storia, se non inserire delle colorite gag che vedono il loro apice con l’entrata in scena dello Zio Reginaldo, condito da un umorismo anche piuttosto pesante, e che permette alle due oche di uscire presto di scena.

Infine, è presente un fil rouge di grande interesse all’interno della pellicola.

Morale

Romeo e Duchessa in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

Nonostante il finale sia sostanzialmente lo stesso di Lilli e il vagabondo, Gli Aristogatti ha qualcosa in più.

L’incontro con Romeo è puntellato da più momenti – soprattutto all’inizio – in cui il gruppo sembra destinato a separarsi prima del tempo, ma che si ritrova invece abbastanza a lungo insieme per allargare le proprie vedute: come Romeo non crede nella bontà dell’uomo e soprattutto della padrona del quartetto di protagonisti…

Bizet, Matisse e Minou in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

…al contrario, Duchessa ribadisce più volte la sua affezione per Adelaide e la volontà di rimanerle fedele, nonostante le numerose richieste di Romeo di unirsi al suo mondo, in quanto la protagonista più volte dimostra una sincera curiosità e divertimento nell’essere coinvolta nello stesso.

Per questo il finale è tanto più importante.

L’ingenuo ritorno a casa del quartetto finisce per farli nuovamente cadere nella trappola di Edgar, definendo il momento di confluimento di (quasi) tutti i personaggi nel loro salvataggio, con anche il simpatico siparietto fra Groviera e i gatti jazzisti che diventano protagonisti di un ulteriore scontro incredibilmente dinamico e avvincente.

E a questo punto è solo normale che la casa di Adelaide sia aperta anche agli altri gatti randagi, confermandone così la valenza di personaggio positivo che vuole utilizzare le sue ricchezze per dare la vita migliore possibile non solamente ai suoi gatti, ma ad ogni randagio ne abbia bisogno.

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Coming soon…

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2024 Animazione Avventura Film Oscar 2025 Postapocalittico Racconto di formazione

Flow – Insieme

Flow (2024) di Gints Zilbalodis è un film animato muto, il primo film lettone ad essere candidato agli Oscar come Miglior film internazionale.

A fronte di un budget piccolissimo – 3.5 milioni di dollari – è stato nel complesso un buon successo commerciale: 17.5 milioni di dollari in tutto il mondo.

Candidature Oscar 2025 per Flow (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film d’animazione
Miglior film internazionale

Di cosa parla Flow?

Il protagonista è un gatto che si immerge in un realtà apparentemente post-apocalittica con improbabili alleati incontrati lungo la strada.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Flow?

Assolutamente sì.

Flow è uno di quei prodotti indipendenti che emergono a sorpresa in un panorama al limite della saturazione, che però si sta rinnovando con sperimentazioni di tecnica mista che vanno dalle grandi produzioni come Il robot selvaggio (2024) fino a prodotti più piccoli – ma di valore.

Un effettivo esempio di arte povera, che lavora efficacemente coi pochi mezzi che ha, fra cui la mancanza del doppiaggio parlato, che diventa in realtà un valore dell’opera nel riuscire a portare in scena le dinamiche animali in maniera il più possibile reale.

Solo

Il gatto protagonista è solo.

Muovendosi in un ambiente abbandonato dall’umano per motivi imprecisati, la lotta diventa esclusivamente animale, totalmente selvaggia, dove il più forte ha inevitabilmente la meglio, dove un branco di cani rabbiosi vuole avere il dominio su tutto, terrorizzando il povero protagonista.

Il primo compagno sembra un altro solitario avventuriero, un capibara totalmente innocuo che lascia che il gatto viva insieme a lui nella sua barca di fortuna, lasciando pigramente salire chiunque lo desideri.

Ma il mondo del branco è ben più ostile.

Branco

Flow gioca molto sul concetto di branco e di smarcarsi dallo stesso.

Infatti in più momenti i personaggi si trovano a cercare una vita alternativa al di fuori della sicurezza del gruppo: il primo è proprio il curioso serpentario, che, per la sua imponenza, terrorizza il gatto, ma che cerca una via di pace offrendogli un pesce appena pescato.

Un tentativo di fatto inutile, perché l’uccello viene subito soverchiato dal resto del branco, che pensa prima di tutto a sé stesso raccogliendo il pesce per la propria prole, e che anzi gli si rivolta violentemente contro quando cerca di difendere il suo nuovo amico.

Una lezione di vita importante, che però non è subito colta dall’invece piuttosto ingenuo ed entusiasta labrador, che cercherà di coinvolgere i suoi compagni nel neonato gruppo, non riconoscendone pericolosità e il dannoso egoismo. 

Infatti, la minaccia è duplice.

Minaccia

Gli antagonisti di Flow sono due.

Uno reale, uno apparente.

Il nemico reale è un concetto: l’egoismo e la volontà di subordinare chiunque ci si metta contro, che si concretizza nel già citato branco di cani, che prima terrorizza il gatto, poi, accolto sulla nave, si impossessa senza ritegno del pesce faticosamente raccolto e rompe per dispetto lo specchio del lemure.

Un concetto in parte presente anche nella testarda solitudine del protagonista, che invece nel corso della pellicola impara a lavorare all’interno di un gruppo, anzi imparando dallo stesso – riuscendo a superare la paura dell’acqua e raccogliendo abbastanza pescato da sfamare i suoi compagni.

La minaccia apparente è invece l’immenso capodoglio che infesta le acque della città sommersa, una presenza che fa subito risalire il gatto sulla barca per paura di essere sbranato, ma che in realtà si limita ad esistere pacificamente accanto ai protagonisti protagonista, mostrandosi nella sua immensità.

Ma è una minaccia apparente perché lo stesso è vittima di quell’abbassamento delle acque che è invece la salvezza del gruppo, che riesce infine a vivere sulla terraferma senza paura di rimanere risucchiato dai flutti, essenziali per la sopravvivenza dell’enorme mammifero.

E proprio questa scena ci permette di comprendere il finale – e, per estensione, l’intera pellicola.

Flow significato

Il film può essere letto in due direzioni: per dichiarazione dello stesso regista, la pellicola racconta il percorso complesso ma necessario dell’imparare a lavorare in gruppo, nonostante le differenze e i timori, non mettendo più se stessi al primo posto – ma anche scegliendosi i giusti compagni.

Lo si capisce soprattutto nel comportamento dell’uccello segretario, che litiga con tutti per non far salire sulla barca i cani – che infatti si rivelano infidi ed egoisti fino all’ultimo – che si getta in un enigmatico sacrificio a cui segue la salvezza dell’intero gruppo. 

In senso più ampio, anche vista l’ambientazione serenamente post-apocalittica, l’opera può essere vista come racconto della necessità dell’umano di collaborare per non essere autore della propria distruzione, dettata  da un continuo egoismo che non avvantaggia davvero nessuno…

…e, in senso più ampio, nel finale si racconta la presa di consapevolezza del gruppo, che acquisisce comprensione del proprio esistere specchiandosi in quell’acqua che può essere ora salvezza, ora minaccia, a seconda di quale punto di vista la si guarda.

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Inu-oh – La sinfonia delle maschere

Inu-oh (2021) di Masaaki Yuasa è un lungometraggio anime ispirato alle reali figure del teatro Sarugaku.

A fronte di un budget sconosciuto, anche per la distribuzione limitata, ha incassato meno di mezzo milione in tutto il mondo.

Di cosa parla Inu-oh?

Giappone, XI sec. Sullo sfondo di una tragica guerra fra clan, due ragazzi estremamente sfortunati saranno capaci di dare nuova linfa al panorama musicale del loro paese…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Inu-oh?

Tomona in una scena di Inu-oh (2021) di Masaaki Yuasa

Assolutamente sì.

Inu-oh è una di quelle perle cinematografiche sostanzialmente sconosciute tranne agli appassionati, capace di distinguersi in maniera significativa dal resto del panorama del genere anime sia per lo stile visivo che per il taglio narrativo scelto.

Per farvi capire, è un po’ come se La storia della Principessa Splendente (2013) e Samurai Champloo (2004) avessero avuto un figlio.

E non vi dirò di più.

Intarsio

Tomona in una scena di Inu-oh (2021) di Masaaki Yuasa

Il primo atto di Inu-oh è un enigmatico intarsio narrativo.

La panoramica sulla scena politica e militare serve solo per darci un’infarinatura del mondo in cui si muovono i protagonisti, portando in scena momenti e personaggi apparentemente scollegati fra loro, accomunati da un taglio fantastico e misterioso insieme.

I due protagonisti sono infatti legati da un comune destino di sofferenza e di marginalizzazione, dovuto in entrambi casi all’avidità di personaggi terzi, che cercano di arricchirsi sulle loro pelle senza che loro neanche lo sappiano fino in fondo.

E, da questa maledizione comune, si sviluppano due temi fondamentali.

Memoria

Tomona in una scena di Inu-oh (2021) di Masaaki Yuasa

La memoria è un elemento fondamentale in Inu-oh.

Infatti, nel contesto culturale in cui il sapere popolare è conservato nel ricordo della comunità, il più grande tesoro in realtà sono proprio le storie da raccontare e da tramandare, capaci di stupire un pubblico che ormai le ha dimenticate.

Per questo i suonatori biwa, i maggiori possessori di questo tesoro, sono due volte puniti: prima dalla tirannia dello shogun, che cerca di assoggettare questo patrimonio di parole ai propri bisogni politici, riducendo gli stessi a meri esecutori del suo potere…

…ma, soprattutto, sono vittime della spietata avidità del padre di Inu-oh, pronto a sacrificare il suo stesso figlio per ottenere il totale controllo su questa inestimabile ricchezza, da utilizzare per sfidare lo stesso governo in carica in una disperata ricerca di popolarità.

E la memoria si intreccia perfettamente con il perno della vicenda.

Identità

Tomona in una scena di Inu-oh (2021) di Masaaki Yuasa

L’identità è il cardine tematico di Inu-oh.

Entrambi i protagonisti sono accomunati da un’identità che li rende dei reietti sociali, ma si ritrovano proprio grazie alle loro comuni sfortune: Tomona è infatti l’unico che riesce a vedere la vera bellezza di Inu-oh, del tutto ignaro delle sua terribile deformazione.

La stessa si intreccia profondamente con le storie che i due scelgono di portare sul palco, che permettono gradualmente ad Inu-oh di liberarsi della sua maledizione, riacquistando ad ogni canzone un aspetto più umano

…ad eccezione del volto.

L'ultima maschera di Inu-oh in una scena di Inu-oh (2021) di Masaaki Yuasa

Dal secondo atto sul palco si avvicendano una serie di maschere, da entrambe le parti: costretto a dover celare il suo aspetto, Inu-oh si nasconde ogni volta dietro ad una nuova faccia, fino ad arrivare allo svelamento del suo vero volto, quando però ormai questo è stato sanato dalla sua ultima canzone.

E lo stesso Tomona vive una ricerca dell’identità costante sia nell’aspetto che nel nome: il passaggio del tempo è infatti scandito, oltre che dalle maschere di Inu-oh, dal progressivo cambio di aspetto del protagonista, che passa da essere un anonimo biwa a vestire sembianze più prettamente femminili e teatrali.

Tomona nel finale di Inu-oh (2021) di Masaaki Yuasa

Ma ancora più significativo è il cambio del nome: rimasto orfano, si sottomette prima al nominativo che lo rende succube dello shogun, per poi scegliere nuovamente di cambiarlo, allontanandosi dalla sua famiglia, e poi dal suo stesso amico da cui viene separato…

… finché il loro incontro non avviene a secoli di distanza, scandito dall’elemento che li aveva resi così affini:

la musica.

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Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl – I dettagli fanno la differenza

Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham, tradotto impropriamente in italiano con Le piume della vendetta, è l’ultimo capitolo della fortunata saga omonima in stop-motion.

Il film è stato distribuito da Netflix direttamente in piattaforma.

Candidature Oscar 2025 per Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film d’animazione

Di cosa parla Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl?

Wallace e Gromit vivono una quotidianità normale, facendosi largo fra le invenzioni sempre più strambe del primo. Ma forse una sta per sfuggirgli di mano…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl?

Wallace in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Assolutamente sì.

Avevo un ricordo abbastanza fumoso dei prodotti precedenti del duo, ma ricordavo comunque il mio apprezzamento verso i film della saga.

E non sono rimasta delusa.

Vengeance Most Fowl è uno di quei titoli che poteva tranquillamente essere estremamente banale ed infantile, ma che riesce invece a colpire per una particolare attenzione su pochi aspetti essenziali che la rendono un ritorno sullo schermo particolarmente indovinato.

Dipendenza

Gromit in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Wallace è dipendente dalle sue invenzioni.

Il quadretto familiare che si compone nel primo atto è il punto di partenza fondamentale della pellicola: il geniale inventore è totalmente dipendente dalla tecnologia, non riuscendo ad essere autonomo neanche nelle attività più semplici – vestirsi e persino addentare un toast a colazione.

Wallace e Gromit in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Ma un particolare fondamentale in tutta questa situazione – che risulta essenziale nello sviluppo della storia – è il ruolo di Groomit: le invenzioni del suo padrone non possono agire autonomamente, ma hanno bisogno dell’imprescindibile contributo del fedele compagno.

Di fatto, Wallace non vuole mai lasciare il suo amico da solo.

Anche a costo di essere fin troppo invadente.

Standard

Wallace e Gromit in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Il vero problema del Norbot è la spersonalizzazione.

Il proattivo robot da giardino sembra voler scalzare ingenuamente il personaggio di Groomit, riuscendo a copiarne le azioni in maniera decisamente migliore e, soprattutto, ben più rapidamente, seguendo dei precisi standard che rendono ogni sua creazione priva di personalità.

In questo senso è indicativa l’aggressiva invasione degli spazi personali di Groomit, che, a differenza del compagno, ha piacere nel potersi impegnare nel giardino e cosi a renderlo qualcosa di suo, e non un perfetto cortile uguale a tutti gli altri – come infine il Norbot lo rende.

Ma non c’è nessuna malizia nelle azioni di Wallace.

L’ingenuo inventore vuole onestamente migliorare la vita del suo compagno, sicuro che anzi ogni persona al mondo desideri godere dei medesimi, perfetti standard, gli stessi giardini tutti i uguali fra loro – capaci anche di risolvere le scarsità economiche della famiglia.

E per questo è arrivato il momento di parlare Feathers McGraw.

Anomalo

Feathers McGraw in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Feathers McGraw è uno degli elementi che rendono Vengeance Most Fowl così speciale.

Il villain della pellicola prende le mosse dalle classifiche figure del genere: un macchinatore dell’ombra, una mente criminale in cauta attesa della propria occasione per riuscire nuovamente a brillare – e a vendicarsi dell’ignobile cattura.

Ma il suo aspetto è la chiave della deliziosa ironia che lo rende così speciale.

Il volto del malefico pinguino è totalmente inespressivo, proprio perché manca degli elementi fondamentali per poterlo essere: occhi vitrei, nient’altro due punti neri sopra ad un becco abbozzato su cui non è possibile che appaia alcuna smorfia.

E questa sua inespressività si va a scontrare in maniera veramente geniale con il suo subdolo piano, che colpisce proprio al cuore dei suoi nemici, facendo leva sull’ingenuità di Groomit, permettendogli di deviare la personalità del Norbot senza che lo stesso se ne renda conto.

E da qui si sviluppa il punto di arrivo della riflessione della pellicola.

Personalità

i Norbot cattivi in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Le creazioni sono specchio del loro creatore.

Non è un caso che i Norbot Malefici non siano apertamente cattivi: come ci si poteva aspettare un caos irrefrenabile alla Gremlins, al contrario, proprio come Feathers McGraw, la loro cattiveria si basa sullo sfruttare quello che l’ambiente gli concede, riuscendo a tramare nell’ombra…

…senza essere scoperto fino all’ultimo momento.

E, secondo lo stesso concetto, il Norbot nella sua forma originale vuole semplicemente e ingenuamente aiutare chiunque, anche a costo di risultare invadente e fuori luogo -proprio come il suo stesso creatore, Wallace, è nei confronti di Groomit.

Una riflessione apparentemente banale e già vista, ma che in realtà ben si inserisce all’interno di una consapevolezza piuttosto contemporanea di come le nuove tecnologie – particolarmente, l’intelligenza artificiale – non sappiano creare veramente niente da zero, ma definiscano il loro agire in base agli input che gli diamo.

Per questo il Norbot può essere il compagno fondamentale nella vita del duo protagonista, riuscendo infine – al pari di Wallace – ad apprezzare l’insostituibile individualità di Groomit, e agendo intorno alla stessa senza volerla scalzare.

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Coraline – Dall’altra parte

Coraline (2009) di Henry Selick, noto anche col titolo piuttosto ingannevole di Coraline e la porta magica, è un classico dell’animazione in stop-motion.

A fronte di un budget medio per un film d’animazione – 60 milioni di dollari – e una produzione lunga tre anni, non è stato un grande successo commerciale alla sua uscita: 125 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Coraline?

Coraline è una ragazzina che si è appena trasferita in un noioso sobborgo e cerca di riempire le giornate. Ma c’è qualcuno che ha proprio qualcosa di perfetto per lei…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Coraline?

Coraline in una scena di Coraline e la porta magica (2009) di Henry Selick

Assolutamente sì.

Per quanto la pellicola cerchi di ammorbidire moltissimo i toni del romanzo di Gaiman, una favola horror che al tempo mi terrorizzò profondamente, proprio per il suo ribaltare le aspettative nel raccontare un mondo incantato che in realtà nasconde un orrore agghiacciante.

Inoltre, rimane un ottimo esempio di tecnica passo uno, per uno studio di animazione – Laika Entertainment – che oltre a questa pellicola non ha mai avuto purtroppo molta fortuna, anche per i costi e i tempi produttivi piuttosto impegnativi.

Ma anche per questo è da riscoprire.

Noia

La bambola di Coraline in una scena di Coraline e la porta magica (2009) di Henry Selick

Coraline vive la più grande maledizione per una ragazzina.

La noia.

La casa stessa sembra infatti un’estensione della grigia personalità dei suoi genitori, totalmente concentrati sul proprio lavoro da non poterle concedere alcuna attenzione, nemmeno riuscire a mettere in tavola un pasto allettante.

Ovviamente questa è la visione dagli occhi ingenui e di fatto capricciosi della protagonista, che in questo prima fase ha una visione molto limitata del mondo e delle sue sfumature: l’unica cosa giusta per lei sarebbe essere al centro del mondo.

E questo l’Altra Madre lo sa molto bene…

Esca

Coraline coi finti genitori in una scena di Coraline e la porta magica (2009) di Henry Selick

La porta è l’esca perfetta.

Dopo essere rimasta delusa davanti ad un muro di mattoni noioso come tutto il resto, Coraline viene attirata nella notte a riscoprire invece una realtà che è esattamente come lei vorrebbe fosse: un passaggio verso un luogo da scoprire, con meraviglie ad ogni angolo…

…create appositamente secondo i suoi desideri.

Coraline attraversa la porta in una scena di Coraline e la porta magica (2009) di Henry Selick

E la sua ingenuità iniziale è proprio non rendersi conto di quanto tutto sia troppo perfetto, di quanto quegli inquietanti occhi bottone raccontino una realtà artefatta, una facciata creata ad arte per attirarla nella trappola.

In questa prima notte infatti l’attrattiva è un pasto talmente godurioso e soverchiante che Coraline neanche riesce a finire quello che ha nel piatto che lo stesso le viene subito sostituto con una pietanza ancora più appetitosa…

Coraline nel giardino in una scena di Coraline e la porta magica (2009) di Henry Selick

…in un mondo dove lei è al centro di tutto, dove il giardino è un’esplosione di colori meravigliosi e creature che sembra uscite da una fiaba, non ultimo il dolcissimo papà che ha modellato la natura per corrispondere all’unico, vero oggetto del desiderio.

Coraline stessa.

Equilibrio

Coraline è consapevole di dover equilibrare il parallelismo fra i due mondi.

Per questo non carica immediatamente la scena di tutti i personaggi, ma divide la scoperta del mondo magico in due tranche: la prima focalizzata unicamente sui genitori e su Coraline, e la seconda sui personaggi secondari totalmente riscritti.

In linea generale, i mediocri teatranti in pensione del mondo reale diventano invece degli irresistibili portatori di meraviglie nell’altro mondo, in cui Coraline diventa spettatrice di spettacoli da sogno.

Ma davanti al massimo punto emotivo, in cui Coraline finalmente accarezza la possibilità di vivere in questo mondo dei sogni per sempre, finalmente la Madre si rivela per quella che è: una riscrittura moderna della strega di Hansel e Gretel.

E proprio da qui il controllo sembra scivolare dalle dita di Coraline, che si trova non più ospite, ma prigioniera di un mondo che comincia a crollare su se stesso, svelando la sua totale illusione proprio nella limitatezza dei suoi confini.

Per questo l’ultimo atto è così fondamentale.

Fuga

l'Altra madre in una scena di Coraline e la porta magica (2009) di Henry Selick

Sconfiggere l’Altra Madre è un passaggio fondamentale per la maturazione di Coraline.

E, per questo, deve essere orchestrato al meglio.

Infatti, per riuscire a far immergere adeguatamente lo spettatore nell’ultimo atto, è necessario definirne chiaramente le  coordinate: Coraline non può entrare o uscire a suo piacimento dall’Altro Mondo, ma secondo la volontà dell’Altra Madre…

…che però non controlla totalmente la porta stessa, da cui in prima battuta Coraline scappa, per poi tornare sui suoi passi quando scopre che i genitori sono stati rapiti dalla Madre, il ricatto estremo per avere nuovamente la sua attenzione.

E così il pericolosissimo gioco con la Madre è in realtà il momento di passaggio in cui finalmente Coraline smette di essere una bambina egoista che pensa solo a se stessa, e sceglie invece di mettersi in gioco per salvare la propria famiglia e gli altri sfortunati bambini.

Ed è un climax splendido.

Frantumato

Il viaggio di Coraline nel finale è una riscoperta dell‘Altro Mondo mentre crolla su se stesso.

La magia sbiadisce poco a poco per lasciare spazio a dei meri fantocci incapaci di avere una propria volontà, che o sono grottesche vittime della volontà della Madre, o estensione della sua personalità…

E qui troviamo una messinscena piuttosto caricata dal punto di vista orrorifico, particolarmente funzionante nella riproposizione di Bobinsky, il cui corpo è letteralmente composto dai diabolici topolini…

Coraline e Wybie  in una scena di Coraline e la porta magica (2009) di Henry Selick

…fino alla destrutturazione totale dell’Altro Mondo, che si riduce a mere linee nere su uno pagina bianca, che compongono la ragnatela della Madre nella sua forma primaria, quella del ragno.

E così il sogno diventa incubo, e finalmente Coraline comprende la limitatezza della sua visione, accettando invece una famiglia che non può esaudire subito i suoi desideri, ma può veramente amarla senza pretendere altro da lei.

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Il robot selvaggio – L’inevitabile caduta

Il robot selvaggio (2024) di Chris Sanders è un film d’animazione a tecnica mista tratto dal libro omonimo di Peter Brown.

A fronte di un budget medio – 78 milioni di dollari – ha aperto abbastanza positivamente il primo weekend: 35 milioni nei soli Stati Uniti.

Candidature Oscar 2025 per Il robot selvaggio (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior colonna sonora originale
Miglior film d’animazione
Miglior colonna sonora originale

Di cosa parla Il robot selvaggio?

ROZZUM è un robot creato appositamente per assistere gli umani. Ma cosa succederebbe se invece finisse in un ambiente selvaggio e ostile?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il robot selvaggio?

Assolutamente sì.

Con Il robot selvaggio stiamo scrivendo la storia dell’animazione, che aveva già cominciato la sua rivoluzione artistica con Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) – e il suo sequel – e poi con Il gatto con gli stivali 2, portando – si spera – la Dreamworks ad orientarsi finalmente verso orizzonti più interessanti.

L’unico elemento – forse inevitabile – che penalizza la pellicola è il percorrere una storia fin troppo tipica e prevedibile, che inizialmente si dimostra davvero fuori dagli schemi, ma che nel finale si riduce ad un esito fin troppo favolistico, e che secondo me non si integra in maniera ottimale con il tono generale del film.

Ma non per questo ve lo potete perdere.

Ostile

Roz precipita in un ambiente ostile.

Pur con tutte le buone intenzioni, il robot protagonista si deve scontrare con un ambiente per cui non è stato programmato, ma che cerca di piegare a quella che è per lei l’unica visione possibile: cliente effettivi e clienti potenziali.

Ma in un mondo profondamente dilaniato da odi interni, definito dalla legge del più forte, la divisione è ben diversa: l’io che domina incontrastato si scontra costantemente con un perpetuo nemico – che può essere chiunque, persino appartenere alla stessa specie, financo alla stessa famiglia.

E lo stesso incontro con Beccolustro si articola in una paradossale dinamica di distruzione che previene la distruzione: se un Roz stermina accidentalmente un nucleo familiare, in realtà ne salva il suo componente più debole, che sarebbe stato destinato ugualmente alla morte.

E da questo strano incidente si sviluppa un discorso molto peculiare sulla maternità…

Maternità

Il robot selvaggio racconta una maternità realistica…

…che raramente si ritrova in prodotti pensati per un pubblico così giovane.

L’incontro insperato con il neonato Beccolustro farebbe subito pensare all’innesco di una dinamica affettiva di imprinting da entrambe le parti – soprattutto per come viene caricato emotivamente il momento del primo incontro…

…e invece Roz si limita a continuare per la sua esistenza incredibilmente binaria, in cui un pulcino incapace di esprimere direttamente i suoi bisogni, e che si limita solo a seguirlo incessantemente, non può essere suo cliente.

Ed è in questo contesto che entra in gioco il modello di Codarosa.

L’opossum si presenta con un peso emotivo e materiale sulle spalle: la nuova cucciolata, il nuovo carico di figli non voluti, ma semplicemente capitati, che si trova a dover gestire controvoglia, sperando in più di potersene sbarazzare.

E con il suo scambio con Roz finalmente la maternità si spoglia di quella idealizzazione che ha infestato decenni di animazione, portando in scena invece una madre imperfetta, che sceglie di prendersi cura di un bambino solo perché le circostanze lo richiedono.

Ma, non per questo, risulta un una figura negativa. 

Semplicemente, impreparata.

Imparare

La maturazione dei protagonisti è interconnessa.

L’apprendimento di Roz si articola in una presa di consapevolezza del mondo in cui si trova immersa, riuscendo infine a comprendere le sfumature del reale: come Fink può essere doppiogiochista e al contempo un amico fedele, così anche Paddler può essere egocentrico quanto altruista.

E questa evasione graduale dal binarismo iniziale permette a Roz di esprimersi non più solo tramite modelli prestabiliti, ma di diventare un’inaspettata mente creativa, il cui primo passo è proprio il battezzare il suo figlioccio non con un nome in serie, ma con un affettuoso nomignolo.

Al contrario, Beccolustro cresce per imitazione.

Nel suo racconto quasi crudele della genitorialità, Il robot selvaggio mette in scena una dinamica ormai fin troppo nota: la prole che ha come primo contatto con il mondo il genitore, che considera come unica fonte di verità e di conoscenza e che, di conseguenza, imita senza controllo.

Una dinamica che si traduce in una serie di gag di passaggio in cui Beccolustro dimostra di aver vissuto fin troppo a stretto contatto con Roz, imitandone pedissequamente i comportamenti in maniera piuttosto bizzarra, diventando inevitabilmente un emarginato sociale.

Ma questa forte vicinanza è proprio il punto focale del loro rapporto.

Distacco

Roz e Beccolustro devono trovare il loro posto nel mondo.

Le loro maturazioni sono talmente contigue da rendersi di fatto interdipendenti: come l’oca non può ancora volare e nuotare con le proprie zampe, così il robot non riesce a lasciare vivere il proprio figlio adottivo al di fuori del suo campo visivo.

Un rapporto quasi soffocante che paradossalmente gode molto della rivelazione sulla vera storia di Roz e del rivoltarsi di Beccolustro: un distacco brusco ma necessario per accompagnare il protagonista verso la propria indipendenza.

E la bellezza del loro rapporto sta proprio nel riuscire ad aiutarsi anche in vista di una separazione forse definitiva, che dovrebbe sancire la chiusura di questa breve parentesi nella vita di entrambi, dopo il quale ognuno potrà tornare ai suoi ruoli programmati.

Ma un ragionamento del genere sarebbe andato bene alla vecchia Roz, quella pronta a tornare alla prima occasione alla sua fabbrica, ma che invece ora è molto restia ad abbandonare questa realtà che l’ha definita più di quanto si potesse immaginare.

Ma c’è qualcun altro che potrebbe voler decidere per lei…

Unione

L’atto conclusivo de Il robot selvaggio è quello che mi ha lasciato più dubbi.

Risulta a mio parere molto convincente la linea narrativa che definisce definitivamente la maturazione di Roz nel suo confronto e scontro con un sistema in cui non si riconosce più, ma per il quale risulta molto attraente per il patrimonio di informazioni di cui involontariamente si fa portatrice.

Un sistema che ben si concretizza nell’unico effettivo villain della pellicola, ovvero Vontra, un viscido essere meccanico pronto ad irretire Roz con le sue parole, capace di ragionare solamente su due possibilità: la collaborazione del bersaglio o la sua distruzione.

Ed è proprio qui l’elemento che mi ha meno convinto.

Come avevo ampiamente apprezzato una rappresentazione crudele quanto realistica della natura selvaggia, al contempo questa risoluzione molto classica – ma, secondo me, poco adatta ai toni usati fino a questo momento – de l’unione da la forza l’ho trovato veramente poco incisiva.

Allo stesso modo, il finale mi ha lasciato una certa amarezza, soprattutto a fronte di un sequel già programmato e che potrebbe potenzialmente ridurre Il robot selvaggio all’ennesimo franchise di successo che viene snaturato con i suoi poco utili capitoli successivi…

Ma spero davvero di sbagliarmi.

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Inside out 2 – Posso essere una cattiva persona?

Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann è il sequel dell’omonimo film Pixar del 2015.

A fronte di un budget di 200 milioni di dollari, ha aperto benissimo al primo weekend americano: 155 milioni di dollari, prospettandosi uno dei maggiori incassi dell’anno.

Candidature Oscar 2025 per Inside out 2 (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film d’animazione

Di cosa parla Inside out?

Riley ha finalmente tredici anni ed è pronta ad una nuova sfida: l’adolescenza.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Inside out 2?

Gioia e Ansia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Assolutamente sì.

Inside out 2 è probabilmente uno dei prodotti Pixar meglio riusciti dell’ultimo periodo, riprendendo lo scheletro narrativo del primo capitolo e ampliando la storia in un’esplorazione mai banale dell’adolescenza e di tutti i suoi profondi drammi.

L’unico elemento che non mi ha convinto del tutto è proprio questo senso di more of the same: la storia è molto simile a quella del precedente film, quantomeno nelle dinamiche, anche se poi si arricchisce di un impianto comico ben più travolgente e indovinato.

Ma, dopo quasi dieci anni di attesa, se lo può anche permettere.

Stabilità

Riley in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

All’inizio di Inside out 2 troviamo una Riley diversa.

Dopo aver superato il primo, comprensibile shock del cambiamento, la protagonista è riuscita gradualmente a costruirsi una nuova vita ed una nuova personalità, proprio ad un passo dal complesso passaggio alla pubertà.

Ma, anche in questi caso, Gioia ricade sempre nello stesso errore.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Nonostante la pellicola non si dimostri per nulla dimentica del suo passato – Gioia effettivamente include tutte le emozioni – l’emozione protagonista si impegna comunque nel cercare di scremare i diversi ricordi, per mantenere solamente quelli positivi, utili per creare la Riley perfetta.

In questo senso piuttosto interessante l’introduzione dei capisaldi della personalità della ragazzina protagonista, costruiti sulla base dei ricordi e delle esperienze più costruttive che fanno sbocciare una Riley che vive della consapevolezza di essere una persona buona.

E basta.

E proprio qui sta il punto.

Shock

Le emozioni in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Lo shock della pubertà sembra ingestibile.

Riley diventa emotivamente intoccabile, ogni emozione, che prima veniva vissuta in maniera ragionevole, sfocia in un’alternanza di sentimenti esplosivi ed incontrollabili, in cui Riley passa dall’essere furiosa a sentirsi impossibilitata a continuare a vivere…

Riley si sveglia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Così, anche le sue emozioni si evolvono: davanti all’ulteriore minaccia di cambiamento della vita della protagonista, Riley comincia ad ossessionarsi tramite Disgusto per i fantasmi di un tradimento all’orizzonte, ricadendo nella totale disperazione.

E, infatti, è ora di dare spazio a nuove emozioni.

Emozioni

Arrivo di Ansia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

La rappresentazione di Ansia è perfetta.

Già il character design suggerisce un sentimento di ossessione e di nervosismo – gli occhi che coprono la maggior parte del volto, la pelle tirata, i capelli ritti in testa… – e si completano nell’atteggiamento instabile e nevrotico che prende piano piano sopravvento nella testa di Riley.

Altrettanto azzeccata è Ennui, che, con la sua testa calata di lato e il suo accento francese, non rappresenta semplice la noia, ma bensì una sorta di nichilismo, di disinteresse totale per quello che ci circonda – fra l’altro, rappresentando una perfetta controparte dell’ansia pervasiva.

Le nuove emozioni in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Inizialmente invece Imbarazzo rimane più sullo sfondo, proprio per una sua inguaribile timidezza e anch’essa, più in generale, non rappresenta solamente l’imbarazzo, ma proprio un senso di inadeguatezza, di non essere nel posto giusto – e per questo di voler sprofondare.

Forse meno incisiva Invidia, una versione quasi più maligna di Disgusto, che durante la pellicola ha un’impronta meno memorabile sulla storia, dovuto anche al suo lavorare continuamente a stretto contatto con Ansia, che la porta alla lunga nel confondersi con la stessa.

Ma questo ora è tutto il mondo di Riley.

Nuova

Ponendosi apparentemente come il villain della storia, Ansia conquista la mente di Riley…

… togliendo di mezzo tutto quello di positivo che c’era prima, per lasciare spazio ad un cambio di passo per creare una Riley nuova di zecca, spietata e egoista, con l’obiettivo – paradossalmente – di farla sentire al sicuro dall’angosciante futuro.

Le nuove emozioni in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

In questo senso Inside out 2 gioca molto bene nel raccontare quanto Riley ingigantisca ogni situazione all’inverosimile

…finendo per vivere senza più un contatto effettivo con la realtà, ma del tutto calata all’interno di un universo di incubi e di demoni, in una rete di ansie che sembrano minacciare un destino di la solitudine, di isolamento sociale, di disprezzo…

Ma non ci sono solo due Riley.

Consapevolezza

Gioia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Il punto di arrivo di Riley è il viaggio di Gioia.

Proprio come desidera una Riley perfetta e senza macchia, allo stesso modo anche Gioia sente su se stessa la pressione di perfezione e di risolutezza che si è auto-imposta, che la porta in più momenti a crollare, sopraffatta dalla situazione, soprattutto davanti al continuo confronto con Ansia.

Per questo la soluzione finale per tornare al Quartier Generale è in realtà una spia della sua stessa presa di consapevolezza: dando libero spazio a quei ricordi finora messi da parte, Gioia permette agli stessi di inquinare i capisaldi della personalità di Riley.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

E per questo il finale è così importante.

Inside out 2 sceglie di distaccarsi da una narrazione molto semplicistica e tipica per i prodotti dell’infanzia, in cui il punto di arrivo è sempre rappresentato dal raggiungimento di una bontà indispensabile per il protagonista, aderendo ad una visione in bianco e nero della vita e delle relazioni.

Al contrario, questa pellicola ci racconta come sia del tutto normale vivere una via di mezzo.

Possiamo essere altruisti, creativi e intraprendenti, ma al contempo anche egoisti, bisognosi di attenzioni, sfiduciati, ricalcando e ampliando il concetto del cocktail di emozioni già introdotto nel precedente capitolo.

E c’è ancora spazio per crescere.