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Inside out 2 – Posso essere una cattiva persona?

Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann è il sequel dell’omonimo film Pixar del 2015.

A fronte di un budget di 200 milioni di dollari, ha aperto benissimo al primo weekend americano: 155 milioni di dollari, prospettandosi uno dei maggiori incassi dell’anno.

Di cosa parla Inside out?

Riley ha finalmente tredici anni ed è pronta ad una nuova sfida: l’adolescenza.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Inside out 2?

Gioia e Ansia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Assolutamente sì.

Inside out 2 è probabilmente uno dei prodotti Pixar meglio riusciti dell’ultimo periodo, riprendendo lo scheletro narrativo del primo capitolo e ampliando la storia in un’esplorazione mai banale dell’adolescenza e di tutti i suoi profondi drammi.

L’unico elemento che non mi ha convinto del tutto è proprio questo senso di more of the same: la storia è molto simile a quella del precedente film, quantomeno nelle dinamiche, anche se poi si arricchisce di un impianto comico ben più travolgente e indovinato.

Ma, dopo quasi dieci anni di attesa, se lo può anche permettere.

Stabilità

Riley in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

All’inizio di Inside out 2 troviamo una Riley diversa.

Dopo aver superato il primo, comprensibile shock del cambiamento, la protagonista è riuscita gradualmente a costruirsi una nuova vita ed una nuova personalità, proprio ad un passo dal complesso passaggio alla pubertà.

Ma, anche in questi caso, Gioia ricade sempre nello stesso errore.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Nonostante la pellicola non si dimostri per nulla dimentica del suo passato – Gioia effettivamente include tutte le emozioni – l’emozione protagonista si impegna comunque nel cercare di scremare i diversi ricordi, per mantenere solamente quelli positivi, utili per creare la Riley perfetta.

In questo senso piuttosto interessante l’introduzione dei capisaldi della personalità della ragazzina protagonista, costruiti sulla base dei ricordi e delle esperienze più costruttive che fanno sbocciare una Riley che vive della consapevolezza di essere una persona buona.

E basta.

E proprio qui sta il punto.

Shock

Le emozioni in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Lo shock della pubertà sembra ingestibile.

Riley diventa emotivamente intoccabile, ogni emozione, che prima veniva vissuta in maniera ragionevole, sfocia in un’alternanza di sentimenti esplosivi ed incontrollabili, in cui Riley passa dall’essere furiosa a sentirsi impossibilitata a continuare a vivere…

Riley si sveglia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Così, anche le sue emozioni si evolvono: davanti all’ulteriore minaccia di cambiamento della vita della protagonista, Riley comincia ad ossessionarsi tramite Disgusto per i fantasmi di un tradimento all’orizzonte, ricadendo nella totale disperazione.

E, infatti, è ora di dare spazio a nuove emozioni.

Emozioni

Arrivo di Ansia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

La rappresentazione di Ansia è perfetta.

Già il character design suggerisce un sentimento di ossessione e di nervosismo – gli occhi che coprono la maggior parte del volto, la pelle tirata, i capelli ritti in testa… – e si completano nell’atteggiamento instabile e nevrotico che prende piano piano sopravvento nella testa di Riley.

Altrettanto azzeccata è Ennui, che, con la sua testa calata di lato e il suo accento francese, non rappresenta semplice la noia, ma bensì una sorta di nichilismo, di disinteresse totale per quello che ci circonda – fra l’altro, rappresentando una perfetta controparte dell’ansia pervasiva.

Le nuove emozioni in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Inizialmente invece Imbarazzo rimane più sullo sfondo, proprio per una sua inguaribile timidezza e anch’essa, più in generale, non rappresenta solamente l’imbarazzo, ma proprio un senso di inadeguatezza, di non essere nel posto giusto – e per questo di voler sprofondare.

Forse meno incisiva Invidia, una versione quasi più maligna di Disgusto, che durante la pellicola ha un’impronta meno memorabile sulla storia, dovuto anche al suo lavorare continuamente a stretto contatto con Ansia, che la porta alla lunga nel confondersi con la stessa.

Ma questo ora è tutto il mondo di Riley.

Nuova

Ponendosi apparentemente come il villain della storia, Ansia conquista la mente di Riley…

… togliendo di mezzo tutto quello di positivo che c’era prima, per lasciare spazio ad un cambio di passo per creare una Riley nuova di zecca, spietata e egoista, con l’obiettivo – paradossalmente – di farla sentire al sicuro dall’angosciante futuro.

Le nuove emozioni in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

In questo senso Inside out 2 gioca molto bene nel raccontare quanto Riley ingigantisca ogni situazione all’inverosimile

…finendo per vivere senza più un contatto effettivo con la realtà, ma del tutto calata all’interno di un universo di incubi e di demoni, in una rete di ansie che sembrano minacciare un destino di la solitudine, di isolamento sociale, di disprezzo…

Ma non ci sono solo due Riley.

Consapevolezza

Gioia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Il punto di arrivo di Riley è il viaggio di Gioia.

Proprio come desidera una Riley perfetta e senza macchia, allo stesso modo anche Gioia sente su se stessa la pressione di perfezione e di risolutezza che si è auto-imposta, che la porta in più momenti a crollare, sopraffatta dalla situazione, soprattutto davanti al continuo confronto con Ansia.

Per questo la soluzione finale per tornare al Quartier Generale è in realtà una spia della sua stessa presa di consapevolezza: dando libero spazio a quei ricordi finora messi da parte, Gioia permette agli stessi di inquinare i capisaldi della personalità di Riley.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

E per questo il finale è così importante.

Inside out 2 sceglie di distaccarsi da una narrazione molto semplicistica e tipica per i prodotti dell’infanzia, in cui il punto di arrivo è sempre rappresentato dal raggiungimento di una bontà indispensabile per il protagonista, aderendo ad una visione in bianco e nero della vita e delle relazioni.

Al contrario, questa pellicola ci racconta come sia del tutto normale vivere una via di mezzo.

Possiamo essere altruisti, creativi e intraprendenti, ma al contempo anche egoisti, bisognosi di attenzioni, sfiduciati, ricalcando e ampliando il concetto del cocktail di emozioni già introdotto nel precedente capitolo.

E c’è ancora spazio per crescere.

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L’isola dei cani – Una favola sanguinosa

L’isola dei cani (2018) è la seconda avventura animata in stop-motion di Wes Anderson, dopo l’ottimo Fantastic Mr. Fox (2009).

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 35 milioni di dollari – fu un discreto flop commerciale, con appena 64 milioni di incasso.

Di cosa parla L’isola dei cani?

Giappone, 1938. A fronte di un’epidemia di influenza canina, il perfido sindaco di Megasaki ordina di mettere tutti i cani in quarantena su un’isola di rifiuti.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’isola dei cani?

Chief e gli altri cani in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Dopo aver ampiamente apprezzato Fantastic Mr. Fox, ero sicura che avrei altrettanto gradito la visione del delizioso L’isola dei cani, in cui si trova tutto il meglio dello stile e della filmografia di Wes Anderson: una storia che gioca fra la favola e il grottesco…

…in una sorta di thriller politico impreziosito da splendide scelte estetiche e di scrittura, per un film incredibilmente trasversale, che raggiunge il pubblico più giovane per la dinamica favolistica, ma che riesce anche ad incontrare un’audience più adulta.

Insomma, da non perdere.

Guerra

Il sindaco in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

L’incipit de L’isola dei cani è uno dei miei momenti preferiti.

Riprendendo la tradizione nipponica della divisione in ere, si racconta una storia dal sapore quasi eroico, che funge sia da prologo, sia in qualche modo da foreshadowing della vicenda stessa – il piccolo samurai è sostanzialmente Atari, e così tutta la situazione di conflitto del passato è assai simile alle vicende raccontate dalla pellicola.

Tuttavia, il presente non è più consolante.

Anche se non è subito esplicitamente detto, appare chiaro come l’influenza canina non sia altro che una pallida scusa per liberarsi della tanto odiata popolazione canina, cominciando proprio colpendo al cuore del sindaco – e, come scopriremo poi, del suo figlio adottivo – esiliando il povero Spots.

Selvaggio

Chief in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

L’isola dei cani è un luogo selvaggio.

E Chief si sente a casa.

Fin da subito il protagonista respinge ogni tipo di contatto con l’umano invasore, ponendosi in una posizione di distanza dagli altri cani, accomunato da un’origine più o meno borghese, da un padrone a cui sentono di appartenere e da cui vorrebbero tornare…

Chief e gli altri cani in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

…mentre Chief si è lasciato definire dal quel mondo che l’ha schiacciato ed isolato, rivendicano quella vergogna sociale – essere un randagio senza padrone – come invece un motivo di vanto, nonostante la grande tristezza che accompagna il doloroso racconto del suo passato.

Per questo, il viaggio con Atari è il suo più grande ostacolo.

Equilibrio

In L’isola dei cani Wes Anderson è (ancora) in stato di grazia.

Questa pellicola rappresenta dal mio punto di vista l’ultimo momento prima di una caduta di stile nella totale autoreferenzialità nei successivi The French Dispatch (2021) e Asteroid city (2023), in cui ancora Anderson riesce a giocare molto bene fra i due poli opposti della sua estetica.

Da una parte, un’estetica ricca e minuziosa, basata su una perfetta simmetria e su tinte pastello, che accompagnano anche un taglio narrativo che per la maggior parte abbraccia toni favolistici ed idilliaci…

… dall’altra, inserti più dark, che spaziano dal grottesco al crudo realismo – come la gabbia con dentro le ossa del presunto Spots – fino all’effettivo thriller politico con tinte quasi hitchcockiane.

Un equilibrio, insomma, che ricorda molto da vicino l’appena precedente Grand Budapest Hotel (2016).

Rinascita 

Chief e Atari in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

La rinascita di Chief, paradossalmente, passa per Atari.

Diventati improvvisamente compagni di viaggio, inizialmente il protagonista si dimostra piuttosto ostile all’idea di accompagnare questo giovane ragazzo – come d’altronde prima si era persino rifiutato di lasciarsi medicare da lui.

Così ne segue un apparente distacco definitivo…

Chief  pulito in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

…che si conclude invece positivamente ad un ritorno di Chief sui suoi passi, lasciandosi progressivamente sempre più adottare da Atari, il cui rapporto raggiunge il suo apice grazie al bagnetto: un momento che sembra solo un piccolo quadretto intimo fra i due…

…ma che in realtà definisce la rinascita del protagonista: proprio come Richie in The Royal Tenenbaums (2001), anche Chief, liberandosi della sporcizia che l’aveva definito come un aggressivo randagio, si riscopre in una nuova veste.

Lieto fine

Il finale de L’isola dei cani è un altro esempio di ottimo equilibrio.

Tutta la dinamica politica alterna toni molto diversi: da una parte è effettivamente una storia piuttosto sanguinosa, in cui una sorta di governo ombra sceglie da dietro le quinte le sorti del Giappone e, soprattutto, della sua popolazione canina. 

Per questo non mancano tutti gli elementi tipici di un thriller fantascientifico: un’epidemia controllata, un’isola prigione, nemici politici misteriosamente tolti di scena per degli apparenti suicidi inspiegabili…

Eppure, tutta la vicenda è veramente a misura di bambino: accogliendo dei toni propri del cinema per ragazzi, la pellicola racconta la tipica storia di un gruppo di giovanissimi che comprende la vera portata della macchinazione in atto prima degli adulti stessi.

Proprio per questo il finale è quasi un lieto fine, in cui i ragazzini che tanto adorano i loro cani si sostituiscono ai più aspri adulti che li volevano eliminare, creando delle leggi anche fin troppo dure per punire chiunque si permetta di mettere le mani sui loro amati compagni di vita.

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Death Parade – Il peggiore di noi

Death Parade (2015) di Yuzuru Tachikawa è serie TV un anime di genere drammatico e fantastico.

Trasmessa in Giappone nei primi mesi del 2015, è arrivata in Italia tramite la web TV Dynit.

Di cosa parla Death Parade?

In un aldilà immaginario, i defunti sono sottoposti a dei giochi apparentemente innocui, in realtà mortali…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Death Parade?

Assolutamente sì.

Death Parade è un ottimo esempio di serie TV anime che riesce a coniugare al suo interno un ottimo equilibrio di temi e di tagli narrativi, passando dai frangenti più drammatici, thriller e quasi orrorifici, fino a momenti invece più spiccatamente comici e leggeri. 

Oltretutto nella serie vengono affrontati una grande varietà di concetti filosofici piuttosto fondamentali, come il valore della vita e la volubilità dell’animo umano davanti alle situazioni più spiccatamente stressanti e stringenti.

Insomma, da vedere.

Introduzione

Decim in una scena di Death Parade (2015) di Yuzuru Tachikawa

L’introduzione di Death Parade viaggia su due binari.

La primissima puntata – Death Seven Darts – introduce il più semplice degli scenari, per farci mettere il primo piede dentro la porta della serie: una coppia idilliaca di sposi si trova a scontrarsi in un gara apparentemente molto innocua di freccette.

Invece, già qui assistiamo alla prima escalation emotiva dei protagonisti: colpiti nei punti più sensibili, progressivamente si risveglia in loro la memoria delle ombre del loro rapporto, che li porta a scagliarsi gli uni contro gli altri in maniera sempre più feroce.  

Chiyuki in una scena di Death Parade (2015) di Yuzuru Tachikawa

Poi si cambia prospettiva.

La scena è riproposta dal dietro le quinte, dal punto di vista ancora molto ingenuo di Chiyuki, una giudice apparentemente molto improvvisata ed ingenua e che rimane sconvolta davanti alla crudeltà del gioco, e alla freddezza del giudizio…

…che, fin da subito, si rivela fallace.

Eterno

Decim e Chiyuki in una scena di Death Parade (2015) di Yuzuru Tachikawa

Il destino dell’umano è duplice.

Superando la banalizzazione del destino infernale e paradisiaco, il defunto viene in realtà messo nella condizione di essere scelto per un annullamento totale del suo essere, il vuoto, la caduta eterna dell’anima spogliata di ogni elemento di concretezza e vita

…oppure per essere salvato e riportato in un altro corpo terreno: anche nelle peggiori condizioni possibili, non ha comunque dato il peggio di sé, ma ha mantenuto nel complesso un comportamento dignitoso e che merita di continuare ad esistere.

Eppure non è così semplice.

Tatsumi in una scena di Death Parade (2015) di Yuzuru Tachikawa

Non vivendo le emozioni umane in prima persona, i giudici si illudono che questo test sia il metodo migliore per definire il valore di un’anima umana, proprio perché l’integrità di della stessa deve essere perpetua e inscalfibile neanche dai peggiori stimoli.

Invece, come ben ci racconta il detective nel suo duetto di puntate, è possibile per ogni essere umano dare il peggio di sé se messo nelle giuste condizioni – come dimostra lui stesso: prima un integerrimo poliziotto, infine uno spietato vigilante.

Per questo, la mancanza di empatia è così squalificante.

Emozione

I giudici sono delle bambole.

Dei burattini che vivono nella totale alienazione rispetto all’umano, che non le comprendono le sfumature, ma anche anzi propongono, in particolare Decim nelle sue prime battute, con una freddezza quasi meccanica i death game che definiscono il destino dei loro ospiti.

In questo modo, però, si perdono le infinite sfumature di significato che definiscono la complessità dell’umano, che non può essere giudicato solamente per una piccolissima parte della sua esistenza

In questo senso, il concetto di empatia si sviluppa su più livelli. 

Altro

L’umano è condannato per il suo egoismo.

I giochi mortali di Death Parade sono proprio per questo volti a comprendere quanto il defunto dia valore alla propria sopravvivenza e quanto invece sia disposto ad empatizzare con l’altro, perfino a sacrificarsi per lo stesso.

Un primo accenno di questa dinamica si vede quando Mayu Arita, una ragazzina apparentemente molto sciocca, sceglie di sacrificare la sua vita per il suo idolo, per arrivare a gettarsi nel vuoto pur di ritrovare l’anima di Harada.

Ma, soprattutto, Decim capisce il concetto dell’empatia grazie a Chiyuki.

Decim in una scena di Death Parade (2015) di Yuzuru Tachikawa

La ragazza era stata vittima della sua incomunicabilità, del suo essere incapace di esternare le proprie complesse emozioni, lasciando in vita persone che invece avrebbero potuto aiutarla, avrebbero potuto darle un nuovo motivo per vivere.

E quindi il suo grande insegnamento per Decim è il voler tornare in vita non per un proprio egoismo personale di rivivere e annullare la propria autodistruzione, ma piuttosto per colmare quel vuoto che ha lasciato negli altri.

E se un personaggio così austero come Decim riesce ad accennare un timido sorriso, c’è ancora speranza…

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Inside out – Il diritto all’infelicità

Inside out (2015) di Pete Docter è uno dei film Pixar che negli anni sono più entrati nei cuori degli spettatori.

Non a caso, alla sua uscita, con un budget di 175 milioni di dollari, incassò quasi 900 milioni in tutti il mondo.

Di cosa parla Inside out?

Riley è una ragazzina di 11 anni con una vita molto felice. Eppure qualcosa di strano sta succedendo nella sua testa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Inside out?

Gioia, Tristezza, Disgusto e Rabbia in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Assolutamente sì.

Inside out è uno dei migliori prodotti Pixar usciti dopo la piccola parentesi di produzioni meno indovinate fra il 2011 e il 2013, tornando ai grandi fasti dei primi, indimenticabili film, portando in scena un piccolo cult molto popolare ancora oggi.

E, soprattutto, la pellicola riesce nell’equilibrare la narrazione per renderla accessibile ad un pubblico infantile – in particolare, con i vari accenni comici – ma ampliando la platea per raccontare una storia incredibilmente trasversale.

Origine

Gioia in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

All’inizio c’era solo Gioia.

Il suo personaggio rappresenta l’emozione dominante fin dall’inizio della storia, che combatte e tiene a bada gli altri sentimenti, che appaiono per lo più negativi ed incontrollabili – e che, per questo, necessitano di una guida che sappia mettere un freno ai loro slanci.

In particolare, Tristezza viene costantemente messa da parte, considerata un’influenza unicamente negativa che deve il più possibile essere tenuta fuori dal bilancio giornaliero di Riley e dalla sua vita idilliaca.

Eppure, proprio qui sta il problema.

La ragazzina ha una personalità piacevole e frizzante, derivata dai suoi Ricordi Base,  esclusivamente gioiosi, e non ha sostanzialmente nulla di cui lamentarsi: una famiglia accogliente e supportiva, amicizie fraterne e solide, una vita sostanzialmente felice…

…che in un attimo viene stravolta da un brusco cambio di scenario, in cui Riley tenta con tutte le sue forze di vedere il lato positivo, ma che, fra il dormire in una stanza spoglia, la pizza con gli odiati broccoli e l’ansia per la nuova scuola, sembra davvero impossibile.

Ma Riley è costretta ad essere felice.

Deriva

Riley in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Quando Gioia sembra ormai costretta a farsi da parte in una giornata disastrosa, la madre interviene in un modo apparentemente molto positivo, in realtà assolutamente disastroso per il benessere emotivo della protagonista:

si congratula con lei per riuscire ad essere felice, nonostante tutto.

Così Riley si trova sostanzialmente costretta a nascondere le sue vere e complesse emozioni, e, appena messa al centro dell’attenzione con una delle sue più grandi paure – essere chiamata dalla maestra – crolla totalmente su sé stessa.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Infatti, anche se Tristezza è stata programmaticamente messa da parte, non riesce a trattenersi dall’intrufolarsi in questa delicata situazione, andando ad inquinare quei ricordi felici che hanno definito la personalità di Riley fino a questo momento…

…e a creare così un ricordo fondamentale del tutto infelice.

Ma questo è solo l’inizio di una grande e fondamentale avventura.

Percorso

Gioia in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Il viaggio di Tristezza e Gioia funziona in due direzioni.

Da una parte, mostra l’intricato quanto spesso divertente dietro le quinte della testa di Riley, che ricorda in qualche modo i fasti di Esplorando il corpo umano (1987 – 88) in cui la mente della protagonista è una piccola fabbrica con le sue diverse sezioni e regole.

Dall’altra, racconta ancora più esplicitamente il rapporto fra le due emozioni, in condizione di totale antagonismo, dovuto anche ad una sostanziale superficialità di Gioia, che ha sempre considerato in maniera esclusivamente negativa Tristezza.

E proprio per questa non la ascolta.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Infatti, Gioia si intestardisce verso una conclusione dell’avventura semplice e positiva, non riuscendo ad accettare il crollare progressivo dei capisaldi della personalità di Riley – in particolare, la famiglia – e rimanendo sostanzialmente indifferente ai consigli di Tristezza.

Una tendenza che si nota molto chiaramente quando, nonostante gli avvertimenti della sua compagna di viaggio, Gioia sceglie di seguire Bing Bong nella sua disastrosa scorciatoia, e così anche quando si intestardisce che l’unico modo per svegliare Riley sia con immagini gioiose e assurde, invece che con la più semplice paura.

In senso più generale, Gioia non capisce l’oblio.

Oblio

Gioia, Tristezza, e Bing Bong in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

La memoria è fondamentale quanto l’oblio.

Vivendo in un momento di passaggio, è del tutto normale per Riley dimenticarsi di alcuni ricordi inutili – come nozioni puramente scolastiche – o lasciarsi alle spalle elementi fin troppo legati alla sfera infantile – come il castello delle principesse…

…o lo stesso Bing Bong.

Bing Bong in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

L’amico immaginario di Riley è privilegiato da Gioia perché legato ad una fase della vita della ragazzina più semplice ed immediata, definita da emozioni chiare e divise a compartimenti stagni.

E, soprattutto, Bing Bong è legato ad emozioni del tutto positive.

E proprio Bing Bong è una delle vittime dell’autodistruzione disastrosa – quando necessaria – dei capisaldi della sua personalità di Riley, ormai in balia di istinti immediati ed emozioni esplosive ed incontrollabili.

Insomma, per Riley è ora di crescere.

Crescere

Riley in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

La crescita è equilibrio e varietà.

Possiamo notare che la mente della madre di Riley l’emozione di punta sia la Tristezza, nonostante la donna si dimostri in più momenti propositiva ed accogliente, per nulla quindi dominata da un unico sentimento, ma capace di mantenere solido un equilibrio emotivo fondamentale per l’essere adulti.

Proprio per questo Gioia, che in un primo momento aveva cercato di mettere da parte Tristezza, capisce come questo sentimento sia in realtà presente anche nei momenti che pensava fossero esclusivamente felici, e come sia anzi necessario per plasmare la personalità della protagonista.

Per questo infine Riley si sente rinata, torna dalla sua famiglia e accetta finalmente che i suoi ricordi positivi le trasmettano invece una forte malinconia, capendo al contempo come gli stessi possano essere anche l’occasione per ripartire come una persona diversa e più consapevole.

Così la sua mente è ora aperta a nuove reazioni ed emozioni, a ricordi non più definiti da un unico sentimento, ma resi significativi perché nati dall’unione di più di questi, sia positivi che negativi, per definire una nuova, variegata personalità.

E ora manca solo la pubertà.

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Il libro della giungla – La naturale evoluzione

Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman è il diciannovesimo Classico Disney e l’ultimo uscito sotto la supervisione di Walt Disney, che venne a mancare proprio l’anno prima.

A fronte di un budget di 4 milioni di dollari, fu un incredibile successo commerciale: 73 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Il libro della giungla?

Mowgli è un orfano abbandonato nella giungla, che crescerà sotto la protezione (e minaccia) di diversi animali…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il libro della giungla?

Mowgli, Baloo e Baghera in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Assolutamente sì.

Il libro della giungla è un ottimo esempio di racconto di formazione mascherato, la cui prospettiva cambia se visto con un occhio più adulto, capace di cogliere i sottili sottintesi presenti nella pellicola.

Inoltre, pur facendosi portatore di una mentalità molto distante dallo spettatore contemporaneo, è uno splendido spaccato della stessa, impreziosito da personaggi iconici, anche se spesso niente più che protagonisti di siparietti comici quasi fine a sé stessi.

Il libro della giungla dietro le qunte

Noi possiamo fare personaggi animali più interessanti

Queste le parole di Bill Peet, sceneggiatore di moltissimi Classici a partire da Biancaneve e i sette nani (1937), che propose l’opera di Rudyard Kipling come punto di partenza per il nuovo prodotto targato Disney.

La prima idea di sceneggiatura, che cercò di semplificare molto il romanzo originale – dove, per esempio, Mowgli faceva avanti e indietro dal villaggio – e aggiungere personaggi – soprattutto Re Luigi – fu considerata poco vendibile da Disney.

Per questo, Bill Peet abbandonò la Disney nel 1964.

A questo punto Walt Disney assunse Larry Clemmons come nuovo sceneggiatore, dandogli il libro e intimandolo più o meno scherzosamente di non leggerlo, intervenendo a più riprese nella gestione della sua ultima storia.

La sceneggiatura eliminò molte scelte di Bill Peet, ma mantenne i caratteri dei personaggi, che dovevano essere l’asse portante del film: la sceneggiatura era più un modello di scene da cui partire, poi riempite dagli sceneggiatori di gag e battute.

Il casting vocale fu essenziale.

Molta della personalità e dell’aspetto dei personaggi fu modellato sui suoi doppiatori – sopratutto per Shere Khan, doppiato da George Sanders – e inizialmente si pensava ad una partecipazione dei Beatles per gli avvolti – da cui le particolari capigliature – ma che non andò mai in porto.

L’animazione fu fatta con la xenografia e con un’animazione più grezza rispetto ad altri prodotti precedenti – specificatamente Dumbo (1941) – e gli sfondi vennero dipinti a mano.

Famiglia

La famiglia di Mowgli è usa-e-getta.

Bagheera – il padre spirituale del protagonista – non volendosi prendere in toto sulle spalle la formazione del neonato, sceglie di lasciarlo nelle amorevoli – ma potenzialmente anche pericolose – zampe di una neonata famiglia di lupi.

Un punto di partenza che però funge più da prologo: il quadretto familiare viene dopo poco vanificato dall’intrusione della missione del protagonista e dall’introduzione – seppur solo a parole – dell’antagonista.

I lupi in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Per questo le poche – e uniche – battute del padre lupo di Mowgli lasciano leggermente spiazzati: il suo personaggio esprime un affetto per il protagonista che in scena è stato appena accennato, e accetta senza troppe proteste la decisione del clan di allontanarlo.

E, in questo modo, rimane l’unico personaggio a scomparire totalmente dalla scena.

Crescere

Mowgl in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Di cosa parla veramente Il libro della giungla?

Questa prima fase della vita di Mowgli è, molto banalmente, l’infanzia – e su più livelli: vivendo sotto la protezione di un branco di lupi, il protagonista è rimasto fin qui all’oscuro della vera natura della giungla – e, per estensione, della vita.

Per questo Mowgli non capisce perché Bagheera voglia condurlo in un villaggio umano, non capisce perché non può vivere in una realtà in cui fino a quel momento era stato amorevolmente accolto.

Mowgli e l'elefante in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Eppure, la sua natura indifesa è in più momenti rivelata.

Nonostante, infatti, cerchi a più riprese di imitare gli altri animali – il giovane elefante Hathi Jr., e poi Baloo – in realtà Mowgli manca proprio degli strumenti essenziali per sopravvivere in quell’ambiente – banalmente, quando si lamenta di non avere gli artigli per arrampicarsi al sicuro su un albero.

E, non a caso, mentre tutti i personaggi animali combattono con le loro risorse naturali – e sfruttando l’ambiente che li circonda – Mowgli affronta e sconfigge Shere Khan con armi squisitamente umane – il bastone e poi il fuoco.

Ma le tentazioni sono molteplici.

Tentazioni

Mowgli e Khaa in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Le tentazioni della giungla sono rappresentate da un ventaglio piuttosto variegato di personaggi

…e che si aprono a diverse letture.

Il primo – e più insidioso – è sicuramente Khaa: questo maligno serpente vive di una doppia natura, risultando infido, ma anche piuttosto fallace – vista la facilità con cui si lascia stanare da Shere Khan.

Il suo personaggio racconta molto banalmente le tentazioni che deviano l’umano dalla retta via – sempre all’interno della stringente idea sociale degli Anni Sessanta – con tentazioni appetibili e mortali insieme – droga, alcol, gioco d’azzardo…scegliete voi.

Mowgli e Re Luigi in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Ancora più significativo è Re Luigi.

Se considerato come villain, l’orango è l’esatto opposto di Shere Khan: così innamorato dell’umano da voler usare Mowgli per comprendere ancora meglio quel passaggio evolutivo che gli sembra negato.

Al contempo, rappresenta il potenziale smarrimento del protagonista, che, intestardendosi nell’essere un animale, nel vivere nella giungla, rischia di perdere la sua vera natura umana – e, di conseguenza, non crescere mai.

Baloo in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Infine, l’icona del film: Baloo.

Il simpatico orso rappresenta forse la figura più lontana dall’immaginario contemporaneo: come il suo personaggio sceglie una vita semplice, fatta di poche, indispensabili risorse, del vivere alla giornata e senza una particolare programmaticità…

…nella visione del tempo Baloo rappresenta una vita caotica e senza certezze – la stessa di Biagio in Lilli e il vagabondo (1955) – un’eterna giovinezza mancante del passaggio dovuto e necessario alla vita adulta (e matrimoniale).

Paura

Shere Khan in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Shere Khan è la vera minaccia.

Un villain davvero straordinario, che rimane nell’ombra per molto tempo, raccontandosi come un antagonista su più livelli: non immediatamente aggressivo, ma in primo luogo macchinatore, che ascolta quello che lo circonda e medita sul momento giusto per attaccare.

Al contempo, sembra un villain imbattibile: Shere Khan supera in violenza e forza tutti gli altri personaggi, ed è insidiato solamente dagli strumenti umani che Mowgli utilizza contro di lui – motivo per cui voleva eliminarlo preventivamente.

Shere Khan e Mowgli in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Ma il confronto con Mowgli è ancora più rivelatorio.

Shere Khan rimane piuttosto stupito dall’arroganza di questo bambino, che non sembra per nulla minacciato dalla sua presenza, ancora una volta dimostrando di non avere idea dei pericoli della giungla dove vorrebbe tanto vivere.

Di fatto, l’utilizzo di armi umane segna il passaggio fondamentale del protagonista – che comincia ad abbracciare la sua umanità e capisce come deve rapportarsi con la giungla – che lo porta alla scelta fondamentale.

Mowgli e gli avvoltoi in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

E la scelta appare ancora più stringente per l’incontro con gli avvoltoi.

Questo piacevolissimo siparietto comico racconta in realtà un sottofondo piuttosto lugubre: tutta l’interazione si basa sul doppio significato di being down essere giù di morale, ma anche essere giù, per terra – e di being around stare insieme, ma anche intorno, come gli avvoltoi su un cadavere…

Quindi la giusta scelta di Mowgli, se non vuole andare incontro ad un destino mortale, è scegliersi una buona moglie, che, mentre raccoglie l’acqua al fiume, racconta esplicitamente quale sarà l’appetibile vita del protagonista se deciderà di seguirla.

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La spada nella roccia – Il coming of age della Storia

La spada nella roccia (1963) è il diciottesimo Classico Disney, nonché l’ultimo uscito prima della morte di Walt Disney – e l’ultimo che supervisionò direttamente.

A fronte di un budget di 2 milioni di dollari, fu un buon successo commerciale: 4,75 milioni di dollari nella sua prima distribuzione.

Di cosa parla La spada nella roccia?

Artù è un giovane ragazzo orfano destinato a diventare uno scudiero. Ma il destino ha in mente qualcosa di diverso per lui…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La spada nella roccia?

Assolutamente sì.

Anche se spesso è considerato un film minore nella storia della Disney di questo periodo, La spada nella roccia è una pellicola da riscoprire: ereditando la narrazione per quadri di Lilli e il Vagabondo (1955), questo Classico è un tipico coming of age

…ma che riesce a distinguersi da molti suoi simili grazie ad un umorismo piacevolissimo, una morale che rappresenta un incontro fra realtà storica ed evoluzione del protagonista piuttosto peculiare, e momenti ormai diventati iconici.

Insomma, da vedere.

La spada nella roccia Produzione

La spada nella roccia era nei piani della Disney fin dal 1939.

Infatti quell’anno Walt Disney acquistò i diritti per trasporre l’opera di T. H. White, ma in piani produttivi saltarono più volte negli anni, prima di tutto per lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, e poi per il progressivo disinteresse nei confronti del progetto.

Proprio come La carica dei 101 (1961), anche la sceneggiatura de La spada nella roccia fu sviluppata da un unico autore, che richiese non meno di due rielaborazioni, anche per la difficoltà intrinseca di adattare l’opera di partenza.

Il casting vocale fu turbolento.

La prima scelta per il doppiaggio di Artù fu Rickie Sorensen, che però crebbe considerevolmente durante la produzione, al punto da dover essere sostituito da due figli del regista, Wolfgang Reitherman.

Ne consegue che, fra una scena e l’altra, e persino all’interno della stessa scena, si può notare un cambiamento vocale per il personaggio di Artù.

Per la parte animata si utilizzò ancora una volta la tecnica Xerox, con l’aggiunta della tecnica touch-up per la fase di pulizia delle bozze che andavano poi effettivamente a comporre le immagini della pellicola.

Grazie a questa nuova idea, gli assistenti di animazione, che prima avrebbero dovuto trasferire gli schizzi degli animatori della regia su nuovi fogli di carta, scrivevano invece direttamente sugli schizzi degli animatori, riuscendo così a risparmiare molto tempo.

Immaturità

Pur con qualche perdonabile ingenuità, il racconto dell’immaturità storica de La spada nella roccia è davvero ottimo.

Il periodo portato in scena può essere volgarmente collocato nell’Alto Medioevo, sicuramente in un’epoca pre-carolingia: per quanto secoli non così devastanti come spesso raccontati, comunque rappresentarono un momento di grande povertà e di dispersione culturale.

Il deterioramento del sistema scolastico, la frammentazione del panorama intellettuale, dovuta anche alla devastazione politica, rende infatti credibile un analfabetismo diffuso e un’epoca basata unicamente sul valore della forza.

E proprio qui si inserisce Merlino.

Prospettiva

Merlino rappresenta lo spettatore…

…e con lo stesso dialoga.

Avendo una prospettiva – seppur non chiarissima – dell’evoluzione umana, quasi da umanista incallito, Merlino non riesce a sopportare questo guazzabuglio medievale, quasi come se fosse lo spettatore contemporaneo calato in una realtà senza elettricità, senza idraulica, senza cultura…

Proprio per questo, l’educazione di Artù non è fine a sé stessa.

Merlino non vuole solo educare il futuro Re di un’Inghilterra mancante di una guida, mancante di alcun tipo di lungimiranza, ma vuole fare in modo che lo stesso sia il punto di svolta per la stessa, soprattutto culturalmente parlando.

In questo senso il mago esagera anche nel suo coinvolgimento – proponendo materie, come la biologia, che non esistevano proprio in quel periodo – ma proprio perché nella sua prospettiva è fondamentale gettare le basi per un’Europa acculturata e con una visione proiettata verso il futuro.

Per questo Artù non è Artù…

Corrispondenza

Senza voler portare un’eccessiva sovralettura, il personaggio di Artù, più che corrispondente al mitico condottiero britannico del VI sec., è una rappresentazione più o meno consapevole di Carlo Magno.

Saltando qualche secolo in avanti e spostandoci a livello geografico, il leggendario Re dei Franchi era sostanzialmente una analfabeta che gettò le basi culturali fondamentali per la rinascita intellettuale dell’Occidente fra il Basso Medioevo e l’Età Umanistica.

Insomma, una figura storica capace di cambiare prospettiva.

Ed è proprio questa la base della sua apparentemente stramba educazione.

Merlino cerca di porre il giovane pupillo in vesti diverse e molto più indifese, dove Artù deve capire come salvarsi la pelle grazie al suo intelletto e non più (solamente) tramite la forza, proprio per portare ad una visione molto più a lungo raggio.

In questo modo Artù potrà effettivamente essere il Re che farà cambiare prospettiva al suo Paese e all’Occidente tutto, proprio mentre l’Inghilterra sta cercando il suo prossimo regnante – e la sua prossima guida – ancora tramite una prova di forza.

Ostacolo

Perché Artù può estrarre la spada?

Anche se la sfuriata di Merlino quando il giovane protagonista sceglie di diventare uno scudiero sembra troppo improvvisa, in realtà è del tutto giustificata: nonostante i suoi grandi sforzi, il suo pupillo sceglie comunque di sottomettersi alla cultura dominante…

…e di porsi anzi in secondo piano in un mondo definito da scontri all’ultimo sangue e da una totale dimenticanza del vero simbolo che avrebbe definito il futuro del Paese – la Spada nella Roccia – che viene riscoperto proprio dal protagonista.

E Artù può estrarre la spada perché, nonostante la sua poca forza fisica, ha dimostrato in più occasioni di sapersi – anche solo potenzialmente – adattare a circostanze cangianti e sfidanti, e quindi di essere capace, a differenza dei suoi compatrioti, di diventare la guida di cui il suo Paese ha bisogno.

Per questo Merlino sceglie di tornare da Artù proprio nel momento di maggior bisogno, quando lo stesso ha mosso il primo passo nella sua evoluzione, ma quando ha ancora bisogno di una insegnante che gli faccia guardare al futuro con una maggior consapevolezza e intelligenza.

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La carica dei 101 – Il mondo è nelle vostre zampe

La carica dei 101 (1961) è il diciassettesimo Classico Disney, che salvò la compagnia dal collasso economico dopo le ingenti perdite di La bella addormentata nel bosco (1959).

Infatti, a fronte di un budget di circa 4 milioni di dollari, alla sua prima uscita incassò 14 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla La carica dei 101?

Pongo e Peggy sono due orgogliosi genitori di quindici splendidi dalmata. Ma non solo gli unici ad essere interessati alla cucciolata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La carica dei 101?

Pongo con i cuccioli in una scena di La carica dei 101 (1961), diciassettesimo Classico Disney

Assolutamente sì.

La carica dei 101 è uno splendido esempio di animazione di questo periodo, con un racconto ben strutturato e dai toni anche piuttosto cupi – e curiosamente anche molto espliciti – e con il secondo villain di fila genuinamente malvagio…

…che pone questa proposta secondo me diverse spanne sopra all’altra avventura caninaLilli e il vagabondo (1955) – anche per via di una particolare capacità di portare in scena la contemporaneità in maniera frizzante e piuttosto indovinata.

Insomma, da non perdere.

La carica dei 101 Produzione

La carica dei 101 era uno dei progetti di cui Walt Disney era più sicuro…

…al punto che – per questo e altri motivi – partecipò poco alla produzione.

Infatti, il romanzo originale, uscito nel 1956 e appena un anno dopo Walt Disney ne acquistò i diritti, tanto era colpito dalla storia, e affidò, per la prima volta nella storia della casa di produzione, la storia ad un unico sceneggiatore.

La sceneggiatura seguì pedissequamente il libro, ma condensò diversi personaggi in uno.

Ad esempio, nella versione originale i cuccioli avevano ben due madri – una biologica e una adottiva – e così anche due tate, e Crudelia aveva anche un marito e un gatto, assenti nel film.

La scena del matrimonio creò qualche malumore.

Inizialmente infatti Anita e Rudy si univano con una solenne cerimonia religiosa, poi ripetuta dai due cani, scelta considerata in qualche modo offensiva, e per questo mutata con un matrimonio in abiti civili perché apparisse meno religioso.

In un momento di grande crisi per la Disney, dove c’era la concreta possibilità di chiudere il reparto animato, si cercarono modi per risparmiare: in particolare, si utilizzò la molto più economica tecnica Xerox per alleggerire tempi e budget.

Ovviamente, come per tutti i prodotti di questo periodo, si utilizzarono modelli sia umani che canini per agevolare il lavoro degli animatori.

Motore

Pongo in una scena di La carica dei 101 (1961), diciassettesimo Classico Disney

Pongo è fin da subito il motore dell’azione.

Fra l’altro, l’ironia iniziale è semplicemente sublime: la storia viene introdotta da una voce fuori campo senza volto, che lo spettatore associa ovviamente al giovane uomo che sta suonando il pianoforte…

…ma che invece si rivela essere quella di Pongo, che infatti appella il suo padrone come pet – che indica specificatamente l’animale domestico, in italiano in maniera più ironica lo chiama fido compagno.

E, in effetti, è proprio Rudy ad essere il compagno di Pongo, non il contrario.

Di fatto il cane protagonista si preoccupa per l’arida vita sentimentale del suo padrone, e comincia a sondare il terreno per trovargli una compagna, con una passerella deliziosamente ironica di cani e padroni che si assomigliano fin troppo…

E così, per quanto le dinamiche del primo atto scorrono piuttosto spedite – in men che non si dica Rudy e Anita sono sposati e poco dopo Pongo e Peggy hanno la cucciolata – la dinamica iniziale è ben strutturata, con un’apparente situazione disastrosa che si conclude al meglio.

Ma vi è un ulteriore significato.

Segreto

Pongo in una scena di La carica dei 101 (1961), diciassettesimo Classico Disney

Le dinamiche de La carica dei 101 sono sottilmente geniali proprio perché parlano direttamente al cuore del bambino.

Infatti, come venne confermato anche dai successivi successi di Genitori in trappola (1998) e, sopratutto, di Toy Story (1995), raccontare un mondo segreto agli adulti, ma assolutamente necessario per gli stessi, presenta un’attrattiva incredibile per il pubblico infantile. 

Così i bambini si potevano facilmente identificare in Pongo – non a caso, narratore per la maggior parte del tempo – che mette in atto un piano ben studiato per salvare la situazione più volte…

…senza che spesso gli stessi padroni se ne rendano conto.

Questa dinamica è infatti ancora più rafforzata da questa presunta rete segreta canina (e non) che permette di intervenire nel salvataggio dei cuccioli rapiti dove la stessa polizia londinese è stata incapace di mettere la zampa, sfruttando anche l’ingenuità degli umani – che non pensano che i cani possano essere così intelligenti.

Un elemento che accompagna tutta la narrazione e che raggiunge la sua ideale conclusione quando tutta la famiglia (ormai allargata) torna finalmente a casa davanti agli occhi stupiti di Rudy e Anita – ricalcando in un certo senso il finale di Le avventure di Peter Pan (1953).

Ma c’è di più.

Contemporaneo

La tv in una scena di La carica dei 101 (1961), diciassettesimo Classico Disney

Un altro grande punto di forza de La carica dei 101 è il suo essere incredibilmente contemporaneo.

Il diciassettesimo Classico Disney rappresentò infatti molto intelligentemente la nuova grande attrattiva per il pubblico di bambini e adulti: la televisione, che ormai era una costante nei salotti di molti spettatori, oltre ad essere una grande attrattiva per i più piccoli.

Non a caso, la stessa è in più momenti sia l’occasione di gag – come quella splendida del programma Indovina il mio crimine? – ma anche un elemento fondamentale della storia: grazie alla televisione il Sergente Tibbs riesce a far scappare i cuccioli…

…anche se uno di loro rischiava di rimanere indietro proprio perché ipnotizzato dalla stessa.

Pongo e Peggy in una scena di La carica dei 101 (1961), diciassettesimo Classico Disney

La televisione, inoltre, permette di portare in scena un quadretto familiare contemporaneo e piuttosto realistico, in cui la famiglia canina si comporta proprio come la sua controparte umana…

…rendendo la visione del programma tv con protagonista l’eroico Fulmine proprio un appuntamento serale per adulti e cuccioli, una sorta di storia della buonanotte riadattata in una veste moderna.

Economico

Crudelia e Anita in una scena di La carica dei 101 (1961), diciassettesimo Classico Disney

Crudelia De Mon è un villain piuttosto trasversale.

Da una parte è una perfetta riproposizione del cattivo della storia alla Malefica: un antagonista veramente maligno e senza cuore, che i bambini riescono ad identificare chiaramente sia per il nome, sia per il suo esuberante aspetto.

Non a caso, Crudelia è chiamata anche strega, e per tutta la pellicola getta un’ombra di grande timore nelle vite dei protagonisti, dicendo piuttosto esplicitamente come voglia uccidere questi cuccioli per farci una pelliccia.

Crudelia in una scena di La carica dei 101 (1961), diciassettesimo Classico Disney

Al contempo, è un villain molto comprensibile per un adulto.

Infatti, Crudelia non è altro che una donna ricca e avida, interessata solamente al suo aspetto e ai suoi vestiti, che più volte deride Anita e Rudy per la loro condizione economica e sociale inferiore

…e che cerca di far leva su di loro proprio per la questione economica: sarebbe stato in effetti molto difficile per questa famiglia piccolo borghese mantenere non meno di diciassette cani, che per questo Crudelia vuole acquistare per una forte somma.

Pongo e Rudy in una scena di La carica dei 101 (1961), diciassettesimo Classico Disney

Ma Rudy non ci sta.

Per certi versi il suo personaggio è l’eroe secondario della storia, un self-made man che non solo si impunta per non farsi comprare da Crudelia, ma anzi sfrutta la cattiveria della donna a suo vantaggio per creare una canzone di successo.

Infatti, i soldi non sono mai una vera attrattiva: nella scena finale, quando si scopre che effettivamente la canzone è stata un investimento vantaggioso, Rudy è felice solamente quando ritrova i suoi cani, scegliendo di usare i suoi guadagni non per vivere nel lusso…

…ma per comprare una casa ancora più grande con la sua nuova famiglia.

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La bella addormentata nel bosco – Una protagonista di sfondo

La bella addormentata nel bosco (1959) è il sedicesimo classico Disney basato sull’omonima fiaba dei Fratelli Grimm e sull’opera di Perrault in I racconti di Mamma Oca (1697).

A fronte di 6 milioni di dollari, fu un pesante insuccesso commerciale: appena 5,3 milioni di incasso, portando ad una perdita finanziaria tale da portare lo stesso Walt Disney a cominciare a disinteressarsi all’animazione…

Di cosa parla La bella addormentata nel bosco?

Il re Stefano e la regina Leah riescono dopo anni ad avere una bellissima bambina. Ma un invito mancato cambierà decisamente le carte in tavola…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La bella addormentata nel bosco?

Assolutamente sì.

Con mia sincera sorpresa, La bella addormentata nel bosco potrebbe essere fra i miei Classici Disney preferiti di questa fase – e per un motivo molto semplice: la storia di Aurora e Filippo è incredibilmente accessoria, mentre il fulcro della trama è altrove.

Raramente si vede in un film Disney una presenza così preponderante del villain e dei personaggi – almeno sulla carta – secondari, che invece appaiono come i veri protagonisti della stessa – o, comunque, i motori dell’azione.

Insomma, ve lo consiglio molto.

La bella addormentata nel bosco Produzione

La bella addormentata nel bosco rappresentò l’inizio della rottura di Walt Disney con l’animazione.

La lavorazione del film cominciò infatti nel 1951, ma proseguì con grande lentezza quasi fino alla fine del decennio: se inizialmente si pensava di far uscire la pellicola nel 1953, la produzione venne rimandata di ben due anni per l’impegno di Walt Disney nell’apertura di Disneyland.

La produzione riprese effettivamente nel 1956 e si programmò la nuova uscita per il 1957, ma la costruzione del parco assorbì talmente tante risorse e budget che i tempi si allungarono ancora, e Walt Disney visionò il progetto solo nell’agosto del ’57…

…ma con poco ed effettivo interesse.

La direzione artistica si rifece molto ad una produzione precedente e simile: Biancaneve e i sette nani (1937), riprendendo alcune idee scartate da Walt Disney, come tutta la dinamica della cattura del principe e la danza nel bosco fra Aurora e Filippo.

Tuttavia, si presero importanti distanze dal primo Classico: anche se l’ispirazione estetica era simile, Walt Disney volle che questo nuovo prodotto si distinguesse in maniera netta dai precedenti…

…e per questo si scelse di abbandonare lo stile più dolce e arrotondato usato in precedenza per abbracciare invece un tratto più stilizzato e spigoloso, rifacendosi anche all’estetica propria del periodo storico rappresentato.

Inoltre, La bella addormentata nel bosco fu il primo Classico ad essere fotografato secondo il nuovo processo di widescreen – il Super Technirama 70 – riservato nella storia Disney a pochissimi prodotti, ma che permetteva una cura più articolata e complessa per gli sfondi.

Inoltre, fu anche l’ultimo classico Disney inchiostrato a mano: a partire dal successivo La carica dei 101 (1961) ci si sarebbe spostati all’uso della xerografia per trasferire i disegni degli animatori dalla carta alla celluloide.

Protagonista

Aurora è così poco protagonista del suo stesso film da non apparire se non a storia già avviata.

Invece, le vere figure centrali sono subito in scena.

Dopo il breve prologo introduttivo che getta le basi della trama, appaiono fin da subito le sagge fate madrine, invitate per benedire la nascita di Aurora con un regalo a testa, dimostrando fin da subito il loro appoggio politico (?) al futuro del regno.

Questo sottile sottofondo è ben definito dall’arrivo di Malefica: i primi a reagire non sono i genitori di Aurora, ma bensì una delle tre fate, Serenella, profondamente offesa di essere definita plebaglia dalla nobile strega.

Ed è sempre la fatina ad affermare che Malefica non è benvoluta in quell’occasione, motivo per cui la Regina Leah, piuttosto impensierita, chiede – o, meglio, prega – la strega di non reagire all’offesa subita.

E la risposta di Malefica è piuttosto subdola…

Possibilità

Malefica avrebbe potuto uccidere Aurora immediatamente.

E invece sceglie una via ben peggiore.

Come si vedrà più avanti anche nel film, la punizione di Aurora non è niente di personale nei confronti della bambina, ma piuttosto una presa di posizione piuttosto forte politicamente parlando da parte della strega.

Infatti, maledicendo la protagonista con un destino crudele, Malefica si pone in una posizione di grande vantaggio rispetto a Re Stefano: la sua minaccia sarà presente sul suo regno e sul suo futuro per i prossimi sedici anni, a meno che…

…a meno che il Re non si faccia perdonare.

Infatti, anche se non viene detto esplicitamente, con la sua risposta Stefano prende una posizione molto chiara: invece che provare a porre rimedio all’offesa, appella Malefica in malo modo – strega, in inglese creature…

…e cerca, molto ingenuamente, di impedire che la profezia si avveri, distruggendo tutti gli arcolai.

E a questo punto la palla passa di nuovo alle fate.

Schema

In quanto veri motori dell’azione positiva della storia, le tre fate scelgono un modo ben più intelligente per proteggere Aurora.

Andando a nascondersi nel bosco, scegliendo abiti per così dire borghesi e rinunciando di fatto alla loro magia, il terzetto capisce che il modo migliore per impedire che la maledizione di Malefica faccia il suo corso è di nascondere Aurora.

In questo contesto decisamente serio prende piede l’umorismo piuttosto piacevole della pellicola, finalizzato evidentemente ad ammorbidire una storia con un taglio molto cupo, nonché ricca di momenti al limite dell’orrorifico.

Inoltre, la scena del compleanno di Aurora cerca anche un po’ di ridimensionare le fate.

Non delle abili strateghe e macchinatrici come si era visto all’inizio, ma delle fatine un po’ pasticcione e testarde, che finiscono per rovinare un piano lungo sedici anni per via una contesa che, per quanto umoristicamente davvero gradevole, appare altresì assai sciocca.

Tuttavia, come vedremo anche successivamente, questa dinamica del piano che si rovina in pochi attimi offre anche il fianco ad un sottofondo piuttosto inquietante: la presenza di Malefica, per quanto la si combatta, è sempre in agguato.

E Aurora?

Desiderio

Aurora è la più classica principessa Disney.

Per quanto, come detto, non sia veramente la protagonista della storia, ma bensì una pedina nelle mani di diversi personaggi, ad Aurora viene regalato un ampio segmento centrale per riuscire a definirsi.

Di fatto la principessa non è tanto dissimile da Biancaneve – vive in armonia nel bosco e parla con gli animali – ma è soprattutto dotata di un elemento che si era visto finora solo con Cenerentola: la cosiddetta canzone del desiderio.

Del tutto ignara delle dinamiche politiche che si stanno svolgendo alle sue spalle, Aurora canta il suo desiderio – incontrare il principe dei suoi sogni – definendosi proprio come personaggio quasi onirico, del tutto slegato dalle brutture terrene.

Ed effettivamente il suo sogno si realizza: quello per Filippo – il primo principe effettivamente caratterizzato fino a questo momento – è un innamoramento a prima vista, un amore predestinato – soprattutto politicamente…

Ombra

Malefica è fin troppo sottovalutata.

Per quanto le fate abbiano progettato un piano apparentemente perfetto per salvaguardare il futuro di Aurora, si lasciano facilmente battere non solo facendosi scoprire in maniera piuttosto ingenua, ma soprattutto lasciando Aurora sola nel momento di maggior pericolo.

Purtroppo, la giovane principessa può poco davanti alla maledizione di Malefica: come in trance, si incammina obbediente verso il proprio nefasto destino, accompagnata da un commento sonoro estremamente incalzante…

…e a poco servono i suoi timidi tentativi di sottrarsi ai comandi della strega, finalmente vittoriosa di aver reso inerme il futuro del regno, e di aver così realizzato la sua maligna vendetta nei confronti di Stefano.

E, a questo punto, ancora una volta, la palla passa alle fate.

Campione

La maggior parte dei personaggi sono all’oscuro di quello che sta succedendo.

Le fate scelgono programmaticamente di nascondere la loro grave mancanza, immergendo tutto il castello in un limbo di sonno profondo, al pari di Aurora, così da poter avere il tempo di risolvere la spinosa vicenda.

In particolare, le fate hanno bisogno del loro campione.

Filippo è, al pari di Aurora, una pedina.

Conscia che il principe potrebbe mettergli i bastoni fra le ruote, Malefica non solo lo rapisce, ma lo carica di un destino persino peggiore di quello della principessa: potrà lasciare il castello e tornare dalla sua amata solo quando sarà vecchissimo e sostanzialmente inerme.

E, visto che evidentemente lo stesso è incapace di liberarsi da solo – e di salvare Aurora – le fate devono ancora una volta intervenire non solo per eliminare le sue catene, ma anche per dotarlo degli strumenti per battere Malefica.

Ne segue un duello particolarmente incalzante, in cui la strega fa di tutto per impedire a Filippo di arrivare al castello, persino affrontarlo di persona nelle vesti di un diabolico drago nero, che infine il principe riesce a battere…

…mostrando, per la prima volta, il cadavere di un villain Disney.

E a queste note piuttosto lugubri segue una chiusura invece piuttosto dolce e sognante, che meglio si accompagna alla coppia di innamorati, che danzano fra le nuvole in una perfetta armonia.

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Il giardino delle parole – Alla prossima pioggia

Il giardino delle parole (2013) di Makoto Shinkai è un mediometraggio anime di genere sentimentale.

Il film è stato distribuito in Giappone insieme ad un cortometraggio, ed è arrivato in Italia con una proiezione esclusiva nel Maggio del 2014.

Di cosa parla Il giardino delle parole?

Takao e Yakari sono due persone molto sole, che si ritrovano casualmente in un giardino pubblico. E da lì nasce qualcosa di inaspettato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il giardino delle parole?

Yukari Yukino in una scena de Il giardino delle parole (2013) di Makoto Shinkai

In generale, sì.

Il giardino delle parole contiene una dinamica tipica della filmografia di Shinkai, in particolare del subito successivo Your name (2016): l’incontro apparentemente sofferto di due personaggi che sembrano destinati a vivere separati.

In questo caso il regista nipponico è sempre sul precipizio di scadere nel melodramma più smaccato, ma riesce nel complesso a mantenere un buon equilibrio dei toni, cercando il più possibile di rimanere coi piedi per terra, pur inserendo una componente fortemente drammatica ed emotiva.

Insomma, ve lo consiglio.

Fuga 

Yukari Yukino in una scena de Il giardino delle parole (2013) di Makoto Shinkai

Entrambi i protagonisti fuggono.

Per Takao la fuga è da una scuola in cui non sente di trovare un futuro, inseguendo i suoi sogni in maniera ben più matura dei suoi coetanei, rinunciando persino alle vacanze per poter lavorare e mettere via abbastanza risparmi per riuscire ad autofinanziarsi.

Yukari invece fugge da una situazione che non si sente di essere abbastanza forte da affrontare – al punto che, da qualche scampolo di dialogo, scopriamo quanto era stata profonda la sua sofferenza, non riuscendo a camminare, a mangiare altro che birra e cioccolato…

Yukari Yukino in una scena de Il giardino delle parole (2013) di Makoto Shinkai

E la pioggia è l’occasione perfetta.

La pioggia è quell’elemento che solitamente porta le persone a fuggire e a rifugiarsi nelle proprie abitazioni o in luoghi affollati, e a svuotare quel giardino che diventa invece il rifugio dei due protagonisti, inizialmente sorpresi di trovare un compagno di solitudine.

E qui di parole, paradossalmente, ne servono poche.

Essenziale

Takao Akizuki in una scena de Il giardino delle parole (2013) di Makoto Shinkai

Le parole sono ridotte all’essenziale.

In una situazione normale di incontro, nello sbocciare più consueto di un’amicizia, le prime parole che i due si sarebbero scambiati avrebbero riguardo i loro nomi, il loro passato, la loro più immediata quotidianità…

Invece è come se i due protagonisti fossero colti in fallo nella loro fuga, e per questo limitano i loro scambi di parole a quel poco da tenere l’uno compagnia all’altro – al punto che, verso il finale, Takao ammette di non sapere quasi nulla della giovane donna, neanche il suo nome…

Yukari Yukino in una scena de Il giardino delle parole (2013) di Makoto Shinkai

Ma per Yukari quel silenzio è essenziale.

Infatti, la donna è stata derubata della sua autorità, della fiducia e dei buoni rapporti che sembrava portare avanti con i suoi alunni, e, tramite questo giovane studente in fuga, riesce a ricostruire la sua identità e a rimettersi in piedi, a cambiare vita.

E, a Takao, cosa rimane?

Inizio

Takao Akizuki in una scena de Il giardino delle parole (2013) di Makoto Shinkai

Lo scioglimento della vicenda nel complesso mostra una buona intelligenza di scrittura.

Come mi ha poco convinto lo sfogo di Takao – forse non adeguatamente costruito per essere così esuberante – al contrario ho apprezzato la maturità della giovane professoressa di mettere un freno all’improvviso innamoramento del suo studente…

…così da lasciargli lo spazio per maturare.

Infatti, il finale è volutamente aperto.

Takao ha capito la lezione della donna – non lasciarsi travolgere dalle emozioni del momento – e, anche se con difficoltà, riesce a superare gli esami finali, e a continuare parallelamente a portare avanti il suo sogno…

…così da ritornare, un giorno, da Yukari, quando sarà abbastanza maturo, lasciando come pegno nel parco le scarpe che ha creato per lei, una promessa per un futuro più sereno da condividere insieme.

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Lilli e il vagabondo – I terribili cani borghesi

Lilli e il vagabondo (1955) di registi vari è il quindicesimo Classico Disney e il primo uscito sotto la Buena Vista Distribution.

A fronte di un budget di 4 milioni di dollari, fu il più grande incasso per la Disney dai tempi di Biancaneve e i sette nani (1937), con 6.5 milioni di dollari al botteghino.

Di cosa parla Lilli e il vagabondo?

Inghilterra, 1909. Lilli è una cocker amata e coccolata dalla sua famiglia. Ma sta per arrivare un intruso nella sua vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Lilli e il vagabondo?

In generale, sì.

Lilli e il vagabondo non è il più indimenticabile prodotto della Disney di questo periodo, ma è comunque una visione piuttosto piacevole, rimasta nella memoria degli spettatori per diverse scene iconiche –  di cui una piuttosto inquietante…

I suoi più importanti difetti sono rappresentati da una trama che funziona più ad episodi, con dei collegamenti fra i diversi momenti del film non sempre centrati e del tutto credibili, ma che possono nel complesso essere perdonati.

Lilli e il vagabondo Produzione

La storia di Lilli e il vagabondo fu ispirata ad una dinamica reale.

Già nel 1937 Joe Grant propose una prima idea della storia, facendo riferimento a come la sua cocker fosse stata messa da parte con l’arrivo del figlio, e negli anni sviluppò diverse idee e concept…

…ma nessuna che soddisfò Walt Disney.

Il fondatore della casa di Topolino era infatti scettico proprio sulla protagonista e sulla sua storia, troppo poco intrigante e con poca azione.

L’idea vincente arrivò all’inizio degli Anni Quaranta, quando Disney lesse su un quotidiano la breve storia Happy Dan, The Whistling Dog e propose a Grant di inserire il personaggio di Biagio.

Il lavoro continuò anche dopo l’abbandono di Grant dello studio, ma la pellicola prese forma solamente nel 1953, sulla base degli storyboard di Grant e sul racconto sopra citato.

Uno dei cambiamenti più significativi – o potenziali tali – fu la scena iconica degli spaghetti: Walt Disney era deciso fino all’ultimo a tagliarla, considerandola troppo sciocca e poco efficace.

Ma uno degli animatori, Frank Thomas, era talmente convinto di volerla inserire che la animò senza sceneggiatura, riuscendo a stupire Walt Disney che infine si convinse a mantenerla all’interno della pellicola.

Lilli e il vagabondo fu anche il primo film Disney girato col Cinemascope, quindi con un taglio dello schermo più ampio.

Questo cambiamento pose diversi problemi agli animatori, che potevano contare meno sui primi piani e avevano problemi a rendere i personaggi dominanti in una scena che altrimenti sarebbe apparsa piuttosto vuota.

Quadretto

La pellicola si apre con un quadretto familiare agrodolce.

L’arrivo di Lilli nella nuova casa è definito da un primo tentativo dei suoi padroni di addomesticarla, costringendo la cucciola a dormire nella cuccia in fondo alle scale che è stata preparata apposta per lei, con una dinamica che mi ha davvero stretto il cuore...

Ma questo è solo il primo passo della conquista di Lilli del cuore dei suoi genitori.

Come ogni bravo cane domestico, fin dal suo risveglio Lilli definisce lo spazio della casa e lo protegge, fungendo da sveglia forzata per i suoi padroni, doppiato il giardino e scacciando gli intrusi, per poi tornare con il giornale fresco di giornata in bocca.

E questa simpatica gag del quotidiano stracciato in realtà rivela molto di più: la presenza di Lilli ha illuminato la vita della famiglia, spogliandola di molte preoccupazioni e riuscendo finalmente a comporre un quadro famigliare appagante e genuinamente felice…

…ma è davvero così?

Seme

Biagio è, nel suo simpatico modo, un sobillatore.

La pellicola ci regala una breve introduzione del suo personaggio, uno spirito libero che nessuno è riuscito ad ingabbiare, che si rifiuta di far parte di una sola famiglia, ma di averne una per ogni giorno della settimana, arrivando non poco sottilmente a disprezzare l’alternativa.

E l’alternativa è proprio Lilli.

Il randagio si intrufola nella vita della protagonista nel momento di maggiore fragilità, dando voce e concretezza ai suoi dubbi e perplessità: un figlio in arrivo, per cui verrà inevitabilmente messa da parte e ridotta a mera presenza in una fredda cuccia nel giardino.

Questa inquietudine viene in prima battuta sventata dall’effettivo comportamento dei genitori, solo all’inizio piuttosto irrazionali nei loro comportamenti, ma che infine riescono infine a includere Lilli nella nuova realtà familiare senza troppi problemi.

Ma è una calma apparente…

Intruso

Per quanto iconico, lo snodo narrativo della zia Sara mi ha poco convinto.

La famiglia di Lilli abbandona su due piedi cane e figlio e li lascia alle cure di questa donna velenosa e piena di pregiudizi nei confronti dei cani, che si introduce in casa con una nuova minaccia nel taschino.

Così il siparietto inquietantissimo dei gatti siamesi che fanno a pezzi la casa e fanno ricadere la colpa su Lilli è evidentemente un meccanismo della trama per spingere definitivamente la protagonista nelle zampe di Biagio.

Tuttavia, la parte centrale è anche la più piacevole.

Nel loro scorrazzare, Biagio e Lilli prendono diverse vesti: rubagalline, venditori improvvisati e infine una coppia di innamorati nell’indimenticabile scena della pasta da Tony, una breve parentesi romantica prima del picco drammatico della pellicola.

Borghese

Il finale mi convince a tratti.

Mi hanno leggermente tediato le dinamiche del risentimento di Lilli nei confronti di Biagio, che si rifiuta di essere solamente la sua prossima conquista, e che già cerca di condurlo verso un suo snaturamento, da cane di strada a docile animale domestico.

Al contrario, piuttosto avvincente ed incalzante la scena del diabolico ratto che insidia la casa ed il bambino, e che permette alla coppia di rafforzare la fiducia nei confronti di Lilli, e infine di accogliere il randagio come nuovo membro della famiglia.

E proprio questa chiusura soffre di un taglio netto e sbrigativo.

Biagio ha presenta un cambio di carattere e di vita senza che venga mostrato alcun tipo di rimpianto, alcuna effettiva motivazione, se non l’affetto nei confronti di Lilli, che comunque non è abbastanza esplorato per giustificare questo cambiamento.

Eppure, questo finale che oggi fa sorridere, probabilmente per il pubblico degli Anni Cinquanta era la conclusione perfetta: un personaggio un po’ scapestrato, una mina vagante, che finalmente metteva la testa a posto e diventava un padre di famiglia squisitamente borghese.