Death Parade (2015) di Yuzuru Tachikawa è serie TV un anime di genere drammatico e fantastico.
Trasmessa in Giappone nei primi mesi del 2015, è arrivata in Italia tramite la web TV Dynit.
Di cosa parla Death Parade?
In un aldilà immaginario, i defunti sono sottoposti a dei giochi apparentemente innocui, in realtà mortali…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Death Parade?
Assolutamente sì.
Death Parade è un ottimo esempio di serie TV anime che riesce a coniugare al suo interno un ottimo equilibrio di temi e di tagli narrativi, passando dai frangenti più drammatici, thriller e quasi orrorifici, fino a momenti invece più spiccatamente comici e leggeri.
Oltretutto nella serie vengono affrontati una grande varietà di concetti filosofici piuttosto fondamentali, come il valore della vita e la volubilità dell’animo umano davanti alle situazioni più spiccatamente stressanti e stringenti.
Insomma, da vedere.
Introduzione
L’introduzione di Death Parade viaggia su due binari.
La primissima puntata – Death Seven Darts – introduce il più semplice degli scenari, per farci mettere il primo piede dentro la porta della serie: una coppia idilliaca di sposi si trova a scontrarsi in un gara apparentemente molto innocua di freccette.
Invece, già qui assistiamo alla prima escalation emotiva dei protagonisti: colpiti nei punti più sensibili, progressivamente si risveglia in loro la memoria delle ombre del loro rapporto, che li porta a scagliarsi gli uni contro gli altri in maniera sempre più feroce.
Poi si cambia prospettiva.
La scena è riproposta dal dietro le quinte, dal punto di vista ancora molto ingenuo di Chiyuki, una giudice apparentemente molto improvvisata ed ingenua e che rimane sconvolta davanti alla crudeltà del gioco, e alla freddezza del giudizio…
…che, fin da subito, si rivela fallace.
Eterno
Il destino dell’umano è duplice.
Superando la banalizzazione del destino infernale e paradisiaco, il defunto viene in realtà messo nella condizione di essere scelto per un annullamento totale del suo essere, il vuoto, la caduta eterna dell’anima spogliata di ogni elemento di concretezza e vita…
…oppure per essere salvato e riportato in un altro corpo terreno: anche nelle peggiori condizioni possibili, non ha comunque dato il peggio di sé, ma ha mantenuto nel complesso un comportamento dignitoso e che merita di continuare ad esistere.
Eppure non è così semplice.
Non vivendo le emozioni umane in prima persona, i giudici si illudono che questo test sia il metodo migliore per definire il valore di un’anima umana, proprio perché l’integrità di della stessa deve essere perpetua e inscalfibile neanche dai peggiori stimoli.
Invece, come ben ci racconta il detective nel suo duetto di puntate, è possibile per ogni essere umano dare il peggio di sé se messo nelle giuste condizioni – come dimostra lui stesso: prima un integerrimo poliziotto, infine uno spietato vigilante.
Per questo, la mancanza di empatia è così squalificante.
Emozione
I giudici sono delle bambole.
Dei burattini che vivono nella totale alienazione rispetto all’umano, che non le comprendono le sfumature, ma anche anzi propongono, in particolare Decim nelle sue prime battute, con una freddezza quasi meccanica i death game che definiscono il destino dei loro ospiti.
In questo modo, però, si perdono le infinite sfumature di significato che definiscono la complessità dell’umano, che non può essere giudicato solamente per una piccolissima parte della sua esistenza…
In questo senso, il concetto di empatia si sviluppa su più livelli.
Altro
L’umano è condannato per il suo egoismo.
I giochi mortali di Death Parade sono proprio per questo volti a comprendere quanto il defunto dia valore alla propria sopravvivenza e quanto invece sia disposto ad empatizzare con l’altro, perfino a sacrificarsi per lo stesso.
Un primo accenno di questa dinamica si vede quando Mayu Arita, una ragazzina apparentemente molto sciocca, sceglie di sacrificare la sua vita per il suo idolo, per arrivare a gettarsi nel vuoto pur di ritrovare l’anima di Harada.
Ma, soprattutto, Decim capisce il concetto dell’empatia grazie a Chiyuki.
La ragazza era stata vittima della sua incomunicabilità, del suo essere incapace di esternare le proprie complesse emozioni, lasciando in vita persone che invece avrebbero potuto aiutarla, avrebbero potuto darle un nuovo motivo per vivere.
E quindi il suo grande insegnamento per Decim è il voler tornare in vita non per un proprio egoismo personale di rivivere e annullare la propria autodistruzione, ma piuttosto per colmare quel vuoto che ha lasciato negli altri.
E se un personaggio così austero come Decim riesce ad accennare un timido sorriso, c’è ancora speranza…
Il giardino delle parole (2013) di Makoto Shinkai è un mediometraggio animedi genere sentimentale.
Il film è stato distribuito in Giappone insieme ad un cortometraggio, ed è arrivato in Italia con una proiezione esclusiva nel Maggio del 2014.
Di cosa parla Il giardino delle parole?
Takao e Yakari sono due persone molto sole, che si ritrovano casualmente in un giardino pubblico. E da lì nasce qualcosa di inaspettato…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Il giardino delle parole?
In generale, sì.
Il giardino delle parole contiene una dinamica tipica della filmografia di Shinkai, in particolare del subito successivo Your name (2016): l’incontro apparentemente sofferto di due personaggi che sembrano destinati a vivere separati.
In questo caso il regista nipponico è sempre sul precipizio di scadere nel melodramma più smaccato, ma riesce nel complesso a mantenere un buon equilibrio dei toni, cercando il più possibile di rimanere coi piedi per terra, pur inserendo una componente fortemente drammatica ed emotiva.
Insomma, ve lo consiglio.
Fuga
Entrambi i protagonisti fuggono.
Per Takao la fuga è da una scuola in cui non sente di trovare un futuro, inseguendo i suoi sogni in maniera ben più matura dei suoi coetanei, rinunciando persino alle vacanze per poter lavorare e mettere via abbastanza risparmi per riuscire ad autofinanziarsi.
Yukari invece fugge da una situazione che non si sente di essere abbastanza forte da affrontare – al punto che, da qualche scampolo di dialogo, scopriamo quanto era stata profonda la sua sofferenza, non riuscendo a camminare, a mangiare altro che birra e cioccolato…
E la pioggia è l’occasione perfetta.
La pioggia è quell’elemento che solitamente porta le persone a fuggire e a rifugiarsi nelle proprie abitazioni o in luoghi affollati, e a svuotare quel giardino che diventa invece il rifugio dei due protagonisti, inizialmente sorpresi di trovare un compagno di solitudine.
E qui di parole, paradossalmente, ne servono poche.
Essenziale
Le parole sono ridotte all’essenziale.
In una situazione normale di incontro, nello sbocciare più consueto di un’amicizia, le prime parole che i due si sarebbero scambiati avrebbero riguardo i loro nomi, il loro passato, la loro più immediata quotidianità…
Invece è come se i due protagonisti fossero colti in fallo nella loro fuga, e per questo limitano i loro scambi di parole a quel poco da tenere l’uno compagnia all’altro – al punto che, verso il finale, Takao ammette di non sapere quasi nulla della giovane donna, neanche il suo nome…
Ma per Yukari quel silenzio è essenziale.
Infatti, la donna è stata derubata della sua autorità, della fiducia e dei buoni rapporti che sembrava portare avanti con i suoi alunni, e, tramite questo giovane studente in fuga, riesce a ricostruire la sua identità e a rimettersi in piedi, a cambiare vita.
E, a Takao, cosa rimane?
Inizio
Lo scioglimento della vicenda nel complesso mostra una buona intelligenza di scrittura.
Come mi ha poco convinto lo sfogo di Takao – forse non adeguatamente costruito per essere così esuberante – al contrario ho apprezzato la maturità della giovane professoressa di mettere un freno all’improvviso innamoramento del suo studente…
…così da lasciargli lo spazio per maturare.
Infatti, il finale è volutamente aperto.
Takao ha capito la lezione della donna – non lasciarsi travolgere dalle emozioni del momento – e, anche se con difficoltà, riesce a superare gli esami finali, e a continuare parallelamente a portare avanti il suo sogno…
…così da ritornare, un giorno, da Yukari, quando sarà abbastanza maturo, lasciando come pegno nel parco le scarpe che ha creato per lei, una promessa per un futuro più sereno da condividere insieme.
L’uovo dell’angelo (1985) di Mamoru Oshii, anche conosciuto come Tenshi no tamago, è un lungometraggio anime dai toni misteriosi e dai contenuti fortemente simbolici.
La pellicola fu un direct-to-video e un tale insuccesso commerciale che per tre anni il regista non riuscì a trovare altri lavori.
Di cosa parla L’uovo dell’angelo?
Una bambina senza nome si aggira per una città desolata e distrutta con un solo obbiettivo: proteggere l’uovo che ha trovato.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere L’uovo dell’angelo?
Assolutamente sì.
L’opera di Mamoru Oshii è un racconto splendidamente simbolico, ma che lascia un ampio spazio, sia fisico che metaforico, allo spettatore per lasciarsi leggere ed interpretare, e, al contempo, rappresenta il turbamento interiore del regista stesso.
Una regia impeccabile, che ora vagheggia in questi panorami desolati dal forte sapore gotico, ora indugia per lunghi momenti sui personaggi immobili immersi nei loro pensieri e nelle loro domande a cui, da soli, non potranno mai trovare una risposta.
Insomma, da non perdere.
Occhio
L’incipit de L’uovo dell’angelo è l’inizio della missione senza speranza.
Un occhio minaccioso e vigile indaga il comportamento del cavaliere, di questo soldato che porta addosso simboli evidentemente cristiani, ma in cui ha evidentemente smesso di credere, ormai disilluso delle promesse del suo Dio.
Un personaggio che sembrerebbe l’ultimo flebile legame con la promessa disattesa di Noè e dell’Arca, rimasta in eterno bloccata in un limbo senza via d’uscita, rendendo gli uomini dimentichi non solo della loro missione, ma del loro stesso senso di reale…
…impegnati ad inseguire delle ombre di un passato inesistente.
E poi c’è la bambina.
Luce
L’infanzia è spesso al centro della mitologia cristiana per rappresentare il candore e la verginità.
Ma aprendo il personaggio ad un senso più ampio, la stessa può essere considerato l’ultimo baluardo ad un’umanità ancora effettivamente viva e genuinamente curiosa ora di esplorare la realtà circostante, la creazione divina, ora di credere nei suoi simboli e nelle sue promesse.
Non è un caso che il suo personaggio sia spesso associato al simbolo dell’acqua, che in L’uovo dell’angelo ha una doppia valenza: se da una parte rappresenta semplicemente la vita, la rinascita, financo la liberazione del peccato di quell’umanità ormai perduta…
…al contempo ne simboleggia anche il vuoto, l’oblio, l’isolamento e infine la morte, viaggiando strettamente con questo doppio significato che esplode nel finale, in cui la morte della bambina rappresenta una distruzione, ma anche una rinascita potenziale.
Illusione
Questa stringente simbologia è negata dal crociato.
Come il suo personaggio sembra l’unico a non essersi veramente dimenticato della promessa che avrebbe dovuto portare ad una rinascita dell’umano, lo stesso è sul precipizio di perdersi esattamente come tutti gli altri, derubricando la storia a pura leggenda, a pura illusione.
L’apice si raggiunge quando il soldato ipotizza persino di vivere all’interno di un’illusione, di un sogno da cui non riesce a liberarsi, nonostante la bambina cerchi costantemente di accompagnarlo a riscoprire i simboli che le hanno permesso di continuare a credere.
Ma proprio in quei simboli si perdono.
I protagonisti si domandano costantemente e vicendevolmente la loro identità, ma non sanno mai rispondere.
Infatti loro stessi, ad un livello più o meno metanarrativo, sono dei simboli che non hanno un’identità propria, ma che rappresentano il cammino dell’umano in due direzioni totalmente opposte: speranza e disillusione.
Quindi, ad un livello strettamente cristiano, la bambina è speranzosa del ritorno di Dio, della rinascita del Salvatore – l’uccello – che porterà alla rinascita dell’umanità, alla scoperta della terra da abitare, mentre il soldato rappresenta la crisi religiosa e l’allontanamento da Dio.
Ciclo
Il crociato non riesce più a credere.
Per questo infine sceglie di distruggere l’Uovo, quella prova materiale che quel Dio che pensa che l’abbia abbandonato è ancora presente, quella nuova promessa di cui non vuole illudersi, e lo fa proprio con gli stessi simboli cristiani – il fucile a forma di croce – creando un evidente paradosso.
Lo stesso si definisce ancora più strettamente proprio nella suddetta dinamica del finale, che racconta una sorta di ciclo inscalfibile di vita e morte, disillusione e speranza, che non potrà mai veramente essere scardinato, neanche dall’azione più violenza, più distruttiva e più disperata.
Così, anche dalla morte di un uomo sulla croce, l’umanità potrà sempre rinascere.
Giappone, 1950. Kazuki Fuse fa parte dell’ormai odiato corpo di polizia Kerberos. E una incomprensibile esitazione lo porterà fuori strada…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Jin-Roh – Uomini e Lupi?
Assolutamente sì.
Jin-Roh – Uomini e Lupi è un crocevia di diversi generi, in cui dominano le dinamiche tipiche dello spy movie, pur all’interno di una più ampia riflessione che si intreccia in maniera piuttosto straziante con la favola di Cappuccetto Rosso.
Insomma, una pellicola che non si sbilancia mai in un senso né nell’altro, che lascia aperte diverse domande a cui forse solo lo spettatore è capace di trovare una risposta, all’interno di un susseguirsi di rivelazioni e colpi di scena che tengono costantemente col fiato sospeso.
Superato
Non c’è più spazio per Kerberos.
Ma neanche per il suo contrario.
La dicotomia di Cappuccetto Rosso e i Lupi, propria dell’immediato dopoguerra nipponico, si è ormai esaurita ed è considerata superata, in un Giappone che vuole guardare ad un futuro più sfumato, più concentrato sull’idea di rinascita che di distruzione interna.
Proprio qui si inserisce Kazuki, che si trova spaesato davanti all’incomprensibilità di questo presente, davanti ad una ragazzina che sembra voler abbracciare gli estremismi di questo gruppo terroristico, che conduce alla domanda fondamentale per il suo percorso riflessivo:
Perché?
Ruolo
Non c’è spazio per i perché.
Ma solo per i ruoli.
Il protagonista cerca invano una comprensione delle parti che sembrano solo imposte – Lupo e Cappuccetto – e da cui sembra impossibile evadere, nonostante tutta la società intorno agli stessi stia cercando di smantellarli.
E la sua via di fuga sembra proprio Kei Amemiya, una ragazza così simile alla sua vittima, con un comportamento fin troppo accomodante e accogliente nei suoi confronti, che sembra proporgli di sfuggire proprio agli schemi in cui è intrappolato.
Ma non è abbastanza.
Pedina
Nonostante la ragazza lo spinga costantemente a fuggire, nonostante venga continuamente interrogato sul perché abbia scelto di non uccidere direttamente la ragazza ribelle, Kazuki è semplicemente incapace di reagire, di rispondere, di sfuggire da questo limbo.
E allora i personaggi sono solo pedine.
Entrambi si riscoprono legati a doppio filo con quello schema che tanto detestano, delle pedine mosse da mani nell’ombra che giocano con la loro carne per avere il controllo sulla situazione politica, per risolverla unicamente a loro vantaggio.
Una rappresentazione che potrebbe far riferimento alla complessa situazione politica nipponica nel secondo dopoguerra, con un paese ancora più immobile e incapace di reagire ai nuovi scenari politici, impotente nella sua sofferenza, sottomesso agli impulsi esterni.
Ed è ancora più straziante quando il protagonista sembra aver finalmente la libertà di scegliere se seguire il piano di altri oppure se proteggere il suo nuovo amore, con una chiusa che mostra un cecchino nell’angolo che avrebbe in ogni casoscelto per lui…
Robot Carnival (1987) è una raccolta di cortometraggi animati curati da nove registi e animatori giapponesi.
Al tempo venne proposto come OAV, Original Anime Video, ovvero un anime distribuito direttamente in videocassetta.
Di cosa parla Robot Carnival?
Proprio come un parco dei divertimenti, Robot Carnival raccoglie diverse ispirazioni da diversi registi con un tema comune: i robot.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Robot Carnival?
Assolutamente sì.
È praticamente impossibile rimanere delusi con Robot Carnival: ci si trova davanti ad una tale varietà di toni, di temi e di tagli narrativi che c’è veramente solo l’imbarazzo della scelta, con storie tutte diverse fra loro anche per stile artistico.
E se la poca presenza di dialoghi, o la loro totale assenza, potrebbe spaventare, a fine visione appare chiaro che gli stessi sarebbero stati del tutto inutili all’interno di una narrazione così ben strutturata da funzionare anche solo di musica e di suggestioni.
Rumore
Robot Carnival si apre con una collezione di rumori.
L’intro è visivamente aggressiva e sottilmente metanarrativa: sembra come se il colosso del film stesso, di questo strano parco dei divertimenti, entrasse prepotentemente in scena, distruggendo ogni cosa sul suo passaggio, anche gli indifesi spettatori.
Si passa poi ad un primo episodio semplice quanto efficace: una riproposizione moderna e robotica del classico di Mary Shelley: l’esperimento apparentemente fallimentare incorniciato dai rumori di laboratorio…
…esplode in un climax ascendente per giungere a dinamiche non tanto dissimili dall’iconica scena di Frankenstein Junior (1974) ma con una ben più amara, quanto enigmatica, conclusione, in cui il successo dell’operazione sembra spezzarsi.
La stessa dinamicità si ripropone nel confusionario quanto surreale capitolo conclusivo, Niwatori Otoko to Akia Kubi, in cui un cittadino comune diventa testimone di una rivolta dei robot, che rinascono, si spezzano, cadono a pezzi in forme orrorifiche e incomprensibili.
Ma c’è spazio anche per il dialogo.
Dialogo
Il dialogo in Robot Carnival è essenziale.
Nel terzo capitolo, Presence, lo è nel senso che è ridotto all’osso: la scena prima si anima di uno spaccato della difficoltosa vita dei robot nella società umana, per poi aprirci uno squarcio sulla vita del protagonista tramite un’intrusione nei suoi pensieri.
E questa impertinente macchina, questa creazione che sembra avere una vita propria, è anche l’unica che sembra comprendere la vera natura del suo creatore, che si è sempre privato dell’amore, vivendo una vita fra un gelido matrimonio e le sue invenzioni senza cuore.
Del tutto diversa l’atmosfera del penultimo capitolo, Strange Tales of Meiji Machine Culture: Westerner’s Invasion, in cui assistiamo ad un duello fra due enormi quanto primitive macchine, pilotate da un inventore squinternato e da una litigiosa coppia di ragazzini.
Un frangente che è l’unico veramente e propriamente comico della pellicola, con dinamiche che sembrano provenire da unoshonen degli Anni Ottanta (e non solo), e che permette allo spettatore infine di concedersi una risata.
Silenzio
In Robot Carnival ci sono diversi tipi di silenzi.
C’è il silenzio dei personaggi, che non hanno bisogno di alcun dialogo per raccontare la loro storia, ma che invece si avvicendano sulla scena con episodi estremamente dinamici e incalzanti, in piccole avventure a lieto fine.
È questo il caso sia di Deprive, in cui un’invasione aliena diventa lo sfondo per quella che si rivela infine una dolcissima storia d’amore con protagonista un’umana e un robot dall’aspetto cangiante, che infine la ragazzina riconosce nella sua nuova forma…
…sia di Starlight Angel, il mio preferito della serie, che riprende sostanzialmente le stesse dinamiche, ma in un contesto più giocoso e onirico, in cui un sofferto tradimento amoroso si risolve nella formazione di una nuova e felice coppia.
E infine il silenzio c’è il silenzio Cloud, un bozzetto a matita che si anima per raccontare di un piccolo robot che attraversa le diverse epoche terrestri, nella silenziosa quanto inevitabile vittoria e distruzione del genere umano.
Time of Eve (2008-2009) è una serie TV net anime, ovvero creata online e distribuita direttamente in streaming.
Gli episodi sono stato poi riuniti in un film, distribuito nel 2010. Le puntate sono state trasmesse in Italia su MTV poco dopo il suo rilascio in streaming.
Di cosa parla Time of Eve?
In un mondo in cui i robot sono sempre più simili agli umani e per questo sempre più discriminati, esiste un piccolo luogo sicuro e felice…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Time of Eve?
In generale, sì.
Ci vado un pochino più cauta nel consigliarvelo perché sulle prime potrebbe sembrare un prodotto molto più vicino alla drammaticità e importanza di Ghost in the Shell (1995) e Ergo Proxy (2006) di quanto non sia realmente.
Infatti Time of Eve, per quanto prenda le mosse da Asimov, si articola in puntate che sono più una sorta di slice of life futuristici, con situazioni sicuramente drammatiche e sofferte, ma dal taglio molto più intimo rispetto ad altri prodotti analoghi
Distinzione
Per quanto siamo così avanzati, in Time of Eve i robot sono delle mere macchine.
O, almeno, così sono considerati.
La mancanza di un comportamento più umano deriva non dall’incapacità di attuarlo, ma piuttosto dalla paura di essere ancora di più discriminati e maltrattati dai loro padroni, così profondamente spaventati dalla loro stessa creazione.
Questo elemento si nota già nel personaggio di Sammy, che ci appare inizialmente assolutamente apatica e senza sentimenti, quando in realtà questo comportamento è dovuto da una profonda insicurezza e dalla paura di ferire il prossimo, nello specifico Rikuo.
Ma non è la sola.
Avvicinarsi
A differenza di molti prodotti del genere, l’evoluzione dei robot non è intellettiva, ma affettiva.
Nessun androide, neanche i modelli più vetusto, agisce semplicemente per sottostare alle regole che gli sono state imposte, ma, al contrario, in funzione proprio del voler intrecciare dei rapporti più profondi ed autentici con quello che sarebbe il loro padrone.
Una dinamica che si nota molto chiaramente sia nella commovente storia di Koji e Rina, in cui l’androide vorrebbe solo capire come amare una donna umana, finendo invece per confermare la possibilità di un rapporto affettivo fra due macchine…
…sia nella struggente quanto umoristica storia di Katoran, che si era amorevolmente occupato del suo bambino, per poi essere invece scaricato come spazzatura per evitare di pagare la sua serena dipartita.
Ma il picco emotivo si raggiunge con l’ultima puntata.
Ferire
La storia di Masaki è la più triste in assoluto.
Nonostante THX si fosse dimostrato in tempi non sospetti quando genuinamente un robot potesse diventare un care giver per un umano, anzi proprio per questo, era stato indebitamente zittito, causando una profonda ferita nel suo padrone.
La vicenda non è altro che una più concreta dimostrazione di quell’odio piuttosto esplicito degli umani che puntella diversi momenti in sottofondo alla serie, e che racconta la paura quasi primordiale di essere schiacciati dalla sua stessa creazione.
Ma ci sono dei segnali anche positivi.
La risoluzione della vicenda, anche con delle piacevolissime note ironiche, getta uno sguardo su un futuro più positivo e promettente, in cui umani e robot potranno vivere in armonia e come pari, proprio come Time of Eve prospettava.
Ed infatti la scena dopo i titoli di coda svela la misteriosa identità di Nagi, ma permette di comprendere quanto tutta la creazione robotica fosse stata pensata dal suo creatore come estensione all’umano, non un oggetto sottomesso allo stesso.
Millennium Actress (2001) è la seconda opera del compianto Satoshi Kon, che riprende e per certi versi amplia le tematiche dell’opera prima, Perfect Blue(1997).
A fronte di un budget abbastanza contenuto – 1,2 milioni di dollari – anche per la distribuzione limitata e la poca permanenza in sala, ebbe un riscontro molto modesto al botteghino, con 37 mila dollari di incasso.
Di cosa parla Millennium Actress?
Con l’arrivo del nuovo millennio, l’intervista alla ex-star del cinema Chiyoko Fujiwara apre le porte ad una riscoperta del suo misterioso passato…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Millennium Actress?
Assolutamente sì.
Per quanto personalmente preferisca Perfect Blue, Millennium Actress è un’opera di grande eleganza stilistica e narrativa, che evita di incastrarsi in spiegazioni delle dinamiche fantastiche e surreali presenti in scena…
…e lascia semplicemente che la storia respiri e si sviluppi da sé stessa, con un impianto metanarrativo piuttosto pervasivo, che fa da cornice ad una riflessione sulla vita e su come la stessa si intrecci – e a volte corrisponda – alla finzione.
Insomma, da non perdere.
Macerie
Millennium Actress si apre su un panorama di macerie.
Mentre quel che rimane di uno studio cinematografico che ha fatto la storia del Giappone viene fatto a pezzi nella totale indifferenza generale, una voce fuori campo cerca di riportarci alle vecchie glorie.
Così Chiyoko Fujiwara è la protagonista fin da subito, anche solo nell’appassionato ricordo di Genya, in profondo contrasto con invece la totale ignoranza e indifferenza di Kyōji, che derubrica il personaggio a vecchia stella ormai tramontata.
Ma la donna che si trovano davanti è una versione solo più invecchiata, ma ancora incredibilmente in forma, di un’attrice che ha segnato la storia del cinema, ma che da anni ha scelto di ritirarsi a vita privata.
E serviva solo qualcosa che gli sbloccasse i ricordi…
Chiave
Chiyoko nasce in un mondo turbolento.
Il venire alla luce durante un terremoto è indicativo della storia del Giappone fra le due guerre: un paese che subì profondi cambiamenti per forze sia esterne che interne, risultando in una ferita incurabile nell’immaginario collettivo.
Ma, in questo tsunami di mutamento, la madre della protagonista cerca ancora di rimanere salda alle tradizioni più stringenti, negando alla giovane ragazza la possibilità di servire il suo paese in maniera del tutto inedita.
E, se all’inizio la giovane protagonista accetta timidamente un destino che sembra esserle imposto, tutto cambia quando con l’incontro con uno sconosciuto, che infine si rivela essere uno dei principali motori del cambiamento di un paese che non era pronto a cambiare.
Con la chiave stretta in pugno, comincia così l’inseguimento di Chiyoko di uno spettro di cui non ricorda neanche il volto, ma anche lo slancio per la comprensione di un simbolo che si era ripromessa di comprendere, che risulta fino alla fine indecifrabile.
Ma, ancora una volta, è un destino imposto.
Destino
Chiyoko non può scappare.
Le prime tappe della sua ricerca vengono coronate dall’incontro con una presenza altrettanto misteriosa, una sorta di parca che ha già tessuto il suo destino, e che le impone di vivere una vita di ricerca per un amore impossibile e sempre più fumoso.
Un personaggio che si può leggere in due direzioni: sia come rappresentazione del cruccio interiore della protagonista, che in tutti i suoi film sembra ripercorrere sempre la medesima storia di ricerca impossibile del suo amato…
Ti odio più di quanto tu possa sopportare, e ti amo più di quanto io possa sopportare.
…e al contempo, in una connotazione più strettamente storica e politica, come rappresentazione dei sentimenti discordanti che caratterizzarono la società giapponese in quel periodo, nel dramma della brusca fine di un’epoca, definito da un connubio di odio e amore.
Un cambiamento, appunto, repentino quanto inevitabile.
Perdita
L’atto centrale della vita di Chiyoko è caratterizzato dalla perdita.
La vita e i temi centrali dei film passano dal romanticismo anche struggente di film sul Giappone che fu, verso una realtà ben più drammaticae realistica della guerra e, soprattutto, del dopoguerra.
Ma se Chiyoko si aggira malinconica nelle macerie, è sempre lì che trova l’immagine del suo passato, un primo punto di arrivo della sua ricerca: un dolce frammento della sé stessa di tanti anni prima, ancora intatto pur nella distruzione generale.
Un ritrovamento che drammaticamente si accompagna, come si scopre a posteriori, dalla morte fuori scena del suo amato, rendendo tutta la ricerca da questo punto in poi sostanzialmente inutile…
…e viziata da un inganno perpetuo da parte di diversi personaggi che le sottraggono la chiave e che cercano forzatamente di riportare il suo personaggio a quella che era il suo destino originale: la moglie perfetta di un matrimonio infelice.
Scoperta
L’ultimo momento della vita di Chiyoko è, apparentemente, la distruzione.
Ripercorrendo i nuovi orizzonti dell’umanità nello spazio, questo ultimo slancio viene troncato dal riapparire del trauma originario che l’ha perseguitata per tutta la vita, e che la porta a chiudersi definitivamente in sé stessa per mantenere la sua immagine intatta.
Ma l’effettiva e definitiva distruzione degli studios fuori scena è in realtà l’occasione per la riscoperta e la conseguente rinascita: la protagonista si ricongiunge con la misteriosa chiave e finalmente ne comprende il suo importante significato.
Una chiave che serve a Chiyoko quanto al suo stesso paese per non dimenticare il suo passato, per non togliere valore ad un’esperienza sicuramente drammatica come quella del Novecento, che si è rivelata, infine, l’occasione per rinascere da quelle macerie.
Così la protagonista si volge verso un futuro ancora incerto, ma che potrà regalarle molto di più della sofferta reclusione, riscoprendo la bellezza di una ricerca complessa quanto avvincente, in cui il punto di arrivo è, forse, la parte meno importante…
Perché dopo tutto, è il fatto di inseguirlo ciò che amo davvero
Tokyo Godfathers (2003) è una delle opere più celebrate della filmografia del compianto Satoshi Kon, un unicum nella sua produzione per il taglio più realistico ed ironico.
Un improbabile terzetto di senzatetto trova un neonato abbandonato nell’immondizia e si mettono sulle tracce della madre…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Tokyo Godfathers?
Assolutamente sì.
Tokyo Godfathers rappresenta uno splendido incontro del lato più drammatico, financo tragico, della produzione di Satoshi Kon, con collegamenti non indifferenti a Perfect Blue(1997)e a Millennium Actress(2001) …
…e la sua anima invece più ironica, grazie anche allo splendido reparto animato, che porta in vita personaggi profondamente espressivi, con è facile empatizzare, in una sorta di sintesi ultima della sua arte.
Insomma, da non perdere.
Unione
Il terzetto di protagonisti è profondamente disunito…
…eppure profondamente unito.
Fin da subito i tre appaiono come litigiosi e in continuo contrasto, nascosti dietro ad una maschera di durezza e menefreghismo – essenziale nella difficile realtà della vita di strada, in cui spesso domina la filosofia del ognuno per sé.
Eppure, nei loro caratteri contrastanti, negli intenti diversi, nelle loro punzecchiature anche crudeli, che emergono ancora più prepotentemente per il ritrovamento del bambino, intravediamo una famiglia improvvisata, eppure profondamente unita.
I primi tocchi più drammatici si delineano in occasione dello scontro fra Miyuki e gli altri due senzatetto, che scelgono però di non scontrarsi con la ragazzina per paura delle ripercussioni da parte di Gin, che tiene a lei più di ogni altra cosa.
Una battuta apparentemente casuale, apparente topica, in realtà il prologo della tematica dominante dell’intera pellicola.
Ovvero, il punto di non ritorno.
Ritorno
Ognuno dei tre personaggi ha vissuto un momento di non ritorno.
Infatti, la scelta della precaria vita di strada è stata causata da un evento del passato in cui i protagonisti sentivano di aver ferito – fisicamente e metaforicamente – così profondamente i loro affetti, di aver rovinato a tal punto le loro vite, da non poter più tornare indietro.
Così Miyuki ha pugnalato il padre per un banale capriccio, Hana ha creato un tafferuglio imperdonabile al locale dove lavorava, e Gin ha scelto di abbandonare la sua famiglia quando ormai sentiva di essere una presenza solo ingombrante.
Una situazione che si è aggravata solamente nelle loro menti, tanto da renderli imperdonabili, ma che nella realtà si rivela molto più semplice e risolta: i peccati, anche i più tremendi, sono stati perdonati, gli affetti vorrebbero solo ricongiungersi…
Futuro
Per questo, i protagonisti vogliono che Kiyoko abbia un futuro.
Consapevoli della loro amara condizione, i tre protagonisti, anche se in maniera diversa, desiderano che la bambina abbia un futuro migliore, che viva in una famiglia felice – che sia la loro o quella di appartenenza.
In questa corsa alla salvezza, alla ricomposizione familiare, i tre senzatetto desiderano indirettamente salvare almeno una vita, dopo aver totalmente fallito nel tenere salda e sicura la propria…
Eppure, le tendenze sono anche opposte.
In particolare, i due personaggi in maggiore contrasto sono le due figure adulte: se Miss Hana preferirebbe portare fino in fondo la ricerca della famiglia natale di Kiyoko, al contrario Gin vorrebbe fin da subito lasciare quel compito alla polizia.
Infatti, come Sachiko, Gin è in fuga continua.
Finzione
Gin e Sachiko sono due personaggi speculari.
Seppur in ruoli diversi, entrambi hanno vissuto la stessa situazione: una famiglia felice e serena, spezzata dal vizio, dai debiti, che si sono accumulati in maniera sempre più ingiustificabile ed irreparabile.
Ed entrambi si sono anche rifugiati nella finzione: Gin dietro ad una storia tragica che in qualche modo lo scusava dalle sue colpe, Sachiko invece nel sogno di una maternità che gli è stata ingiustamente strappata.
Entrambi, infine, fuggono dalpresente.
Gin è persino disposto ad abbandonare i suoi amici, ad abbandonare la ricerca di Miyuki, ad abbandonare lo stesso bambino, pur di liberarsi d’impiccio, pur di non farsi coinvolgere in una situazione emotivamente troppo difficoltosa…
Allo stesso modo Sachiko è incapace di accettare il parto non andato come sperava, lo stesso in cui riponeva probabilmente la speranza del risanarsi del suo stesso matrimonio, tanto da strappare ad un’altra famiglia quello che considera suo di diritto…
Destino
Tokyo Godfathers riflette profondamente sul tema dei collegamenti.
I protagonisti sembrano continuamente seguire un percorso di briciole di pane, una strada precaria, definita dalle diverse relazioni, storiche o appena formate, che si intrecciano nel complesso della vicenda.
Così il salvataggio del boss malavitoso dalla macchina permette loro di trovare un altro indizio su Sachiko, la famiglia di Hana salva Gin a sua insaputa, la piccola folla che si forma davanti alla sua casa di sconosciuti ricostruisce la storia della madre perduta di Kiyoko…
In un altro senso, si parla di destino.
Tutti i movimenti dei personaggi, anche quelli più apparentemente sfortunati e violenti – il rapimento di Miyuki e il pestaggio di Gin – sembrano in realtà mossi da una mano invisibile, che infine li porta a far ricongiungere la famiglia.
E non è forse destino quello che porta Miyuki del tutto casualmente a ritrovarsi davanti a quel padre che aveva tanto cercato di evitare, proprio quando sta per essere premiata per un’azione che la rende del tutto discolpata dalle sue colpe passate?
Cowboy Bebop (1998-1999) di Shin’ichirō Watanabe è una delle più importanti serie di culto anime, di genere fantascienza-avventura.
La serie andò in onda in Italia solamente a partire dal 1999, su MTV nella fascia serale.
Se non sapete niente di Cowboy Bebop, continuate a leggere. Se invece siete i massimi esperti della serie, cliccate qui.
Cowboy Bebop Guida alla visione
Piccola guida alla visione se non avete mai visto Cowboy Bebop.
Di cosa parla la serie
La storia di Cowboy Bebop ruota intorno ad un quartetto di personaggi principali, che si forma progressivamente durante la serie.
Un gruppo piuttosto variegato ed improbabile, composto da Spike, un ex-criminale con un passato misterioso, Jet, un ex-poliziotto piuttosto burbero, Faye, una giovane donna che soffre di amnesia, ed infine Ed, una ragazzina frizzante e particolarmente intelligente.
A chiudere il gruppo vi è anche Ein, un cane da laboratorio con un’intelligenza fuori dal comune.
Tutti i membri dell’equipaggio del Bebop sono cacciatori di taglie.
La struttura
La serie è composta da 26 episodi che sarebbe riduttivo definire autoconclusivi: si tratta più che altro di avventure singole di caccia alla prossima taglia, ma che spesso si intrecciano col passato dei protagonisti.
A questo si aggiunge anche un film – chiamato anche Cowboy Bebop: Knockin’ on Heaven’s Door – uscito nel 2001, che funge da spin-off, e che cronologicamente si colloca fra l’episodio 22 e 23.
L’ambientazione
Cowboy Bebop è ambientato nel 2071.
Nel 2021 un’esplosione accidentale ha distrutto la superficie della Luna, causando un conseguente cataclisma sulla Terra, che venne così abbandonata per partire alla colonizzazione di altri pianeti del Sistema Solare.
Nell’anno in cui è ambientata la serie ormai la maggior parte della Via Lattea è stata colonizzata, Marte è il nuovo centro dell’universo, e il potere politico e della polizia è insidiato da organizzazioni criminali intergalattiche.
Per questo viene creato un sistema taglie alla Old West, per far gestire la criminalità dirompente ai cacciatori di taglie, denominati cowboy.
Perché guardare Cowboy Bebop
Cowboy Bebop è una serie splendida per diversi motivi.
L’aspetto che mi ha principalmente colpito è la raffinatezza dei suoi episodi, che non sono, come detto, semplici storie autoconclusive, ma esplorazioni del mondo della serie con trame avvincenti e piene di significato.
Infatti, nell’anime non manca anche un sottofondo riflessivo e filosofico, che pervade sostanzialmente ogni puntata, pur ben equilibrato all’interno di una serie che investe molto sul lato comico.
E il film?
La pellicola fu distribuita qualche anno dopo la messa in onda della serie, volendo portare in scena una puntata piuttosto corposa ed intensa, che riassume molti dei concetti e delle dinamiche già affrontati in precedenza.
Un prodotto che vi consiglio di guardare per concludere la visione di un’opera splendida.
Spike Cowboy Bebop
Con l’occhio sinistro registro il presente, mentre con il destro ricordo il passato.
Spike vive in un limbo.
Il suo personaggio sembra aver sempre vissuto alla giornata, immerso, come spesso racconta, in una sorta di sogno, che gli impedisce di vivere e vedere chiaramente il presente, proprio per il peso del passato di cui non riesce a liberarsi.
Questo elemento è ben raccontato dall’occhio artificiale, rimpiazzato dopo un misterioso incidente mentre lavorava per il Red Dragon, con cui ha tagliato drasticamente i ponti anni prima, ma senza veramente riuscire a chiudere quella porta…
Infatti, ci sono poche cose che riescono a risvegliarlo.
Una di queste è sicuramente Julia.
Anche se in passato era uno dei migliori hitman del sindacato, a differenza del compagno, non sembrava veramente interessato a conquistare le vette dell’organizzazione – ed infatti probabilmente il loro antagonismo non scaturì dalle macchinazioni politiche di Vicious.
Piuttosto, la pietra della discordia fu probabilmente la donna amata da entrambi.
Julia è stato il motore che ha permesso a Spike di abbandonare un’esistenza in cui non si riconosceva più, scegliendo invece di cominciare un nuovo capitolo della sua vita, in cui avere davvero qualcosa per cui vivere.
Per questo, la tragicità del rapporto con Julia è proprio quanto i due siano simili.
Come Spike ha scelto di lasciarsi alle spalle l’organizzazione, così la donna non è stata capace di fare una scelta, ricadendo anche lei in un limbo di indecisione – morire o tradire l’amato – che l’ha costretta a vivere da braccata.
Spike Faye Cowboy Bebop
E così anche Spike ha finito per trovarsi in una condizione di mezzo, costantemente alla ricerca della donna che gli permetterebbe di andare avanti, e così insistendo nel rimandare lo scontro decisivo con il suo vecchio nemico.
Per questo il protagonista non vive mai veramente il suo presente, anzi si dimostra spesso distaccato ed annoiato dallo stesso, talvolta persino capriccioso, animandosi di tanto in tanto solo quando qualche missione lo stuzzica veramente.
Il personaggio con cui è più solito a bisticciare è Faye, che cerca più spesso di incasellare come amante di Jet – come si vede in Jupiter Jazz (12) – forse proprio per scacciare il pensiero di un’altra donna che finalmente potrebbe prendere il posto di Julia.
In questo senso, Spike ha un rapporto particolarmente spaccone nei suoi confronti, nonostante la donna cerchi anche di essergli d’aiuto – come quando lo cura in Ballad of Fallen Angels (5) – e nonostante siano entrambi accomunati da un tragico passato.
Spike Jet Cowboy Bebop
Il rapporto con Jet è ancora più contraddittorio.
Infatti, il burbero ex-poliziotto è il personaggio che, fra tutti, meno accetta il comportamento di Spike: se riesce, pur spazientito, a lasciar correre sul suo atteggiamento testardo e impulsivo…
…molto meno sopporta il compagno di avventure quando questo si dimostra del tutto cinico e disinteressato nei confronti del loro rapporto, arrivando più volte a bandirlo dalla sua nave – come nella già citata Jupiter Jazz (12).
In realtà, è tutta apparenza.
Nonostante infatti Spike si racconti come disinteressato e persino infastidito dalle diverse situazioni in cui viene coinvolto e dai personaggi con cui deve convivere, in realtà più volte si dimostra un personaggio dal cuore ben più tenerodi quanto voglia ammettere.
Questo lato del suo carattere si vede particolarmente in Sympathy for the Devil(6) – in cui cerca di salvare un ragazzino che pensa sia stato rapito – e così anche nel pilot, Asteroid Blues (1) – quando appare più preoccupato di aiutare Katerina che di incassare la taglia sulla testa del suo compagno.
Spike Vicious Bebop
Ma il destino di Spike è già scritto.
E forse neanche lui ha mai voluto evitarlo.
Come all’interno di un gioco, come all’interno di un sogno da cui non si è mai svegliato, dopo aver visto la sua donna morirgli fra le braccia – l’unica speranza che aveva di voltare pagina – il protagonista si getta verso il duello tanto rimandato.
Uno scontro che doveva sancire la chiusura di un capitolo, lo scioglimento di una contesa apparentemente eterna…
…ma che si conclude nell’autodistruzione reciproca.
Ma è davvero così?
Puntando una pistola di fantasia verso lo spettatore, Spike ci racconta come tutto questo sia ancora soltanto una farsa, un sogno il cui esito non è ancora scritto, non finché lui non deciderà di smettere di sognare…
Jet Cowboy Bebop
Non cerco vendetta: è già tanto difficile sopravvivere
Pur in maniera diversa, anche Jet vive fuori dal tempo.
Un tempo uno dei più spietati investigatori dell’ISSP, tanto da guadagnarsi il soprannome di black dog, il suo personaggio è stato così segnato dagli eventi del suo passato da cambiare radicalmente carattere.
Se prima poteva bearsi di una tranquilla routine basata su poche sicurezze – il suo lavoro e la donna amata – l’abbandono senza spiegazioni di Alisa ha spezzato qualcosadentro al suo animo, portandolo ad aggrapparsi ad un mero oggetto fermo nel tempo…
…che gli possa assicurare che nulla è veramente cambiato.
L’orologio.
Jet Cowboy Bebop
Ma la fine di un’era era inevitabile.
Tradito persino dall’organizzazione per cui aveva assiduamente lavorato – come si vede in Ganymede Elegy (10) – Jet non solo sceglie infine di abbandonare il corrotto sistema di polizia per abbracciare un mestiere paradossalmente più morigerato – il cacciatore di taglie…
…ma porta comunque sempre con sé qualcosa che gli ricordi perché ha preso questa scelta e perché non ritornare sui suoi passi.
Infatti, l’uomo avrebbe potuto benissimo rigenerarsi il braccio grazie alle avveniristiche tecnologie del 2071, e invece ha scelto testardamente e programmaticamente di rimanere sfigurato.
Con il Bebop, in un certo senso, ha creato una nuova routine.
Il più delle volte, anche per via della sua età più avanzata rispetto agli altri personaggi, si comporta come una sorta di padre di famiglia: gestisce i soldi, le prossime taglie, cucina per tutti e sbuffa spazientito davanti all’irragionevolezza prima di Spike, poi di Faye…
…che a tratti sembrano più i suoi figli che i suoi compagni di viaggio.
Jet Faye Spike
Così, anche se in più occasioni cerca di liberarsi di Spike, spazientendosi e convincendo sé stesso di non aver bisogno di lui, in realtà soffre profondamente per la potenziale perdita di quello che in tre anni è diventato un tassello fondamentale della sua neonata famiglia.
Tuttavia, Jet non manca anche di guardarsi brevemente alle spalle….
…riuscendo comunque a chiudere tutte le porte del suo passato.
Il confronto più doloroso è sicuramente quello con Alisa in Ganymede Elegy (10), la quale gli confessa di averlo abbandonato proprio perché non poteva più sopportare di vivere in questa immobilità – anche in questo caso più come una figlia ribelle che come una compagna…
…idea che infine il personaggio accetta con una risataamara, gettandosi letteralmente questa storia alle spalle.
Ancora più significativo è il confronto con Fad in Black Dog Serenade (16), che infine gli offre un motivo ulteriore non guardarsi mai più alle spalle, soprattutto davanti alla totale irragionevolezza con cui l’ex-collega sceglie di affrontarlo – un solo proiettile…
Un altro momento significativo si trova in Boogie Woogie Feng Shui (21), quando Jet ritrova la figlia del suo vecchio amico, con cui cerca di definirsi nel suo nuovo presente, dimostrando di non saper davvero accettare il passare del tempo:
Ehi tu vacci piano, non ho l’età che pensi!
Faye Cowboy Bebop
Riporre fiducia nel prossimo non porta alcun guadagno: questo è il mio imperativo.
Faye è un personaggio profondamente solo.
Sulle prime ci si potrebbe facilmente lasciar ingannare dalla sua esuberante apparenza da femme fatale, da donna vanitosa e capricciosa, interessata solamente al proprio aspetto, ai soldi, e soprattutto, a come sperperare gli stessi nei più stupidi vizi.
In realtà, Faye si è lasciata definire dal mondo che la circonda, in cui molto spesso una donna avvenente come lei è vista poco più che come un pezzo di carne – come ben si vede in Jupiter Jazz (12), e così nel film.
Per questo ha imparato ad utilizzare le sue armi seduttive per arricchirsi e levarsi d’impiccio – come si vede in Heavy Metal Queen (7) – in parte cercando disperatamente di sfuggire ai suoi debiti, in parte per sfogare i suoi umori in attività vuote e materiali – come in Speak like a child (18).
Faye Cowboy Bebop
Vivere in un mondo ostile l’ha anche portata ad essere particolarmente diffidente verso il prossimo, tanto da scappare in più occasioni dal Bebop – proprio come Spike, a cui assomiglia molto come carattere, pur per motivi diversi.
Se infatti Spike è alla ricerca del suo passato, Faye cerca di sfuggire il presente.
La sua diffidenza dovrebbe solo aggravarsi quando in My Funny Valentine (15) scopre una parte della verità sul suo passato, più vicino di quanto credesse, ma che gli è stato ancora più celato da dei sordidi approfittatori che l’hanno ingannata…
…ma in realtà questa scoperta la rende ancora più restia a scoprire la sua vera identità.
La sua storia diventa ancora più drammatica quando in Speak like a child (18) vede un’altra sé stessa, una ragazzina frizzante e mansueta che non riconosce, che le racconta la loro storia e, in qualche modo, la invita a riscoprirla.
Una ricerca disperata, che si chiude in Hard Luck Woman (24) con l’amara scoperta di avere alle spalle un passato a pezzi, arrivando mestamente a stendersi in quella che un tempo era la sua casa, ma che ormai non è altro che un cumulo di mute macerie…
La definitiva consapevolezza di Faye dell’esserci avvicinata al suo presente più di quanto credesse avviene nell’ultima puntata, The Real Folk Blues, quando prima minaccia di uccidere Spike se solo osa andarsene a morire…
…ma che infine non può che osservare impotente allontanarsi verso il suo destino, riuscendo solo a sparare un inutile colpo a vuoto.
Ed Cowboy Bebop
Ognuno ha i suoi sogni e deve rincorrerli.
Ed è un personaggio in cerca d’autore.
La sua identità sfumata è raccontata già solamente dal suo sesso quasi indefinito – più volte i personaggi si chiedono se è maschio o femmina – sia dalla sua scelta di fabbricarsi un nome assurdo – Edward Edna Wong Hau Pepelu Tivrusky IV…
…creandosi un personaggio così sfuggente da perdersi nella leggenda.
Una ragazzina che all’abbandono del padre ha reagito con il desiderio di esplorare e scoprire il mondo, soprattutto quello digitale, tanto da diventare un genio informatico in tenerissima età.
La bellezza del suo personaggio risiede nel suo essere apparentemente sempre di contorno, in realtà rivelandosi in più momenti essenziale per la narrazione, anzi ben più intelligente dei suoi compagni di viaggio.
Si sprecano infatti gli episodi in cui si scopre che Ed aveva in tasca la soluzione del problema fin dall’inizio – il più emblematico in questo senso è sicuramente Bohemian Rhapsody (14), in cui il ricercato era virtualmente sempre presente sul Bebop.
Ed Cowboy Bebop
Il suo carattere frizzante e totalmente infantile la rende spesso il cómic relief all’interno di situazioni anche piuttosto drammatiche – come quando Jet le lascia i suoi bonsai nel caso non tornasse più in Black Dog Serenade (16).
Nondimeno, Ed non si lascia mai mettere i piedi in testa o ingabbiare, caratteristica piuttosto evidente sia nella sua prima apparizione – Jamming with Edward (9), quando riesce a manovrare il Bebop da remoto per farsi accogliere a bordo…
…sia in due momenti della sua puntata finale, Hard Luck Woman (24).
Infatti, il suo spirito avventuroso e vagabondo viene prima rivelato da Suor Clara – che l’aveva accudita per anni, per poi vederla scomparire senza un chiaro motivo – poi quando Ed si inventa una taglia finta sul padre per riuscire finalmente a ritrovarlo.
Questo suo spirito quasi selvaggio è ben raccontato anche dalle sue scelte di vestiario – i piedi perennemente scalzi – e così anche dal suo atteggiamento quasi bestiale – come quando ringhia contro Faye sempre in Bohemian Rhapsody (14).
Per non parlare del suo il suo metabolismo impossibile – come quando divora in un sol boccone il blob in Toys in the Attic (11)
Infine, per quanto sia diventata un membro fondamentale dell’equipaggio per diverso tempo, rallegrando l’atmosfera con la sua frizzantezza e le rime senza senso, sceglie infine e senza troppi rimpianti di abbandonare il Bebop per ricongiungersi finalmente col padre….
…portandosi dietro l’unico membro della squadra con cui sembrava veramente avere intrecciato una connessione: Ein.
Ergo Proxy (2006) è una serie tv anime di genere fantascientifico-cyberpunk, diretta da Shukō Murase, lo stesso che si occupò poco prima anche di Samurai Champloo(2004).
In Italia è stata distribuita prima in DVD nel corso del 2008, arrivando in tv solo fra il 2011 e il 2012 su Rai 4 in seconda serata.
Se non sapete niente di Ergo Proxy, continuate a leggere. Se invece siete i massimi esperti della serie, cliccate qui.
Ergo Proxy guida
Piccola guida alla visione se non avete mai visto Ergo Proxy.
L’ambientazione
Ergo Proxy è ambientata in un futuro post-apocalittico in cui l’umanità è costretta a vivere in delle comunità controllate e create artificialmente, con una vita scandita da uno stringente consumismo.
All’interno di questa utopia particolarmente distorta, i cittadini sono creati artificialmente e in serie, mentre gli immigrati devono dimostrare di essere distaccati dai loro averi per poter ambire alla cittadinanza.
Insieme agli umani vivono anche dei robot senzienti chiamati AutoReiv.
Di cosa parla la serie
A fronte della diffusione di uno strano virus fra i robot, il cogito, e della fuga del misterioso proxy, Re-l, nipote del nonno – il Reggente della città – comincia ad indagare…
…ma tutte le vie sembrano portare ad un unico personaggio: l’apparentemente innocuo Vincent Law, un immigrato da Mosk, misteriosamente coinvolto in tutti gli incidenti.
La struttura
La serie è articolata in ventitré episodi di circa venti minuti ciascuno.
Inizialmente sembra che gli episodi seguano le indagini e le storie dei protagonisti – la cui risoluzione appare sulle prime anche piuttosto intuitiva – ma più la serie prosegue, più assistiamo a trame fra l’onirico e il simbolico…
Perché guardare Ergo Proxy
Ergo Proxy non è una serie, ma un’esperienza.
Se avete amato prodotti come Serial Experiments Lain (1998) eGhost in the shell (1995), resterete semplicemente stregati da questo prodotto così profondamente filosofico e riflessivo.
Sicuramente non una serie di facile comprensione, ma che vale assolutamente la pena di esperire per scoprire fino a che punto un prodotto televisivo può uscire dai suoi canoni per creare qualcosa di straordinario.
Re-l Ergo Proxy
Re-l rappresenta in nuce il destino dell’umano.
La protagonista non è infatti altro che il prodotto di Romdo – anche più di quanto si renda conto inizialmente – che crea l’umano da una parte per renderlo il perfetto ingranaggio della macchina sociale, dall’altra lo spoglia di ogni abilità materiale perché sia inoffensivo.
Elemento che emerge particolarmente dalle parole di Iggy nella puntata Punti morti concettuali (13) – in cui le dice che è più inetta di quanto creda – e anche nella puntata Calma piatta (16) – in cui il terzetto è costretto ad aspettare per lungo tempo un vento migliore per continuare il viaggio.
In questo frangente Re-l si dimostra ancora di più la figlia perfetta di Romdo, ovvero un umano incapace di vivere autonomamente con delle skills molto basilari – cucinare, pettinarsi, prendersi cura di sé – perché fino ad ora si era del tutto affidata agli AutoRev.
Per questo si dimostra spesso irritabile e capricciosa, un atteggiamento che solo apparentemente sembra uscire dal seminato rigidamente tracciato da Romdo per il suo cittadino perfetto, ma che in realtà è la caratteristica chiave che le permette di attuare la sua raison d’être.
Re-L Meyer
Infatti, Re-l è sempre stata una pedina nelle mani di Romdo e soprattutto del Reggente, che hanno sfruttato e, anzi, indirettamente incoraggiato la sua ribellione: il vero obbiettivo della protagonista non era diventare l’erede della città, ma piuttosto essere artefice della salvezza della stessa.
O, almeno, la salvezza apparente.
Re-l quindi non è altro che una cavia per attirare il Proxy – Vincent – proprio condividendo le cellule di Nomad – l’amore del Proxy One – e portare lo stesso a rivelarsi e a tornare come divinità a capo della città.
In realtà la volontà di Re-l sfugge infine dal controllo di Romdo – al punto che Dedalus finisce per preferire la Real Re-l, ovvero la sua versione angelica – in quanto la protagonista, nella sua ricerca ossessiva dell’identità del Proxy, finisce per definire anche sé stessa.
Infatti sia Re-l che Vincent intraprendono un viaggio cartesiano per la scoperta del sé e, soprattutto, la protagonista vive lo sconvolgimento dell’uscita della caverna di platoniana memoria, scoprendo una realtà molto più variegata rispetto al piccolo mondo in cui ha vissuto finora.
Re-L Meyer
In un certo senso Re-l rappresenta il ricongiungimento dell’umano con il divino – il Proxy – al punto che nella puntata L’occhio sacro nel cielo (20) la coscienza di Vincent Law è totalmente soggetta a quella della protagonista.
Infatti, con la creazione dei Proxy, l’umanità ha acquisito una sorta di status super-umano, riuscendo a ricostruire il divino unicamente per i propri scopi – risanare la terra – tanto da diventare creatore del Dio – Proxy – che infine si ribella contro il suo Creatore – l’Umano.
Vincent Law Proxy
Chi sei, Vincent Law?
Questa è la domanda che ricorre per la maggior parte della serie.
Vincent Law all’apparenza sembra un mediocre ed innocuo immigrato moscovita, che fa di tutto per riuscire ad integrarsi nella nuova comunità – Romdo – ma incapace di affermarsi con un’identitàpropria.
Non a caso, il suo viaggio è finalizzato alla scoperta del suo essere, all’awakening, che già di per sè avviene quando Vincent apre gli occhi, gli stessi che nelle prime puntate erano – senza che se ne accorgesse neanche – serrati davanti alla realtà che lo circondava.
L’apertura degli occhi corrisponde infatti all’uscita da Romdo – la caverna già citata – e alla sempre più insistente consapevolezza della sua vera identità – o identità altra – che fino alla fine tiene lontano da sé, come una sorta di ombra.
Infatti, la pesantezza della sua altra faccia è tale che fino all’ultimo Vincent si nasconde dietro ad una maschera, per lo stesso motivo per cui in precedenza si era fatto eliminare i ricordi da Nomad.
I Proxy sono delle divinità, ma delle divinità imperfette: su di loro grava la salvezza e il funzionamento di intere comunità – non a caso Romdo va in rovina per l’abbandono del suo Proxy – ma, proprio come le città stesse, essi sono solamente delle realtà temporanee.
Si può dire quindi che siano come degli orologi atti a definire il ritorno degli umani originari sulla Terra, essendo mortalmente sensibili alla luce del sole, finora nascosto dietro alla coltre di nubi dovuta al disastro apocalittico che ha portato all’abbandono del pianeta.
Quando quindi il sole riuscirà finalmente a ricomparire da dietro alle nuvole, il mondo sarà nuovamente abitabile e gli umani potranno tornare su una Terra pronta per loro e, soprattutto, una Terra vuota, grazie alla morte dei Proxy e, di conseguenza, degli umani che controllano.
Questa presa di consapevolezza ha portato One – il primo Proxy creato – prima ad una profonda depressione, poi ad un odio incontenibile verso l’umano, sia per il suo essere solo una pedina del loro piano, sia per l’impossibilità di unirsi a Nomad.
Per questo motivo – e soprattutto dopo la distruzione di Mosk e il rapimento dell’amata – One sceglie di creare la sua seconda identità o ombra– Vincent – per penetrare Romdo, vendicarsi del Reggente e attuare infine il suo piano di rivolta degli AutoRev.
Vincent Law
One infatti riesce ad infettare gli AutoRev con il virus cogito, che rappresenta il risveglio, il soffio vitale che permette alle macchine di non essere solamente macchine – in maniera simile a Ghost in the shell (1995)– ma quasi più umane dell’umano, e riconoscerlo così come Dio.
Infatti la prima reazione degli AutoRev al cogito è inginocchiarsi e rivolgersi al divino – One – consapevoli proprio della presenza di un’entità che gli ha permesso di pensare e quindi di essere.
Re-L Meyer
Ma la coscienza del Proxy va ben oltre il semplice soggettivismo cartesiano.
Se lo stesso permette al Proxy e agli AutoRev di comprendere la loro esistenza e differenza rispetto al resto degli oggetti in-animati, il viaggio di Vincent lo porta ad abbracciare l’inter-soggettivismo kantiano.
Infatti Vincent si scopre come parte del mondo, ma, al contempo, anche osservatore dello stesso, fino ad arrivare ad un esasperato solipsismo, per cui la realtà esiste solamente in sua funzione.
Questo elemento ben si intreccia con la funzione stessa del Proxy come creatore e, di fatto, sorrettore di mondi: ogni comunità da esso creata ha smesso di esistere quando il suo dio l’ha abbandonata o è morto.
Questa presa di consapevolezza finale permette infine a Vincent di ricongiungersi con One e diventare un unico portatore di vita e di morte, capace di rivaleggiare con gli umani che stanno ritornando a popolare la terra.
Nondimeno, la sua esperienza con Re-l e Pino gli ha permesso di carpire la possibilità di un’umanità migliore, non solamente tirannica e distruttiva: una per cui valga la pena di lottare.
Insomma, Cogito Ergo Proxy.
Pinocchio Ergo Proxy
Pino rappresenta la via pacifica del cogito.
A differenza degli altri AutoRev, questa bambina sceglie di vivere la sua vita non in opposizione all’umano, ma all’interno di una ricerca sostanzialmente pacifica e personale del mondo esterno.
Per questo, avendo preso coscienza del sé grazie al virus, passa dall’essere una macchina apatica ed incolore, ad una bambina frizzante e esuberante, che si unisce a Vincent in una sorta di ricerca comune, pur con obbiettivi meno ambiziosi.
Nella più semplice interpretazione, Pino non è altro che Pinocchio: non più burattino, non più macchina, ma un infante quasi veroche cerca di esserlo in tutto e per tutto, anche tramite la imitatio di quello che gli sta intorno – nello specifico di Re-l, come si vede soprattutto in Calma piatta (16).
Inoltre, il suo personaggio rappresenta l’atteggiamento limitantedegli umani nei confronti degli AutoRev.
Fin da subito infatti Pino è trattata dalla sua famiglia adottiva più come una serva che come la figlia tanto desiderata, al punto che la madre, Samantha, cerca di liberarsi di lei alla prima occasione.
La donna non permette quindi neanche alla figlia di esprimersi e mostrare il suo potenziale, limitandola ancora una volta al mero oggetto-usa-getta che vive solamente in funzione dell’umano – rappresentando, in scala minore, il rapporto fra umano e Proxy.
Pino AutoRev Ergo Proxy
Questo elemento è particolarmente evidente nella puntataSorriso di bambina (19).
La città di Smile Land è una palese parodia di Disneyland, in cui gli AutoRev sono proprio oggetti, giocattoli, che vengono creati ed utilizzati unicamente per rendere felice il loro Dio – Will B. Good – per evitare l’estinzione della comunità.
Questi sono anche facilmente eliminati o emarginati quando non sono più utili alla loro funzione, in un panorama di totale finzione, smascherato proprio dal sorriso sincero di Pino, diverso da quello di tutti gli altri…
In ultimo, Pino si rivela un tassello fondamentale per il futuro della Terra.
Nell’ultima puntata scopriamo infatti che l’ultimo desiderio che Raul Creed aveva affidato a Kristeva era quello di proteggere quella che ormai non considerava più semplicemente un surrogato, ma la sua vera figlia.
Questa volontà potrebbe rappresentare il primo passo verso una conciliazione fra umano e macchina, creando un rapporto che non sia finalizzato solo alla supremazia dell’uno verso l’altro, ma piuttosto alla creazione di una pacifica convivenza di reciproco guadagno.
Dedalus Ergo Proxy
Deadalus è in un certo senso un burattinaio nell’ombra.
La sua intelligenza straordinaria è stata creata a tavolino per renderlo un alleato di Re-l e parte del Proxy Project, nonostante la situazione gli sfugga progressivamente di mano, rendendolo infine apatico e concentrato solo su sé stesso.
Sulle prime infatti Dedalus mostra un profondo interesse per Re-l, e persino l’aiuta a nascondere la sua finta morte, così che possa continuare a perseguire la sua raison d’être – riportare Vincent a Romdo.
Dedalus può quindi essere letto come una rappresentazione in piccolo del destino dell’umanità che ha lasciato la Terra, e che tanto arrogantemente ha creato un mondo solo per sé stesso e finalizzato unicamente alla distruzione e alla rinascita dell’umano.
Come infatti l’umano ha creato degli dei difettosi, nascondendogli il loro vero fine, allo stesso modo il suo personaggio nasconde costantemente informazioni fondamentali a Re-l, col solo risultato che la stessa si allontana sempre di più da lui.
Così Deadalus diventa sempre più geloso e capriccioso, arrivando a creare una sorta di feticcio, una nuova Re-l molto più mansueta e accomodante nei suoi confronti, una nuova divinità che in qualche modo lo veneri.
Questo progetto gli si rivolta infine contro, quando persino Real si allontana da lui, proprio riacquistando la sua identità originaria – Nomad – e cercando di ricongiungersi a Vincent per operare un definitivo distaccamento dall’umano.
Così, come Dedalo guardava il figlio Icaro distruggersi per la sua superbia, così Dedalus osserva sofferente la sua creazione mentre si suicida.
Raul Creed
Ra è il super-uomo.
Per sua natura è un uomo estremamente scaltro ed intelligente, una personalità da leader creata in provetta, arrivando infatti a coprire le più alte cariche della città e a tenere in mano più potere di quanto riesca a gestirne.
Infatti, per la maggior parte della serie Raul è il principale antagonista di Vincent e della sua scoperta del sè, cercando costantemente di incastrarlo, di boicottarlo – con la distruzione nucleare su Mosk in Battaglia senza fine (17) – e infine di distruggerlo.
In questo modo Raul rappresenta l’umano che tenta disperatamente di affrancarsi dal divino, rappresentato non solo dal Proxy stesso che regge la comunità, ma anche dagli stessi che hanno impedito all’umanità creata artificialmente di riprodursi e quindi di continuare a vivere.
Ma il suo si rivela un tentativo del tutto fallimentare proprio perché antagonistico e sostanzialmente distruttivo, pur con una presa di conoscenza finale del personaggio nei confronti di Pino – e quindi dell’altro – che permette infine di gettare una nuova luce sul destino dell’umano.