Il giardino delle parole (2013) di Makoto Shinkai è un mediometraggio animedi genere sentimentale.
Il film è stato distribuito in Giappone insieme ad un cortometraggio, ed è arrivato in Italia con una proiezione esclusiva nel Maggio del 2014.
Di cosa parla Il giardino delle parole?
Takao e Yakari sono due persone molto sole, che si ritrovano casualmente in un giardino pubblico. E da lì nasce qualcosa di inaspettato…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Il giardino delle parole?
In generale, sì.
Il giardino delle parole contiene una dinamica tipica della filmografia di Shinkai, in particolare del subito successivo Your name (2016): l’incontro apparentemente sofferto di due personaggi che sembrano destinati a vivere separati.
In questo caso il regista nipponico è sempre sul precipizio di scadere nel melodramma più smaccato, ma riesce nel complesso a mantenere un buon equilibrio dei toni, cercando il più possibile di rimanere coi piedi per terra, pur inserendo una componente fortemente drammatica ed emotiva.
Insomma, ve lo consiglio.
Fuga
Entrambi i protagonisti fuggono.
Per Takao la fuga è da una scuola in cui non sente di trovare un futuro, inseguendo i suoi sogni in maniera ben più matura dei suoi coetanei, rinunciando persino alle vacanze per poter lavorare e mettere via abbastanza risparmi per riuscire ad autofinanziarsi.
Yukari invece fugge da una situazione che non si sente di essere abbastanza forte da affrontare – al punto che, da qualche scampolo di dialogo, scopriamo quanto era stata profonda la sua sofferenza, non riuscendo a camminare, a mangiare altro che birra e cioccolato…
E la pioggia è l’occasione perfetta.
La pioggia è quell’elemento che solitamente porta le persone a fuggire e a rifugiarsi nelle proprie abitazioni o in luoghi affollati, e a svuotare quel giardino che diventa invece il rifugio dei due protagonisti, inizialmente sorpresi di trovare un compagno di solitudine.
E qui di parole, paradossalmente, ne servono poche.
Essenziale
Le parole sono ridotte all’essenziale.
In una situazione normale di incontro, nello sbocciare più consueto di un’amicizia, le prime parole che i due si sarebbero scambiati avrebbero riguardo i loro nomi, il loro passato, la loro più immediata quotidianità…
Invece è come se i due protagonisti fossero colti in fallo nella loro fuga, e per questo limitano i loro scambi di parole a quel poco da tenere l’uno compagnia all’altro – al punto che, verso il finale, Takao ammette di non sapere quasi nulla della giovane donna, neanche il suo nome…
Ma per Yukari quel silenzio è essenziale.
Infatti, la donna è stata derubata della sua autorità, della fiducia e dei buoni rapporti che sembrava portare avanti con i suoi alunni, e, tramite questo giovane studente in fuga, riesce a ricostruire la sua identità e a rimettersi in piedi, a cambiare vita.
E, a Takao, cosa rimane?
Inizio
Lo scioglimento della vicenda nel complesso mostra una buona intelligenza di scrittura.
Come mi ha poco convinto lo sfogo di Takao – forse non adeguatamente costruito per essere così esuberante – al contrario ho apprezzato la maturità della giovane professoressa di mettere un freno all’improvviso innamoramento del suo studente…
…così da lasciargli lo spazio per maturare.
Infatti, il finale è volutamente aperto.
Takao ha capito la lezione della donna – non lasciarsi travolgere dalle emozioni del momento – e, anche se con difficoltà, riesce a superare gli esami finali, e a continuare parallelamente a portare avanti il suo sogno…
…così da ritornare, un giorno, da Yukari, quando sarà abbastanza maturo, lasciando come pegno nel parco le scarpe che ha creato per lei, una promessa per un futuro più sereno da condividere insieme.
Inghilterra, 1909. Lilli è una cocker amata e coccolata dalla sua famiglia. Ma sta per arrivare un intruso nella sua vita…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Lilli e il vagabondo?
In generale, sì.
Lilli e il vagabondo non è il più indimenticabile prodotto della Disney di questo periodo, ma è comunque una visione piuttosto piacevole, rimasta nella memoria degli spettatori per diverse scene iconiche – di cui una piuttosto inquietante…
I suoi più importanti difetti sono rappresentati da una trama che funziona più ad episodi, con dei collegamenti fra i diversi momenti del film non sempre centrati e del tutto credibili, ma che possono nel complesso essere perdonati.
Lilli e il vagabondo Produzione
La storia di Lilli e il vagabondo fu ispirata ad una dinamica reale.
Già nel 1937 Joe Grant propose una prima idea della storia, facendo riferimento a come la sua cocker fosse stata messa da parte con l’arrivo del figlio, e negli anni sviluppò diverse idee e concept…
…ma nessuna che soddisfò Walt Disney.
Il fondatore della casa di Topolino era infatti scettico proprio sulla protagonista e sulla sua storia, troppo poco intrigante e con poca azione.
L’idea vincente arrivò all’inizio degli Anni Quaranta, quando Disney lesse su un quotidiano la breve storia Happy Dan, The Whistling Dog e propose a Grant di inserire il personaggio di Biagio.
Il lavoro continuò anche dopo l’abbandono di Grant dello studio, ma la pellicola prese forma solamente nel 1953, sulla base degli storyboard di Grant e sul racconto sopra citato.
Uno dei cambiamenti più significativi – o potenziali tali – fu la scena iconica degli spaghetti: Walt Disney era deciso fino all’ultimo a tagliarla, considerandola troppo sciocca e poco efficace.
Ma uno degli animatori, Frank Thomas, era talmente convinto di volerla inserire che la animò senza sceneggiatura, riuscendo a stupire Walt Disney che infine si convinse a mantenerla all’interno della pellicola.
Lilli e il vagabondo fu anche il primo film Disney girato col Cinemascope, quindi con un taglio dello schermo più ampio.
Questo cambiamento pose diversi problemi agli animatori, che potevano contare meno sui primi piani e avevano problemi a rendere i personaggi dominanti in una scena che altrimenti sarebbe apparsa piuttosto vuota.
Quadretto
La pellicola si apre con un quadretto familiare agrodolce.
L’arrivo di Lilli nella nuova casa è definito da un primo tentativo dei suoi padroni di addomesticarla, costringendo la cucciola a dormire nella cuccia in fondo alle scale che è stata preparata apposta per lei, con una dinamica che mi ha davvero stretto il cuore...
Ma questo è solo il primo passo della conquista di Lilli del cuore dei suoi genitori.
Come ogni bravo cane domestico, fin dal suo risveglio Lilli definisce lo spazio della casa e lo protegge, fungendo da sveglia forzata per i suoi padroni, doppiato il giardino e scacciando gli intrusi, per poi tornare con il giornale fresco di giornata in bocca.
E questa simpatica gag del quotidiano stracciato in realtà rivela molto di più: la presenza di Lilli ha illuminato la vita della famiglia, spogliandola di molte preoccupazioni e riuscendo finalmente a comporre un quadro famigliare appagante e genuinamente felice…
…ma è davvero così?
Seme
Biagio è, nel suo simpatico modo, un sobillatore.
La pellicola ci regala una breve introduzione del suo personaggio, uno spirito libero che nessuno è riuscito ad ingabbiare, che si rifiuta di far parte di una sola famiglia, ma di averne una per ogni giorno della settimana, arrivando non poco sottilmente a disprezzare l’alternativa.
E l’alternativa è proprio Lilli.
Il randagio si intrufola nella vita della protagonista nel momento di maggiore fragilità, dando voce e concretezza ai suoi dubbi e perplessità: un figlio in arrivo, per cui verrà inevitabilmente messa da parte e ridotta a mera presenza in una fredda cuccia nel giardino.
Questa inquietudine viene in prima battuta sventata dall’effettivo comportamento dei genitori, solo all’inizio piuttosto irrazionali nei loro comportamenti, ma che infine riescono infine a includere Lilli nella nuova realtà familiare senza troppi problemi.
Ma è una calma apparente…
Intruso
Per quanto iconico, lo snodo narrativo della zia Sara mi ha poco convinto.
La famiglia di Lilli abbandona su due piedi cane e figlio e li lascia alle cure di questa donna velenosa e piena di pregiudizi nei confronti dei cani, che si introduce in casa con una nuova minaccia nel taschino.
Così il siparietto inquietantissimo dei gatti siamesi che fanno a pezzi la casa e fanno ricadere la colpa su Lilli è evidentemente un meccanismo della trama per spingere definitivamente la protagonista nelle zampe di Biagio.
Tuttavia, la parte centrale è anche la più piacevole.
Nel loro scorrazzare, Biagio e Lilli prendono diverse vesti: rubagalline, venditori improvvisati e infine una coppia di innamorati nell’indimenticabile scena della pasta da Tony, una breve parentesi romantica prima del picco drammatico della pellicola.
Borghese
Il finale mi convince a tratti.
Mi hanno leggermente tediato le dinamiche del risentimento di Lilli nei confronti di Biagio, che si rifiuta di essere solamente la sua prossima conquista, e che già cerca di condurlo verso un suo snaturamento, da cane di strada a docile animale domestico.
Al contrario, piuttosto avvincente ed incalzante la scena del diabolico ratto che insidia la casa ed il bambino, e che permette alla coppia di rafforzare la fiducia nei confronti di Lilli, e infine di accogliere il randagio come nuovo membro della famiglia.
E proprio questa chiusura soffre di un taglio netto e sbrigativo.
Biagio ha presenta un cambio di carattere e di vita senza che venga mostrato alcun tipo di rimpianto, alcuna effettiva motivazione, se non l’affetto nei confronti di Lilli, che comunque non è abbastanza esplorato per giustificare questo cambiamento.
Eppure, questo finale che oggi fa sorridere, probabilmente per il pubblico degli Anni Cinquanta era la conclusione perfetta: un personaggio un po’ scapestrato, una mina vagante, che finalmente metteva la testa a posto e diventava un padre di famiglia squisitamente borghese.
Le avventure di Peter Pan (1953) di Hamilton Luske, Clyde Geronimi e Wilfred Jackson è il tredicesimo Classico Disney basato sull’opera teatrale Peter & Wendy (1904) di J. M. Barrie.
Wendy e i suoi fratelli vivono nel sogno di Peter Pan. Ma i sogni sono belli quando rimangono tali…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Le avventure di Peter Pan?
Assolutamente sì.
A differenza di quello scandalo di Peter Pan & Wendy (2023), il Classico del 1953 è un’ottima trasposizione dello spettacolo di J. M. Barrie, riuscendo a smussare gli angoli quandoserve, senza però evadere la profonda critica e morale che pervade l’opera originale.
Infatti non mancano, come d’altronde tipico della Disney del primo periodo, note fra il drammatico e persino l’inquietante, in maniera però più sottile e meno esplicitarispetto ad altri prodotti di quest’epoca, con significati ulteriori comprensibili forse solo ad una rilettura più adulta…
Peter Pan Produzione
Le avventure di Peter Pan doveva essere il secondo film di Walt Disney.
Il fondatore della casa di Topolino aveva un particolare amore per l’opera di J. M. Barrie, ma poté acquisire i diritti solo nel 1939, e, a cavallo fra i due decenni, esplorò diverse idee di trasposizione.
Inizialmente la storia doveva essere molto più vicina all’originale, molto più cupa, e si pensò persino di scrivere la trama dal punto di vista di Nana, che seguiva i bambini nell’Isola che non c’è, oppure di lasciare indietro John quando questo si dimostrava troppo cinico e noioso per partecipare all’avventura.
La produzione fu interrotta con l’arrivo della guerra, che costrinse la casa di produzione a creare solo film propagandistici, mettendo in pausa non solo questa idea, ma anche quella di Alice nel Paese delle Meraviglie (1951).
Nei primi anni del dopoguerra la Disney era in crisi finanziaria e non cominciò a ripensare all’opera fino al 1947, nonostante le perplessità di Roy Disney, fratello del fondatore, sull’attrattiva dell’operazione.
A differenza di molti prodotti precedenti, le scene in live action non furono ricalcate, ma solamente utilizzate come riferimento, perché altrimenti le animazioni sarebbero state troppo rigide ed innaturali.
Crescere
Wendy non ha (più) bisogno dell’infanzia.
A differenza dell’altra ottima traspirazione del 2003, Wendy è solo a parole turbata dalla volontà del padre di farla crescere, dal forzato abbandono della camera dell’infanzia: i suoi comportamenti raccontano una ragazzina già sulla via di abbandonare l’ingenuità infantile.
Infatti, fin da subito si dimostra piuttosto intraprendente nelle sue decisioni, andando persino a scavalcare l’autorità paterna, mostrandosi anche in seguito e a più riprese per nulla sprovveduta né ingenua come invece i suoi fratelli.
Non a caso la sua travolgente accoglienza sconvolge sulle prime Peter, venuto solo per recuperare la sua ombra, ma che invece cede quasi subito alle cure di Wendy, e turba solo parzialmente la serena crescita della protagonista…
…cercando di trascinarla con sé verso il terribile sogno dell’infanzia infinita.
E in questo senso, la figura di Peter ha tutto un altro sapore.
Ombra
Peter Pan è, per certi versi, il vero antagonista della sua stessa pellicola.
Proprio come J. M. Barrie l’aveva concepito come spirito e rappresentazione dell’infanzia più caotica e distruttiva, quando Wendy svela alla madre che sta aspettando l’arrivo del ragazzo eternamente giovane la stessa è colta da un senso di inquietudine – e a ragione…
Infatti, Peter è un’ombra che penetra l’infanzia della protagonista proprio quando questa sta per abbandonarla, conducendola in luogo dove tutto è permesso, persino una vita feroce, selvaggia e, soprattutto, fuori dal controllo e dalle pressioni degli adulti per crescere al più presto.
Di fatto Disney scelse di annullare quasi ogni tipo di connessione romantica fra i due personaggi…
…mettendoli anzi in costante contrasto, proprio a partire dalla scena delle sirene, in cui più volte Peter si dimentica di Wendy, e lascia senza troppe preoccupazioni che sia maltratta dalle dispettose donne pesce.
Ma il mondo di Peter è pura finzione.
Finzione
Passando da un quadro all’altro proprio come a teatro, la missione di John e di Michael è estremamente rivelatoria.
Nonostante la lotta con gli indiani sia piuttosto violenta, la stessa viene subito rivelata come parte di un eterno gioco delle parti, proprio come se gli stessi fossero solo parte di una delle tante fantasie infantili dei bambini sperduti, senza che la realtà debba mai venire a bussare alla porta…
…o forse sì?
L’unico che può davvero spezzare la finzione è Uncino.
Fin da subito il suo personaggio è caricato di un nutrito numero di gag con un umorismo piuttosto dark– dai vari assassini ingiustificati alla dinamica della presunta testa mozzata durante la rasatura – che si concretizzano infine in un effettivo tentativo del pirata di farla finita con Peter Pan.
Ed infatti è proprio Uncino quello che causa per la prima volta un cambio delle carte in tavola: il rapimento di Giglio Tigrato spinge il capo tribù a minacciare di uccidere in maniera anche piuttosto violenta i bambini sperduti, e così di mettere anche lui un punto al gioco eterno.
E i giochi sono fatti di ruoli…
Ruolo
Wendy non vuole sottostare ad un ruolo.
Questo elemento si vede molto bene nella scena della festa con gli indiani, quando una donna della tribù cerca di costringerla a sottostare ad un ruolo – la figura femminile dedita alla cura del focolare – e, proprio in quel momento, Wendy, come Uncino, decide che il gioco è finito.
A questa improvvisa realizzazione segue un’opera di persuasione nei confronti dei bambini sperduti e soprattutto dei fratelli, riportati alla ragione, riportati nelle braccia accoglienti quanto educative della madre – ruolo che, comprensibilmente, Wendy non vuole ancora ricoprire.
Ma, davanti a questo picco di drammaticità, il finale è un po’ buttato via.
A questo punto era abbastanza comprensibile che Disney volesse deviare dal seminato dell’opera in maniera significativa.
La chiusura del Classico è infatti un lieto fine pieno di speranza, in cui il sogno di Peter non è infranto, che anzi viene ricordato con commozione dagli stessi genitori, che forse un tempo erano stati sull’Isola che non c’è…
Ma l’idea di J. M. Barrie era ben diversa…
Peter Pan favola originale
Per quanto Walt Disney amasse l’opera originale, era anche consapevole che presa alla lettera non sarebbe stata vendibile.
Peter Pan particolarmente era un personaggio molto difficile da portare in scena – e le difficoltà di trasposizione si vedono particolarmente nel finale – in quanto il protagonista di J. M. Barrie era capriccioso e tirannico.
Per l’autore rappresentava tutto il peggio dell’infanzia: si dimentica costantemente sia delle sue avventure sia delle persone che gli stanno intorno, è un personaggio estremamente egoista, e comanda a bacchetta i suoi bambini.
Trilli è, se possibile, anche peggio.
Tutto ruota intorno al concetto che è una fatina così piccola che può contenere più di un sentimento alla volta: ne deriva quindi un comportamento scostante e a tratti genuinamente cattivo, fortemente imprevedibile.
In un certo senso nel suo personaggio J. M. Barrie ritrovava sempre una rappresentazione dell’infantile nella sua forma peggiore.
Peter Pan differenze opera originale
Ma il finale era assolutamente la parte meno vendibile.
Anzitutto, come si vede nella trasposizione del 2003, Uncino cerca di uccidere Peter non con un pacco bomba, ma piuttosto tentando di avvelenarlo: il protagonista viene salvato da Trilli, che muore e poi torna in vita.
Inoltre, nel finale J. M. Barrie mostra come la madre dei bambini sia sempre rimasta ad aspettarli, e inserisce una nota morale particolarmente avvelenata, che critica i protagonisti e la loro irresponsabilità nell’abbandonare la casa natale.
E, di nuovo, non è neanche la parte peggiore.
Nel finale i bimbi sperduti vengono adottati dalla famiglia Darling e diventano degli adulti rispettati, mentre Peter promette a Wendy di tornare da lei e portarla ogni anno sull’Isola per fare le pulizie di Primavera.
Ma alla fine negli anni si dimentica di Wendy, e torna da lei solamente quando questa è diventata adulta, facendolo disperare, e scegliendo infine di sostituirla con la figlia – Jane, che si vede nel sequel del 2002 – e tutte le discendenti di Wendy nei secoli dei secoli…
Alice nel Paese delle Meraviglie (1951) è il tredicesimo Classico Disney, tratto dal romanzo di Lewis Carroll Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie (1865) – e in parte dal sequel del 1871 dello stesso autore.
Walt Disney riprese le avventure del classico di Carroll non apportando particolari cambiamenti, ma semplicemente cercando di piegare la narrazione ad una morale più adatta al suo tempo.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Alice nel Paese delle Meraviglie?
Assolutamente sì.
Nonostante contenga dei frangenti genuinamente angoscianti – ma niente di nuovo per la Disney di questo periodo – Alice nel Paese delle Meraviglie è una visione davvero piacevole, che porta in scena con una buona fedeltà l’opera di Carroll.
L’unico grande difetto è il tentativo di piegare la storia in direzioni del tutto innaturali per la stessa: nello specifico, la volontà di dargli una morale – il romanzo di 1862 è volutamente amorale – rendendo spesso Alice meno incisiva nei suoi comportamenti.
Ma, nel complesso, è una visione davvero da non perdere.
Alice nel paese delle meraviglie Produzione
Alice nel paese delle meraviglie era il sogno d’infanzia di Walt Disney.
Come altri bambini della sua generazione, il libro di Carroll era parte della sua formazione scolastica, che lo portò nel 1923, quando era ancora un regista ventunenne, a produrre un cortometraggio liberamente ispirato alla storia, col titolo Il Paese delle Meraviglie di Alice.
Nel 1932 cominciò a pensare di creare un lungometraggio misto live action e animazione, ma due eventi gli fecero cambiare idea.
Ovvero, le nuove prospettive aperte con il successo di Biancaneve e i sette nani (1937) e, soprattutto, la Paramount che lo anticipò sui tempi, creando il terzo lungometraggio live action basato sull’opera di 1865.
Walt Disney infatti si approcciava ad un mercato in cui erano già usciti tre cortometraggi dedicati (dal 1903 al 1915), e tre lungometraggi in live action, di cui quello del 1937 era già il secondo con dialoghi.
I lavori iniziarono effettivamente nel 1938, quando venne registrato il marchio e venne creato la prima proposta, che venne però bocciata da Disney perché troppo basata sulle illustrazioni originali del libro – troppo difficili da animare – e con una storia troppo cupa per essere vendibile.
La produzione ricominciò però solamente dopo la guerra, nel 1945: la nuova versione aveva un taglio artistico ben più moderno, definito da colori più accesi e stravaganti, e la sceneggiatura venne riscritta mettendo più in evidenza il lato surreale dell’opera di Carroll piuttosto che le parti più dark.
Solo nel 1946, però, decise definitivamente di fare un prodotto solo animato.
Alice nel paese delle meraviglie scene tagliate
Nonostante nel complesso si cercò di stare molto vicini al romanzo, inserendo anche delle battute in maniera diretta, furono diversi i tagli.
In particolare, venne tagliata l’importante scena (che copre un intero capitolo nel libro) della Duchessa Brutta, mentre l’incontro con l’inquietante Ciciarampa venne sostituito con l’iconico racconto de Il tricheco e il carpentiere.
Per contro, venne scritto un numero piuttosto nutrito di canzoni per il film, e molte ebbero spazio nella pellicola, anche se per pochi secondi.
Creare
L’incipit di Alice nel paese delle meraviglie è significativo per più motivi.
Anzitutto, funge da prologo piuttosto eloquente della storia, grazie alle parole di Alice che ci guidano per il mondo senza senso che sta per creare – e per vivere – e che comincia ad esistere quando la bambina tocca lo specchio d’acqua – specifico riferimento al sequel del 1871, in cui Alice attraversa lo specchio.
D’altra parte, definisce questa Alice cinematografica in una maniera simile ma al contempo diversa rispetto alla sua controparte cartacea.
Infatti, anche se entrambe entrano in un sogno, lo fanno l’una – quella animata – per un effettivo desiderio di evasione dal noioso presente – l’altra – quella originale – più che altro spinta dalla curiosità.
Elemento che sarà determinante nel finale.
Succube
Alice più che esplorare questo mondo meraviglioso, ne sembra in molti tratti succube.
Infatti, dall’impossibile girotondo con gli uccelli sulla spiaggia alle brutte maniera del bruco, fino all’esplicito bullismo dei fiori, tanto belli quanto elitari, la protagonista vive un sogno ostile e su cui non sempre riesce a rivalersi.
Una situazione non in realtà particolarmente dissimile dal romanzo di partenza, almeno per quanto riguarda i modi piuttosto scostanti ed imprevedibili con cui i vari personaggi si rapportavano con Alice…
…ma con la grande differenza che la protagonista di Carroll era molto più in controllo della situazione.
Invece il senso di smarrimento della Alice disneyana è definito da due elementi.
Anzitutto, il suo disperato tentativo di mettersi sulle tracce del Bianconiglio, non per una vera motivazione, ma più che altro per quello che il personaggio rappresenta: una figura che apparentemente riesce a passare dal sogno alla realtà a cui, alla fine, Alice vuole tornare.
E proprio qui sta la differenza fondamentale.
Amorale
Alice nel paese delle meraviglie di Carroll è un racconto programmaticamente amorale.
La grande differenza fra l’opera del 1865 e altri romanzi per l’infanzia era proprio come la protagonista non vivesse la sua avventura per ricevere un insegnamento, ma piuttosto per educarsi da sola davanti alle varie insidie di questo mondo meraviglioso.
Proprio per questo, particolarmente d’impatto era la conclusione dell’avventura, in cui Alice chiosava siete solo un mazzo di carte, e in quel momento riprendeva il totale controllo sul sogno – e si risvegliava – dopo un’avventura di cui lei stessa aveva definito i modi e i tempi.
Al contrario, la Alice di Walt Disney viene dipinta come una ragazzina fin troppo curiosa e scostante, che si incastra in una vicenda da cui non riesce a scappare, arrivando prima ad essere francamente stufa di tutto questo nonsense, per poi rattristarsi, convinta di non essere capace di seguire neanche i suoi stessi consigli.
Così la chiusura del film, per quanto erediti la suddetta battuta del libro, si risolve invece con Alice ancora una volta tormentata dal suo sogno, che fugge disperatamente verso la sua via d’uscita – il risveglio – con una conclusione che in realtà non risolve nulla, anzi lascia un certo senso di angoscia…
Scelta che, fra l’altro, potrebbe aver influito sull’insuccesso del film.
Disney riprese il classico popolare Cinderella e lo ripropose in una veste più a misura di bambino, mettendo al centro una protagonista piena di sogni (e che li realizza tutti).
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Cenerentola?
Assolutamente sì.
Non è un caso che Cenerentola fu un successo quasi al pari di Biancaneve: le due storie si somigliano moltissimo, anche se personalmente preferisco il Classico del 1950, che crea un climax narrativo più efficace e intrattenente.
Allo stesso modo, anche questa pellicola non manca di ampi insertidi siparietti comici con protagonisti gli animali, ma in maniera ancora più incisiva rispetto al Classico fondativo, ed evolvendo ulteriormente e in maniera decisiva la figura dell’aiutante.
Insomma, da riscoprire.
Cenerentola Produzione
Cenerentola segnò il grande ritorno della Disney.
Dopo i difficoltosi anni della guerra che avevano messo a dura prova l’idea di produrre lungometraggi e avevano minato le entrate aziendali, le buone rendite degli ultimi cortometraggi invogliarono Walt Disney a tornare su produzioni come Biancaneve.
La storia classica e anche piuttosto orrorifica di Cenerentola fu integrata con sequenze comiche e di effetto, oltre a diversi cambiamenti di trama.
Come ogni produzione Disney del periodo, la ricerca della credibilità scenica fu al centro della creazione dell’opera.
La direzione artistica fu affidata a Mary Blair, che aveva già lavorato a diversi cortometraggi e la cui scelta ricadde in una precisa connessione fra le ambientazioni e i personaggi, a differenza di precedenti classici come Dumbo(1940) e Bambi (1942).
Vennero inoltre utilizzati diversi effetti speciali per diverse scene, da quella in cui Cenerentola si vede riflessa nelle bolle di sapone, all’apparizione della Fata Madrina, che doveva apparire luccicante – gli stessi vennero utilizzati anche per Trilli in Le avventure di Peter Pan(1953).
Ci furono diversi cambiamenti e tagli durante la produzione.
Anzitutto, inizialmente il principe aveva un ruolo e uno spazio ben più importante: veniva mostrato sia all’inizio a caccia, sia alla fine quando rincontrava Cenerentola nelle sue vere sembianze.
La sequenza del vestito vedeva originariamente protagonista Cenerentola, che si immaginava di moltiplicarsi in un esercito di cameriere per venire a capo del suo enorme carico di lavoro.
Altra scena tagliata mostrava Cenerentola che origliava la sua famiglia mentre parlava della misteriosa ragazza del ballo, mostrandosi piuttosto divertita: Walt Disney scelse di eliminare la scena perché la faceva sembrare troppo dispettosa.
Miglioramento
L’incipit di Cenerentola è assai simile a quello di Biancaneve.
Tuttavia, a più di dieci anni di distanza dal primo Classico, l’antefatto si mostra ben più strutturato – e anche particolarmente adulto: il sogno di un’infanzia idilliaca viene distrutto dall’intrusione della matrigna e dalle sue terribili figlie…
…che, dopo la scomparsa improvvisa – e forse voluta? – del padre della protagonista, ne sperperano il denaro e bullizzano sistematicamente Cenerentola, rendendola serva nella sua stessa casa, fino ad arrivare al presente piuttosto desolante della storia.
Ma non basta ad abbattere la protagonista.
Bontà
Cenerentola è un esempio positivo.
Nonostante viva una vita da incubo, la protagonista non si è mai lasciata scoraggiare e non ha mai smesso di sperare nella realizzazione dei suoi sogni, ancora intatti nella sua mente e che, come dice lei stessa, nessuno le potrà mai sottrarre.
Tuttavia, il suo grande limite è l’essere spesso drammaticamente passiva.
Il suo sogno Cenerentola lo avvera più per interventi esterni che per la sua agency, proprio per la natura stessa del personaggio e di quello che rappresenta: la sua naturale piacevolezza merita di essere premiata e per questo attrae la bontà anche degli altri.
Infatti, nonostante sia animata da tanta buona volontà che la porta a continuare a sognare e a non perdere le speranze, al contempo è poco attiva nel concretizzarei suoi sogni: la sua partecipazione al ballo è merito prima dei topini e poi della Fata Madrina, deus ex machina per eccellenza…
…e il suo conquistare il principe non sembra altro che una naturale conseguenza, il destino che si avvera, e persino la sua vittoria – riuscire a mostrare di essere quella ragazza – è merito più del regalo della sua protettrice che le ha lasciato la scarpetta.
E senza i topolini probabilmente sarebbe rimasta rinchiusa dentro alla sua stanza…
Attesa
I villain entrano effettivamente in scena molto tardi.
Buona parte del primo atto del film è dedicata al conflitto fra Lucifero e i topolini, ritardando invece l’apparizione di quelli che dovrebbero essere i veri antagonisti della storia: le sorellastre e la matrigna, la cui malvagità è costruita molto gradualmente.
Infatti il vero spunto per il primo effettivo maltrattamento di Cenerentola è il presunto scherzo che la protagonista avrebbe fatto alle due sorelle, per cui Lady Tremaine, in agguato nell’ombra, la punisce aspramente, caricandola ulteriormente di lavoro.
E, come Cenerentola è più passiva che attiva, la matrigna è un villain indiretto.
Solamente nell’ultimo atto agisce direttamente per mettere i bastoni fra le ruote alla protagonista, mentre per il resto della pellicola resta più che altro nell’ombra, tirando le fila per danneggiare in maniera più sottile e spietata la sua figlioccia.
Non a caso, non le nega la possibilità di andare al ballo, ma la carica di lavoro per renderglielo impossibile, così come non le distrugge l’abito, ma piuttosto istiga le sue vendicative figlie a farlo a pezzi, rimanendo in entrambi i casi ai margini della scena.
Intrusione
In maniera non tanto diversa da Bambi (1942), anche Cenerentola è ricco di intrusioni di personaggi secondari.
E la grande differenza con Biancaneve, la protagonista esce di scena per lunghi tratti, lasciando un sorprendente spazio di autonomia ai personaggi animali, nello specifico nella scena del confezionamento dell’abito, dove i veri protagonisti sono Lucifero, Gus Gus e Giac.
E il e proprio la loro rappresentazione piuttosto è variegata
Se da una parte infatti i topolini sono decisamente più umanizzati, parlando – pur in maniera stentata – e indossando abiti umani, ricordandosi solo per pochi tratti di essere dei roditori – quando scappano nei buchi della parete o quando usano la loro coda come filo per le perle…
…Lucifero non è nient’altro che un gatto che si comporta da gatto, che non ha altro interesse se non essere dispettoso, catturare i topolini e mettersi in mezzo nei piani degli eroi della storia, ma senza nessuna particolare malizia nelle sue intenzioni.
Eppure, è molto più attivo di Cenerentola…
Biancaneve favola originale
Per Cenerentola, Walt Disney creò una versione tutta sua.
La protagonista della versione dei Fratelli Grimm aveva decisamente più inventiva ed era ben più attiva, anche se sempre aiutata da personaggi esterni, fra cui la Fata Madrina, che non era una fata, ma bensì un albero magico.
A questo albero Cenerentola si recherà per ben tre volte – come i tre balli presenti nella storia originale – e ogni volta chiederà un abito diverso.
Questa pianta è infatti opera della stessa protagonista, risultato del regalo che ha chiesto al padre – vivo e vegeto per tutta la storia – ovvero un ramoscello che la ragazza pianta nella tomba della madre e che annaffia con le sue lacrime.
La scena della scarpetta è la più macabra.
Pur di farsi entrare la piccola calzatura, le sorellastre si tagliano i talloni, ma vengono ovviamente scoperte per il sangue che cola. E, se questo non bastasse, vengono infine anche punite dagli uccelli amici di Cenerentola, che durante il suo matrimonio cavano gli occhi alle due cattive sorelle.
Infine, la relazione col principe è un po’ come una caccia.
Cenerentola scappa tre volte dal ballo, ogni volta nascondendosi in posti diversi della casa per non farsi trovare, finché il principe non si ingegna…e cosparge le scale del suo castello con del catrame per impedirle di scappare.
Proprio per questo una sua scarpetta rimane indietro.
L’uovo dell’angelo (1985) di Mamoru Oshii, anche conosciuto come Tenshi no tamago, è un lungometraggio anime dai toni misteriosi e dai contenuti fortemente simbolici.
La pellicola fu un direct-to-video e un tale insuccesso commerciale che per tre anni il regista non riuscì a trovare altri lavori.
Di cosa parla L’uovo dell’angelo?
Una bambina senza nome si aggira per una città desolata e distrutta con un solo obbiettivo: proteggere l’uovo che ha trovato.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere L’uovo dell’angelo?
Assolutamente sì.
L’opera di Mamoru Oshii è un racconto splendidamente simbolico, ma che lascia un ampio spazio, sia fisico che metaforico, allo spettatore per lasciarsi leggere ed interpretare, e, al contempo, rappresenta il turbamento interiore del regista stesso.
Una regia impeccabile, che ora vagheggia in questi panorami desolati dal forte sapore gotico, ora indugia per lunghi momenti sui personaggi immobili immersi nei loro pensieri e nelle loro domande a cui, da soli, non potranno mai trovare una risposta.
Insomma, da non perdere.
Occhio
L’incipit de L’uovo dell’angelo è l’inizio della missione senza speranza.
Un occhio minaccioso e vigile indaga il comportamento del cavaliere, di questo soldato che porta addosso simboli evidentemente cristiani, ma in cui ha evidentemente smesso di credere, ormai disilluso delle promesse del suo Dio.
Un personaggio che sembrerebbe l’ultimo flebile legame con la promessa disattesa di Noè e dell’Arca, rimasta in eterno bloccata in un limbo senza via d’uscita, rendendo gli uomini dimentichi non solo della loro missione, ma del loro stesso senso di reale…
…impegnati ad inseguire delle ombre di un passato inesistente.
E poi c’è la bambina.
Luce
L’infanzia è spesso al centro della mitologia cristiana per rappresentare il candore e la verginità.
Ma aprendo il personaggio ad un senso più ampio, la stessa può essere considerato l’ultimo baluardo ad un’umanità ancora effettivamente viva e genuinamente curiosa ora di esplorare la realtà circostante, la creazione divina, ora di credere nei suoi simboli e nelle sue promesse.
Non è un caso che il suo personaggio sia spesso associato al simbolo dell’acqua, che in L’uovo dell’angelo ha una doppia valenza: se da una parte rappresenta semplicemente la vita, la rinascita, financo la liberazione del peccato di quell’umanità ormai perduta…
…al contempo ne simboleggia anche il vuoto, l’oblio, l’isolamento e infine la morte, viaggiando strettamente con questo doppio significato che esplode nel finale, in cui la morte della bambina rappresenta una distruzione, ma anche una rinascita potenziale.
Illusione
Questa stringente simbologia è negata dal crociato.
Come il suo personaggio sembra l’unico a non essersi veramente dimenticato della promessa che avrebbe dovuto portare ad una rinascita dell’umano, lo stesso è sul precipizio di perdersi esattamente come tutti gli altri, derubricando la storia a pura leggenda, a pura illusione.
L’apice si raggiunge quando il soldato ipotizza persino di vivere all’interno di un’illusione, di un sogno da cui non riesce a liberarsi, nonostante la bambina cerchi costantemente di accompagnarlo a riscoprire i simboli che le hanno permesso di continuare a credere.
Ma proprio in quei simboli si perdono.
I protagonisti si domandano costantemente e vicendevolmente la loro identità, ma non sanno mai rispondere.
Infatti loro stessi, ad un livello più o meno metanarrativo, sono dei simboli che non hanno un’identità propria, ma che rappresentano il cammino dell’umano in due direzioni totalmente opposte: speranza e disillusione.
Quindi, ad un livello strettamente cristiano, la bambina è speranzosa del ritorno di Dio, della rinascita del Salvatore – l’uccello – che porterà alla rinascita dell’umanità, alla scoperta della terra da abitare, mentre il soldato rappresenta la crisi religiosa e l’allontanamento da Dio.
Ciclo
Il crociato non riesce più a credere.
Per questo infine sceglie di distruggere l’Uovo, quella prova materiale che quel Dio che pensa che l’abbia abbandonato è ancora presente, quella nuova promessa di cui non vuole illudersi, e lo fa proprio con gli stessi simboli cristiani – il fucile a forma di croce – creando un evidente paradosso.
Lo stesso si definisce ancora più strettamente proprio nella suddetta dinamica del finale, che racconta una sorta di ciclo inscalfibile di vita e morte, disillusione e speranza, che non potrà mai veramente essere scardinato, neanche dall’azione più violenza, più distruttiva e più disperata.
Così, anche dalla morte di un uomo sulla croce, l’umanità potrà sempre rinascere.
Bambi (1942) di David Hand è il quinto classico Disney, nonché una delle produzioni più travagliate della casa di produzione in questo periodo.
Tuttavia, dopo i timidi risultati di Dumbo (1942) eFantasia (1940), il lungometraggio fu il più grande successo commerciale dell’annata: con un budget di meno di un milione di dollari, ne incassò 3 in tutto il mondo.
Di cosa parla Bambi?
La storia segue la crescita e l’evoluzione del protagonista, Bambi, un giovane cervo nel suo primo anno di vita.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Bambi?
In generale, sì.
Nella riscoperta dell’Età dell’Oro, finora Bambi è il Classico che mi ha meno coinvolto, forse anche per il fatto che non è tanto un film che vuole raccontare una storia, ma più mettere in scena delle atmosfere.
Infatti, i siparietti comici degli animali della foresta sono sostanzialmente la colonna portante dell’opera.
Non mancano ovviamente i momenti più strettamente drammatici – uno dei quali è fra i più citati di casa Disney – che riescono nel complesso a costruire una trama che, pur prevedibile e molto semplice, è al contempo puntuale e organica nella sua esecuzione.
Bambi Produzione
La produzione di Bambi fu travagliata.
La genesi del progetto non è chiarissima: l’unica cosa certa è che Walt Disney lesse il libro di grande successo Bambi, la vita di un capriolo (1923) dello scrittore ungherese Felix Salten, e forse fu influenzato da Sidney Franklin, che aveva tentato un adattamento in live action anni prima, senza successo.
Sicuramente la presenza di Franklin, da cui erano stati acquisiti i diritti, fu incisiva nelle difficoltà produttive: nel 1937 rigettò la prima bozza di sceneggiatura, in quanto la considerava povera di gag e poco fedele al libro di Salten.
E infatti, sia Pinocchio(1940) che Fantasia(1940), nonostante fossero cominciati dopo, vennero completati più in fretta e uscirono prima.
Una scelta particolare nella revisione della sceneggiatura fu l’essere più vicini all’opera originale, destinata ad un pubblico adulto e ricca di momenti drammatici, e in cui l’antropomorfismo degli animali è ridotto al minimo.
Infatti, si scelse di rendere i personaggi il più realistici possibile, rendendoli più umani solo nel contesto di alcune gag.
Questa scelta fu un ulteriore rallentamento della produzione, che venne ripresa in più momenti fra il 1939 e il 1940, anno in cui si cominciò definitivamente ad animare la pellicola, che venne ultimata solamente l’anno successivo grazie al successo di Dumbo (1941).
Bambi Design
Nel libro di Salten, Bambi è un capriolo, nel film Disney divenne un cervo, accentuando anche le dimensioni del muso e degli occhi, in modo che avesse un’aria più innocente e infantile.
Un grande ostacolo era il personaggio del Principe della Foresta, che aveva un minutaggio ridottissimo, ma doveva essere la guida del protagonista: per questo gli si scelse di conferirgli una voce profonda ed impersonale, ed un modo di porsi molto incisivo e severo.
Infine, nonostante i numerosi tagli dovuti alla nuova situazione politica, uscì nelle sale statunitensi nel 1942, per poi essere ridistribuito diverse volte negli anni e pure ridoppiato, arrivando in Italia solo nel 1948.
Atmosfere
Bambi è un film di atmosfere.
La pellicola si apre con diversi quadretti naturali: dal topolino che di rinfresca con una goccia d’acqua fino ai piccoli uccellini che si contendono il cibo, il tutto serve ad incorniciare l’entrata in scena del protagonista, il grande evento cardine della storia.
I primi passi di Bambi sono anche i momenti più dolci e deliziosamente ironici: il piccolo cerbiatto impara a camminare ed è oggetto delle prese in giro degli altri animali – soprattutto da Tamburino – ed entra poi in contatto col secondo comprimario, la puzzola Fiore.
Per tutto il film i personaggi di sfondo sono quasi i veri protagonisti della scena, in un sistema di scatole cinesi, in cui le piccole avventure di Bambi e dei suoi amici sono incorniciate da momenti di quotidianità essenziali per rendere viva la scena.
Fra l’altro, raramente gli stessi sono effettivamente connessi con la storia dei personaggi principali, pur con qualche piccola eccezione – come l’anatroccolo che durante la pioggia viene travolto dalla corsa di Bambi.
Pericolo
La foresta è accogliente…
…ma anche pericolosa.
Il primo momento di effettivo pericolo è l’avventurarsi di Bambi e della madre nel prato, con importanti ammonimenti della stessa sulla pericolosità di questi spazi avvincenti quanto insidiosi, indirettamente facendo riferimento al pericolo dei cacciatori in agguato…
Tuttavia, come tipico di tutti i prodotti Disney di questo periodo, questa tragicità è fortemente ammorbidita dalla dinamica giocosa fra Bambi e Faline, in cui la giovane cerbiatta scherza e stuzzica il protagonista.
Si ritorna poi ad una certa serietà con l’incontro, pur da lontano, con l’effettivo Principe della Foresta.
Lo stesso diventerà la guida per il protagonista quando Bambi perderà la madre in uno dei frangenti più tragici eppure più intelligentemente portati in scena della storia della Disney: basta il rumore di uno sparo per raccontare tutto…
Tuttavia, ancora una volta, questa scena è fortemente ammorbidita.
Natura
Un aspetto curioso di Bambi è come la scena più drammatica è anche superata molto in fretta.
Dopo la morte della madre, Bambi ritorna in scena senza troppi rimpianti e in una veste più matura – probabilmente adolescenziale – e rientra in contatto con i suoi vecchi amici, che discutono increduli sulle dinamiche dell’accoppiamento, sicuri di non caderci mai.
E invece la natura fa il suo corso.
Oltre ad essere tutti catturati dal giogo dei primi amori, Bambi diventa protagonista di un inaspettato scontro corna a cornacon il suo contendente nel corteggiamento di Faline, con un intrigante quanto inaspettato uso del chiaroscuro per caricare drammaticamente la scena.
E infine la storia si chiude come era cominciata.
La nascita di una coppia di cerbiatti, i nuovi principini della foresta, mentre lo sguardo vaga verso la figura di Bambi in lontananza, pronto a prendere il suo posto come il nuovo Principe della Foresta.
Dumbo (1941) di Ben Sharpsteen è il quarto classico Disney, distribuito per recuperare le perdite di Fantasia (1940).
In effetti, a fronte di un budget molto ridotto – meno di un milione di dollari – incassò 1,3 milioni.
Di cosa parla Dumbo?
Il nuovo arrivato del circo, il piccolo Dumbo, viene discriminato e maltrattato per le sue grandi orecchie…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Dumbo?
Assolutamente sì.
Anche per la durata veramente ridotta – poco più di un’ora – Dumbo è una visione piacevolissima, nonostante la storia davvero straziante in più momenti, che cerca però di smorzare la tragedia sul finale, inserendo degli intermezzi comici – o presunti tali.
Anche se fu concepito come un prodotto dal basso budget, Walt Disney non smise ancora di sorprendere con la sua animazione splendida pur nella sua semplicità, continuando sulla strada vincente di animare personaggi animali in maniera credibile e mai forzata.
Insomma, da non perdere.
Dumbo tecnica animazione
Dumbo nacque come un Roll-A-Book.
Questo prototipo di giocattolo conteneva otto disegni e poche righe di narrazione, con Dumbo accompagnato da un pettirosso piuttosto che dal topolino Timoteo, e fu portato all’attenzione di Walt Disney nel 1939.
Il progetto fu subito accolto con entusiasmo da Disney, anche se inizialmente intese il progetto come un cortometraggio: la sua natura cambiò non solo quando si capì la necessità di una maggiore lunghezza per riuscire ad adattare la storia…
…ma soprattutto per venire incontro alle perdite finanziarie di Fantasia, il cui insuccesso fu dovuto anche all’impossibilità di distribuirlo in Europa per via dell’inedita situazione bellica.
Infatti Dumbo fu un progetto low-budget: si può ben notare dalla semplicità del design dei personaggi, dagli sfondi poco dettagliati, e da un certo numero di momenti riciclati dell’animazione interna al film.
Inoltre, insieme a Biancaneve (1937), è l’unico Classico Disney con gli sfondi creati con gli acquarelli.
Anche se fu nel complesso un successo, ci furono diversi problemi nella produzione e nella distribuzione.
Anzitutto, il 29 Maggio 1941, dopo che una prima animazione approssimativa del film era stata compiuta, diversi animatori appartenenti al sindacato Screen Cartoonists Guild cominciarono uno sciopero che si concluse solo dopo cinque settimane.
Inoltre la RKO fu inizialmente molto reticente nel distribuire il film nella sua lunghezza di soli 64 minuti, chiedendo inutilmente a Disney di allungarlo o distribuirlo come cortometraggio, dovendo poi cedere e portarlo in sala nella forma proposta.
Umano
Uno dei grandi pregi di Dumbo è la gestione dei personaggi animali.
Altre produzioni molto meno ispirate avrebbero reso gli elefanti umani in tutto per tutto, facendoli camminare su due zampe e facendogli utilizzare le altre due come normali braccia, magari anche vestendoli di abiti borghesi.
Al contrario, nel quarto Classico Disney si punta moltissimo nell’animare la parte più attiva dei pachidermi: la loro proboscide, che diventa di fatto un braccio che in maniera del tutto credibile interagisce con l’ambiente circostante, afferrando, indicando e persino aggredendo.
Tuttavia, le dinamiche sociali sono strettamente umane.
Fin dall’inizio si svela tutta la cattiveria del gruppo delle elefantesse, che prima umiliano la Signora Jumbo già solo per il fatto di essere incinta – con un sottosenso piuttosto impegnativo – e a cui basta un elemento fuori posto – le grosse orecchie – per cominciare a bullizzare il nuovo venuto.
Piuttosto audace per una produzione di questo tipo raccontare un lato ben meno felice della realtà circense, in cui gli animali non solo erano sfruttati, ma anche lasciati liberi nelle mani degli avventori, per poi essere puniti quando solo cercavano di difendersi.
E dare il via alla scena più triste di tutte…
Solo
Una volta poste le basi di una situazione ostile e immobile, viene introdotto il motore della vicenda.
Ovvero, il topolino Timoteo.
Si tratta del secondo piccolo aiutante che appare in un Classico di casa Disney, dopo l’ottima sperimentazione con il Grillo Parlante in Pinocchio (1940) e che anche in questo caso diventa elemento fondamentale per la storia, che guida il protagonista nella sua evoluzione.
È infatti opera di Timoteo lo spettacolo con protagonista Dumbo, e sempre Timoteo lo incoraggia costantemente, anche quando viene umiliato e ridotto a pagliaccio, in una condizione di evidente inferiorità, per cui neanche viene considerato un vero elefante.
Ed è a questo punto che si trova la parte più iconica e altresì più enigmatica del film.
Intermezzo
Cosa rappresenta la scena degli Elefanti Rosa?
Secondo alcuni, è un semplice virtuosismo artistico in una pellicola, che per il resto non brilla particolarmente per l’innovazione, per altri una palese introduzione dell’elemento degli stupefacenti in un prodotto per bambini – niente di strano dopo il ben più problematico Pinocchio.
Quello che è indubbio è che ci troviamo davanti all’ennesima dimostrazione della maestria animata della Disney delle origini, capace di impreziosire una storia così in piccolo con una sequenza rimasta indelebile nell’immaginario di diverse generazioni di bambini.
Tanto più che la sequenza sfoggia una tecnica che sembra un retaggio di Fantasia stessa, con un sublime incontro fra musica e animazione, quasi dialogando con lo stesso pubblico di bambini, probabilmente attonito davanti a questa strana parata di inquietanti elefanti rosa.
Scioglimento
Nonostante la breve lunghezza, Dumbo mostra una struttura narrativa piuttosto solida.
Dopo una robusta introduzione, i primi passi del protagonista nella sua salita e caduta precipitosa, viene lasciato adeguato spazio per sciogliere la vicenda in maniera convincente e con non pochi inciampi dello stesso protagonista lungo la strada.
L’unico labile collegamento della parte degli Elefanti Rosa è che rende possibile a Timoteo di iniziare a sospettare le doti incredibili di Dumbo – il saper volare – con il piacevole inserimento dei corvi, che sembrano un po’ fare eco ai pensieri dello spettatore.
Inoltre, la canzoncina Giammai gli elefanti volar costruisce un simpatico climax verso la conclusione, con anche l’inserimento di una apparentemente innocua bugia bianca, che però sembra quasi rivoltarsi contro Timoteo proprio nel momento più sbagliato…
…ma che invece porta ad un finale completo e soddisfacente.
Ritroviamo le elefantesse che, dopo essere state punite per la loro cattiveria, sono felici sul treno del circo, con in coda la Signora Jumbo finalmente riabilitata e libera dalla prigionia, mentre guardia orgogliosa il suo bambino, diventato ormai la nuova star del circo.
Giappone, 1950. Kazuki Fuse fa parte dell’ormai odiato corpo di polizia Kerberos. E una incomprensibile esitazione lo porterà fuori strada…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Jin-Roh – Uomini e Lupi?
Assolutamente sì.
Jin-Roh – Uomini e Lupi è un crocevia di diversi generi, in cui dominano le dinamiche tipiche dello spy movie, pur all’interno di una più ampia riflessione che si intreccia in maniera piuttosto straziante con la favola di Cappuccetto Rosso.
Insomma, una pellicola che non si sbilancia mai in un senso né nell’altro, che lascia aperte diverse domande a cui forse solo lo spettatore è capace di trovare una risposta, all’interno di un susseguirsi di rivelazioni e colpi di scena che tengono costantemente col fiato sospeso.
Superato
Non c’è più spazio per Kerberos.
Ma neanche per il suo contrario.
La dicotomia di Cappuccetto Rosso e i Lupi, propria dell’immediato dopoguerra nipponico, si è ormai esaurita ed è considerata superata, in un Giappone che vuole guardare ad un futuro più sfumato, più concentrato sull’idea di rinascita che di distruzione interna.
Proprio qui si inserisce Kazuki, che si trova spaesato davanti all’incomprensibilità di questo presente, davanti ad una ragazzina che sembra voler abbracciare gli estremismi di questo gruppo terroristico, che conduce alla domanda fondamentale per il suo percorso riflessivo:
Perché?
Ruolo
Non c’è spazio per i perché.
Ma solo per i ruoli.
Il protagonista cerca invano una comprensione delle parti che sembrano solo imposte – Lupo e Cappuccetto – e da cui sembra impossibile evadere, nonostante tutta la società intorno agli stessi stia cercando di smantellarli.
E la sua via di fuga sembra proprio Kei Amemiya, una ragazza così simile alla sua vittima, con un comportamento fin troppo accomodante e accogliente nei suoi confronti, che sembra proporgli di sfuggire proprio agli schemi in cui è intrappolato.
Ma non è abbastanza.
Pedina
Nonostante la ragazza lo spinga costantemente a fuggire, nonostante venga continuamente interrogato sul perché abbia scelto di non uccidere direttamente la ragazza ribelle, Kazuki è semplicemente incapace di reagire, di rispondere, di sfuggire da questo limbo.
E allora i personaggi sono solo pedine.
Entrambi si riscoprono legati a doppio filo con quello schema che tanto detestano, delle pedine mosse da mani nell’ombra che giocano con la loro carne per avere il controllo sulla situazione politica, per risolverla unicamente a loro vantaggio.
Una rappresentazione che potrebbe far riferimento alla complessa situazione politica nipponica nel secondo dopoguerra, con un paese ancora più immobile e incapace di reagire ai nuovi scenari politici, impotente nella sua sofferenza, sottomesso agli impulsi esterni.
Ed è ancora più straziante quando il protagonista sembra aver finalmente la libertà di scegliere se seguire il piano di altri oppure se proteggere il suo nuovo amore, con una chiusa che mostra un cecchino nell’angolo che avrebbe in ogni casoscelto per lui…
Fantasia (1940) è, insieme al poco precedente Biancaneve (1937), probabilmente una delle maggiori sperimentazioni di Walt Disney.
Purtroppo, fu un incredibile insuccesso commerciale, rischiando di minare il futuro dell’azienda stessa: la distribuzione piuttosto sfortunata – non venne distribuito in Europa – e piuttosto dispendiosa – unicamente in costosissimi roadshow – contribuì al fallimento economico dell’operazione.
Di cosa parla Fantasia?
Sotto la guida del Maestro delle Cerimonie Deems Taylor, il film presenta una collezione di otto episodi animati accompagnati da noti pezzi di musica classica.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Fantasia?
In generale, sì.
Per quanto Fantasia sia una sperimentazione veramente incredibile e da riscoprire, è altrettanto vero che non è un prodotto per tutti i palati: si tratta sostanzialmente di un concerto lungo più di due ore, in cui le storie raccontate sono piuttosto semplici e fini a sé stesse.
Quindi il mio consiglio è, se non ve la sentite di affrontare tutto insieme, di spezzettare la visione a seconda dei singoli frangenti, così da ammorbidire l’esperienza, senza comunque fargli perdere importanza.
Fantasia Produzione
Fantasia nacque per rilanciare Topolino.
Il personaggio iconico di Walt Disney stava progressivamente perdendo terreno rispetto ai comprimari – Paperino e Pippo – e per questo si scelse di rilanciarlo tramite il corto L’Apprendista stregone, con anche un redesign sostanziale.
Tuttavia in poco tempo le spese di produzione lievitarono talmente tanto che apparve chiaro che quel cortometraggio da solo non era sufficiente per rientrare nelle spese, e che era necessario costruirci qualcosa intorno.
Così nacque l’idea di Fantasia.
Ma non era niente di nuovo per Walt Disney: già con le Silly Symphonies, a partire dal 1929, aveva sperimentato questa commistione fra musica e animazione.
Ma in questo caso voleva fare qualcosa di più speciale: produrre cortometraggi dove la pura fantasia si rivela… l’azione controllata da un motivo musicale ha grande fascino nel regno dell’irrealtà.
Nel 1937 Walt Disney riuscì ad ottenere i diritti per i pezzi musicali, coinvolgendo Leopold Stokowski, direttore dell’Orchestra di Filadelfia dal 1912, che addirittura si propose di collaborare a costo zero.
La produzione coinvolse più di mille artisti e tecnici, per dare vita a più di cinquecento personaggi e per colorare la pellicola scena per scena, in modo che i colori di una sola ripresa si armonizzassero con l’insieme.
Anche in questo caso furono utilizzati dei modelli in argilla per aiutare gli animatori ad avere un’idea di tutti gli angoli dei personaggi da animare.
Non-Narrativo
I cortometraggi di Fantasia si possono volgarmente suddividere in due categorie:
narrativi e non-narrativi.
I segmenti non-narrativi sono quelli che più propriamente abbracciano l’idea del portare in vita il concerto tramite l’animazione, in particolare con i primi due episodi della serie.
Si passa dalle note di Bach animate con le lunghe ombre dell’orchestra che si scompongono in linee e geometrie astratte, che seguono il prezioso andamento della Toccata e fuga, e che cominciano il passaggio dalla realtà alla fantasia…
…per introdurre il trionfo naturale sulle note de Lo Schiaccianoci, in cui la natura si rianima e sembra come danzare leggera seguendo la melodia, con uno degli accostamenti più vincenti fra musica e immagine animata dell’intero lungometraggio.
Ma, fra narrativo e non-narrativo, c’è anche la via di mezzo.
Emblematica in questo senso la Danza delle Ore: una sorta di balletto comico, in cui le ballerine vengono sostituite da animali antropomorfi tipici della produzione Disney, portando in scena uno dei frangenti più iconici della pellicola – nonché uno dei miei preferiti.
Lo stesso in un certo senso si può dire della sequenza conclusiva: dalle atmosfere quasi orrorifiche de Una notte sul Monte Calvo, il lungometraggio si chiude sulle note più maestose e intime dell’indimenticabile Ave Maria di Schubert.
Intermezzo
Lo scambio con la colonna sonora è forse il segmento che mi ha più sorpreso.
Proprio come per uno spettacolo teatrale – e in effetti ha senso nella forma di distribuzione roadshow – nella metà del lungometraggio viene inserito un intermezzo, che si apre con la colonna sonora in persona che viene invitata sul palco.
Il momento in cui queste linee vengono animate e in un certo senso umanizzate sotto la guida esperta di Deems Taylor è una testimonianza incredibile della creatività e fantasia che definì la Disney nei suoi primi anni di storia.
Narrativo
Parlando di segmenti narrativi, ovviamente si parla de L’apprendista stregone.
Il corto rappresenta inevitabilmente il cuore della pellicola, ed è quello che più strettamente può essere considerato narrativo: racconta una piccola storia di un giovane Topolino in vesti nuove di zecca, mentre pasticcia con la magia.
E il collegamento con lo spettacolo stesso è evidente quando, nei suoi sogni, il protagonista è come se dirigesse un’orchestra, per poi trovarsi catapultato in un incubo creato dalle sue stesse mani, che solo il suo Maestro, come un novello Mosè, può risolvere.
In ultimo anche se in chiave minore, indimenticabile è sia la sequenza della nascita dei primi esseri viventi sulle note de La sagra della primavera, con anche un avvincente scontro fra i dominatori della preistoria…
…sia la più dolce Pastorale di Beethoven, uno spaccato di mitologia greca e romana in cui si alternano sulla scena le rampanti figure divine che sconvolgono gli equilibri terrestri e lo sbocciare degli amori fra i mitici centauri.