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Balto – Sottoterra

Balto (1995) di Simon Wells è uno dei pochi film prodotti al di fuori dei grandi studios che divenne negli anni un piccolo cult.

Eppure, al tempo fu un flop devastante: con un budget di 30 milioni di dollari, incassò appena 11 milioni in tutto il mondo, fra l’altro alla vigilia del fallimento della casa di produzione, la Amblimation.

Di cosa parla Balto?

Alaska, 1925. Balto è un cane randagio e meticcio, che fatica a trovare la sua identità all’interno di una cittadina che lo disprezza. Ma una situazione drammatica gli permetterà di rimettersi in gioco...

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Balto?

Balto e Jenna in Balto (1995) di Simon Wells

Assolutamente sì.

Balto è uno di quei film che porto nel cuore, e che migliora non solo ad ogni visione, ma soprattutto ad una revisione con un occhio più adulto e maturo, che permette di coglierne i significati più sotterranei e nascosti, ma in realtà fondativi della pellicola stessa.

Al contempo, non lo considero propriamente un film adatto ai più giovani: nonostante si cerchi in più momenti di ammorbidire i toni con alcune gag più a misura di bambino, si tratta a prescindere di una storia piuttosto drammatica e angosciante.

Insomma…qualcuno pensi ai bambini!

La non-identità

Balto in Balto (1995) di Simon Wells

Non è un cane. Non è un lupo. Sa soltanto quello che non è.

Balto è un eroe di mezzo.

Il suo ambiente naturale sono le retrovie, i vicoli bui e malmessi della città, in cui viene ripetutamente cacciato e a cui, in qualche modo, sente di appartenere: Balto è insomma sempre ad un passo da un mondo a lui proibito.

Anzi, due mondi.

Infatti, il protagonista non riesce mai a trovare il coraggio di penetrare la realtà civile – quella degli uomini e dei cani – ma neanche è capace di spingersi fino al mondo selvaggio e misterioso – quello dei lupi.

Balto e Steel in Balto (1995) di Simon Wells

Così, quando osserva i lupi in lontananza che ululano nella sua direzione, è incapace di rispondergli, e si allontana sconsolato fino alla barca al confine fra la città e il mondo selvaggio – ovvero, proprio il luogo in cui sente di appartenere.

E solo molto timidamente sceglie prima di gettarsi all’ultimo nella corsa – ma solo per riportare il cappello a Rosy – e, infine, solo dopo grandi meditazioni, è capace finalmente di partecipare alla gara per scegliere chi salverà la comunità, e a battere tutti gli altri concorrenti.

Ma non basta.

Il sotterraneo

Boris in Balto (1995) di Simon Wells

Il destino del protagonista sembra ormai scritto.

Balto sembra infatti incapace di emergere dalla sua condizione anche perché è circondato da altri personaggi emarginati: Boris, un’oca incapace di volare insieme alle sue compagne, e così Muk e Luk, due orsi polari che hanno paura dell’acqua.

Una situazione che ovviamente si aggrava per via della cattiveria degli uomini della città, che premiano a prescindere i cani di razza pura solamente per la loro discendenza, incapaci di comprendere il valore del protagonista.

Jenna in Balto (1995) di Simon Wells

Ma la realtà sotterranea è fondamentale.

Emblematica in questo senso la scena in cui Balto conduce Jenna per una via nascosta al di sotto della casa di Rosy.

Infatti, in questa scena Jenna riesce finalmente a comprendere la condizione della ragazzina, e per il resto del film e anche senza Balto, sarà sempre in grado di avere la zampa della situazione, pur rimanendo ai margini della scena.

Balto e Jenna in Balto (1995) di Simon Wells

Nella stessa occasione, il protagonista mostra alla sua amata un elemento fondamentale per convincerla della sua bontà: quei cocci di bottiglia rotti, che sembrano solamente pericolosi, mera spazzatura, in realtà possono essere utilizzati per creare una splendida aurora boreale.

Allo stesso modo Balto, un meticcio, un emarginato, apparentemente selvaggio e pericoloso, è in realtà un personaggio di grande valore.

Multiforme

Balto e Jenna in Balto (1995) di Simon Wells

Jenna è un personaggio femminile incredibilmente interessante.

Anzitutto, si sottrae al ruolo semplicemente di oggetto del desiderio – sia da una parte che dall’altra: inganna furbescamente Steel, quando questo cerca per l’ennesima volta di sedurla, e sceglie di avvicinarsi consapevolmente a Balto, nonostante la sua nomea.

Balto e Jenna in Balto (1995) di Simon Wells

Inoltre, non ha alcuna vergogna ad ammettere di aver interesse per il protagonista, nonostante questo sia considerato un emarginato e un bastardo – come si vede nella scena in cui Sylvie, una delle due cagne sue amiche, la mette alla prova.

Oltre a questo, per tutto il tempo rimane un personaggio estremamente attivo, sia quando spinge Balto all’avventura, sia quando lo salva dall’orso, sia poi nel momento in cui rimane l’unico personaggio che si sottrae alla narrativa fasulla di Steel.

L’ombra

Rosy in Balto (1995) di Simon Wells

La lugubre ombra della morte è costante in Balto.

La troviamo anzitutto in Rosy, una dei tanti bambini che si ammalano, prima quando comincia a tossire e viene richiamata a casa, poi nelle diverse e insistite sequenze in cui viene inquadrata a letto nella disperazione della malattia.

Ma la morte è presente anche in altri due momenti altrettanto inquietanti.

Nelle scene iniziali, quando Boris viene acciuffato dal macellaio, e l’ombra della lama si staglia sul suo collo, e poi quando ogni speranza sembra persa, e il giocattolaio, che poche scene prima aveva confezionato una slitta per Rosy, ora prepara la sua piccola bara…

Il gruppo spezzato

Il gruppo di salvataggio è troppo ingombrante.

Infatti, inizialmente tutti i personaggi partono all’avventura insieme a Balto, anche quelli più secondari e apparentemente inutili come i due orsi.

Invece saranno proprio loro a salvare Balto da morte sicura quando starà per affogare nel ghiaccio – trovando così la loro redenzione – e fondamentale sarà Jenna, che giungerà all’ultimo per sottrarlo dalle grinfie del terrificante orso, pur diventano poi lei stessa il motivo per cui il gruppo si spezza.

Ma l’avventura di Balto deve essere solitaria.

Il protagonista con questo viaggio non è solamente destinato a salvare la propria comunità – e nello specifico Rosy – ma si sta inconsapevolmente imbarcando verso un percorso per acquisire finalmente consapevolezza della sua identità.

Ma nel suo viaggio sono in agguato anche presenze che gli mettono i bastoni fra le ruote: la terribile bestia nera che lo attacca – assimilabile, per contrasto al Lupo Bianco, ad una figura quasi demoniaca – ma soprattutto Steel, disposto persino a rischiare la morte dei bambini per la propria gloria.

Rinascita

Infatti, la vera salvezza di Balto è l’incontro con il Lupo Bianco.

Inizialmente il protagonista aveva ingenuamente intrapreso il viaggio e il tentativo di salvataggio della medicina nelle vesti del cane – e proprio per questo aveva nuovamente fallito, trovandosi seppellito dalla neve in un dirupo…

…e così ancora una volta rinchiuso sottoterra, proprio come poco prima era stato seppellito dal ghiaccio dall’orso.

Ma stavolta deve salvarsi da solo.

Infatti, l’incontro con la misteriosa presenza – che può essere assimilabile alla figura dell’eredità di Balto, quanto a una figura quasi divina di salvezza – è l’occasione per il protagonista di riscoprirsi lupo.

Così Balto ricorda le sagge parole di Boris, che gli ricordano come una missione del genere non potesse essere portata avanti dei semplici cani – abituati alle comodità del mondo civilizzato ma solo da un lupo, capace di affrontare l’ignoto e il selvaggio, e uscirne indenne.

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The Nightmare Before Christmas – Crisi di Natale

The Nightmare Before Christmas (1993) è uno dei più incredibili progetti animati della storia del cinema, per la regia di Henry Selick – e non Tim Burton, che fu ideatore del progetto, ma lo seguì a distanza – proprio per l’utilizzo della tecnica stop-motion.

A fronte di un budget di 24 milioni di dollari, fu un grande successo commerciale – 101 milioni di dollari in tutto il mondo – anche se nulla in confronto alla popolarità che guadagnò negli anni.

Di cosa parla The Nightmare Before Christmas?

Jack Skeletron è il Re delle Zucche ad Halloween Town, ma si sente ormai vuoto nel dover organizzare ogni hanno la stessa festa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Nightmare Before Christmas?

Jack e Sally in Nightmare Before Christmas (1993) di Henry Selick

In generale, sì.

Per quanto consideri The Nightmare Before Christmas un prodotto di grande valore, mi rendo conto che i suoi meriti sono ritrovabili più nel lato artistico e musicale, che nella scrittura, che è piuttosto semplice e narrativamente non particolarmente brillante.

Tuttavia, se siete pronti a lasciarvi conquistare da un’opera davvero incredibile, una delle poche create con la splendida tecnica passo-uno (o stop-motion), vi innamorerete delle sue canzoni iconiche e degli splendidi character design dei personaggi.

Vuoto

Jack in Nightmare Before Christmas (1993) di Henry Selick

La sequenza di apertura di The Nightmare Before Christmas è iconica.

This is Halloween (Questo è Halloween) è una delle canzoni più celebri della pellicola, che rappresenta perfettamente la città di Halloween Town e i suoi fantasiosi personaggi, creati prendendo le mosse dalle paure più classiche dei giovani spettatori.

E, soprattutto, l’entrata in scena di Jack è uno dei momenti più splendidi della pellicola, semplicemente spettacolare nelle sue dinamiche, e che racconta perfettamente il ruolo di divo che il protagonista gode nella città.

Jack in Nightmare Before Christmas (1993) di Henry Selick

Ma non basta.

Jack si ritira quasi immediatamente dai festeggiamenti, muovendosi in un panorama lugubre e desolato, che rappresenta proprio i suoi contrastanti sentimenti sulla sua posizione, in una sorta di crisi di identità per cui non vuole più essere il Re di Halloween.

Un sentimento del tutto comprensibile, considerando che il protagonista ha vissuto tutta la sua vita circondato ed immerso nella stessa festa e nelle stesse atmosfere, nelle quali non riesce più a trovare la stessa soddisfazione di un tempo…

Scoperta

Jack in Nightmare Before Christmas (1993) di Henry Selick

La scoperta del Natale è in realtà una tentazione.

Il protagonista viene improvvisamente catapultato in un mondo nuovo, in delle atmosfere assolutamente opposte a quelle di Halloween Town, comportandosi proprio come un bambino a Natale.

Tutta l’iconica sequenza di What’s this? (Cos’è) è fondamentale proprio per raccontare l’entusiasmo del personaggio, che così riesce a risolvere la sua crisi d’identità, pur non riuscendo – né ora né dopo – a comprendere davvero la festa di riferimento.

Ma è così splendida questa sua adorabile ingenuità nel cercare di trovare la formula per comprendere il Natale, e nel suo travolgere tutti con un inguaribile trasporto verso questa nuova scoperta, nonostante non sia nelle corde né sue né degli altri personaggi di Halloween.

Ed è ancora più irresistibile quando assistiamo ai tentativi del tutto ingenui dei suoi concittadini nel creare questo Natale alternativo, senza averne capito l’essenza, anzi contaminandolo costantemente – ed inconsapevolmente – con la loro festa di riferimento.

Ma non tutti sono convinti…

Cassandra

Sally in Nightmare Before Christmas (1993) di Henry Selick

Sally è un personaggio molto meno banale di quanto potrebbe pensare.

Una sorta di rilettura di Frankenstein: una bambola di pezza che, come Jack sta attraversando una crisi esistenziale, è in una sorta di fase adolescenziale, che la porta ad essere totalmente invaghita del protagonista.

Al contempo è anche un personaggio particolarmente ingegnoso, del tutto consapevole delle sue potenzialità – poter usare le parti del corpo a suo piacimento – e anche piuttosto abile prima nello sfuggire dalle grinfie del suo creatore, poi nel gabbare – almeno momentaneamente – il terribile Bau Bau.

Sally in Nightmare Before Christmas (1993) di Henry Selick

Al contempo, Sally ha il ruolo di Cassandra.

Infatti, quando entra per la prima volta in contatto con il Natale, vede la piantina natalizia bruciarsi fra le sue mani: un oscuro presagio della futura disfatta di Jack, che il suo personaggio cerca più volte di spiegare al protagonista, rimanendo però inascoltata.

Così, davanti alla totale cecità di Jack, Sally è protagonista di forse non la canzone più iconica della pellicola, ma sicuramente di una sequenza molto sentita e soffertaSally’s song o La Canzone di Sally – in cui malinconicamente ammette che il suo sogno d’amore è irrealizzabile.

Ingenuità

Jack e Babbo Natale in Nightmare Before Christmas (1993) di Henry Selick

L’ingenuità di Jack non ha limiti.

Essendosi ormai intestardito nel suo progetto, il protagonista non vede nulla di male persino nel rapire Babbo Natale – anzi, pensa di stargli regalando finalmente una vacanza – e così niente di pericoloso nell’affidarsi ai maligni aiutanti di Bau Bau,

Ma, nonostante i suoi tentativi di spiegare il Natale – che, ricordiamolo, neanche lui capisce – ai suoi concittadini, i regali sono terribili, incapaci – per ovvi motivi – di portare gioia ai bambini, ma più che altro utili a regalare un profondo senso di orrore ed inquietudine.

Ma neanche questo basta a fermarlo.

In questo senso, la caduta del protagonista è fondamentale.

Nonostante lo scioglimento della vicenda sia a mio parere un po’ troppo sbrigativo, è necessario che Jack riceva un forte schiaffo che gli faccia comprendere finalmente che non può diventare il protagonista di un’altra festività.

Una realizzazione abbastanza angosciante, che però è sanata da un senso di rivalsa del protagonista, che è comunque felice di averci provato, sentendosi rinvigorito e pronto a riprendere le sue vesti di Re delle Zucche.

Sconfitta

Bau Bau in Nightmare Before Christmas (1993) di Henry Selick

Bau Bau è un villain necessario.

Trovandoci in un mondo dominato dall’orrore, con un protagonista non propriamente positivo, ma anzi a tratti profondamente negativo, il ritorno alla ribalta di Jack necessita della sconfitta di un antagonista ancora più pauroso e indiscutibilmente cattivo.

Infatti, Bau Bau rappresenta la paura massima per un bambino – l’incomprensibile e mutaforma Uomo nero – ed è infatti immerso in un ambiente piuttosto ostile, soprattutto per lo sguardo infantile: una sorta di sala giochi delle torture.

 Nightmare Before Christmas finale (1993) di Henry Selick

In questo modo, Jack ha una doppia rivalsa.

Il protagonista riesce a sconfiggere un villain per cui fin dall’inizio dimostrava una malcelata antipatia, considerandolo probabilmente una sorta di minaccia che poteva mettere in discussione la sua autorità.

E, ovviamente fondamentale nel finale riprendere e riscrivere la malinconica canzone di Sally, ma in positivo, con un finale estremamente felice, in cui Jack riesce finalmente ad aprire gli occhi e a capire cosa si stesse perdendo.

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Samurai Champloo – Fra due realtà

Samurai Champloo (2004) è un anime giapponese di Shinichirō Watanabe – lo stesso che ha curato la regia Cowboy Bebop (1998 – 1999), per intenderci.

La serie è stata importata in Italia solo nel 2008 con Panini Video.

Se non sapete niente di Samurai Champloo, continuate a leggere. Se invece siete i massimi esperti della serie, cliccate qui.

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2023 Animazione Avventura Commedia Disney Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantastico Film Nuove Uscite Film Oscar 2024 Pixar

Elemental – L’insostenibile leggerezza dell’inesperienza

Elemental (2023) di Peter Sohn è uno dei film Pixar più sfortunati degli ultimi anni, che ha avuto una sorte particolarissima al box office.

Partendo da un budget piuttosto elevato – ma medio per un prodotto Pixar – di 200 milioni di dollari, per via di un marketing scandalosamente superficiale è stato il peggior esordio per la casa di produzione, ma ha recuperato grazie al passaparola, arrivando ad incassare 484 milioni in tutto il mondo.

Comunque un flop, ma un flop molto meno grave di quanto si prospettava.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Elemental (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film d’animazione

Di cosa parla Elemental?

Bernie e Cinder Lumen sono una coppia di immigrati ad Element City, una città poco accogliente per la loro razza, ma in cui riescono a ricreare la loro comunità, sicuri di poter lasciare la loro eredità alla figlia, Ember…

Vi lascio il trailer, ma vi sconsiglio di guardarlo in quanto davvero poco rappresentativo del film:

Vale la pena di vedere Elemental?

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

In generale, sì.

Per quanto non sia uno dei migliori prodotti della Pixar – anche per la poca esperienza da sceneggiatore e regista di Peter Sohn – è un film piacevole, e che anzi si impegna a raccontare in maniera piuttosto interessante il tema dell’immigrazione e dell’integrazione sociale.

Purtroppo, il film soffre di una debolezza complessiva della scrittura, che sembra voler raccontare solo pochi concetti fondamentali, ma incapace di portarli in scena con una storia davvero convincente e ben strutturata.

Comunque, vale una visione.

La barriera all’ingresso

Ember e i genitori in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

L’inizio del film è anche la parte più interessante e incisiva.

I genitori di Ember arrivano in una città in cui vivono tutti i problemi che gravano sulle spalle degli stranieri che cercano di integrarsi in una nuova realtà sociale: la barriera linguistica – i loro nomi vengono adattati – le porte sbattute in faccia, una città non adatta alla loro sopravvivenza.

In particolare quest’ultimo aspetto è affrontato sotto diversi punti di vista: sia la ghettizzazione delle comunità immigrate, che la comunità è incapace di integrare, sia per il conseguente odio indiscriminato dei reietti verso l’ostica Elemental City.

Ember e il padre in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Così i due sono riusciti a costruire un punto di riferimento per il resto degli immigrati del fuoco che non trovano un posto altrove, ma che anzi costruiscono la loro città – o ghetto, più giustamente – intorno proprio al Focolare.

Al contempo il padre è costantemente inacidito contro il popolo dell’acqua, che considera nemico a prescindere, nonostante i diversi tentativi della figlia di fargli comprendere che una persona non rappresenta tutta la sua comunità.

E questo è proprio il cuore della sua evoluzione.

Creazione e distruzione

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Ember, proprio per via dell’educazione del padre, è un personaggio incredibilmente chiuso in sé stesso, che ha un solo obiettivo nella vita – prendere possesso del negozio e così far felice il genitore – e per questo rifugge ogni contatto con l’esterno della sua comunità, non uscendo mai da Fire City.

Ma al contempo la protagonista è evidentemente molto fuori luogo nella stessa, incarnando l’aspetto più distruttivo del fuoco, e non riuscendo a vedere oltre lo stesso.

In realtà Ember ha molto più da offrire

Durante la pellicola riscopre il lato positivo del suo elemento, ovvero quello creativo: se fino a quel momento aveva usato il suo potere solamente per rimediare agli errori – le tubature, la diga rotta – con la cena con la famiglia di Wade si affaccia finalmente agli orizzonti di possibilità che le sue capacità le offrono.

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Lo stesso incontro le permette di comprendere la limitatezza del suo pensiero fino a quel momento, aprendosi finalmente all’idea che due comunità diverse possono riuscire a convivere, pur con i giusti compromessi.

Persino con un elemento così opposto come l’acqua.

Persino l’incontro apparentemente disastroso fra Wade e Barnie, si rivela invece una possibilità di unione: un piatto così tanto caldo – con un gioco di parole sul doppio significato di hot, che significa anche piccante – può essere addolcito con un po’ d’acqua, rendendolo più digeribile anche al di fuori del popolo del fuoco.

Favola e realtà

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Ma se le tematiche e la simbologia di Elemental sono complessivamente riuscite, al contrario la resa narrativa non è particolarmente vincente.

Elemental vuole sostanzialmente raccontare il comporsi e ricomporsi di due rapporti: quello di Ember con il padre e con il nuovo interesse amoroso, Wade. Il primo è quello che ho trovato complessivamente più azzeccato, soprattutto godendo di un minutaggio piuttosto importante.

Non a caso, è anche il rapporto più importante della pellicola, che viene suggellato nel finale, il momento di vero confronto, quando Ember richiede quell’approvazione paterna per lei fondamentale, che il padre non aveva trovato al tempo nella sua famiglia.

Un momento toccante e centrale nella narrazione, a fronte di un primo ricongiungimento fra i due personaggi non adeguatamente incisivo.

Wade e Ember Elemental

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Al contrario, il rapporto con Wade non mi ha convinto fino in fondo.

Il film si propone di seguire strade piuttosto consolidate, con una sorta di enemy to lovers molto simile al ben più efficace Rapunzel (2010), che però sembra reggersi unicamente sui momenti fondamentali del loro rapporto, che mancano però di una costruzione sufficientemente robusta.

Sarebbe stato molto più interessante instaurare anche un piccolo mistero sulla diga – alla Zootropolis (2016), per intenderci – la cui risoluzione portava anche allo sbocciare dell’amore fra i protagonisti.

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Al contrario, la questione della diga è un elemento molto più debole di quanto mi aspettassi, quasi un meccanismo della trama, e allo stesso modo il regalo di Wade ad Ember – la visita del Garden Central Station – non ha abbastanza mordente.

Ancora meno mi è piaciuto il taglio favolistico, quasi tragico, che è stato affibbiato al loro rapporto: al di là della costruzione non del tutto convincente, l’ho trovata una scelta narrativa che risulta piuttosto stridente e fuori luogo in un film che si propone di essere per molti tratti estremamente verosimile.

Ma non è tutto da buttare.

Elemental animazione

L’animazione di Elemental è impeccabile.

Non è un caso che Peter Sohn – qui regista e co-sceneggiatore – lavori da più di vent’anni come animatore per innumerevoli prodotti Pixar (e non) e che sia riuscito ancora una volta a portare una tecnica e un character design davvero ineccepibili.

Era così semplice scadere nel banale per dei personaggi rappresentativi degli elementi naturali, e invece il film riesce a portare in scena delle figure infuocate e acquatiche vive e credibili.

Non a caso le fiamme del corpo di Ember e degli altri del Popolo del Fuoco continuano a muoversi e definiscono altri tratti del loro viso, in particolare il naso, così la rappresentazione dell’Acqua è molto variegata, giocando su diversi elementi, fra cui le onde del mare.

Ma il fiore all’occhiello è indubbiamente l’incontro fra fuoco e acqua, che porta Wade inizialmente a bollire e Ember a spegnersi, ma che poi cambia proprio la chimica dei due elementi, rendendoli compatibili.

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Rango – Storia di un eroe a caso

Rango (2011) di Gore Verbinski è un lungometraggio animato che rappresenta un incontro fra il western classico e thriller politico, con un pizzico di surrealismo e un buon impianto metanarrativo.

Anche se sulla carta fu un flop – appena 245 milioni di incasso contro 135 milioni di budget – la Paramount lo considerò un ottimo punto di partenza per fondare il proprio reparto di animazione.

Di cosa parla Rango?

Rango è un camaleonte pieno di sogni, che vive nella ristrettezza del suo terrario, ma che verrà catapultato in una fantastica avventura…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Rango?

Rango in Rango (2011) di Gore Verbinski

Assolutamente sì.

È veramente difficile spiegare Rango a chi non l’ha mai visto: ad una visione più superficiale, potrebbe apparire come una semplicissima avventura per ragazzi dal sapore western, ma ci sono diversi aspetti della pellicola che portano in un’altra direzione…

Senza andare troppo nello specifico, se vorrete intraprendere questa visione, vi consiglio di fare attenzione agli elementi visivi che vengono ripetuti in più momenti durante la pelliclla, specificatamente all’inizio e alla fine.

Potreste rimanere sorpresi…

Senza nome

Rango in Rango (2011) di Gore Verbinski

Rango è un eroe senza nome.

Un camaleonte che non sa di esserlo – e infatti nessuno degli altri personaggi lo definirà mai tale – incapace di integrarsi, incapace di utilizzare i suoi poteri naturali per cambiare aspetto, ma comunque deciso a vivere l’avventura che lo definisca come eroe.

Gli elementi del suo terrario sono dei placeholder piuttosto deboli, che rappresentano gli elementi fondamentali dell’avventura, particolarmente dell’avventura western: la bella da salvare, il nemico da sconfiggere, il personaggio maschile impossibilitato a proteggere la comunità.

E poi lui, l’eroe della storia.

Disillusione

Rango in Rango (2011) di Gore Verbinski

Per la maggior parte del film, Rango combatte contro sé stesso.

Per quanto agli inizi si senta totalmente coinvolto dalla storia che lui stesso ha creato, allo stesso modo è completamente consapevole, anzi esplicitamente disilluso dalla totale artificiosità della situazione, definita da pochi, fragilissimi simboli.

Ma è sempre Rango che, appena è gettato nella feroce realtà del deserto, sulle prime sembra totalmente incapace ad integrarsi e a sopravvivere, ma riesce infine, con qualche piccola arguzia, a salvarsi dal falco, e così ad arrivare a Polvere.

Rango in Rango (2011) di Gore Verbinski

In questa aspra cittadina di frontiera, Rango si rende conto di poter essere chi vuole, e prende il suo nome da eroe totalmente per caso, da una scritta su un bottiglia. Ed è la sua capacità di interpretare un personaggio profondamente teatrale che convince tutti gli altri della sua sceneggiata.

Ma nel momento in cui è messo alla prova, in cui deve dimostrare effettivamente di essere un eroe, perde in realtà tutto il suo coraggio e riesce assai debolmente a nascondersi dietro alla facciata che lui stesso si è creato.

Ma è la storia stessa che sembra venirgli incontro, regalandogli una serie di colpi di fortuna che riescono effettivamente a rendere credibile la sua maschera.

Un’arida realtà

Rango in Rango (2011) di Gore Verbinski

La vicenda politica è la parte più adulta della pellicola.

Piuttosto indovinata l’idea di legare l’elemento di forza del potere politico a qualcosa di così fondamentale per la sopravvivenza – anche se, in realtà, basterebbe sostituire l’acqua con i soldi o il petrolio per dare alla vicenda tutto un altro sapore.

Di fatto il vero nemico della storia non è Jake Sonagli, ma il sindaco, che all’esterno appare come un benefattore della comunità – offrendo ad ogni cittadino un obolo di acqua – ma che nell’ombra agisce con una vera e propria speculazione edilizia.

Rango in Rango (2011) di Gore Verbinski

Come il più feroce degli imprenditori e strozzini moderni, prende il controllo dell’economia della città e la prosciuga del suo valore, così da poterne prendere possesso e usare quegli spazi per costruire una realtà edilizia ben più vantaggiosa.

Questo elemento è in aperto contrasto con le atmosfere western, ma, storicamente parlando, Rango si pone nel momento che segnò la fine del sogno del Far West, delle città di frontiera e dei cowboy, per lasciare spazio alla più avanguardistica realtà urbana.

Ma il western ha ancora qualcosa da dire.

Una pesante eredità

Jake Sonagli in Rango (2011) di Gore Verbinski

Nella parte centrale e, soprattutto, nel finale, l’avventura western cerca di farsi disperatamente largo in una situazione dove sembra ormai fuori posto.

In primo luogo, tramite la tumultuosa cavalcata per acciuffare i ladri della banca e ritornare come eroi, una lunga sequenza che è forse la parte più specificatamente western della pellicola, e anche la più digeribile per un pubblico infantile.

Ma la stessa si conclude con un brusco ritorno alla realtà, quando si scopre che l’acqua in realtà non era stata veramente rubata: il deposito era già stato prosciugato dal sindaco.

Per quanto Rango cerchi di fare luce su una storia ben più complessa e meno facilmente riconducibile alla classica avventura western che tanto sognava, quest’ultima lo respinge e cerca di buttarlo fuori di scena.

Ed il motore dell’azione è proprio Jake Sonagli.

Questo nemico monumentale, oltre ad essere uno dei villain più terrificanti dell’animazione dello scorso decennio, rappresenta sia il nemico ultimo da combattere per l’eroe, sia la monumentalità del sogno del Far West, che il sindaco vorrebbe spazzare via.

E proprio Jake Sonagli che spoglia Rango della sua neonata identità, gli impedisce di essere l’eroe che aveva sempre sognato – e a cui tutti avevano creduto.

Il meta-sogno

Clint Eastwood in Rango (2011) di Gore Verbinski

L’incontro con Lo spirito del West è la sequenza rivelatoria.

Rango, dopo essere finalmente riuscito a superare la prova finale dell’eroe, quella che aveva sempre temuto, incontra finalmente l’entità che rappresenta il West, nello specifico il genere western.

Ma è molto diversa da quella che si sarebbe aspettato.

Lo spirito del West è di fatto l’altra faccia di Jake Sonagli, un simbolo spogliato del suo sogno: non troviamo infatti un Clint Eastwood nei panni del suo iconico Uomo senza nome, ma piuttosto l’autore che indossa le vesti del suo personaggio, ma che è diventato qualcos’altro.

Lo Spirito del West è infatti l’Eastwood uomo, il regista e l’autore che ha collezionato diversi premi e che può godersi la ricchezza conquistata a bordo di un moderno golf card, ma che comunque non ha mai abbandonato il sogno del Far West.

No man can walk out of his own story.

Nessuno può tirarsi fuori dalla propria storia.

Questa frase emblematica insegna a Rango come possa vivere anche come eroe dei due mondi: il mondo del sogno, del Far West ormai morente, e l’eroe invece più urbano, contemporaneo, che svela le macchinazioni politiche del sindaco e che, infine, salva la comunità.

E al contempo racconta come il protagonista non debba inseguire l’icona di un eroe di parole e simboli, ma piuttosto dimostrare il suo valore tramite azioni veramente risolutive, che lo definiranno effettivamente come il salvatore della città.

Riprendersi il finale

Il finale di Rango è prevedibile quanto inaspettato.

L’elemento inaspettato è rappresentato dall’improbabile alleanza fra Rango e Jake Sonagli, da cui infine il protagonista riceve l’approvazione – e quindi la validazione – come eroe, e che porta il bandito a rivoltarsi verso il vero nemico, il personaggio che vuole distruggere il sogno: il sindaco.

La conclusione prevedibile è il salvataggio della città, in maniera piuttosto rocambolesca, quasi eccessiva, che porta sostanzialmente ad un cambio del paesaggio: il deserto diventa una piacevole spiaggia.

E così, con un discorso esplicitamente metanarrativo, Rango si congeda dalla scena come eroe che deve lasciarsi alle spalle la comunità che ha salvato per cavalcare verso l’orizzonte, verso nuove avventure che consolidino la sua posizione.

Anche se…

Rango finale significato

Il finale di Rango si presta ad una lettura molto più onirica.

Ma non solo il finale: una primissima definizione del personaggio si vede quando, fra i vari salti fra le macchine, il protagonista finisce sul parabrezza di un personaggio molto peculiare, che non è altro che Johnny Depp in Paura e delirio a Las Vegas (1998)

E, proprio a livello metanarrativo, Rango nelle sue prime vesti indossa una camicia molto simile a quella del protagonista della suddetta pellicola, oltre ad essere doppiato proprio da Johnny Depp.

Questo confronto così diretto apre la possibilità ad una ulteriore lettura: e se tutta la storia di Rango non fosse altro che un sogno dello stesso protagonista?

Johnny Depp in Rango (2011) di Gore Verbinski

Secondo questa idea, la trama politica potrebbe derivare da una visione più semplicistica dei discorsi sentiti da Rango dalla bocca dei suoi padroni, la cavalcata sarebbe nient’altro che la messinscena delle visioni dal finestrino mentre in macchina si dirigono verso Las Vegas, che è fra l’altro il luogo rivelatorio dell’intrigo del sindaco.

Una visione confermata dal finale, dove i personaggi si muovono in ambiente che è evidentemente il terrario, sia per lo sfondo con le nuvolette, sia per la presenza degli elementi che definivano lo spazio all’inizio del film.

La palma di plastica, il manichino, il pesce…

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Shrek – Lo schiaffo dovuto

Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson è uno dei titoli più cult dell’animazione del nuovo millennio, una delle prime prove di animazione 3D della Dreamworks.

Non a caso, fu un successo incredibile: a fronte di 60 milioni di budget, incassò ben 484 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Shrek?

Shrek è un orco che vive in una serena solitudine in un mondo favolistico. Ma un nuovo decreto di Lord Farquaad metterà a rischio la sua isola felice…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Shrek?

Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

C’è da chiederlo?

Shrek è un cult non per caso, anche solo per l’importanza storica che ebbe per l’animazione: un approccio davvero rivoluzionario, con un protagonista totalmente fuori dagli schemi che il pubblico aveva visto fino a quel momento.

Fra l’altro, una pellicola dalla durata veramente limitata, ma che riesce perfettamente a bilanciare i tempi e raccontare tematiche di inedita profondità pur con un minutaggio ridotto.

Insomma, cosa state aspettando?

Meglio vedere Shrek in originale o in italiano

Meglio vedere Shrek doppiato o in originale?

Secondo me, entrambi.

Il doppiaggio italiano di Shrek è uno dei migliori di quegli anni, in particolare nel suo riuscire a rigirare frasi o termini fondamentalmente intraducibili con trovate assolutamente geniali e iconiche.

Fra queste, le più celebri sono sicuramente le scapolottine e l’uomo focaccina.

Tuttavia, se l’avete sempre visto in italiano, magari perché ci siete cresciuti, vi consiglio di provare a guardarlo in originale: il doppiaggio anche in quel caso è davvero ottimo, forte di un voice cast veramente pazzesco.

Lo schiaffo (dovuto)

Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

L’incipit di Shrek ha fatto la storia dell’animazione.

Sostanzialmente è la Dreamworks che prende sessanta e più anni di storia Disney e la distrugge, la deride, la usa come carta igienica – per non dire altro…

Così vediamo per la prima volta un protagonista animato che non è immediatamente positivo, anzi è a tratti veramente disgustoso per tutta la sequenza iniziale, con la sua iconica quanto sconvolgente routine mattutina.

Per non parlare di come vengano messi al bando i personaggi più iconici della concorrenza: da Geppetto che vende Pinocchio per due soldi a Peter con Trilli chiusa in gabbia, è tutto un programma…

Fra tradizione e modernità

Farquaad in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

L’altro elemento di grande novità lo vediamo chiaramente nella scena di introduzione di Farquaad.

L’interrogatorio, la tortura fisica che in altri contesti sarebbe disturbante, diventa una gustosissima miscela fra favola e modernità, con anche Farquaad che cestina Zenzy in un cestino di metallo che sembra veramente preso da uno scaffale dell’IKEA.

Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

Ancora più geniale l’iconica scena delle scapolottine con lo Specchio: la scelta della moglie diventa un programma televisivo con il voto da casa, a raccontare anche tutta la misoginia e pochezza del villain.

Ma probabilmente il picco è Duloc, che di fatto non è altro che un’evidentissima presa in giro di Disneyland: dalla fila con il tempo di attesa, ai tornelli all’ingresso, alla mascotte con la faccia di Farquaad…

Tutto così fuori luogo e improbabile, ma in realtà semplicemente geniale.

La metafora della cipolla

Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

La metafora della cipolla ci racconta già tutto su Shrek.

La cipolla puzza, fa piangere, ma è anche un alimento essenziale e composto da diversi strati, che nascondono altro rispetto a quanto appaia all’esterno.

E non si può addolcire la cipolla

Infatti, nonostante Ciuchino cerchi di mutare la metafora di Shrek, provando a paragonare gli orchi prima ad una torta, poi alle lasagne, ovvero cibi che piacciono a tutti, Shrek non ci sta.

Infatti, il protagonista non vuole assolutamente illudersi: proprio per la sua natura, è consapevole di non poter essere una persona che piace a tutti, quindi preferisce essere apprezzato per altro, ovvero quello che è meno evidente all’esterno.

E, per motivi diversi, trova due compagni che lo apprezzano proprio per questo: Ciuchino e, soprattutto, Fiona.

Il dramma di Fiona

Fiona in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

Fiona è uno dei più interessanti personaggi femminili portati in un prodotto di animazione.

Il suo dramma si scopre a poco a poco, ed è molto meno superficiale della semplice maledizione, ma piuttosto derivante dalle pressioni sociali per un certo tipo di comportamento che gli altri si aspettano da lei.

Fiona è una principessa, quindi deve comportarsi come tale, lasciandosi ubriacare ed illudere dalle promesse del vero amore che l’avrebbe portato ad un fantastico lieto fine – una ricompensa davanti ad una vita di reclusione sia fisica che mentale…

Fiona in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

In realtà, Fiona è aguzzina di sé stessa.

Come scopriamo durante la visione, Fiona non è per nulla la classica principessa illibata e ingenua, ma è anzi abile, piuttosto furba, e piena di risorse e capacità – fra cui il sapersi proteggere da sola.

Per cui appare evidente che la ragazza avrebbe potuto senza troppi problemi scappare dalla torre in cui era stata rinchiusa, ma ha costretto sé stessa a restarci proprio per seguire il preciso percorso da principessa da salvare a cui è stata indottrinata.

Quindi la maledizione è solo la punta dell’iceberg, una rappresentazione materiale di quello che Fiona realmente è – e non solamente perché è un’orchessa, ma perché non corrisponde allo stereotipo della donna in pericolo fino a quel momento proposto nella maggior parte dell’animazione.

L’amore con poco

Fiona e Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

Shrek è proprio la rappresentazione di come dei buoni sceneggiatori siano capaci di raccontare un rapporto efficace anche con poco tempo a disposizione.

Nonostante il minutaggio limitato, la costruzione dell’innamoramento funziona perfettamente.

Tanto più che di fatto Shrek e Fiona si salvano a vicenda: Fiona capisce che può essere sé stessa e trova qualcuno che la ama per questo – e non solo in quanto orchessa, perché Shrek si innamora di lei vedendola umana.

Al contempo, Shrek grazie a Fiona capisce che, per la cattiveria subita per tutta la sua vita, si è troppo chiuso in sé stesso, con la conseguenza di giudicare gli altri con la stessa superficialità a cui si sente condannato…

Un vero amico

Ciuchino e Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

Ma l’effettiva consapevolezza viene da Ciuchino.

L’asino parlante è un personaggio incredibilmente positivo e funzionale, perché riesce veramente a far aprire Shrek alla possibilità di essere qualcos’altro rispetto all’orco odiato da tutti, al reietto sociale – in una auto reclusione non dissimile da quella di Fiona.

In primo luogo, dimostrando di essere qualcuno che non si lascia frenare dalla prima impressione, non scappando a gambe levate appena vede un orco, anzi seguendolo e cercando di diventare suo amico.

E così, pur con tutti i muri che Shrek mette fra di loro, Ciuchino riesce a scuotere il protagonista e portarlo al suo lieto fine, diventando di fatto l’imprescindibile motore dell’azione sul finale.

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Shrek 2 – Ti presento i miei

Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon è il sequel di uno dei titoli animati più di cult dell’inizio Anni Duemila.

Un successo commerciale veramente grandioso, che confermò il culto che si era già al tempo formato intorno al brand: con un budget di circa 150 milioni, incassò quasi un miliardo.

Di cosa parla Shrek 2?

Poco dopo il matrimonio, Shrek e Fiona tornano alla palude, ma una sorpresa è lì ad aspettarli…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Shrek 2?

Shrek in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

Ovviamente sì.

Shrek 2 è la conferma del successo del brand, e anche la sua maturazione, dove il misto fra fiaba e modernità è definitivamente scatenato, con delle trovate veramente incredibili e geniali.

Inoltre, racconta un’ulteriore, quanto essenziale, maturazione di Shrek e del suo rapporto con Fiona, forte di un primo capitolo che ha posto delle basi molto solide per la relazione fra i due protagonisti, così da poter esplorare nuove strade nel suo seguito.

Insomma, non potete perdervelo.

Innamorarsi ancora

Shrek e Fiona in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

La sequenza del viaggio di nozze di Fiona e Shrek riesce al contempo a rinsaldare il rapporto fra i due – che sarà al centro della vicenda – sia ad essere meravigliosamente ironico.

In questo caso, con delle sequenze di pura cattiveria – in particolare quella con la Sirenetta – ma anche davvero esilaranti, come il quadretto idilliaco dei due sposini che corrono nel campo inseguiti dalle folle inferocite.

E funziona proprio grazie al primo film.

Infatti, dal momento che avevo trovato così convincente la costruzione del rapporto fra i protagonisti nella pellicola precedente, sono riuscita davvero ad innamorarmi di nuovo della loro relazione – ed era essenziale che fosse così.

Di nuovo Disneyland?

Una delle parti per me più convincenti in Shrek (2001) era Duloc.

E per questo Molto molto lontano è ancora più geniale.

Una rappresentazione che riesce a riscrivere nuovamente la fiaba e incasellarla in un preciso contesto moderno e commerciale come quello di Hollywood, grazie anche ad un’introduzione veramente perfetta nella sequenza di arrivo.

Così le principesse delle fiabe diventano le star del cinema – pur essendo introdotte effettivamente solo nel prossimo film – le taverne diventano fast-food e i balli reali sono niente di meno dei red carpet.

E il tutto senza alcuna sbavatura.

Ti presento i miei

Harold in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

Tutta la sequenza di incontro con i genitori è indubbiamente ispirata a quel piccolo – quanto recente al tempo – cult di Ti presento i miei (2000).

E funziona ottimamente.

I veri protagonisti della storia, di fatto, sono Shrek e Harold: entrambi compiono un percorso con motivazioni simili – riuscire a rimettersi in discussione – e di fatto il padre di Fiona rivede sé stesso nell’odiato marito della figlia.

Non a caso Harold si è piegato veramente a fare qualunque cosa pur di superare quell’aspetto che, ne era certo, l’avrebbe reso un emarginato sociale, senza poter mai raggiungere lo status – e la relazione – tanto agognato.

Da parte sua Shrek è nuovamente messo davanti alle sue paure, dopo averle temporaneamente superate grazie al rapporto con Fiona: di nuovo i forconi, di nuovo il disprezzo, di nuovo il sentirsi fuori posto.

Il femminile secondario

Fiona in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

Rivedendo Shrek 2 mi sono resa conto di quanto i personaggi femminili positivi siano di fatto secondari.

Eppure, sono assolutamente essenziali.

Il ruolo più appartato, almeno sulle prime, è quello di Lillian: per tutto il tempo cerca di riportare alla ragione il marito, tentando di assumere immediatamente un ruolo conciliante fra le parti.

Al contempo Fiona, nonostante sia poco presente in scena, rappresenta, come la madre, il punto di arrivo dell’eroe maschile, riuscendo di fatto a portare ad una interessante chiusura della storia proprio grazie alla maturazione che ha vissuto nel primo film.

Infatti, la Fiona che troviamo in questo secondo capitolo non è più la principessa che viveva nel sogno del Principe Azzurro, ma è una donna che è finalmente maturata e che ha compreso quanto la bellezza sia di fatto secondaria rispetto all’interno di un rapporto duraturo.

Distruggere la fiaba

Fiona e la Fata Madrina in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

La distruzione dei topoi della fiaba in Shrek 2 è definitiva.

Di fatto si rompe quella sorta di patto narrativo per cui dovremmo credere all’amore a prima vista, all’amore predestinato, riducendo il tutto ad una transazione commerciale.

E così il salvataggio di Fiona non era altro che un matrimonio combinato.

Per questo il personaggio della Fata Madrina è così tanto interessante: va a colpire la Disney ancora sul vivo, distruggendo un caposaldo della fiaba, da sempre rappresentante della maternità e della cura.

In questo caso invece il suo personaggio è di fatto il motore dell’azione, l’abile villain che tira i fili nell’ombra, grazie al potere di poter dettare le regole e sconvolgere a suo piacimento le sorti dei personaggi.

Il principe nell’ombra

Azzurro in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

La rappresentazione del Principe Azzurro è sottilmente geniale.

Shrek 2 gioca abilmente sul fatto che questo principe non sia un eroe qualunque che si identifica sotto questo topos narrativo, ma proprio un uomo che si chiama Azzurro.

Di conseguenza, il destino di Fiona era già scritto senza che se ne rendesse conto, proprio giocando su questa ambiguità del nome. E, per l’appunto, nessuno tranne Harold e la Fata Madrina conosce effettivamente il personaggio.

Azzurro in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

E, incredibilmente, Shrek 2 è riuscito a dare tridimensionalità ad un personaggio spesso totalmente vuoto.

Infatti, soprattutto se si guarda alla Disney dei primi tempi, l’eroe maschile era anche più insipido della protagonista femminile. In questo senso, Azzurro mi ha ricordato una sorta di Flynn di Rapunzel (2010) – in senso negativo, ovviamente.

Così, proprio per la sua posizione e bellezza, Azzurro è incredibilmente vanesio e pieno di sé stesso, anche opportunamente viziato dalla madre, raggiungendo una maturazione da villain solo nel film successivo.

Shrek, tocca a te!

Shrek e Fiona in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

Il motore dell’azione per il viaggio di Shrek è di fatto la sua consapevolezza del debito nei confronti di Fiona.

Infatti, come lei stessa gli ricorda, la moglie ha fatto diversi e importanti sacrifici – la sua posizione sociale, il suo aspetto – per amore di Shrek. E invece il marito si è mostrato del tutto egoista nel fare un passo avanti nei suoi confronti.

Al punto che Shrek arriva a rinunciare alla sua stessa identità – o così sembra – pur di poter garantire a Fiona una vita effettivamente felice – o almeno quella che potrebbe sembrare apparentemente tale.

Tuttavia, proprio per questo il punto di arrivo di Shrek e Harold è il medesimo: entrambi si rendono conto che gli sforzi che hanno fatto verso le loro compagne non era tanto importanti di per sé, ma per quello che hanno in questo modo dimostrato.

Doris Shrek 2

Non voglio arrivare a giudicare con i parametri odierni un film del 2004, ma la presenza del personaggio di Doris mi offre inevitabilmente uno spunto di riflessione.

La sorellastra è una rappresentazione poco chiara, ma sicuramente molto stereotipata, di una drag queen, ma più che altro una donna transgender – non a caso è doppiata da un uomo.

Doris in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

Molte delle battute girano intorno al suo essere poco attraente, quasi repellente – anche dovuta dalla sua natura – in maniera abbastanza sciocca, ma sicuramente molto coerente con lo spirito del periodo.

E mi stupisce vedere una rappresentazione di questo tipo all’interno di un film che promuove così evidentemente la diversità, la bellezza interiore e lo sradicare i ruoli sociali.

Ma era il 2004, appunto.

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Shrek Terzo – La grande debolezza

Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller è il terzo capitolo della saga cult di Shrek, nonché il film considerato più debole fra quelli prodotti finora per questo personaggio…

Con un budget leggermente superiore al precedente – 160 milioni – fu sempre un grande successo, ma non riuscì ad avvicinarsi alla soglia del miliardo come Shrek 2, con appena 813 milioni di incasso.

Di cosa parla Shrek Terzo?

Dopo essere riuscito a tornare in buoni rapporti con i genitori di Fiona, Shrek cerca una via d’uscita dalla soffocante vita di corte…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Shrek Terzo?

Ciuchino e Shrek in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

In generale, sì.

Per quanto Shrek Terzo manchi assolutamente della brillantezza dei precedenti, è complessivamente un capitolo piacevole, che riesce, pur con molta difficoltà, a rimanere sui binari della saga, cercando di introdurre qualche novità…

È anche il capitolo in cui si punta di più sull’ironia, con però, ancora una volta, un umorismo molto meno interessante e originale rispetto a quello a cui ci aveva abituato fino a questo momento…

Insomma, se siete innamorati di Shrek, potreste amarlo quanto odiarlo…

Un nuovo ostacolo

Ciuchino, Shrek, Fiona e Il gatto con gli stivali in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Come ogni film di Shrek, anche in questo caso il protagonista si deve trovare davanti ad un ulteriore ostacolo che metta in discussione il suo status quo.

E, a fronte di tutte le possibili strade che si sarebbero potute intraprendere, si è preferito portare Shrek sui binari dell’uomo medio, ovvero alle medesime problematiche che affliggono i protagonisti della maggior parte delle sitcom e delle commedie romantiche.

Shrek in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Prima il matrimonio, poi i figli.

E purtroppo non si sono resi conto di quando questa scelta non faccia altro che allontanare il personaggio da sé stesso, mentre aveva potenzialmente la strada spianata per mettersi veramente alla prova, non tanto come padre, ma piuttosto come regnante.

Invece questa possibilità viene subito tolta dal tavolo.

La banalità

Per due film Shrek ci aveva stupito con delle location profondamente originali, incontri vincenti fra il vecchio e il nuovo.

Purtroppo, non si può dire lo stesso di Worcestershire.

La high school in stile medievale di per sé non è malvagia, ma personalmente ho visto video fanmade su Facebook più riusciti. Fra l’altro, un’idea veramente vista e rivista, poco originale, e che è stata replicata in tutte le salse anche troppe volte.

Shrek in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Al contempo portare Shrek in questo contesto così da teen movie l’ho trovato abbastanza fuori luogo per il personaggio, unicamente finalizzato all’inserimento di momenti di comicità spicciola e slapstick – alcuni anche vagamente indovinati, altri veramente poco interessanti…

E parlando di Artie…

La strada obbligata

Artie in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Come per Shrek, anche Artie imbocca una strada obbligata dalla sceneggiatura.

Uno dei punti di forza di Shrek è sempre stato di riuscire a costruire i rapporti fra i personaggi e i loro archi evolutivi in breve tempo. In Shrek Terzo, anche per una narrazione estremamente spezzettata, l’evoluzione di Artie funziona fino ad un certo punto.

Infatti, se tutto sommato il personaggio riesce a compiere la sua maturazione e diventare più sicuro di sé, appare molto più forzato invece il fatto che riesca così facilmente a prendersi sulle spalle una responsabilità come quella di essere un re per un paese sconosciuto…

L’esasperante girl power

In Shrek Terzo sembrano improvvisamente essersi resi conto che Fiona era un personaggio più secondario del dovuto.

Indubbiamente la scena della rivolta delle principesse è la parte più iconica del film e di per sé non è neanche un’idea scadente, ma ho anche sempre avuto la sensazione che fosse qualcosa di molto raffazzonato, e che andasse persino a banalizzare il senso dell’evoluzione di Fiona.

Fiona e Mildred in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Infatti il significato della sua emancipazione non era tanto quello di potersi salvare da sola – cosa di cui, come abbiamo detto, era capacissima di fare – ma più che altro di liberarsi da quella prigione mentale autoimposta dell’essere la principessa perfetta.

Al contrario qui le principesse sembrano rendersi conto di quanto sia stupido essere del tutto dipendenti dalla figura del principe, mostrando scene veramente interessanti come quella di Biancaneve, ma complessivamente un ragionamento molto più superficiale rispetto a quanto visto nel primo capitolo.

Il tema di fondo

Artie e Merlino in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Il tema di fondo di Shrek Terzo è fondamentalmente l’idea di emanciparsi dalla posizione sociale (auto)imposta.

Quindi si distribuisce la tematica comune di tutti e tre i film su più personaggi, idea che potrebbe essere anche complessivamente interessante, ma che in realtà ho trovato una scelta, arrivati a questo punto, francamente ridondante.

Nonostante questo, Azzurro non mi dispiace come villain.

Azzurro in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Per quanto preferisca i precedenti antagonisti, recuperare un personaggio negativo ma non troppo esplorato del secondo film e renderlo un villain in tutto e per tutto è stata secondo me la scelta migliore di tutta la pellicola.

Tanto più che Azzurro si autoproclama il paladino della diversità, ma in realtà agisce per motivi puramente egoistici, ovvero riuscire a recuperare lo status sociale che gli è stato tolto, facendo leva sull’insoddisfazione di personaggi che avrebbe disprezzato fino al giorno prima…

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Spider-Man: Into the Spider-Verse – Un inizio inaspettato

Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman è un lungometraggio animato di produzione Sony, con protagonista l’Uomo Ragno in una veste inedita.

Un prodotto che ebbe maggior successo nel suo rilascio in streaming, a fronte di un riscontro economico non eccellente: con un budget di 90 milioni, incassò appena 375 milioni – meno del prodotto più debole della Marvel lo stesso anno, Antman and the Wasp.

Di cosa parla Spider-Man: into the Spider-Verse?

Miles Morales è un ragazzino di quattordici anni, che vive stressato dalle aspettative del padre poliziotto e nell’ammirazione dello zio, non sapendo quali strade prendere nella sua vita. Un incidente gli cambierà per sempre la vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Spider-Man: into the Spider-Verse?

Miles Morales in una scena di Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman

Assolutamente sì.

Spider-Man: into the Spider-Verse è stata una grande sorpresa per molti, soprattutto dopo il recente successo dello Spiderman di Tom Holland, e quando il multiverso al cinema era ancora solo timidamente esplorato.

Io non lo vidi in sala – per colpa anche di una distribuzione piuttosto anomala in Italia – ma lo riscoprì grazie all’ottimo passaparola un paio di anni dopo.

E ne rimasi estremamente soddisfatta: un film veramente ben scritto, con una tecnica d’animazione pazzesca ed originale, che gioca fra l’altro in maniera perfetta con l’elemento metanarrativo.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Un inizio (non) ridondante

Raccontare le origini di Spiderman non è affare da nulla.

La sua origin story è nota tanto quanto quella di Batman, e raccontarla identica per l’ennesima volta poteva apparire incredibilmente ridondante e – di fatto – noioso. Per questo Spider-Man: into the Spider-Verse ha scelto la via più intelligente.

L’autoironia.

Collegandosi direttamente – ma non troppo – a Spiderman (2002) di Raimi, riassume in prima battuta la storia dello Spiderman più canonico, per poi passare a raccontare Miles prima di tutto come personaggio e, solo dopo, come l’Uomo Ragno.

Ma c’è di più.

Non il solito Spiderman

Peter B Parker e Miles Morales in una scena di Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman

L’altro elemento di grande novità di Spider-Man: into the Spider-Verse è che Miles non è Peter Parker.

Anche se le origini sono simili, il fatto che non si tratti del medesimo personaggio permette di spaziare nella scoperta di poteri altri oltre a quelli canonici dell’Uomo Ragno, e, soprattutto, di giocare in maniera davvero interessante con la figura di Peter Parker stesso.

Se infatti Miles si aspettava di avere come mentore il suo eroe del cuore, in realtà si trova in mezzo allo psicodramma di un Peter Parker nella sua versione più fallimentare, che ha preso tutte le scelte sbagliate nella vita.

Sapore di verità

Miles Morales in una scena di Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman

L’altro elemento che ho particolarmente apprezzato è quanto Miles sia un eroe molto quotidiano.

Un aspetto che avevo già adorato in Spiderman: Homecoming (2017), prodotto però mancante – per ovvi motivi – di tutta la parte del primo approccio ai poteri del protagonista.

Una sezione invece presente sia in Spiderman (2002), sia in The Amazing Spider-Man (2012), ma che non mi aveva mai veramente soddisfatto.

In questo caso la scoperta delle nuove abilità non solo ha un taglio molto realistico e piacevole, ma è riuscita anche ad avvicinarmi emotivamente al protagonista, nella sua confusione per questa inedita situazione…

Scoprire sé stessi

Miles Morales in una scena di Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman

A primo impatto il modo in cui Miles accetta i suoi poteri potrebbe apparire forzato.

In realtà, è perfettamente coerente col personaggio.

La figura di Spiderman è legata all’istinto e ai sensi ragneschi. Per questo è del tutto comprensibile che, per riuscire a diventare effettivamente l’Uomo Ragno, il protagonista debba riuscire a fare questo salto di fede e accettare istintivamente questi poteri come propri.

E, sempre per i motivi di cui sopra, ho amato il fatto che l’estetica del suo costume è perfettamente coerente con il suo personaggio e, soprattutto, che Miles non debba crearsi – come in The Amazing Spiderman – il costume da solo, ma solo renderlo suo.

Fantastici secondari

Peni Parker, Gwen Stacy, Peter B Parker, Spiderman Noir e Piggy Parker Miles Morales in una scena di Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman

Uno dei punti di forza di Spider-Man: into the Spider-Verse sono le versioni alternative dell’Uomo Ragno.

Elemento che probabilmente – e felicemente – si confermerà anche in Spider-Man: across the Spider-Verse (2023).

Particolarmente vincente l’idea di portare in scena personaggi così tanto diversi da loro, ma pur sempre legati al canone. E un grande successo è stato anche scrivere così bene Spider-Woman, quando c’erano tutti i presupposti per renderla una Mary Sue

Ma il mio preferito è sicuramente Spiderman Noir, la versione alternativa più iconica e rimasta nel cuore degli spettatori.

Parlando invece di Peni Parker…

Peni Parker Spider-Man: Into the Spider-Verse

Capisco tutto di Peni Parker.

Capisco la necessità di inserire un ulteriore personaggio femminile in un team principalmente maschile, di fare ancora una volta un passo verso il pubblico orientale…

Ma il suo personaggio è veramente l’unica cosa che non mi è piaciuta del film.

Oltre ad essere una versione troppo diversa dal personaggio di partenza, l’ho trovata davvero di troppo, non riuscendo a comunicarmi granché, se non un sincero fastidio…

Spider-Man: into the Spider-Verse animazione

Spider-Man: into the Spider-Verse è ricordato anche per la tecnica veramente rivoluzionaria.

Un incredibile incontro fra animazione 3D e 2D, in questo caso particolarmente azzeccata per rendere – anche metanarrativamente – la dimensione fumettistica.

Una boccata d’aria fresca all’interno di produzioni animate ormai abbastanza standardizzate, che ha aperto la porta anche ad altre interessanti sperimentazioni in questo senso.

Fra le più interessanti, la serie Arcane (2021 – …) e Il gatto con gli stivali 2 – L’ultimo desiderio (2022).

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Animazione Animazione Animazione giapponese Anime Avventura Azione Comico Drammatico Fantascienza Le mie riscoperte Neon Genesis Evangelion Serie tv

Neon Genesis Evangelion – Uno, nessuno, l’umanità tutta

Neon Genesis Evangelion (1995 – 1996) di Hideaki Anno è una delle serie tv anime più di culto della storia della serialità giapponese (e non solo). Un prodotto con una gestazione molto complessa, con diversi prodotti successivi e derivativi.

In Italia ebbe diverse versioni di doppiaggio, la prima nel 1997.

Articolo scritto con il prezioso contributo – diretto e indiretto – di Carmelo.

Di cosa parla Neon Genesis Evangelion?

2015, Giappone. Il quattordicenne Shinji Ikari, dopo aver perso i contatti col padre per anni, viene scelto come pilota dell’EVA-01, uno dei mecha dall’origine misteriosa, col solo obbiettivo di combattere gli Angeli…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Neon Genesis Evangelion?

EVA-01 in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Assolutamente sì.

Ma arrivateci preparati.

Non è un caso che Evangelion sia diventata una serie così tanto di culto: rappresenta un incontro veramente peculiare fra una trama fantascientifica e con diversi momenti d’azione, con una riflessione profonda sulla natura umana.

Infatti, si alternano momenti intensamente riflessivi, non poche volte assai sibillini, a sequenze puramente comiche e di passaggio, che riescono però a rendere la narrazione meno pesante e complessivamente molto godibile.

Cos’è per me Evangelion

A cura di Carmelo

È un esperimento televisivo, una lezione di filosofia e psicologia fatta ad animazione, che a detta del suo creatore tende a trasformare lo spettatore medio passivo, che guarda un determinato programma accettando quello che vede e sente passivamente seguendo l’arco narrativo fatto di causa ed effetto, azione e reazione.

In Evangelion lo spettatore diventa attivo cerca delle sue spiegazioni ed interpretazioni a quello che vede, creando un proprio mondo all’interno dell’anime stesso, oltre a riflettere sulle tematiche profonde che vengono proposte.

Evangelion è una sorta di puzzle.

Qualsiasi persona può vederlo e darne una propria interpretazione. In altre parole, stiamo offrendo agli spettatori [la possibilità] di pensare da soli, in modo che ogni persona possa immaginare il proprio mondo.

Hideaki Anno

Se avrete – come prevedibile – dubbi alla fine della visione, potrete tornare qui.

Troverete tutte le risposte.

Ma ce ne sono un paio a cui posso già rispondere…

Come guardare Evangelion

La visione di Neon Genesis Evangelion non può che – ovviamente – partire dalla serie tv originale, che trovate completa su Netflix (se avete dubbi sul doppiaggio, da qui potete passare alla parte dedicata).

Si compone di 26 episodi della durata di circa 20 minuti, i cui due finali sono stati riscritti in parte dal primo dei film successivi, The End of Evangelion (1997).

The End of Evangelion (1997)

EVA-01 in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Dal momento che gli ultimi due episodi della serie tv originale vennero prodotti a seguito di un importante taglio di budget, si nota subito l’evidente differenza rispetto al resto della serie.

Si tratta infatti di una coppia di episodi più che altro verbale, con una struttura narrativa per così dire nulla, che racconta principalmente a parole il concetto conclusivo che Anno, il creatore, voleva comunicare.

Quindi è meglio vedere The End of Evangelion?

Una scena di The End of Evangelion di Hideaki Anno

In generale, sì.

Ma solamente perché è interessante vedere la conclusione vera – o, almeno, come era stata concepita originariamente dal suo creatore. Tuttavia, io personalmente preferisco la chiusura della serie: più immediata e francamente anche più chiara.

Al contrario, questo film (che in realtà sono due episodi più lunghi e uniti in un lungometraggio) è quasi saturo di elementi, volendo mostrare con immagini quello che di fatto il finale di serie racconta a parole, ma con anche diverse aggiunte.

E gli altri film successivi?

A dieci anni di distanza (2007-2021), uscì un quartetto di film chiamato Rebuild of Evangelion.

Gli stessi propongono una narrazione alternativa della storia (per i primi tre) e una conclusione diversa sia dalla serie che da End of Evangelion. Non avendoli visti non so cosa consigliarvi, anche perché le opinioni in merito sono molto miste.

Tuttavia, se questo tipo di progetto vi ispira e volete ancora altro di Evangelion, provate a dargli una chance.

Il doppiaggio di Evangelion

La questione del doppiaggio di Evangelion è tutt’oggi un tema molto caldo.

Quindi cerchiamo di fare il punto.

Il primo doppiaggio (1997)

EVA-01 in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Il primo doppiaggio italiano di Evangelion venne fatto sotto la doppia direzione di Fabrizio Mazzotta e Paolo Cortese nel 1997, con anche il coinvolgimento di Cannarsi.

Un doppiaggio molto fedele all’originale, che non manca di qualche linea di dialogo che appare un po’ arcaica e forzata, ma nel complesso è molto godibile e rende bene tutti i concetti della serie.

Il caso Cannarsi (2018)

Misato in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Nel 2018 Netflix acquisì i diritti di tutti i prodotti del brand, e per questo portò un doppiaggio nuovo di zecca, sotto ancora la direzione di Fabrizio Mazzotta e, soprattutto, di Gualtiero Cannarsi.

Ed è qui che il Cannarsiometro impazzisce.

Con questa nuova edizione infatti scoppiò Il caso Cannarsi, per cui fu spernacchiato a destra e a manca da tutti, persino da chi non sapeva neanche cosa fosse Evangelion – in quanto, oltretutto il problema era presente da anni.

E Netflix corse ai ripari.

Il nuovissimo doppiaggio (2020)

Shinji, Misato e  in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Proprio per via di queste polemiche, Netflix lo stesso anno dello scandalo annunciò un nuovo doppiaggio, che venne pubblicato due anni dopo.

Personalmente considero questo doppiaggio per certi versi più godibile, perché evidentemente più semplice rispetto ad entrambe le precedenti edizioni, ma che rischia anche di andare troppo a semplificare l’opera stessa…

Quale doppiaggio scegliere?

Ikari in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Dopo aver visto la serie sia col doppiaggio originale, sia con il doppiaggio del 1997, per un primo impatto all’opera io vi consiglio il primo doppiaggio – se riuscite a recuperarlo, per esempio un’edizione home video.

Tuttavia, anche il doppiaggio che trovate su Netflix è accettabile.

Ecco un video per avere un colpo d’occhio sulla situazione:

La depressione

Shinji in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Shinji è un protagonista imperfetto.

Viene improvvisamente trascinato in una vita nuova, una missione per cui non si sente pronto, ma che accetta per pena verso Rei, che nel loro primo incontro è ancora in un evidente recupero fisico dopo l’incidente che ha dovuto affrontare.

E infatti il primo contatto è già un trauma.

Ma la bellezza di Shinji sta proprio nel suo essere tremendamente fallibile: è un eroe incredibilmente quotidiano, realistico, in cui Anno è riuscito a raccontare la profonda depressione che aveva vissuto.

Ed infatti il suo percorso racconta l’uscita da questo stato di angoscia.

Shinji in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Lo stato mentale di Shinji può essere meglio spiegato considerando le tesi de La malattia mortale, opera fondamentale della filosofia di Kierkegaard.

Non a caso l’Episodio 16 porta il titolo della suddetta opera -「死に至る病、そして」, ovvero la malattia mortale, e…

In questo caso l’Angelo da sconfiggere è Leliel, la cui realtà fisica è la sua ombra, identificata come Mare di Dirac, che si rifà ad una teoria effettivamente esistente del fisico omonimo: il vuoto fisico è un mare infinito di particelle di energia negativa.

E proprio al suo interno Shinji viene assorbito.

Shinji Evangelion

Shinji in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Le persone che odiano sé stesse non sono in grado di amare né di credere nel loro prossimo.

All’interno di questa realtà parallela, che rappresenta fondamentalmente il Nulla, il protagonista viene costretto a rivivere una serie di eventi che lo porteranno alla disperazione, la malattia mortale, che uccide lo spirito.

E questa disperazione nel suo caso si articola nella sua seconda declinazione secondo Kierkegaard: il disperatamente non voler essere sé stessi.

E infatti Shinji racconta in più momenti nel corso della serie il suo odiare sé stesso, arrivando al punto – soprattutto in The End of Evangelion – di voler fuggire da tutto quello che gli sta attorno – e facendolo effettivamente per ben due volte.

Il suo sopravvivere alla malattia mortale avviene in due momenti: la prima volta appunto nell’Episodio 16, quando viene salvato dalla madre stessa – che poi corrisponde all’EVA-01. La seconda, nel finale – sia della serie, sia del film.

Infatti, in conclusione l’unico modo in cui Shinji può salvarsi è non solo accettare il suo essere, ma anche l’idea che lo stesso è definito dal suo rapporto con gli altri. Un relazionarsi che può avere effetti sia negativi che positivi, entrambi essenziali per la definizione del suo Io.

E infine il nostro eroe grida felice:

Per me è possibile esistere!

Il complesso del riccio Evangelion

Il complesso del riccio è esplicato all’interno della serie stessa nell’Episodio 4, ed è il collegamento fondamentale fra Shinji e il concetto generale della serie.

Secondo questa teoria, formulata dal filosofo Schopenhauer, che due esseri umani si avvicinano tra loro, molto più probabilmente si feriranno l’uno con l’altro. Proprio all’interno dell’episodio, Shinji scappa perché, avendo ferito la sorella di Suzuhara, e si sente ferito a sua volta.

E infatti Misato dice:

 Lo stesso capita ad alcune persone: Shinji in fondo al suo cuore è spaventato dal dolore che potrebbe provare e questo lo rende freddo e riservato.

Misato in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Per questo vaga per la città, e riesce solo parzialmente a ritornare in sé stesso grazie all’incontro con Kensuke, che gli permette di ritrovare il calore umano che gli mancava.

Ma, nonostante tutto, decide comunque di abbandonare la Nerv.

Solo alla fine dell’episodio ci ripensa, facendo un piccolo passo avanti nella sua maturazione, ovvero quello che aveva predetto Ritsuko:

Presto si renderà conto anche lui che crescere in fondo è un continuo provare ad avvicinarsi e allontanarsi l’un l’altro, finché non si trova la distanza giusta per non ferirsi a vicenda. 

Schopenhauer Evangelion

Shinji in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Infatti, la risoluzione di questo dilemma in Evangelion è diversa da quella proposta da Schopenhauer: il filosofo tedesco conclude che l’unica salvezza da questa solitudine è ricercare quel calore umano tanto desiderato dentro sé stessi.

Quindi non l’Uomo non bisogno niente di più che di sé stesso.

Invece, secondo la risoluzione di Evangelion, il progetto del Perfezionamento dell’uomo prevede la distruzione dell’individualità e l’unione di tutte le anime per riuscire a colmare quei vuoti causati da questo senso di solitudine insolvibile che condanna l’umanità al dolore.

Shinji e Asuka in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Ma in entrambi i finali Shinji – e quindi Anno – si oppone a questa visione.

La scelta finale è quella di accettare il dolore che la propria individualità provoca, soprattutto nello scontrarsi con altre individualità diverse: un incontro che può provocare sia gioia che dolore, ma che anche definisce l’Uomo stesso.

E lo spiega bene lo stesso creatore:

È la storia della risoluzione, della volontà di stare insieme agli altri anche se si è bloccati dalla paura di toccare il prossimo, al costo di sopportare una vaga solitudine.

Hideaki Anno

La vendetta?

Misato in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Come ogni personaggio di Evangelion, anche Misato ha un trauma importante alle spalle.

Sulle prime viene presentato come una donna allegra, quasi comica – e infatti su di lei grava molta parte dell’elemento umoristico dell’intera serie. Tuttavia, i suoi comportamenti così rozzi e disordinati vengono meglio spiegati quando scopriamo il suo passato.

La giovane Misato è infatti l’unica sopravvissuta al Second Impact, salvata proprio dal padre che aveva odiato per gran parte della sua vita. A questo trauma era seguito un periodo di stallo di ben due anni, di totale mutismo.

Ma anche di rinascita.

Infatti, come racconta la stessa Ritsuko:

Pare che per qualche tempo abbia sofferto di afasia, e adesso non fa che chiacchierare, come a voler colmare il vuoto di parole nel suo passato.

Misato e Ryoji in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Ma, per come Misato si impegna a lasciarsi alle palle il passato, lo stesso è sempre in agguato.

Anzitutto, con il suo rapporto con Ryōji.

La donna intraprende una relazione importante con quest’uomo piuttosto affascinante e carismatico, arrivando quasi ad annullare la sua stessa vita – mancando per un’intera settimana da scuola per stare insieme a lui.

Tuttavia, sceglie di troncare la relazione, perché si rende conto di essersi intrappolata nel complesso di Elettra. Infatti, Misato sente di star ricercando il suo stesso padre perduto in Ryōji, sentendosi anche in colpa per essersi approfittata di lui – sempre seguendo il medesimo complesso, che porta anche alla volontà di distruzione del genitore.

Misato Neon Genesis Evangelion

Misato in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

La Misato sul lavoro è un personaggio totalmente diverso.

Forte, autoritaria, in continuo conflitto con Ritsuko, determinata a portare a termine la sua missione: ottenere la sua vendetta contro gli Angeli che gli hanno portato via quel padre tanto amato ed odiato.

Ma riesce anche ad essere la madre di Shinji, una guida ma anche – sempre secondo lo stesso complesso di Edipo – un oggetto del desiderio sessuale del ragazzo.

Il dramma personale

Asuka in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Asuka presenta una caratterizzazione non tanto diversa da quella di Misato.

Anche il Second Children mostra all’esterno una facciata che serve a nascondere ciò che si cela nel suo animo. E, di nuovo, un trauma ha definito la sua personalità: la madre, ormai impazzita, che non la riconosceva, che non la guardava più…

Da cui l’ossessione di Asuka non solo di crescere in fretta, senza mostrare alcuna fragilità, ma di voler continuamente essere vista, riconosciuta come la migliore.

E da questo si sviluppa il conflitto con Shinji.

Asuka e Shinji in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

È solo da me stessa che voglio essere apprezzata.

Per molti versi Shinji neanche capisce il motivo dell’odio di Asuka nei suoi confronti, ma i suoi rimproveri gli rimbombano continuamente nelle orecchie…

Asuka è banalmente gelosa di Shinji, gelosa del suo riuscire così facilmente ad avere tutte le attenzioni, senza di fatto impegnarsi allo stesso modo in cui fa lei – perché gli viene tutto troppo naturale, dal momento che l’EVA è stato costruito su misura per lui.

Infatti, la ragazza rappresenta la terza declinazione della malattia mortale secondo Kierkegaard: la volontà di voler essere sé stessi, ma senza riuscirci. E la sua disperazione aumenta con il diminuire del tasso di sincronizzazione con l’Eva, e, di conseguenza, della sua importanza per la missione della NERV.

Una seconda vita

Rei in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Rei è il personaggio più enigmatico della serie.

Solo sul finale scopriamo che sostanzialmente si tratta di un essere creato artificialmente, con misto fra la coscienza di Yui e Lilith – con cui alla fine si ricongiunge, andando a creare una versione della madre di Shinji potenziata, che lo accompagna nel suo ripensamento fondamentale.

Ma il dramma di Rei è un altro.

Il First Children vive la prima declinazione della malattia mortale di Kierkegaard: il non essere disperatamente consapevoli di avere un Io. E infatti la ragazza è costantemente alla ricerca di un’identità, che trova continuamente frammentata in più personalità diverse – che in effetti la compongono.

Il mio visibile, che però non percepisco come il mio io.

Rei in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Voglio tornare al nulla.

Infatti, Rei è fondamentalmente un mezzo per portare a termine la missione della NERV, un contenitore, un oggetto prodotto in serie, senza una propria identità. E anche per questo desidera la morte, davanti alla prospettiva dell’inevitabile abbandono, una volta che il progetto sarà concluso.

Anche per questo sceglie di legarsi così profondamente ad Ikari: non solo il suo creatore, ma anche l’unico che gli ha dimostrato veramente affetto – come gli occhiali le dimostrano. E, per soddisfarlo, si sottopone del tutto ai suoi ordini, anche deumanizzandosi.

Ma non fino alla fine.

Rei Evangelion

Rei in una scena di The End of Evangelion (1997)

Io sono me stessa.

Per questo Shinji e Rei si riescono a salvare vicendevolmente.

Tramite Shinji, il First Children riesce a capire il valore di un legame diverso da quello che lo lega artificiosamente all’EVA, e proprio secondo ancora il paradosso del riccio e la morale complessiva dell’opera: definire il proprio Io tramite il contatto con gli altri.

E infatti nel finale di The End of Evangelion si rifiuta di essere per l’ennesima volta il mezzo di Ikari per ritrovare la moglie perduta, ma sceglie invece di legarsi a Lilith – e quindi e liberare una parte del suo essere originario – per salvare Shinji.

Asuka e Shinji Evangelion

Asuka è il personaggio che più respinge Shinji, ma quello anche da cui il protagonista è più attratto.

Da questo punto di vista, a parte alcuni scivoloni soprattutto in The End of Evangelion, sono rimasta piuttosto soddisfatta dalla rappresentazione di questo lato della personalità del protagonista – quasi inevitabile trattandosi di un adolescente.

Come testimoniato da inquadrature dal sapore fortemente voyeuristico, Shinji scopre la sua sessualità proprio tramite Asuka, in particolare quando vorrebbe baciarla mentre è addormentata.

Ma Asuka è anche il personaggio da cui non riesce bene a prendere le distanze, ferendosi continuamente…

Rei in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Al contrario il rapporto con Rei non ha alcuna componente sessuale, ma rappresenta invece il desiderio di riavvicinarsi ai genitori.

Prima Ikari – per via dell’importante rapporto che la ragazza sembra avere con l’uomo – e poi alla madre stessa, che ritrova inconsapevolmente proprio nel First Children. Ma alla fine con Rei si crea un rapporto importante, che va oltre a tutto questo.

Anche solo per il gesto di umanità – uno dei pochi – che Shinji riesce a strappare alla ragazza: il sorriso alla fine del sesto episodio.

Il percorso tracciato

Ritsuko in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Ritsuko è un altro personaggio di difficile lettura.

Apparentemente una donna fredda e distaccata, concentrata unicamente sul suo lavoro, in realtà si rivela a poco a poco come un personaggio che vive nell’ombra dell’eredità materna.

Ritsuko infatti ha un rapporto molto conflittuale con la madre: se da una parte l’ammira come scienziata per le sue incredibili scoperte, dall’altra la biasima come madre e donna.

Ma, altrettanto inevitabilmente, segue il suo stesso percorso, ricalca i suoi stessi errori.

Ritsuko in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Infatti, diventa lei stessa quella donna distaccata e dedita solamente al lavoro, e allo stesso modo si lascia totalmente rapire dalle ambizioni di Ikari, divenendone il principale agente.

Allo stesso modo vive dell’invidia della posizione di Rei: come la madre aveva strangolato la bambina, così Ritsuko distrugge tutte le copie del First Children.

Ma le due si differenziano sul finale.

Se infatti Naoko sceglie di arrendersi davanti all’abbandono di Ikari, togliendosi la vita, al contrario Ritsuko sceglie di andarsene col botto, portando con sé tutto quello che ha creato.

Ma alla fine della sua vita deve anche accettare il tradimento della madre: il Magi Casper si rifiuta di seguire i suoi ordini, e dà ancora la vittoria a Ikari.

Mamma, hai scelto il tuo uomo invece che tua figlia?

Il volto rivelatorio

Ikari in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Ikari è un personaggio pieno di contraddizioni.

Inizialmente appare come il totale antagonista, in particolare del figlio, che ha allontanato per anni, e che per la maggior parte del tempo tratta sgarbatamente e con grande freddezza.

Durante la serie viene dipinto sempre di più come il cospiratore nell’ombra, un serpente che ha sempre agito unicamente per il proprio profitto.

Ma la sua umanità sta proprio in Shinji e Yui.

Ikari in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Ikari evidentemente aveva avvicinato la futura moglie per approfittarsi della sua posizione, ma col tempo, inevitabilmente, si era legato indissolubilmente a lei.

Al punto di fare qualsiasi cosa per riaverla al suo fianco.

Il trauma della perdita del suo unico amore è infatti stato rivelatore del significato e del peso che hanno le relazioni con gli altri, soprattutto quelle importanti.

E per questo ha allontanato Shinji: è consapevole che la sua vicinanza col figlio riporta alla luce domande sulla moglie a cui non vuole rispondere, è così del fatto che un rapporto così importante come quello col figlio gli porterebbe gioia, ma anche tanto dolore.

Ikari in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Tale padre, tale figlio insomma.

Da notare anche il suo cambiamento fisico: se nel passato era un uomo che stava sempre a volto scoperto, con dei lineamenti che già di per sé raccontavano la sua natura insidiosa, nel presente è invece una figura nell’ombra i cui occhi, specchio dell’anima, sono spesso celati…

E l’unico affetto che davvero si concede è quello verso Rei, ma solo perché la vede come il mezzo per riuscire, finalmente, a ricongiungersi con Yui.

L’eredità di Evangelion

A cura di Carmelo

Il 4 ottobre 1995 viene trasmesso su Tokyo Channel 12 alle 18:30 il primo episodio di Neon Genesis Evangelion, una serie che si rivelerà rivoluzionaria e innovatrici per il genere.

Fra le innovazioni più importanti, vanno citati i numerosi riferimenti religiosi, filosofici e psicologici, una profonda introspezione psicologica dei personaggi, portata avanti tramite diversi monologhi interiori dei protagonisti e i momenti di calma e silenzio.

Gli stessi sono molto importanti, come ricorda Makoto Shinkai, autore nipponico ancora in rampa di lancio per Your Name (2016):

Gli anime non devono avere per forza un sacco d’azione e di movimento. A volte si può parlare di parole, o, addirittura della mancanza di parole. E di queste cose solitamente non si parla mai.

Ma l’ innovazione più importante di Evangelion è stata di inaugurare un nuovo e duraturo periodo fertile per l’animazione televisiva indicato con il termine di nuova animazione seriale giapponese.

In particolare, ha portato ad una maggiore autorità dei produttori, una concentrazione delle risorse in un minor numero di episodi, un’impostazione registica più vicina alla cinematografia dal vero.

E infine ha portato anche ad un drastico ridimensionamento del rapporto di dipendenza dai soggetti manga e ad una maggior libertà dai vincoli del merchandising (inteso come fonte d’ ispirazione obbligatoria).

Tuttavia, nonostante l’incredibile successo della sua opera – anzi, forse proprio per quello, Anno nel 2006 affermò:

L’opera innanzitutto visiva nota come Evangelion è stata realizzata assecondando desideri diversi. Il desiderio di ricollegare l’animazione giapponese, in rovina, alle sue origini. Il desiderio di abbattere il dilagare della chiusura d’animo.

Ho riflettuto sulla ragione di rivolgersi, oggi, ad un titolo del passato, di oltre 10 anni fa. Sento che Eva ormai è vecchio.

Ma negli ultimi 12 anni non ci sono stati anime più nuovi di Eva.

E con queste parole presento la Rebuild of Evangelion.

In realtà, ad oggi possiamo modestamente affermare quanto si sbagliasse: basta guardarsi indietro per vedere quanti prodotti televisivi anime di altissimo livello siano nati sotto l’influenza di Evangelion, che ha contribuito alla maturazione del genere.

Fra questi, Serial Experiments Lain (1998), Cowboy bebop (1998-1999), Samurai Champloo (2004-2005), Ergo Proxy (2006), Time of Eve (2010), Steins;Gate (2011), Psycho Pass (2012-2013).

Evangelion finale spiegazione

Tutte le risposte alle domande più frequenti sul Neon Genesis Evangelion.

Cos’è successo durante il First Impact?

Il First Impact avvenne in un momento indefinito del passato, quando la Luna Nera si schiantò sulla Terra, precisamente nell’odierno Giappone. La stessa era stata inviata dalla Prima Razza Ancestrale, entità extraterrestri, avanzatissime tecnologicamente, e creatrici di vita.

La Luna Nera conteneva Lilith, uno dei Semi della Vita, entità extraterrestri inviate appunto dalla Prima Razza Ancestrale per portare la vita su diversi pianeti nell’Universo.

Ma l’arrivo di Lilith non è stato altro che un errore, perché sulla Terra era già presente un altro Seme della Vita, Adam.

Quest’ultimo venne neutralizzato tramite la Lancia di Longino, non potendo così procreare una progenie, cosa che fece invece Lilith: la sua progenie sono i Lilin, le creature della Terra, fra cui gli umani.

Chi sono gli angeli?

Generalmente parlando, gli Angeli di Evangelion sono i figli di Adam, che tornano sulla Terra e la attaccano per riottenere il possesso della stessa.

A questo fine vogliono rientrare in contatto con Lilith.

Per questo l’obbiettivo degli Evangelion è quello di distruggere gli Angeli ed impedire loro di compiere la loro missione – ovvero causare il Third Impact.

Cos’è successo durante il Second Impact?

Il Second Impact avvenne il 13 Settembre 2000 in Antartide, e fu il risultato di un esperimento guidato dal Dr. Katsuragi, il padre di Misato, finalizzato al risveglio di Adam – il gigante di luce – e al suo contatto di quest’ultimo con DNA umano.

Di fronte all’imminente catastrofe, gli scienziati riuscirono a neutralizzare nuovamente Adam tramite la Lancia di Longino, riducendolo allo stato embrionale.

Ma era troppo tardi.

Le conseguenze furono terribili: scioglimento della calotta polare, un improvviso spostamento dell’asse terrestre, innalzamento del livello dei mari e conseguente cambiamento delle stagioni – in Giappone, un’estate eterna.

Tutti i partecipanti alla missione morirono, si salvò solo Misato Katsuragi salvata dal padre, mentre Gendō Ikari riuscì a scappare per tempo portando con sé tutti i materiali dell’esperimento.

Cosa sono gli Eva?

Gli EVA sono dei giganteschi automi da combattimento antropomorfi, creati grazie agli studi della Dr.ssa Yui Ikari, sotto la guida della SEELE, al fine di combattere gli Angeli e portare a termine il Progetto di Perfezionamento dell’Uomo.

Con l’eccezione dell’EVA-01, che è creata da Lilith, tutti gli EVA sono creati a partire da Adam. Anche se apparentemente sembrano dei robot giganti senz’anima, nel corso della serie si scopre che in realtà sono delle creature organiche, la cui armatura che li ricopre soffoca la loro volontà.

La stessa si libera quando l’EVA entra nella Modalità Berserk, e prende il sopravvento sul pilota, agendo autonomamente.

Chi è Rei Ayanami?

Rei Ayanami è il First Children e pilota dell’EVA-00.

Anche se viene presentata come la figlia di una conoscente, in realtà si sa poco sul suo passato: è sicuramente un essere artificiale, creato da quello che rimaneva dopo l’assorbimento di Yui Ikari dall’EVA-01 e da Lilith, con cui si ricongiunge in The End of Evangelion.

Il personaggio ha tre incarnazioni: Rei I, la bambina che si vede nel flashback, uccisa da Naoko Akagi nel 2010; Rei II, il personaggio che si vede nella maggior parte della serie; Rei III, dalla seconda parte dell’Episodio 23 fino al finale.

Cos’è la NERV?

La NERV è un’organizzazione creata dopo il Second Impact per combattere gli Angeli, essendo quindi responsabile della creazione degli Evangelion.

Per quanto sia sulla carta sotto il controllo delle Nazioni Unite, in realtà agisce in maniera abbastanza indipendente, in parte controllata dalla SEELE, col fine di portare a termine il Progetto di Perfezionamento dell’Uomo.

La NERV deriva anche da un assorbimento della Gehirn, organizzazione sempre nata dopo il Second Impact e responsabile della creazione dei Magi.

Cos’è la SEELE?

La SEELE è un’organizzazione segreta che lavora alle spalle della NERV, in parte controllandola e finanziandola.

La teoria alla base dell’organizzazione è che l’Umanità la stirpe sbagliata, in quanto nata da Lilith, mentre la vera stirpe che dovrebbe dominare la terra è quella dei figli di Adam, quindi gli Angeli.

Per questo lavorano ad un unico obbiettivo: il Perfezionamento dell’Uomo.

Cos’è il Progetto di Perfezionamento dell’Uomo?

Il Progetto di Perfezionamento dell’Uomo è l’obbiettivo segreto portato avanti dalla SEELE con l’aiuto della NERV.

Il fine ultimo di questo progetto è riuscire ad unire tutti i figli di Lilith, i Lilin – quindi l’umanità – nell’uovo di Lilith come un unico essere, così da portare ad un perfezionamento appunto dell’uomo, per colmare i vuoti del suo animo derivanti dall’individualità.

Cosa succede nel finale?

Esistono due finali di Evangelion: quello della serie e quello di The End of Evangelion – anche se per molti tratti sono simili.

Nel finale della serie tv i due episodi sono un momento di riflessione per tutti i personaggi, in particolare per Shinji: distrutto dopo aver ucciso Kaworu Nagisa, sente di odiarsi e voler scomparire.

Tuttavia, riesce in ultimo ad accettare di vivere in un mondo popolato da altre persone, le cui relazioni potrebbero anche ferirlo, ma che sono essenziali per definire la sua identità.

The End of Evangelion spiegazione

The End of Evangelion è più complesso.

La NERV ha sconfitto tutti gli Angeli, ma la SEELE scopre il tradimento di Ikari – che non vuole portare a termine il Progetto di Perfezionamento dell’Uomo come da loro richiesto – e quindi manda l’esercito per sterminare la base, in particolare i piloti degli EVA, e prenderne possesso.

Asuka combatte i nuovi EVA, riuscendo inizialmente a vincere, ma poi venendo sopraffatta. Shinji, distrutto dalla morte di Kaworu Nagisa, viene trascinato e messo in salvo da Misato – che muore nel tentativo – e sale sull’EVA-01.

Mentre gli EVA riescono a sconfiggere l’EVA-01, Rei si rifiuta di seguire il piano di Ikari – quello di fondersi con lui – e invece si fonde con Lilith, che diventa un essere gigantesco con le sembianze di Rei, che assorbe Shinji al suo interno.

A questo punto, contro i piani della SEELE, Shinji può decidere l’andamento del Piano di Perfezionamento.

Shinji desidera a questo punto che tutti muoiano, compreso sé stesso, ma viene aiutato nel suo processo di consapevolezza dall’anima di Yui contenuta dentro l’EVA-01, mentre le anime di tutta l’umanità si sono fuse in un’unica entità.

Quando Shinji accetta infine di vivere in un mondo popolato da individualità diverse – quindi rifiutando il Perfezionamento – gli EVA diventano di pietra precipitano sulla terra, mentre l’EVA-01 si smembra e si dirige verso lo spazio con l’anima di Yui.

Infine, Shinji si risveglia sulla spiaggia insieme ad Asuka, tenta di strozzarla, ma la mano della ragazza sulla sua guancia – primo gesto di vero affetto – lo fa scoppiare a piangere ed allentare la presa.

Il film si chiude con Asuka che dice Che schifo.