Si alza il vento (2013) rappresenta l’ultimo film di Miyazaki dopo al suo temporaneo ritiro dalle scene, per poi tornare 10 anni dopo con un altro film, Il ragazzo e l’airone (2023).
La seconda avventura italiana dopo Porco Rosso (1992).
A fronte di un budget piuttosto consistente – 30 milioni di dollari – incassò piuttosto bene:136 milioni di dollari. In Italia è stato distribuito nel 2014.
Di cosa parla Si alza il vento?
Giappone, 1918. Il giovane Jiro vorrebbe diventare pilota aeronautico, ma la sua miopia glielo impedisce. Ispirato da un sogno con protagonista il leggendario ingegnere Caproni, capisce che il suo destino sarà invece quello di progettare gli aerei…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Si alza il vento?
Assolutamente sì.
Ma…
Si alza il vento è una pellicola da approcciare con la giusta mentalità: è un film assai atipico per la produzione di Miyazaki, in cui solitamente i personaggi si muovono in ambienti fantastici o immaginari, con storie dal sapore molto avventuroso.
Al contrario l’ultima (?) opera di Miyazaki è un film drammatico con un taglio fortemente realistico, che racconta il Giappone post-bellico con un’inedita lucidità e con un protagonista che vive nei suoi sogni, ma che al contempo vive in un mondo drammaticamente reale…
ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.
Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.
Nel caso di Si alza il vento il pericolo è incredibilmente basso.
Non so cosa sia successo a Cannarsi nel 2013, ma incredibilmente è riuscito a proporre un doppiaggio che, al netto di certi momenti che appaiono forzati, complessivamente è un risultato ascoltabile.
In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:
Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.
Il sogno…
Joro è quel tipo di persona che diremmo che ha sempre la testa fra le nuvole.
Letteralmente.
La concezione onirica degli aerei, come oggetto di libertà e fantasia, gliela offre Caproni proprio all’interno di un sogno. Un luogo dove la mente può viaggiare libera, sfrenata, senza limiti, dove tutto si crea e si distrugge in un attimo…
E sempre lì che Joro concepisce il mezzo perfetto, capace di rivaleggiare con quelli oltreoceano, semplice ma esemplare: l’aereo non come strumento commerciale o di conflitto, ma un sogno che diventa realtà.
…la realtà
Ma la realtà è ben più dura.
Un Giappone distrutto dai disastri naturali, dall’arretratezza e dalla guerra passata e imminente, incapace di stare veramente al passo con il mondo che avanza. Un paese fragile e profondamente impoverito…
…proprio come l’Italia.
E in due realtà storiche non tanto dissimili, né Joro né Caproni si sono lasciati ingabbiare dalla ristrettezza di vedute o dal limite materiale che il mondo che li circondava voleva loro imporre, ma hanno continuato a vivere il loro sogno.
E a realizzarlo.
Infatti, proprio qui sta la morale di Si alza il vento.
Si alza il vento significato
Il verso che appare prima dell’inizio della pellicola – e che dà il titolo al film stesso – è l’ultimo verso di un poemetto di Paul Valéry, Cimitero marino.
Il significato di questo passo è abbastanza evidente, soprattutto pensando alla storia raccontata nel film: la vita è come un vento impetuoso, è travolgente, intrattabile, ma dobbiamo imparare a cavalcarla, a viverla.
E infatti la vita di Jiro è una tempesta devastante, che lo sbatte di qua e di là, in Giappone, in Europa, dove tutto sembra sfuggire di mano, scomparire, niente è stabile e sicuro.
Ma non per questo il protagonista si arrende.
Un amore infelice?
L’elemento più sfuggente della vita di Joro è la relazione con Nahoko.
La donna è un elemento aleatorio della sua vita: conosciuta per caso durante il terremoto, ne perde subito e facilmente le tracce, per poi rincontrarsi tanti anni dopo.
Ma anche quella felicità sembra preclusa.
Infatti, Nahoko è gravemente malata, cerca costantemente di guarire per trovare la sua felicità con il suo amato, ma è tutto inutile. Alla fine, i due decidono di sposarsi, così da stare insieme fino alla fine.
Un amore dolcissimo, che non vuole essere distrutto neanche dal destino infausto di Nahoko, che per questo decide infine di andarsene: non vuole che il sogno si spezzi, non vuole che il suo amato la veda addolorata e infelice.
Ma Joro percepisce comunque la sua morte: mentre si trova alla gara degli aerei, per un momento il tempo per lui si interrompe, sembra distaccato dal clima di festa che lo circonda. E così capisce che Nahoko se n’è andata.
La rincontra nel suo sogno, che è anche un contatto con una sorta di aldilà.
E Nahoko lo incoraggia a tentare ancora di vivere.
Chi è il tedesco Si alza il vento
Il misterioso amico tedesco di Joro sembra una sorta di indovino con una visione lucida ed esatta degli eventi imminenti sia per la Germania che per il Giappone.
Scoprendo il suo nome, tutto diventa più chiaro.
Il personaggio infatti si chiama Castorp, proprio come il protagonista de La montagna incantata (1924) di Thomas Mann, romanzo dal taglio fortemente simbolista, che di fatto racconta lo stato della Germania prima e dopo il primo conflitto mondiale.
Per questo il Castorp di Si alza il vento può essere considerato il personaggio alla fine del suo percorso di maturazione del romanzo, con una particolare consapevolezza dell’evolversi delle vicende mondiali…
Per Si alza il vento Miyazaki non mostra particolari evoluzioni del suo stile, anzi facendo dei – graditi – passi indietro rispetto al precedente Ponyo sulla scogliera (2008).
Anzitutto, ritornano gli sfondi con tecnica di pittura ad olio, che ho sempre adorato delle sue produzioni:
Mentre per i volti protagonisti rimane sui suoi modelli più tipici, non mancando di un tratto preciso e pulito:
Tuttavia, non mancano dei volti inediti, sia con Kurokawa, il capo di Jiro, che con Castorp:
Ma la vera punta di diamante della pellicola sono le splendide transizioni e animazioni che caratterizzano le scene più movimentate:
Interessante anche il fatto che con Jiro molto probabilmente Miyazaki abbia voluto rappresentare sé stesso da giovane:
Ponyo sulla scogliera (2008) è uno dei film forse più particolari della filmografia di Miyazaki, che arrivò dopo un’assenza dagli schermi del maestro nipponico di ben quattro anni.
Ancora una volta si confermò il successo commerciale della sua produzione: a fronte di un budget di 34 milioni di dollari (circa 3,4 miliardi di yen), incassò 200 milioni in tutto il mondo.
In Italia è stato distribuito nel 2009 dalla Lucky Red.
Di cosa parla Ponyo sulla scogliera?
Il mago Fujimoto vive sott’acqua insieme alle figlie e medita di distruggere il mondo umano. Ma la figlia più grande, Brunilde, riesce a scappare al suo controllo…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Ponyo sulla scogliera?
In generale, sì.
Ammetto che questa pellicola è una di quelle che meno apprezzo della produzione di Miyazaki. Tuttavia, a differenza di Kiki – Consegne a domicilio (1989), in questo caso semplicemente non mi sento in target.
Infatti, Ponyo sulla scogliera è il prodotto più infantile di Miyazaki.
Un film che farà la felicità dei più piccoli, che sono gli assoluti protagonisti, anche per il punto di vista: nonostante, a livello più profondo, si possono intravedere delle tematiche ambientaliste per nulla scontate, lo sguardo della storia è proprio quello di un bambino.
Insomma, un modo per fare felici i vostri figli e nipoti.
ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.
Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.
Nel caso di Ponyo sulla scogliera il pericolo è altissimo.
Questo giudizio potrebbe apparire esagerato – e probabilmente lo è – ma per questa pellicola ho un particolare dente avvelenato con Cannarsi. Infatti Ponyo sulla scogliera fu uno dei primi film che guardai per ampliare la mia conoscenza di Miyazaki, al tempo molto limitata.
E fu anche il punto in cui mi sono bloccata per diversi anni.
Infatti, la pellicola si presta proprio ad un doppiaggio incredibilmente pedante e sinceramente insostenibile, che ha sicuramente fatto la felicità di Cannarsi – ma non la mia…
In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:
Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.
Una storia di tutti i giorni
Ponyo sulla scogliera è il primo film di Miyazaki con un taglio così quotidiano.
Nonostante sia presente l’elemento magico, il mondo reale è presente ed integrato in esso senza troppi sconvolgimenti.
Non abbiamo infatti un protagonista che si scontra con un mondo fantastico e segreto come ne La città incantata(2001), ma un taglio più simile a Il mio vicino Totoro(1988).
Tuttavia, in questo caso il mondo reale e quotidiano è molto più presente, al punto che lo scheletro narrativo è una piccola avventura che potenzialmente ogni bambino ha vissuto: trovare un animale in difficoltà, salvarlo e volerlo adottare.
Il film cerca continuamente di dare una maggiore importanza e peso alla storia raccontata – con il piano di Fujimoto e il destino di Ponyo – ma complessivamente è un elemento che rimane costantemente in sottofondo, senza che ci sia mai un conflitto davvero forte in scena.
E, al contempo, il punto di arrivo è sostanzialmente un ripristino della quotidianità, con l’eliminazione dell’elemento magico in Ponyo, senza che in realtà la protagonista abbia avuto un’evoluzione importante o delle prove da affrontare.
La componente educativa
Un elemento che mi ha sempre stranito di Ponyo sulla scogliera è la sua sezione educativa.
Tutta la sequenza in cui Ponyo, ormai umana, viene accolta nella casa di Sōsuke, lo stesso la guida nella scoperta del mondo umano. Ma le loro interazioni sembrano uscite da un libro per bambini in cui si spiega come funziona l’economia domestica…
E diventa ancora più strano nell’incontro con la donna e il bebè, con cui Ponyo riesce a comunicare, andando anche a scontrarsi con la madre, che le spiega sostanzialmente come funziona l’allattamento, proprio come farebbe una madre con sua figlia…
E paradossalmente questi elementi sembrano più importanti del destino di Ponyo stessa…
Il disastro felice
Forse l’elemento più interessante di Ponyo sulla scogliera è il racconto ambientalista.
In questo caso Miyazaki sceglie di rappresentare una natura solo apparentemente minacciosa, facendo riferimento ad un disastro naturale molto presente nella mente del pubblico giapponese: gli tsunami – di cui uno dei più terribili avvenne pochi anni dopo.
L’apparente disastro si trasforma in realtà in un momento di convivenza pacifica con l’elemento naturale, sia in un’occasione per la comunità per rincontrarsi. Infatti, nonostante la città sia letteralmente sommersa, non si parla mai di vittime o di perdite.
Il punto di vista è quello di un bambino, che riesce a divertirsi moltissimo dopo questa apparente catastrofe naturale…
Con Ponyo sulla scogliera Miyazaki sceglie di fare diversi cambiamenti sul lato artistico – e devo dire che non sempre mi convincono…
Il cambiamento più evidente è la rappresentazione degli ambienti esterni: mentre fino a questi sembravano come se fosse dei dipinti ad olio, in questo caso sembrano invece dei disegni fatti a matita:
Nonostante siano sempre sfondi pieni di particolari e cornici perfette per le azioni dei protagonisti, non apprezzo particolarmente questa evoluzione.
Allo stesso modo, anche se ne capisco i motivi, non apprezzo moltissimo la scelta di utilizzare linee molti fluide e morbide, con disegni poco particolareggiati, molto spesso abbozzando i personaggi, soprattutto Ponyo:
Secondo la stessa idea, dopo i fantastici risultati dei film precedenti, non mi ha entusiasmato la rappresentazione delle donne anziane, nonostante siano ben differenziate fra loro.
Ma ci si basa su modelli già esistenti:
Interessante però sia la rappresentazione di Fujimoto, in cui si applica un modello di volto femminile ad un personaggio maschile:
sia il fantastico character design e l’animazione di Granmamare:
Interessante anche la rappresentazione del mondo subacqueo, prima sperimentazione di Miyazaki in questo senso:
Il castello errante di Howl (2004) è uno dei miei prodotti preferiti di Miyazaki, nonché di uno dei progetti più ambiziosi del maestro nipponico.
A fronte di un budget non particolarmente sostanzioso – 2,4 miliardi di yen, circa 24 milioni dollari – fu un incredibile successo commerciale, incassando 236 milioni di dollari. In Italia uscì nel 2005 e in DVD nel 2006, il primo film Ghibli distribuito dalla Lucky Red.
Di cosa parla Il castello errante di Howl?
Sophie è una modesta cappellaia di paese, che sembra non voler abbandonare il negozio di famiglia. Ma la sua vita prenderà una via inaspettata…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Il castello errante di Howl?
Assolutamente sì.
Ammetto che dopo una recente revisione de Il castello errante di Howl l’avevo un po’ rivalutato in negativo, per via di alcuni snodi di trama che mi sembravano poco chiari e comprensibili.
In realtà, rivedendolo, mi sono resa conto che, comprendendo la chiave di lettura, tutto assume un senso.
Oltre a questo è un superbo film di avventura, con un world building paragonabile per bellezza solo a La città incantata(2001), ma che prende strade nuove e anche più importanti, pur con temi comuni.
Insomma, non ve lo potete perdere.
ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.
Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.
Nel caso di Il castello errante di Howl è incredibilmente basso.
Come detto, questo fu il primo film distribuito dalla Lucky Red e anche il primo doppiaggio dello Studio Ghibli curato da Cannarsi. Proprio perché era agli inizi e non aveva neanche tutto questo potere decisionale, fece un lavoro incredibilmente accettabile.
Ovviamente non mancano gli arcaismi, i dialoghi che suonano a tratti artificiosi, ma niente che vi porterà a voler abbandonare la visione.
In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:
Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.
Un’origine modesta
L’incipit racconta anche solo visivamente il carattere della protagonista.
Una ragazza dall’aspetto e dai comportamenti molto riservati e modesti, che si scontra continuamente con il carattere e l’estetica molto più chiassosa delle altre donnedella sua vita, soprattutto la madre e la sorella.
In particolare la sorella, ragazza piacente e corteggiata da molti uomini, si oppone all’idea della sorella maggiore di rimanere per sempre ancorata al suo nido paterno, per condurre una vita riservata esenza grandi sorprese.
Per questo l’incontro con Howl è così sconvolgente.
Il mago è infatti un personaggio emotivo e travolgente, che trascina improvvisamente Sophie nella sua vita. Una vita fatta di fughe e di colpi di scena, in cui la protagonista sembra costantemente di star partecipando ad un gioco di cui tutti conoscono le regole, tranne lei.
Ovviamente Sophie è subito – comprensibilmente – folgorata, ma si lascia anche abbastanza facilmente l’accaduto alle spalle.
Una nuova maschera
Il primo incontro-scontro con la Strega delle Lande è tanto più determinante.
Sophie mostra abbastanza in fretta di non essere così tanto docile come potrebbe apparire, reagendo piuttosto fermamente alla scortesia della donna. Potrebbe sembrare che questo suo comportamento sia il motivo della maledizione…
…ma non è così.
La strega, così come Howl, è un personaggio sfacciato e pieno di se stesso, così altrettanto indifferente delle conseguenze delle proprie azioni. Per questo, avrebbe comunque punito Sophie per aver aiutato il suo nemico.
In realtà, questa maledizione è un’opportunità.
Sia in senso positivo che negativo.
In senso positivo, Sophie può cambiare vita: la protagonista non ci mette molto ad accettare la sua nuova condizione, e si rifugia in realtà abbastanza divertita dietro una serie di luoghi comuni e battute frizzanti che il suo nuovo aspetto le permette.
In senso negativo, Sophie ha una nuova maschera dietro cui nascondersi: anche se riesce comunque a mostrarsi più intraprendente e decisa nel suo agire, in qualche modo finisce per trovare anche un altro rifugio per il suo tanto agognato quieto vivere.
Per questo, Sophie non è tanto diversa da Howl.
Con queste nuove vesti da vecchietta innocua ma decisa, si ritaglia il suo spazio nella vita del mago, senza arrendersi mai neanche davanti alle proteste degli altri personaggi.
Ma è ancora una volta un’apparenza dietro cui nascondersi, per celare tutta la sua insicurezza e paura, che non a caso emerge di tanto in tanto, anzitutto col primo (ri)incontro con Howl, mentre sta cucinando…
Una sfacciata apparenza
Howl è un giovane favoloso.
All’apparenza è un uomo attraente e sicuro di sé, che si muove abilmente in tutte le situazioni della vita con anche una certa giocosità, fin dalla sua primissima apparizione quando si trova tampinato dagli sgherri della Strega delle Lande.
Questo aspetto viene ancora confermato, anche se in senso diverso, dalla sua attività segreta: scegliere di non allearsi per principio con il Re per combattere la guerra, ma boicottarla segretamente, mettendo in pericolo la sua stessa vita.
E proprio qui avviene il punto di svolta.
Da un errore apparentemente innocuo – una tinta per capelli andata male – Howl svela la sua prima insicurezza.
L’ossessione per la bellezza esteriore.
Infatti basta questo piccolo ostacolo per farlo crollare in una profonda depressione, tale da annientarlo completamente e fisicamente, oltre a mettere in pericolo anche chi gli sta intorno. E in questo momento la sfuriata di Sophie è più fondamentale di quanto sembri…
Una svolta inaspettata
Come un bambino imbronciato, Howl si chiude in camera sua.
Un contesto già in apparenza assai infantile– con molti giocattoli che ricordano quelli di Bō, il figlio di Yubaba, ne La città incantata – ancora più sottolineato dal suo non voler parlare e non accettare le cure di Sophie.
Tuttavia, Howl ha già imparato qualcosa.
Ha accettato almeno una parte del suo aspetto, scegliendo di non tingersi più – neanche successivamente – i capelli, ma mantenere il suo aspetto originale. Insomma, la sfuriata di Sophie contro la sua vanità incontrollata ha avuto un inaspettato effetto positivo.
Inoltre, da questo momento Howl comincia a fidarsi di Sophie.
Per quanto sia probabile che Howl abbia riconosciuto subito la ragazza appena se l’è trovata in casa, proprio la notte che torna dal combattimento la vede addormentata col suo vero aspetto, e cosìconferma il suo sospetto.
E per questo, consapevole della determinazione della protagonista, le affida una missione importante per riuscire ad affrontare faccia a faccia Madame Sullivan, non essendo capace lui stesso di fronteggiare le trappole della maga.
E infatti, in un gioco delle parti piuttosto intraprendente, Howl entra nel luogo che aveva da così tanto tempo avuto paura di penetrare.
Sia lui che Sullivan sono fin da subito consapevoli di star giocando – Howl sa che Sullivan l’ha riconosciuto – ma è l’unico modo per cui il mago riesce finalmente a dire alla sua ex-maestra che non vuole prendere parte a questa guerra.
Ovviamente la maga non si arrende così facilmente, e cerca di insidiarlo con diverse e spaventose illusioni, in cui lui rischia inevitabilmente di soccombere, se non fosse ancora una volta per l’intervento di Sophie.
La lenta trasformazione
La prova del palazzo è un punto di svolta anche per Sophie.
È infatti il primo momento in cui la protagonista esprime apertamente i suoi sentimenti felici, che la fanno ritornare improvvisamente al suo vero aspetto. Aspetto che è per tutto il tempo sotto gli occhi di tutti, ma che lei è l’unica a non voler accettare.
Dal rientro al castello, Sophie comincia piano piano ad abbandonare la sua maschera, ringiovanendo lentamente, ma visibilmente:
Da questo momento Howl comincia sempre di più a mostrare il suo amore e la sua riconoscenza verso la ragazza: non solo col trasloco le dà una stanza tutta per sé, ma con lo stesso ricrea la casa natale della protagonista.
Ma il picco è il rifugio nella natura.
Il mago le fa questo meraviglioso regalo, che la fa scoppiare di felicità, facendola ritornare improvvisamente al suo aspetto reale. Nella stessa occasione Sophie prova anche ad esternare le sue paure, e Howl le risponde con forza per rassicurarla, ma riuscendo solo a farla rinchiudere di nuovo in se stessa.
Il momento effettivo è quando Sophie si rende conto delle intenzioni di Howl.
Quando infatti la protagonista accetta finalmente l’amore del mago, accetta di essere amata nonostante non sia bella, e quando altresì la paura la domina definitivamente, si ribella ai suoi stessi timori e prende in mano la situazione.
E ritorna definitivamente al suo aspetto.
Distruzione e costruzione
Pur armata di grande determinazione sulle prime, Sophie è un personaggio umano, che quindi può sbagliare.
Anzitutto la protagonista accetta la sua vera forma, anzi sceglie di prenderne una nuova: regalare la sua treccia a Calcifer, e cambiando del tutto aspetto. Ed è anche il primo momento di distruzione di Howl, tramite il castello stesso, che rappresenta questa apparenza dietro a cui il mago continua a nascondersi.
Ma l’inseguimento non va a buon fine.
Questo momento di apparente sconfitta – Sophie è convinta di aver ucciso Howl gettando l’acqua su Calcifer – in realtà è il momento della rivelazione. Grazie all’anello che l’amato le aveva regalato, la ragazza riesce a trovare Howl, scoprendo il suo segreto.
Sophie capisce così come salvare il mago da se stesso, ridonandogli quella vera natura che ha cercato di fuggire per tutta la vita – ovvero il suo cuore. E Howl è ancora più felice quando vede Sophie nella sua splendida, migliore forma.
La strega delle lande spiegazione
Nel terzo atto, le azioni della Strega delle Lande e Heel, il cane di Madame Sullivan sono apparentemente incomprensibili.
In realtà, sono facilmente spiegabili.
La Strega delle Lande ha vissuto tutta la vita con un solo obbiettivo: possedere Howl – le interpretazioni sul come vuole possederlo le lascio alla vostra immaginazione.
E neanche quando è privata dei suoi poteri, non si arrende.
Cerca infatti giocosamente di boicottare Howl, in modo da indebolirlo e potersene impossessare. Per questo dà in pasto l’insetto spione a Calcifer – che viene annientato e non può più proteggere la casa.
Infatti per questo il castello viene preso di mira, portando Howl a tornare e ad intestardirsi nel difenderlo, ma essendo anche in costante difficoltà.
E infatti alla fine riesce a prendere possesso del cuore.
Strega delle lande il castello errante di Howl
Perché Howl non la caccia?
Ci possono essere varie motivazioni, ma una in particolare è la più comprensibile: come Chihiro in La città incantata, Howl ha la capacità di vedere la vera natura delle persone – e non solo.
Per questo si rende conto che la Strega, ormai senza poteri, non può fargli del male e che non ha neanche effettive cattive intenzioni: è semplicemente ossessionata, ma anche pronta ad arrendersi per il bene di Howl stesso.
Heel il castello errante di Howl
Per lo stesso motivo, Howl non caccia Heel.
Per quanto abbia paura di Sullivan, Howl è anzitutto sicuro di essere protetto dalla sua magia e da Calsifer, quindi accetta quasi giocosamente di avere la maga alle calcagna – avendo fra l’altro la testa su tutt’altro obbiettivo.
Ma, soprattutto, Howl capisce le vere intenzioni del cagnolino, che è naturalmente riconoscente a Sophie, di cui ha visto la natura generosa e temeraria, e che per questo non vuole boicottare – e infatti non lo fa.
Il castello errante di Howl rapa
Una storia molto secondaria è quella di Testa di Rapa.
Un personaggio apparentemente molto di contorno, in realtà fondamentale in molti momenti: dopo che Sophie l’ha salvato, le fornisce un aiuto per camminare, le trova una casa e le recupera anche lo scialle.
E, oltre alla tenerissima scenetta in cui la aiuta col bucato, è il personaggio che di fatto salva la vita a tutti i personaggi quando stanno per cadere in un dirupo, mettendosi lui stesso in pericolo…
E, proprio in quel momento, Sophie gli dimostra finalmente affetto e lui può tornare alla sua vera forma così da fermare la guerra, pur dovendo accettare un amore non ricambiato…
Anche dal punto di vista artistico, Il castello errante di Howl è uno dei prodotti che più apprezzo della filmografia di Miyazaki.
Insieme a Yubaba, Sophie nella sua versione anziana è uno dei migliori visi anziani gestiti nella filmografia del maestro, ricchissimo di particolari e con delle animazioni stupefacenti:
Nonostante per i personaggi di Howl e Sophie – da giovane – Miyazaki utilizza dei modelli piuttosto standardizzati, senza particolari note di merito, non manca una cura particolare nei dettagli e nell’uso delle ombre, oltre che nel loro cambiamento durante il film:
Ma uno dei punti più alti è sicuramente la rappresentazione degli ambienti, sia esterni che interni.
Il castello in particolare è pieno zeppo di particolari, sia nella sua visione esterna che interna, sopratutto nei momenti di distruzione e cambiamento:
Così mi ha sempre fatto sognare la bellezza e la profondità con cui Miyazaki è riuscito a raccontare visivamente gli spazi esterni, in particolare la città reale:
Ma forse quello che mi piace di più di questo film è la rappresentazione del cibo e soprattutto dei personaggi che lo mangiano:
La città incantata (2001) è forse l’opera più famosa di Hayao Miyazaki, parte di quello che io considero il terzetto delle meraviglie – insieme a La principessa Mononoke(1997) e il successivo Il castello errante di Howl(2004).
Fu anche uno dei maggiori successi del maestro nipponico: con un budget di appena 19 milioni di dollari, ne incassò quasi 400 – raddoppiando il successo del film precedente. In Italia venne distribuito prima nel 2003 e poi nuovamente nel 2014, con un nuovo doppiaggio.
Di cosa parla La città incantata?
Chihiro è una bambina di appena 10 anni che sta viaggiando verso la sua nuova casa. Ma nel viaggio il padre sbaglia strada, e la protagonista si trova coinvolta in un’incredibile avventura…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere La città incantata?
Assolutamente sì.
Non vi nascondo che sono personalmente molto legata a questa pellicola – anche solo per il fatto che è il primo prodotto di Miyazaki che ho visto. Ma nondimeno è un film veramente fantastico, uno dei punti più alti di tutta la produzione del regista.
Un’avventura piuttosto articolata, con tanti personaggi, ma che agiscono all’interno di spazi ben precisi, e senza mai far sembrare il film troppo pesante da guardare – come era stato invece per La principessa Mononoke.
Insomma, non ve lo potete perdere.
ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.
Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.
Nel caso di La città incantata dipende.
Sono abbastanza sicura di averlo visto per la prima volta – e negli anni successivi – con il primo doppiaggio del 2003, curato da un’altra casa di produzione e non – vivaddio! – da Cannarsi.
E infatti è un buon doppiaggio.
Il problema è che nel 2014 la palla è passata alla Lucky Red, e quindi a Cannarsi. Ho rivisto la pellicola quando è stata ridistribuita nel 2022 al cinema, con credo il doppiaggio del 2014 – a meno che Cannarsi non ci abbia di nuovo rimesso le mani.
Ed è un doppiaggio da incubo, da cui vi consiglio di stare lontani.
In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:
Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.
La città incantata titolo originale
La traduzione del titolo de La città incantata è piuttosto particolare.
Infatti, se sostanzialmente la totalità dei titoli precedenti di Miyazaki era traducibile alla lettera – e così è stato fatto – in questo caso era un’impresa ben più complessa.
Se ci si pensa un attimo, il titolo italiano non ha molto senso.
Anzitutto, la storia non è ambientata in una città, ma principalmente in una sorta di centro benessere. Inoltre, in italiano incantata ha un’accezione più che altro positiva, favolistica, mentre in questo caso sarebbe meglio usare il termine stregata.
Il titolo originale è 千と千尋の神隠し, letteralmente La sparizione causata dai kami di Sen e Chihiro.
Se è in generale la prima parte è abbastanza comprensibile – effettivamente la protagonista, che avrà i due nomi indicati, è scomparsa – meno chiara è la seconda parte.
I kami sono divinità o spiriti venerati dalla religione shintoista – e alcuni sono presenti effettivamente nella storia. Ma, più in generale, l’espressione kamikakushi contenuta nel titolo indica la sparizione improvvisa di una persona, che si presuppone essere rapita dalle divinità.
Non a caso, in inglese ha il titolo più attinente di Spirited away.
Una protagonista perfettamente umana
Chihiro è forse la protagonista meglio scritta della produzione di Miyazaki.
Inizialmente viene presentata come una ragazzina anche piuttosto timida, insicura e paurosa, ma anche dotata di idee molto forti, che però non riesce a farsi ascoltare. In realtà, le sue proteste iniziali verso i genitori raccontano una delle sue più importanti qualità.
L’abilità di guardare oltre l’apparenza.
Questa capacità si rifletterà nelle diverse prove che dovrà affrontare e che hanno tutte come sottofondo l’idea di capire la vera natura di qualcuno o qualcosa, mentre tutti gli altri si lasciano abbagliare solo dalla pura apparenza.
E l’altra qualità imprescindibile della protagonista è la sua perseveranza.
Nonostante si trovi in una situazione di effettivo pericolo per la propria vita – ed è per questo evidentemente spaventata – Chihiro non si lascia mai abbattere: riesce a seguire le indicazioni di Haku ed arrivare a Kamaji, con cui insiste testardamente per avere un lavoro, tanto da mettersi in gioco in prima persona.
E proprio davanti alla perseveranza e al coraggio della protagonista, l’inquietante e burbero yōkai la aiuta.
Chihiro e Yubaba
E questa sua implacabile tenacia si vede ancora meglio nell’incontro con Yubaba.
Chihiro fino a questo momento è stata maltrattata, e, come se non bastasse, in questa scena le viene cucita la bocca, viene fisicamente aggredita da questa inquietante ed enorme donna, che minaccia – ancora una volta – la sua stessa vita e quella dei suoi genitori.
Ma ancora una volta la protagonista non si arrende, ma continua a inseguire il suo obbiettivo.
E a che prezzo…
La città incantata nome
Il modo in cui Yubaba ruba il nome alla protagonista è incomprensibile se non si conosce il giapponese.
Fondamentalmente il nome Chihiro in giapponese è scritto 千尋, quindi con due kanji – i caratteri della lingua giapponese. Yubaba ruba alla protagonista uno dei due, ovvero 尋, lasciando solo 千, che da solo si legge appunto Sen.
Il significato è piuttosto semplice: la strega sottrae il nome a chi sigla un patto con lei, quindi rubando l’identità del malcapitato, così da renderlo più obbediente – e, soprattutto, incapace di scappare…
Yubaba Kamaji folklore giapponese
Come la maggior parte dei personaggi fantastici presenti nel film, Yubaba e Kamaji sono ispirati al folklore giapponese.
Yubaba prende il nome dalla creatura di riferimento, ovvero 山姥, la Yama-uba: una mostruosa strega con i capelli spettinati, il kimono stracciato e che si nutre di carne umana.
Invece il nome Kamaji è molto esplicito: 釜爺 significa vecchio della caldaia ed è un tsuchigumo, ovvero un uomo dalla forma di ragno, animale che simboleggia l’operosità e l’abilità, ed indica anche un umano che vive sottoterra.
Le due prove
Nella parte centrale del film, Chihiro viene messa davanti a due prove.
La prima ha al centro il Dio del Fiume, travestito da Spirito del cattivo odore, ovvero una creatura il cui corpo è composto da sporco e spazzatura. Yubaba costringe la protagonista ad occuparsene, cercando di punirla.
Ma proprio per la sua capacità di guardare oltre, Chihiro – come in realtà già Yubaba – capisce che questo spirito non è quello che sembra, e cerca di aiutarlo a ritrovare il suo vero aspetto, eliminando tutta la spazzatura che lo ricopre.
Questo episodio è fra la sfida e la burla – il Dio si congratula con lei e poi scappa via ridendo, piuttosto divertito. Ma è anche il primo momento in cui Sen guadagna un po’ di rispetto dagli altri personaggi.
E, soprattutto, acquisisce un oggetto fondamentale.
Mentre tutti i dipendenti sono abbagliati dall’oro lasciato dal dio, Chihiro si ritrova fra le mani un 苦団子, Niga-Dango: il dango è una sorta di gnocco di riso, che però in questo caso ha un sapore disgustoso – niga significa amaro.
Questo strumento è un elemento chiave per la prova successiva: Sen capisce che questo boccone disgustoso permette di liberare chi lo mangia di tutto quello che lo ricopre e con cui si nasconde, per svelarne la vera natura.
Per questo in primo luogo lo utilizza per aiutare Haku, facendoglielo mangiare quando è in fin di vita: in questo modo inconsapevolmente Chihiro libera il ragazzo sia dal sigillo che aveva rubato da Zeniba – e che lo faceva star male – sia dal demone che Yubaba usava per controllarlo.
La città incantata senza volto
Ma il momento fondamentale è lo scontro con Senza Volto.
Uno spirito piuttosto sofferente, che è privo di un’identità, e che cerca di trovarne una incorporando proprio altre persone, di cui prende l’aspetto e la voce. E riesce a tentarle proprio offrendo loro quello che desiderano.
Ma Chihiro non è così superficiale.
La protagonista non ha bisogno dell’eccesso di ricchezza che lo spirito le offre, motivo per cui lo stesso impazzisce e non desidera altro che possederla. Ma ancora una volta Sen capisce la vera natura di chi ha davanti e lo libera tramite il dono fattogli dal Dio.
Senza Volto Dio Del fiume folklore giapponese
La misteriosa figura di Senza Volto è di fatto un’invenzione del film, ma la maschera è un riferimento alla forma di teatro giapponese 能, nō, caratterizzato da movimenti lenti e dei testi aperti all’interpretazione dello spettatore.
Il significato del Dio del fiume è un po’ più complesso: questo spirito non ha un nome, ma Yubaba lo descrive come 名のある川の主, ovvero Signore di un fiume famoso. Allo stesso modo in La principessa Mononoke, il Dio Cinghiale, Nago, veniva definito Signore di una famosa montagna.
Riprendendo quindi la lettura ambientalista tipica delle opere di Miyazaki, entrambi potrebbero rappresentare delle divinità naturali che sono state corrotte dalla pressante presenza umana e dall’inquinamento che ne è derivato.
L’ultimo atto
Nella sua corsa verso il finale, Chihiro viene accompagnata da due figure che hanno perso il loro aspetto naturale: Bō, il figlio di Yubaba trasformato in topo, e Yu-Bird, uno dei servi di Yubaba, che diventa un uccellino.
Particolarmente interessante è l’arco evolutivo del bambino: inconsapevolmente imprigionato in una stanza, soffocato dalle coccole e dalle attenzioni della madre, si trova infine nella condizione di poter esplorare il tanto temuto mondo esterno.
Sicuramente il momento di passaggio è quando la Yubaba non lo riconosce, shock che porta il personaggio a voler essere così indipendente da non accettare neanche il passaggio sulla spalla di Chihiro quando sono scesi dal treno.
All’arrivo alla casa di Zeniba, la situazione è molto più tranquilla di quanto ci si aspettasse.
Come altri personaggi prima di lei, la strega ha compreso la natura fondamentalmente buona di Chihiro, che, invece di tenersi per sé il prezioso sigillo, ha intrapreso un importante viaggio per venire a restituirglielo e scusarsi, evidentemente perché pensava fosse la cosa giusta.
Proprio lì Senza Volto trova il suo posto nel mondo, e si scopre che i due piccoli accompagnatori di Chihiro potevano già da tempo tornare al loro aspetto originale, ma hanno preferito continuare a mantenere questa forma per portare a termine la loro missione.
Ovvero, aiutare la protagonista.
Haku la città incantata
Ma il momento di passaggio fondamentale è con Haku.
Chihiro riesce a portare a termine la sua missione più importante: permettere ad Haku di ritrovare il suo nome, proprio grazie alla loro connessione, che ha permesso loro di salvarsi vicendevolmente la vita in più occasioni.
In realtà già da prima Haku era in parte riuscito a liberarsi dal giogo di Yubaba, proprio grazie all’uccisione dello spirito che lo controllava: si vede molto bene che, nel confronto successivo che ha con la strega, il ragazzo ha un atteggiamento del tutto diverso.
La città incantata finale
Nel finale, Chihiro riesce a superare efficacemente l’ultima provadi Yubaba, dimostrando ancora una volta di essere più acuta di quanto gli altri personaggi si aspettassero da lei.
L’ultima sequenza è apparentemente paradossale.
Infatti, Chihiro rincontra i suoi genitori, che evidentemente non si ricordano nulla, e torna indietro rivivendo il viaggio dell’andataapparentemente con le stesse dinamiche e sentimenti.
Ma tante cose sono cambiate.
Anche se Chihiro comunque è ancora una bambina spaventata e impacciata, ha capito molte cose su sé stessa, ha compreso la potenza delle sue qualità, e quanto sia prezioso essere gentili e corretti con gli altri.
Insomma, una maturazione invisibile, ma fondamentale.
Bambino la città incantata
Il figlio di Yubaba, Bō, è ispirato a Kintaro, un personaggio mitologico raccontato come un bambino dotato di forza sovrumana, e che secondo alcune versioni era stato proprio cresciuto da Yama-uba.
Sia Yubaba che Zeniba hanno degli shikigami, degli spiriti servitori: la prima, fra gli altri, il già citato Yu-Bird, mentre la sorella gli spiriti a forma di pezzi di carta.
La città incantata è uno dei punti più alti nell’evoluzione artistica di Miyazaki.
Anzitutto, per il lavoro fatto su Chihiro, personaggio che riprende il modello usuale per i volti più giovani, ma lo arricchisce di particolari, dandogli un’inedita profondità:
Inoltre, la protagonista è un personaggio incredibilmente espressivo, anche in maniera macchiettistica, ma nondimeno efficace:
Inoltre, in questa pellicola si trova il momento più alto nella rappresentazione dei volti anziani, con Yubaba, con un livello di dettagli e cura delle ombre semplicemente perfetto:
E anche in questo caso si continua con la rappresentazione delle donne con nuovi particolari, riuscendo a distinguerle in maniera abbastanza netta:
Ovviamente fantastica la rappresentazione di tutte le creature magiche, in particolare Yubaba, con la sua espressività esplosiva, e Haku nella sua versione drago:
Senza contare ovviamente la grande originalità nella rappresentazione degli ambienti, sempre ricchissimi di particolari e mai banali:
E, in ultimo, l’evoluzione essenziale nel rappresentare i cibi, che avrà il suo picco nel successivo Il castello errante di Howl:
La principessa Mononoke (1997) è il primo film del terzetto delle opere più ambiziose di Hayao Miyazaki – insieme ai successivi La città incantata(2001) e Il castello errante di Howl(2004).
Una pellicola che ottenne un ottimo riscontro internazionale, raddoppiando i risultati commerciali finora ottenuti da Miyazaki: a fronte di un budget di circa 23 milioni (2,1 miliardi di yen), ne ha incassò quasi 170 in tutto il mondo.
Di cosa parla La principessa Mononoke?
Il giovane principe Ashitaka rimane vittima di un attacco da parte di un cinghiale-demone, che lo porta a cercare una cura lontano da casa…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere La principessa Mononoke?
Assolutamente sì.
Anche se devo ammettere che è uno dei prodotti non solo più complessi, ma anche più impegnativi di Miyazaki, è comunque un’opera piena di fascino, che racchiude la totalità dei temi cari a questo regista, raccontati però in una forma più matura.
Una trama piuttosto intricata, affollata di tanti e diversi personaggi, focalizzata sulla tematica dell’ambientalismo, ma anche sulla caoticità, imprevedibilità, nonché la temibilità della natura, e delle conseguenze del provare a distruggerla…
Insomma, non un film facile, ma un film da vedere.
ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.
Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.
Nel caso di La principessa Mononoke il pericolo è medio-alto.
Infatti,il doppiaggio è una barzelletta: oltre alle solite forzature, è il caso più iconico dell’incapacità di Cannarsi di scrivere degli adattamenti, con la traduzione del Dio della Foresta con Dio Bestia – e tutta l’ilarità correlata.
In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:
Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.
Se infatti nella sua opera prima Miyazaki rappresentava una natura vista come nemica e distruttiva, ma solamente perché gli umani non erano capaci di comprendere i danni che le avevano inferto, e il tentativo della stessa di curarsi.
Diversamente nella pellicola del ’97 la natura è semplicemente caotica, financo temibile: animali giganteschi e aggressivi, quasi preistorici, testardi ed indomabili, pronti persino a sacrificare sé stessi in nome della salvezza del proprio ambiente.
In particolare, le due divinità, la lupa Moro e il cinghiale millenario Okkoto: bestie enormi, ricchissime di particolari, dei capi saggi, ma anche incapaci di scendere a compromessi e sempre pronti ad aggredire il nemico – anche solo presunto.
Al contempo, Re della Foresta, che rappresenta la Natura, racchiude al proprio interno sia la vita che la morte, come si vede chiaramente dal suo incedere: nelle sue orme la natura sboccia immediatamente rigogliosa, ma altrettanto velocemente perisce.
La violenza chiama la violenza
Se la natura è violenza, l’umanità è distruzione.
L’ambientazione storica non è casuale: la pellicola si ambienta nel Periodo Muromachi (XIV-XVI sec.), in cui il Giappone vide un indebolimento del potere centralizzato, con una scena politica dominata invece dagli shōgun, i capi dell’élite militare.
Ma, soprattutto, fu l’epoca in cui il Giappone conobbe le armi da fuoco.
E infatti Lady Eboshi è proprio una shogun – una signora della guerra, se la volessimo dire all’occidentale – a capo della Città di Ferro, specializzata proprio nella produzione di queste armi moderne e micidiali.
Ma Eboshi è anche il personaggio più tridimensionale della pellicola.
Anche se apparentemente è solamente un capo spietato e senza cuore – come testimoniato dal fatto che non raccoglie neanche i cadaveri dei suoi uomini dopo il primo attacco dei lupi – si mostra anche come protettrice degli ultimi degli esclusi.
E infatti la sua città accoglie non solo gli uomini, ma anche i lebbrosi e le prostitute, i suoi veri sostenitori. Quindi si potrebbe dire che basa il suo potere sulle armi e sull’essere una sorta di capopopolo.
Ma è vera benevolenza o semplice sete di potere?
Due anonimi protagonisti
Come ho apprezzato Lady Eboshi come personaggio, ho molto meno gradito i due protagonisti.
Anche a fronte di uno screentimeabbastanza ridotto per quelli che dovrebbero essere gli eroi della storia, li ho trovati molto più anonimi e bidimensionali di quanto si sarebbero meritati. Portano infatti sulle spalle entrambi tematiche e questioni piuttosto interessanti e non facili da trattare, ma si comportano anche con la massima ingenuità.
Da un certo punto di vista penso sia un aspetto anche voluto, per contrapporre agli antagonisti due eroi testardi e indomabili, effettivi motori della trama per molti tratti, così da seguire una strada tutto sommato semplice verso la conclusione, a fronte di una trama invece piuttosto complessa.
E a questo proposito…
Una trama (troppo) complessa
Forse anche nella sua volontà di voler rappresentare in maniera molto realistica e credibile il periodo storico scelto, Miyazaki ha scritto una trama per certi versi veramente troppo complessa.
E non era veramente necessario.
Infatti, si poteva facilmente alleggerire il lato degli antagonisti – non dovendo intrecciare addirittura tre gruppi di personaggi – e riequilibrare il lato invece degli eroi, offrendogli una maggiore personalità e tridimensionalità.
Soprattutto perché di fatto la storia non è di per sé così complicata, ma è stata inutilmente appesantita.
Nondimeno ho apprezzato molto il finale.
Il Dio sacrifica se stesso, dopo aver rischiato di distruggere la sua stessa foresta, e ridona il verde alla valle, concedendogli una seconda occasione per prosperare. E come spiega proprio Ashitaka, il Dio non è morto, ma è la vita stessa che continua a vivere e a rinascere.
I due protagonisti scelgono due vie diverse, per ricreare sia il mondo della Natura, sia la realtà degli uomini, con la speranza che possano coesistere in armonia. E l’apparizione del kodama alla fine fa ben sperare…
Cosa significa Mononoke in La principessa Mononoke
Anche se emerge molto meno nella traduzione sia italiana che inglese, Mononoke non è un nome proprio – e infatti la protagonista si chiama San – ma ha un significato preciso.
I mononoke ((物の怪) sono degli spiriti, in particolare spiriti maligni che prendono possesso di altri esseri viventi per causargli dolori e sofferenze.
In questo caso è possibile che si intenda la parola anche come yōkai, ovvero esseri soprannaturali del folklore giapponese, come termine ombrello per raccontare il mondo spirituale della foresta, con i suoi spiriti e i suoi dei (kami)
All’interno di un’opera così ambiziosa, era quasi scontato che il lato artistico di Miyazaki migliorasse ulteriormente.
Anzitutto, si vede un’interessante evoluzione nel rappresentare i volti femminili, riuscendo davvero a differenziare Lady Eboshi da San:
Fra l’altro il modello di Lady Eboshi è stata una rappresentazione talmente interessante per Miyazaki da utilizzarla in maniera quasi identica nel successivo La città incantata:
Al contempo, interessanti sperimentazioni per i volti maschili, evolvendo il modello di base utilizzato finora, che poi si ritrova sempre nel film successivo:
Ma soprattutto con l’introduzione di un modello del tutto nuovo, rappresentato in questo caso da Jiko-Bō, in La città incantata da vari personaggi maschili:
Ma le sperimentazioni più interessanti riguardano sicuramente la rappresentazione degli animali, ricchissimi di particolari e di tecniche del tutto nuove, che si evolveranno in maniera diverse sia in Il castello errante di Howl, sia in La città incantata:
E lo stesso vale anche per i corpi giganteschi e gelatinosi, qui per il Dio della Foresta, in la Città Incantata con il Senza-volto nella sua forma finale:
Porco rosso (1992) è la prima avventura italiana di Hayao Miyazaki, nonché il primo suo lungometraggio con un protagonista maschile.
Un prodotto che confermò nuovamente l’andamento positivo del maestro nipponico a livello internazionale: sempre 44 milioni di dollari di incasso, a fronte di 9,2 milioni di yen (circa 7 milioni di dollari).
Di cosa parla Porco rosso?
Porco Rosso, soprannome dell’aviatore Marco Pagot, è un ex pilota dell’Aeronautica Italiana e cacciatore di taglie. Il nome deriva dal suo particolare aspetto…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Porco rosso?
Assolutamente sì.
Porco rosso è fra i minori di Miyazaki che assolutamente preferisco, al pari del precedente Il mio vicino Totoro(1988). Solo la prima delle due avventure italiane del maestro nipponico, prima del più recente Si alza il vento (2013).
Una storia che unisce il realismo più stringente e l’elemento fantastico in maniera organica e ben pensata, con un protagonista carismatico e interessante. E non manca anche di un tono che mischia il drammatico e i momenti più gustosamente comici.
Da vedere, assolutamente.
ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.
Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.
Nel caso di Porco Rosso il pericolo è medio-alto.
Il solito appesantimento insostenibile dei dialoghi, con utilizzo di termini totalmente fuori contesto: insomma, al solito i personaggi parlano come dei libri stampati – e pure datati. Ci mancava solo che Cannarsi avesse tradotto il titolo Maiale cremisi…
Proprio per questo, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:
Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.
Una storia semplice e perfetta
La bellezza della storia di Porco rosso è soprattutto nella sua semplicità.
Una piccola storia di pirati, che riprende i livelli di comicità degli analoghi personaggi di Laputa (1986) e un protagonista inedito Miyazaki, più complesso e non del tutto positivo, ma anzi con dei picchi drammatici piuttosto interessanti.
La vicenda è divisa in due atti e ruota intorno allo scontro fra Marco e Curtis, arricchendosi di tante sottotrame piacevoli e divertenti, e, al contempo, con approfondimenti sul protagonista e la sua storia, anche se non viene mai del tutto chiarita…
La donna oggetto?
Anche in questo caso Miyazaki conferma la sua superba gestione dei personaggi femminili.
Ambientando la vicenda alla fine degli Anni Venti, sarebbe stato del tutto irreale inserire un personaggio come Fio senza un’adeguata contestualizzazione. E infatti la ragazza viene trattata in maniera estremamente verosimile: sottovalutandola, sminuendola e oggettificandola.
All’inizio Porco Rosso non vuole che lei si occupi del suo aereo, dicendo esplicitamente che non si fida perché femmina e troppo giovane. Ma basta poco perché la ragazza dimostri le sue capacità, al punto che, grazie alla sua forte intraprendenza, diventi persino motore dell’azione.
In seconda battuta, con i pirati, e soprattutto con Curtis, Fio diventa l’oggetto del desiderio, ma in realtà è anche il personaggio che riesce a risolvere la disputa in maniera ordinata e senza che nessuno si faccia veramente male, dimostrando arguzia e intelligenza.
Essere liberi
Il contesto storico è assai sottolineato durante la narrazione, con uno spiccato accento sul pacifismo e sull’opposizione al regime. Tuttavia, anche spogliando la narrazione del suo esplicito significato politico, la morale è un’altra.
Marco, dopo aver visto i suoi compagni morire, ha capito di dover volare da solo, libero, ma anche escluso dagli altri. Una libertà quindi guadagnata a caro prezzo, dovendo soffrire un aspetto repellente e al contempo l’essere nel costante mirino del Fascismo.
E a questo proposito…
Perché Porco Rosso è un maiale?
Il motivo della maledizione di Porco Rosso che lo rende un maiale non è esplicitato, ma si può intuire dal suo racconto.
Marco era un pilota dell’aeronautica, che ha visto morire amici e nemici insieme, trovandosi solo nel mondo, e capendo proprio in quel momento che quella doveva essere la maledizione della sua vita: volare da solo.
Una maledizione che forse è anche dovuto all’autosuggestione, a come il protagonista ha interpretato quella scena, decidendo anche di recidere ogni contatto personale e relazione potenziale, in particolare con Gina.
Cosa succede nel finale di Porco rosso?
Quindi cosa succede nel finale di Porco Rosso?
La narrazione è affidata alle parole di Fio, che spiega l’esito della scommessa di Gina è un segreto, ma che lei comunque non ha più incontrato Porco Rosso. Quindi un finale aperto, che lascia però una speranza allo spettatore.
Io personalmente spero che Marco sia riuscito a ricongiungersi con Gina, a stringere una vera e profonda relazione con lei, e, in questo modo, si sia liberato di quella maledizione che in qualche modo si è autoimposto. Così da tornare umano.
E meno solo.
Le parole italiane in Porco rosso
Miyazaki, come altri autori nipponici, dimostra un profondo amore per l’Italia. E, per questo, mi viene più facile perdonargli alcuni errori di pura ingenuità.
Fra tutte le scritte in italiano che compaiono nella pellicola, ce ne sono alcune con piccoli errori, in particolare nell’officina Piccolo vi è il classico cartello che dice Non si fa credito, ma è scritto Non si fo credito.
Al contempo, l’ambientazione della storia è abbastanza generica, in particolare la Milano rappresentata sembra più ispirata a diverse città europee, e non specificatamente alla capitale lombarda.
In ultimo, nella sua totale ingenuità, Miyazaki evidentemente non si rendeva conto di quanto sia involontariamente comico il fatto che Fio chiami il protagonista Porco, che ha un altro significato in italiano…
In Porco Rosso Miyazaki sperimenta in nuove direzioni.
Anzitutto, qui per la prima volta si vede il nuovo modello per i personaggi femminili, principalmente quelli adulti, che si distinguono più nettamente da quelli invece più giovani, che restano costanti fin da Nausicaä della Valle del vento (1984).
Infatti, Fio Piccolo è sostanzialmente identica a Nausicaä:
Kiki – Consegne a domicilio (1989) è uno dei prodotti meno noti di Miyazaki, e anche quello che personalmente apprezzo di meno – all’interno di una produzione di opere meravigliose, beninteso.
Un prodotto che confermò l’andamento positivo delle opere di questo regista in ambito internazionale: a fronte di 6,9 milioni di dollari (800 milioni di yen), ne incassò 41,8 in tutto il mondo, al pari del precedente.
Di cosa parla Kiki – Consegne a domicilio?
Kiki è una giovane strega di appena tredici anni, che si imbarca nel suo anno di formazione, pronta ad affrontare un mondo del tutto nuovo…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Kiki – Consegne a domicilio?
In generale, sì.
Come anticipato, non è esattamente fra i miei preferiti della produzione di Miyazaki: fra tutti, è quello che mi sembra il meno ispirato e il meno interessante. Quasi un esercizio di stile, che conferma gli ottimi passi avanti a livello di animazione e tecnica, e al contempo muove i primi passi verso altre direzioni meno esplorate finora.
Nel complesso un prodotto piacevole, che vive più di piccoli archi narrativi che di una vera e propria storia unitaria. Fra l’altro storyline a volte pure difettose dal punto di vista della credibilità delle dinamiche rappresentate…
Insomma, se volete approcciarvi per la prima volta a Miyazaki, non cominciate da qui.
ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.
Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.
Nel caso di Kiki – Consegne a domicilio il pericolo è medio.
Ascoltando il doppiaggio italiano ci troviamo di fronte alle solite forzature, costruzioni sconclusionate e frasi artificiosissime: il solito, insostenibile Cannarsi. Ma, complessivamente, c’è molto di peggio.
In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:
Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.
Fin troppo semplice…
Le sfide di Kiki tutto sommato si risolvono fin troppo facilmente.
Fin dall’inizio la protagonista sembra trovarsi in un ambiente ostile e sconosciuto, in cui fa fatica ad orientarsi. Ma in realtà non ci vuole molto perché riesca facilmente a trovare una sistemazione, senza dimostrare in realtà alcuna capacità e dando un aiuto abbastanza marginale alla panetteria che la ospita.
Allo stesso modo, nonostante qualche imprevisto, riesce a completare il suo lavoro e ad essere immediatamente amata da tutti, così da raggiungere facilmente il successo e la fama. Non mancano le insidie, ma sembrano più avere un sapore quasi comico che essere delle vere minacce.
Per esempio, fra tutte le difficoltà della prima consegna, il cane che le viene in aiuto è davvero fin troppo conveniente…
Coming of age?
Apparentemente Kiki – Consegne a domicilio dovrebbe essere un racconto di formazione, un coming of age.
Tuttavia, è un aspetto che ho sentito veramente poco.
La protagonista viene messa davanti a diverse sfide, ma, proprio per quanto detto sopra, sembra come se ne sarebbe uscita vincitrice in ogni caso: non si vede una vera e propria maturazione del personaggio, ma più l’inizio della stessa.
Soprattutto nel finale, che dovrebbe essere il punto di arrivo, Kiki mostra semplicemente ancora una volta la sua intraprendenza e viene ancora di più amata ed ammirata da tutti: non un cambiamento sostanzialmente, ma la conferma di una situazione già esistente.
E a questo proposito…
Perché Kiki perde i poteri?
L’ultimo atto del film apre non pochi punti di domanda.
Anzitutto, perché Kiki perde i poteri?
La protagonista perde temporaneamente i suoi poteri da strega perché in un certo senso viene meno a sé stessa: sceglie di non accettare l’invito di Tombo e si mette anche in pericolo pur di finire il lavoro.
E quella che è un’apparente pausa, è invece il passaggio, la rottura fondamentale che la porta alla maturazione – almeno sulla carta. Infatti, Kiki alla fine dovrà dimostrare di sapersi impegnare in qualcosa di veramente importante.
Jiji Kiki consegne a domicilio
Perché Jiji non le parla più?
Apparentemente il comportamento cambiato di Jiji è dovuto alla perdita di poteri di Kiki. In realtà, anche quando la protagonista li riacquista, il gatto continua a non parlarne. E lei ne è consapevole, ma sembra accettare la nuova situazione con una ritrovata serenità.
L’interpretazione più evidente è che il mutismo di Jiji rappresenti un altro passaggio di Kiki, che abbandona un elemento che l’aveva definita nella sua infanzia, ma che adesso è cambiato: lei e il gatto continueranno a vivere insieme, ma con dinamiche differenti.
In questa pellicola Miyazaki sperimenta in nuove direzioni e consolida al contempo strade già intraprese.
Continuano le sperimentazioni sui volti giovani, portando ad una interessante differenziazione – anche solo per particolari del volto – fra i vari personaggi coinvolti:
con anche un curioso passo indietro rispetto a Il mio vicino Totoro nella rappresentazione delle bocche e dei denti: mentre nell’opera precedente erano molto marcati, in questo caso sono più naturali:
Una sperimentazione piuttosto peculiare anche nei volti anziani, con tre modelli totalmente differenti fra loro:
E si vedono anche i primi tentativi di differenziazione fra i volti più infantili – quello di Kiki – e quelli delle giovani donne – Ursula. In questa fase il volto della ragazza assomiglia di più a quelli maschili, ma personaggi come il suo saranno definitivamente differenziati in La principessa Mononoke(1997) e La città incantata (2001):
Allo stesso modo, confermata la bellezza degli sfondi e degli esterni:
Inoltre, per la prima volta Miyazaki sperimenta davvero con gli oggetti della casa e col cibo, con risultati ancora un po’ approssimativi, soprattutto se confrontati con la bellezza di Il castello errante di Howl(2004):
Il mio vicino Totoro (1988), traduzione abbastanza coerente del titolo originale – となりのトトロ, lett. Totoro il vicino – è uno dei film dal taglio più delicato e favolistico della produzione di Miyazaki.
A fronte di un budget ad oggi sconosciuto, è il miglior riscontro di Miyazaki a livello internazionale, con 41 milioni di dollari di incasso. Il film venne proposto nei cinema italiani solamente nel 2015.
Di cosa parla Il mio vicino Totoro?
Le sorelle Satsuki e Mei si sono appena trasferite in una graziosa casa nella campagna di Tokyo degli Anni Cinquanta. Un paesaggio quasi favolistico, che nasconde molti splendidi segreti…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Il mio vicino Totoro?
Assolutamente sì.
Anche se l’ho scoperto più tardivamente rispetto agli altri prodotti di questo regista, è un film assolutamente imperdibile, per la sua delicatezza e piacevolezza. Una storia in realtà con un sottofondo piuttosto drammatico, perfettamente integrata in un contesto favolistico e quasi onirico, nel peculiare stile nipponico.
Fra l’altro una delle migliori prove di Miyazaki come autore, sia per la costruzione della trama, sia per la bellezza dei disegni, in particolare negli splendidi sfondi. Un’opera che ti cattura, ti commuove, ti intrattiene in una durata anche piuttosto contenuta.
ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.
Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.
Nel caso di Il mio vicino Totoro il pericolo è abbastanza basso.
Nonostante il doppiaggio risalga al 2015, forse anche per i pochi dialoghi, non è niente di così tanto drammatico, ma generalmente abbastanza ascoltabile.
In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:
Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.
Il contesto fantastico…
Il world building de Il mio vicino Totoro è spettacolare.
Una realtà fantastica che si integra perfettamente nel tema di fondo molto presente nelle opere di Miyazaki: la bellezza della natura e della sua conservazione.
Forse proprio per questo la scelta di ambientare la vicenda in una realtà più lontana anche dall’uscita originaria del prodotto in un contesto meno urbanizzato, e dove la natura domina.
Una natura anche piuttosto misteriosa, piena di nascondigli e segreti, uno sfondo perfetto per raccontare una storia con due protagoniste così giovani e la loro riscoperta dell’ambiente che le circonda, per nulla osteggiato – come in altri contesti – dagli adulti.
E qui nasce il più importante contrasto.
…e il sottofondo drammatico
L’elemento drammatico è introdotto molto lentamente, facendo prima immergere lo spettatore nella spensieratezza del contesto fantastico.
La malattia della madre inizialmente non sembra neanche grave – nella sua prima apparizione viene mostrata serena e con nessun segno di cedimento. Il picco drammatico avviene con il rimando del ritorno a casa.
Per la mancanza di comunicazioni dirette, rinasce nelle protagoniste di nuovo la terribile paura di perdere la genitrice, una paura sotterranea, ma in realtà non nuova, che le angoscia terribilmente. E la tensione viene ancora più caricata con la scomparsa di Mei, che assume per certi versi dei tratti dacronaca nera.
Il fantastico rincuorante
Anche l’elemento fantastico è introdotto a piccoli passi.
E sempre ridimensionato in senso positivo.
Il primo contatto con il mondo nascosto degli spiriti e della magia è con i fantasmini della polvere, che i protagonisti riescono a cacciare dalla casa. E poi, ormai nella parte centrale della pellicola, si introduce finalmente Totoro, la cui scoperta avviene grazie al giocoso inseguimento di Mei e gli spiritelli impauriti.
Nei due incontri successivi, Totoro arriva proprio nei momenti di maggiore sconforto e paura delle due bambine: prima quando aspettano impazienti il padre che sembra non arrivare mai, nell’iconica scena della fermata dell’autobus, in cui questa meravigliosa creatura mostra tutta la sua piacevolezza e giocosità.
In ultimo, proprio nel picco drammatico della pellicola, Satsuki chiede aiuto proprio a Totoro, che non solo l’aiuta a ritrovare alla sorella, ma le dà un passaggio con il gattobus, altra creatura fantastica che sembra uscita fuori da un libro delle favole.
E riescono così anche a vedere in prima persona che la madre sta bene.
In questo film la tecnica di Miyazaki compie un passo avanti piuttosto decisivo.
L’elemento che salta subito all’occhio sono gli sfondi: curatissimi e pieni di dettagli, quasi dei dipinti in movimento, e rendono perfettamente quell’aspetto aulico e retrò dell’ambientazione:
Ovviamente il punto più alto sono i dettagli, l’animazione e la cura nel disegno di Totoro, e così anche del gattobus:
Continua inoltre l’ottimo studio sui volti anziani. Infatti, con Nanny sembra formarsi in via definitiva il modello per questo tipo di personaggi: occhi molto grandi, guance pronunciate, corporatura robusta e una fitta rete di rughe, che avrà poi il suo apice in La città incantata(2001) e Il castello errante di Howl (2004):
Diversi miglioramenti anche per la gestione dei personaggi giovani, che diventano molto più espressivi: piangono, si emozionano, urlano, paradossalmente in maniera quasi parallela al personaggio di Totoro:
Guardando al futuro più prossimo, nell’aspetto Satsuki assomiglia molto alla protagonista della prossima pellicola di Miyazaki,Kiki – consegne a domicilio(1989):
Mentre sia Mei che Kanta ricordano lo sviluppo dei bambini in Il castello errante di Howl, nel personaggio di Markl:
Il mio vicino totoro vs la città incantata
E ho notato anche un paio di interessanti – nonché strani – parallelismi con La città incantata. Anzitutto, Mei in certi momenti ha una faccia che assomiglia molto ad una rana, e infatti se si fa il confronto:
La scena in cui i semi cadono per la casa sul pavimento ricorda, anche se in maniera diversa, la scena delle pepite d’oro. Ma il collegamento più evidente è l’aspetto degli spiriti della polvere, che si vedranno identici nel film del 2001:
Laputa – Il castello nel cielo (1986) è il secondo lungometraggio di Hayao Miyazaki come autore completo, nonché il primo film prodotto dal neofondato Studio Ghibli.
Arrivò in Italia prima direttamente in DVD nel 2004, in una versione ritirata subito dal mercato, e solo nel 2012 venne proiettato al cinema con il nuovo doppiaggio.
Di cosa parla Laputa?
Una misteriosa ragazzina è stata rapita da degli uomini senza scrupoli. Mentre cerca di scappare, cade dall’aeronave, ma riesce a non precipitare…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Laputa?
In generale, sì.
Laputa è uno dei primi prodotti di Miyazaki, ma in cui mostra già grande abilità nel raccontare una storia ben costruita e una splendida ambientazione fra il mistico e il magico.
Inoltre, dopo Nausicaä della Valle del vento, in questa pellicola il maestro nipponico introduce nuovi spunti di riflessione, che saranno ancora più approfonditi nei suoi prodotti futuri.
Inoltre, vi è un piacevolissimo incontro fra una trama veramente drammatica, quasi paurosa, e alcuni elementi comici, al limite del grottesco e dell’assurdo, alternando così momenti più tragici a sequenze più leggere.
Insomma, da vedere.
ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.
Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.
Nel caso di Laputa – Il castello nel cielo il pericolo è medio-alto.
Il doppiaggio risale al 2012, quando Cannarsi aveva già anche troppa importanza nel settore. E sembra incredibile che sia stato approvato un adattamento così sconclusionato, al limite dell’inverosimile, tanto da risultare quasi comico.
In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:
Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.
Una protagonista troppo innocente?
Come caratterizzazione, Sheeta non è tanto diversa da Nausicaä, ma come caratterizzazione si compie un piccolo passo indietro.
Forse anche per la sua giovane età, la protagonista di Laputa è davvero un personaggio innocente, in parte intraprendente, ma anche tendenzialmente passiva, che rimette la risoluzione finale dell’avventura nelle mani di Pazu, che più che un compagno è quasi un coprotagonista.
Tuttavia, la sua caratterizzazione è del tutto funzionale alla trama: i toni più drammatici e minacciosi di Laputa e, soprattutto, di Muska, sono in aperto contrasto con la totale ingenuità della ragazzina.
Un personaggio più intraprendente e maturo non avrebbe avuto lo stesso effetto, insomma.
Il doppio nemico
Per questa pellicola Miyazaki sceglie di inserire ben tre gruppi di nemici, che si definiscono in una scala di sempre maggiore di cattiveria e spietatezza.
I piratisono una minaccia per i personaggi limitatamente al primo atto, mentre la loro pericolosità si smorza sempre di più nel corso della pellicola. Diventano infatti dei personaggi fondamentalmente comici, con una leader solo apparentemente arcigna a capo di un gruppo di criminali che sono in realtà dei bambinoni.
Allo stesso modo molto meno minacciosi di quanto sembrino sono l’esercito e, soprattutto, il generale, che in realtà è totalmente nelle mani di Muska, raccontato come nemico piuttosto banale, che desidera solo arricchirsi e ottenere una nuova arma da guerra.
Mazuka Laputa
Il vero villain, appunto, è Muska.
Muska è uno degli antagonisti più temibili di tutta la produzione di Miyazaki: volendosi solo apparentemente arricchire, in realtà è un uomo assetato di potere, che non si fa alcuno scrupolo a maltrattare e usare una ragazzina così indifesa.
Molto indovinata la scelta di legarlo così direttamente alla protagonista, dando un sapore più importante al loro conflitto. Al contempo, è un antagonista elegante e ben raccontato, che non si sbilancia mai, ma rimane solo drammaticamente malvagio, a tratti persino inquietante.
Il paradiso inviolabile
Anche se Laputa è una destinazione desiderata per le sue ricchezze e la sua potenza, la bellezza del luogo è un’altra.
L’isola è mostrata come un luogo dalla natura incontaminata, con un’atmosfera magica che racconta ancora una volta la bellezza degli ambienti quando sono sottratti al controllo umano.
Così un castello che era un’arma di distruzione, è diventato un paradiso terrestre, con dei robot killer che hanno riscoperto la loro natura gentile.
Robot Laputa
La tematica dell’ambientalismo in questo caso è più sottile, mentre i temi centrali sono l’avidità umana e l’orrore della guerra. Il primo è meno incisivo, ma costante: nella loro completa onestà e ingenuità, i due protagonisti raggiungono Laputa per il piacere della scoperta, e non per arricchirsi.
Molto diverso dal comportamento dei soldati mentre spogliano il castello delle sue ricchezze senza pietà.
Più drammatico è il tema della guerra, racconto dall’azione distruttiva – letteralmente – dei villain, ma racchiuso soprattutto nella scena in cui Mazuka utilizza per la prima volta l’isola come arma, che ricorda molto una certa bomba atomica…
La tecnica artistica di Miyazaki in questo film mostra già un’importante evoluzione.
La tecnica generale è ancora molto abbozzata per diversi personaggi, soprattutto nelle scene affollate, e forse è la pellicola in cui si vede di piùl’importanza dell’esperienza del regista con Lupin e Heidi.
Sheeta – ma anche Pazu – è molto simile per i tratti del viso ad Heidi, e anche un po’ per la caratterizzazione:
In generale, per il momento Miyazaki rimane sul semplice per la maggior parte dei volti, e alcuni personaggi maschili ricordano Lupin, appunto.
Inoltre, in Laputa si guarda al futuro, ma anche al passato: le volpi che corrono sulle spalle dei robot sono identiche all’animale da compagnia di Nausicaä:
E ci sono due personaggi che sembrano dei bozzetti per prodotti futuri: la sorella di Pazu assomiglia moltissimo alla protagonista di Ponyo sulla scogliera (2008), mentre il macchinista dei pirati sembra la prima versione di quello che sarà poi Kamaji ne La città incantata:
Ponyo Laputa
I passi avanti più promettenti sono i primi studi fatti sui volti anziani, in particolare quello delle matrone, come appunto Dola, che avrà la sua migliore realizzazione in La città incantata con Yubaba e soprattutto in Il castello errante di Howl con la protagonista:
Altrettanto buono è il lavoro fatto sulle espressività del viso dei personaggi, che offrono molti spunti soprattutto per Mazuka, ma anche sempre per Dola:
Nausicaä della Valle del vento (1984) è il primo film in cui Miyazaki è sia regista che sceneggiatore, possiamo dire la sua prima avventura in autonomia, dopo essersi già affacciato al cinema con Lupin III – Il castello di Cagliostro (1979).
A fronte di un budget davvero ridotto – appena 180 di yen, circa 750 mila dollari – incassò 8 milioni in tutto il mondo (o almeno nei paesi in cui uscì). Arrivò nei cinema italiani solamente nel 2015.
Di cosa parla Nausicaä della Valle del vento?
Circa mille anni dopo una terribile guerra termonucleare che ha distrutto gran parte della Terra, il mondo è diviso in due grandi imperi e frammentato in piccole comunità autonome. Ma c’è chi ancora vuole riportare l’Umanità al suo splendore…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Nausicaä della Valle del vento?
Assolutamente sì.
Soprattutto se siete appassionati di Miyazaki, non potete assolutamente perdervi questo titolo – e lo dico io che non l’ho visto se non prima di questa recensione. Un’opera prima che però racchiude già molti temi cari al regista, che si ritroveranno anche e soprattutto in La principessa Mononoke(1997).
La tecnica artistica, nonostante sia più semplice e meno dettagliata rispetto alla sua produzione successiva, riesce comunque a raccontare mondi sorprendenti, personaggi peculiari e atmosfere fascinose. Al contempo la storia è intrigante, avvincente, e racchiude un’importante riflessione che ha davvero anticipato i tempi…
ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.
Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.
Nel caso di Nausicaä della Valle del vento il pericolo è medio.
Essendo uscito nel 2015 in Italia, al tempo Cannarsi aveva già acquisito uno status piuttosto importante. Tuttavia, non era ancora all’apice della sua follia: i dialoghi appaiono abbastanza artificiosi, ma non ad un livello tale da compromettere complessivamente la godibilità del film.
In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:
Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.
La prima protagonista
Una peculiarità di Miyazaki è di scegliere come protagoniste, nella maggior parte delle sue opere, personaggi femminili con capacità fuori dal comune.
In questo caso il potere di Nausicaä poteva prendere delle strade molto semplici e ridondanti, trasformandola nella più classica delle Mary Sue. Ma non è nello stile del regista: al contrario le abilità della protagonista sono strettamente connesse con la tematica centrale della pellicola stessa.
Infatti Nausicaä è l’unica capace di riconnettersi con quella natura, che invece l’umanità considera solamente ostile e distruttiva, combattendo la violenza solamente con la violenza. E lo si vede fin da subito, quando riesce a placare sia l’Ohm sia il cucciolo che Yupa gli porta.
E la sua connessione è fondamentale per la sopravvivenza dell’umanità stessa.
La potenza della natura
Come spiega la saggia anziana della Valle del Vento, ogni volta che si è cercato di distruggere il Mar Marcio, gli Ohm si sono diretti in massa verso i centri abitati, distruggendo a loro volta tutto quello che incontravano.
Agli occhi degli umani colonizzatori, quindi il Mar Marcio e i suoi abitanti sono il nemico da sconfiggere per riportare l’umanità alla gloria. Ma neanche il popolo della Valle del vento è privo di colpe: molto ingenuamente, continua a distruggere le spore che starebbero avvelenando le coltivazioni.
Ma Nausicaä capisce che la realtà è ben diversa.
Dopo la terrificante distruzione operata dall’uomo, la Terra, e quindi la Natura, sta solo cercando di depurarsi dall’avvelenamento e dall’inquinamento che gli è stato rovesciato addosso, e quindi, più in generale, sta tentando di purificarsi dalla presenza umana e dei suoi danni.
E allora l’unico modo per l’umanità di continuare a vivere sulla Terra è di imparare rispettarla, ma per davvero: vivere in armonia con l’ambiente, e lasciare che sia lo stesso a curarsi dei danni che gli sono stati inflitti.
E il Mar Marcio che depura la terra non è tanto diverso dalle nostre foreste che depurano l’aria che respiriamo…
Atmosfere magiche
Già in questa prima pellicola Miyazaki riesce a rappresentare un mondo davvero splendido.
La peculiarità di questo maestro dell’animazione è proprio il far immergere i personaggi in ambienti fascinosi e pieni zeppi di particolari, curati alla stregua di un’opera d’arte – tratto che avrà il suo picco con Il castello errante di Howl(2004).
In Nausicaä della Valle del vento si vede già in nuce questa tendenza: paesaggi e ambienti più semplici e ordinari si alternano ad ambientazioni davvero suggestive, in particolare nel caso del Mar Marcio, un luogo magico e pieno di sorprese.
Fra l’altro lo stesso mi ha ricordato le meravigliose ambientazioni del videogioco Hollow Knight (2017):
Un eccessivo didascalismo
L’unico elemento che non mi ha entusiasmato della pellicola è il didascalismo delle primissime scene.
Dovendo sottostare alla necessità di raccontare alcuni elementi della trama fin dall’inizio, Miyazaki si è andato ad incastrare in diversi momenti in cui la protagonista dice a voce alta delle cose che probabilmente erano solo nei suoi pensieri.
E se la pesantezza e la poca naturalezza di queste scene si sente abbastanza nella versione originale, in realtà il vero dramma è il doppiaggiodi Cannarsi, che riesce come sempre a portare all’ennesima potenza ogni elemento anche solo potenzialmente negativo…