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Il gatto con gli stivali 2 – La rinascita?

Il gatto con gli stivali 2 – L’ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford è stata una grande sorpresa fra la fine del 2022 e l’inizio del 2023: un sequel arrivato a più di dieci anni di distanza dal primo – mediocre e dimenticabile – capitolo.

Infatti, aprendo con un incasso non molto promettente – appena 20 milioni negli Stati Uniti – il film ha cominciato la sua scalata verso il successo proprio grazie all’ottimo passaparola, che l’ha fatto arrivare ad incassare 470 milioni di dollari in tutto il mondo, a fronte di un budget di 90.

Ed è un caso più interessante di quanto si potrebbe pensare…

Di cosa parla Il gatto con gli stivali 2?

Il gatto con gli stivali è un eroe amato da tutti, con una vita spericolata e senza freni. Ma un incontro inaspettato gli farà cambiare drasticamente idea…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena vi vedere Il gatto con gli stivali 2?

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Assolutamente sì.

Non avevo inizialmente alcun interesse per questa pellicola – né d’altronde per il primo capitolo, che non avevo mai visto. Mi sembrava il solito strascico senza senso di una saga – quella di Shrek – che boccheggiava già con il terzo film della storyline principale.

E per fortuna il passaparola mi ha salvato.

Il passaparola positivo è stato infatti la salvezza di questo prodotto, che inizialmente sembrava destinato al collasso economico – come la maggior parte dei film d’animazione di questo periodo. E ha portato anche me alla visione.

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Il gatto con gli stivali 2 è un’ottima pellicola d’animazione, che dopo tanti anni riporta la Dreamworks verso quel taglio narrativo che l’aveva resa così diversa dai prodotti della concorrenza.

A questo si aggiunge una tecnica d’animazione che mischia la grafica 3D con quella 2D, ottimamente realizzata, che ricorda molto la bellezza di altri ottimi prodotti come la serie Arcane (2021 – …) e Spiderman into the spiderverse (2018).

Insomma, se non l’avete ancora fatto, recuperatelo assolutamente.

Ma passiamo alla domanda fondamentale…

Per vedere Il gatto con gli stivali 2 devo vedere Il gatto con gli stivali del 2011?

Questa sezione è dovuta perché non voglio che voi facciate il mio stesso errore.

Visto il mio totale disinteresse per il primo capitolo – e il mio totale disprezzo per le ultime morenti fasi della saga di Shreksono passata direttamente al sequel. Poi, per completezza, ho deciso di vedere anche il primo capitolo.

E ho sbagliato.

Non solo il dislivello fra i due film è immenso, ma la visione del primo capitolo è fondamentalmente inutile per fruire del seguito. E potrebbe anzi avere l’effetto contrario: allontanarvi dalla visione de Il gatto con gli stivali 2.

Purtroppo, Il gatto con gli stivali (2011) è veramente mediocre: una trama banalissima e di nessun interesse, personaggi quasi grotteschi e villain assai deboli e mal costruiti. Per questo, nelle prossime righe vi dirò le poche cose che vi servono per godervi appieno Il gatto con gli stivali 2.

Non proseguire se non vuoi spoiler su Il gatto con gli stivali (2011)!

Quando era solo un cucciolo, il gatto con gli stivali fu adottato da una donna che curava un orfanotrofio, e la stessa gli regalò il suo iconico paio di stivali, simbolo della sua futura vita da eroe.

Nel primo film il gatto conosce anche Kitty Softpaws, che ritorna nel seguito, con cui intraprende una relazione romantica, nonostante la gatta sia una doppiogiochista e nel film si scopre essere parte dell’inganno del villain.

Ora potete vedere Il gatto con gli stivali 2!

La caduta dell’eroe

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

L’incipit è davvero ottimo.

La pellicola si apre con un rocambolesco numero musicale con protagonista il gatto, a cui segue un combattimento incredibilmente ben realizzato contro il gigante che ha involontariamente risvegliato e che attacca la città.

Questa sequenza ci racconta tutto quello che dobbiamo sapere sul nostro protagonista.

Il gatto con gli stivali vive una vita a metà fra l’eroismo e la criminalità: salva la città ed è ammirato dal popolo, ma in parte osteggiato dai personaggi più in vista, di cui si approfitta, conducendo una vita piuttosto spericolata e dissoluta.

Ma non è una scelta sostenibile nel tempo.

Il viaggio della maturità

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Il film racconta la maturazione del protagonista, una sorta di passaggio da un’esistenza più giovane e, volendo, adolescenziale, verso una vita più adulta e consapevole.

Infatti, all’inizio della pellicola il gatto viene messo davanti alle sue responsabilità: ha sparato tutte le cartucce che gli hanno permesso di ridere in faccia alla morte, vivere senza pensare alle conseguenze…

…e gli è rimasta una sola vita.

Inizialmente il protagonista si rifiuta di accettare questa possibilità, e sceglie di continuare a vivere come ha sempre fatto. Il momento del drastico cambio di idea, e della decisione di spogliarsi della sua identità, è l’incontro con la Morte.

La Morte è infatti l’unica cosa che fa davvero paura al protagonista.

Un’inquietante ombra che lo insegue per tutta la sua avventura, senza che il gatto sia – per la maggior parte del tempo – capace neanche di raccontarlo ai suoi compagni. E la sua maturazione sta proprio nel come affrontare la Morte o, meglio, la responsabilità di avere una sola vita da vivere, e per questo di trattarla con cura.

E infatti il primo istinto del protagonista è di aggirare il problema, concedendosi ancora molte vite e molte occasioni da utilizzare, ma, soprattutto, da sprecare.

Ma nel finale la sua scelta di non sfuggire dalla morte, ma di guardarla in faccia e sfidarla, è quello che fa capire alla stessa che il gatto non è più quello di una volta, non è più l’eroe sfacciato che non aveva alcun interesse o cura della sua esistenza. E per questo lo lascia andare.

Le favole adulte

Riccioli D'oro e i Tre Orsi in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Con Il gatto con gli stivali 2 finalmente la Dreamworks torna a delle scelte narrative più interessanti e mature, in questo caso portando in scena le versioni adulte delle favole stesse, che in certo senso rispecchiano anche il pubblico di riferimento.

La favola di più immediata comprensione per il pubblico europeo è quella di Riccioli d’oro, che ormai è una giovane adulta che vive insieme a tre orsi: un simpatico quanto temibile quartetto di criminali.

Big Jack Horner in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Anche più interessante è la riscrittura della storia di Little Jack Horner – nel film Big Jack Horner, per ovvi motivi. La sua favola proviene da una canzoncina del folklore inglese, che recita quanto segue (la traduzione è mia):

Little Jack Horner
Sat in the corner,
Eating his Christmas pie;
He put in his thumb,
And pulled out a plum,
And said, “What a good boy am I!”

Little Jack Horner
Stava seduto in un angolo
Mangiando la sua mince pie
Vi mise dentro il pollice
E tirò fuori una prugna
E disse: “Che bravo bambino che sono!”

Quindi la storia di un bambino incredibilmente viziato e dispettoso, per cui i genitori stravedevano e a cui permettevano di fare tutto quello che voleva, fra cui mettere il pollice dentro le torte, appunto.

E, da bambino capriccioso è diventato un adulto capriccioso, che vuole tutto per sé: colleziona ogni oggetto magico esistente, ma ancora non gli basta.

E per questo è un villain perfetto.

Un terzetto di villain

Mentre in un altro contesto la presenza di così tanti villain poteva impattare negativamente sul risultato finale, nel caso de Il gatto con gli stivali 2 questa scelta favorisce invece una narrazione articolata e senza tempi morti.

Il primo gruppo di villain – o quasi – è quello di Riccioli D’oro e i Tre Orsi.

Alle spalle dei Tre Orsi, la ragazza vuole portare indietro i suoi genitori perduti, in un atto di totale egoismo e di mancanza anche di rispetto nei confronti di personaggi che si dimostrano veramente accoglienti e amorevoli nei suoi confronti.

Un bellissimo racconto di come una famiglia si possa formare anche al di fuori dei perimetri più tradizionali, portando Riccioli D’oro ad una consapevolezza non tanto dissimile da quella del protagonista: essere felici della propria vita, che può essere già piena e soddisfacente senza dover inseguire sogni di felicità solo apparentemente risolutivi.

Big Jack Horner in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Due sono gli elementi di forza di Big Jack Horner: il suo ruolo nella trama e il non abbandonare mai la sua natura malvagia.

Per fortuna per il sequel si è scelto di non perpetuare il tremendo e ridondante errore del primo film: far diventare buono il villain. Una scelta solo apparentemente diversa, in realtà diventata col tempo piuttosto prevedibile, con risultati veramente mediocri se gestita così male come in Il gatto con gli stivali (2011).

Invece Jack dice esplicitamente di essere morto dentro, e, nonostante i tentativi del Grillo Parlante di farlo rinsavire, rimane cattivo fino alla fine. E la sua disfatta determina anche la definitiva maturazione dei personaggi positivi, che si alleano ai suoi danni e rinunciano al desiderio tanto ambito.

La sua gestione è altrettanto ottima nel finale: Jack viene messo temporaneamente da parte – apparentemente sconfitto – per far spazio alla Morte.

Morte Il gatto con gli stivali 2

Morte in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

La Morte è uno dei migliori villain mai creati dalla Dreamworks.

Finalmente si ritorna a nemici nello stile di Kung Fu Panda, profondamente malvagi e temibili. In questo caso la Morte è veramente un avversario spaventoso, nell’aspetto e nei comportamenti, e che, soprattutto, viene sconfitto dalla maturità del protagonista.

E fa tanto più paura in quanto si contrappone un animale così possente e pauroso – almeno nel folklore – del lupo, armato di due mannaie, con quello che in fin dei conti è un piccolo gattino, che quasi scompare davanti alla possanza del suo nemico…

Un film per tutte le età

Il grande pregio de Il gatto con gli stivali 2 è stata la scelta di tornare ad un target variegato come era stato per i suoi brand di successo, soprattutto quello da cui deriva: Shrek. Ed è possibile grazie alla scelta di un gruppo di personaggi piuttosto variegato che riesce ad agganciare diversi tipi di pubblico.

Il protagonista racconta una fascia di pubblico intermedia, di giovani adulti che si trovano ad abbandonare l’adolescenza per abbracciare la complessità della vita adulta, con grandi dubbi e paure, ma anche importanti soddisfazioni.

Per un pubblico più giovane e adolescenziale, il punto di riferimento è Riccioli D’oro, che rappresenta proprio la classica adolescente insicura e dal brutto carattere, che però riesce a rendersi conto del valore della famiglia e, in generale, degli affetti che la circondano.

Ma anche il pubblico infantile rimane soddisfatto grazie a Perrito, l’adorabile cagnolino che diventa l’improbabile compagno di avventure del gatto e di Kitty. Il cucciolo – da cui il nome, perrito – racconta proprio lo sguardo infantile e sognante, offrendo quel tocco di dolcezza e tenerezza che non poteva mancare.

Un cambio di passo?

Proprio in questa scelta di un pubblico così variegato come ai vecchi bei tempi io spero di vedere l’inizio di un ripensamento di questa casa di produzione: dopo il cambio di direzione del 2016 – ma per certi versi anche da prima – la Dreamworks ha perso del tutto la sua identità.

Infatti ha cercato di mimare i successi della Illumination Entertainment – madre dei grandi successi della saga di Cattivissimo me e Sing – ma finendo solo per snaturarsi: a differenza dei grandi incassi dei concorrenti – quasi un miliardo solo per il recente Minions 2 (2022) – alla Dreamworks sono rimaste solo le briciole.

Infatti, quando ormai i grandi successi della saga di Shrek erano lontani, dal 2016 i tentativi di rilanciarsi con prodotti solo destinati al pubblico infantile come Trolls o Baby Boss, ma solo il secondo è riuscito a fare un incasso dignitoso.

Per il resto, solo poche centinaia di milioni di incasso per ogni film, se non veri e propri flop.

Che sia il momento della svolta?

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Akira Animazione Animazione giapponese Avventura Azione Cult rivisti oggi Distopico Drammatico Fantascienza Film Futuristico Recult

Akira – Tutto nacque, tutto morì

Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo è uno dei più grandi cult – forse il più grande – del cinema animato nipponico. Un’opera complessa, che affronta tematiche anche abbastanza tipiche della fantascienza moderna, ma con una profondità di riflessione inarrivabile.

Con un budget abbastanza contenuto (700 milioni di yen, circa 5 milioni di dollari), incassò molto bene: 1.5 miliardi di yen, circa 50 milioni di dollari.

Di cosa parla Akira?

In un futuro ucronico, in cui la terza guerra mondiale ha distrutto Tokyo, la Neo Tokyo è nel totale degrado, dominata da bande di criminali motociclisti. Uno di questi, Tetsuo, si scontra con uno strano bambino…

Vi lascio lo splendido trailer per il 30° anniversario per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Akira?

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Assolutamente sì.

Akira è un film davvero imperdibile, e non solo per la splendida scrittura e animazione, ma soprattutto per la profonda riflessione che costruisce, che può lasciare interdetti ad una prima visione, ma che acquisisce un chiaro significato dopo un’attenta riflessione (e revisione).

Uno dei quei prodotti che non possono mancare nel proprio bagaglio cinematografico, anche se non si è mai messo piede nel cinema orientale.

Tutto nacque da una bomba

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Il punto di partenza di Akira è la bomba atomica.

Infatti la primissima scena del film mostra lo scoppio di una bomba che distrusse, nell’ucronia del film, la città di Tokyo – con un parallelismo molto netto fra i drammatici eventi di Hiroshima. E così anche il punto di arrivo – o di partenza – della Terza Guerra Mondiale.

Un racconto che sembra molto lontano da noi ma che, al tempo dell’uscita della pellicola – e soprattutto del manga originale – non lo era per niente. Negli Anni Ottanta infatti la Guerra Fredda e la conseguente paura dell’Atomica – che si era visto esistere e poter essere utilizzata – era ancora molto reale.

Kuwata in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Quindi sarebbe stato tanto improbabile immaginare un mondo in cui la bomba atomica era derivata da sperimentazioni umane – già emerse dalla drammatica pagina della storia nipponica dell’Unità 731 – e che questa avrebbe portato ad un terzo conflitto mondiale?

Di fatto, Akira non era un’ucronia, ma una realtà possibile.

Volevo rievocare un Giappone come quello in cui ero cresciuto, dopo la seconda guerra mondiale, con un governo in difficoltà, un mondo in ricostruzione, pressioni politiche esterne, un futuro incerto e una banda di ragazzini abbandonati a sé stessi, che combattono la noia correndo con le moto.

Katsuhiro Ōtomo

Il superuomo

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

E se la bomba atomica fosse l’uomo stesso?

L’atomica – nella realtà, quanto nella finzione fantascientifica – è un esempio chiarissimo di quanto la creatività umana e la sua hybris possa essere totalmente distruttiva. Per questo Akira riprende il tema classico della creazione che sfugge dal controllo del suo creatore, ma la amplia in una direzione del tutto nuova.

In questo caso, l’uomo che, tramite l’uso immorale della scienza, non riesce a controllare sé stesso.

Ed è tanto più problematico quando un potere del genere viene dato – o risvegliato, per meglio dire – ad una persona divorata dal risentimento e dal senso di inferiorità. Quasi fino all’ultimo Tetsuo si atteggia come una persona potente, inarrestabile e al di sopra di tutti gli altri – come ben testimonia il suo sedersi sul trono dello Stadio e mettersi un mantello per darsi un’aura regale.

Cos’è Akira?

Akira in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

La figura di Akira può essere letta su più livelli.

Nel contesto più materiale della pellicola, era solamente l’esperimento effettivamente riuscito della creazione di un superuomo, che poi si era rivoltato contro lo stesso creatore, distruggendo un’intera città – che sia volontariamente o involontariamente, non è dato saperlo.

A livello più astratto, Akira è un’energia vitale e primordiale dell’uomo, che lo eleva dal suo stato bestiale e lo rende capace dell’inimmaginabile. Anche se l’uomo non è riuscito fisicamente – per ora – a modificare sé stesso, è stato in grado di modellare il mondo a sua immagine e funzione, costruendo tutto quello di cui aveva bisogno.

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Il passo successivo era proprio quello di rendersi pari ad un dio, capace di avere poteri sovrannaturali, ma che in qualche modo erano sempre presenti nel suo potenziale.

Ma la bellezza di Akira sta anche nel non banalizzarsi su questo concetto, ma ampliarlo mettendo in scena una distruzione che è al contempo una creazione stessa. Un dualismo che si vede bene nella scena finale, quando lo scienziato dice:

È come se stessimo assistendo alla nascita dell’Universo.

Cosa succede nel finale di Akira?

Kiyoko in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Il finale di Akira si apre a diverse interpretazioni.

Quando i tre bambini si trovano in presenza di Akira si inginocchiano come alla presenza di un dio, e decidono di salvare Tetsuo dalla morte certa, mentre il suo corpo non gli risponde più e lo sta fondamentalmente distruggendo.

Tuttavia, allo stesso modo sono consapevoli che, seguendo Akira, non potranno più tornare indietro.

Secondo la mia personale interpretazione, nel finale tutti perdono la loro forma materiale e umana, riducendosi ad un forma atomica e in qualche modo rinascendo con Akira, in un modo (per il momento) incomprensibile all’essere umano.

Come Akira cambiò il mondo

A cura di Carmelo

Prima di Akira, gran parte degli occidentali credeva che l’animazione giapponese consistesse in cartoni animati televisivi come Speed racer (1967-68), roba per bambini tecnicamente frettolosa e malamente doppiata.

Ma il regista Katsuhiro Ōtomo (autore in precedenza del monumentale manga omonimo) diede invece a questa epica dispotica un intreccio complesso, violenza grafica, immagini allucinate, umorismo nero.

Così una colonna sonora ipnotica e ricca di percussioni, un’attenzione artigianale al dettaglio, è un dialogo perfettamente sincronizzato ricco di assorte meditazioni sull’ evoluzione, l’illuminazione e la distruzione di massa. 

Kuwata in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Quando esplose Akira, la civiltà si era sgretolata, ma quando esplose akira (anch’esso il 16 luglio 1988, data della prima cinematografica) la sua onda d’urto aprì la strada ad anime di altissimo livello come La città incantata (2001) e Ghost in the shell (1995) e fissò tutt’un tratto un nuovo importante standard nell’arte dell’animazione.

E già solo l’impegno produttivo è testimone di questa rivoluzione: il primo caso di collaborazione tra più studi di animazione di queste proporzioni, con 1.300 animatori provenienti da 50 studi diversi al lavoro su un unico progetto. Inoltre, si utilizzarono una serie di tecniche piuttosto innovative all’epoca per l’uso della CGI e del doppiaggio.

Insomma, con l’uscita di questo film inizia l’ascesa dell’animazione giapponese.

Le citazioni di Akira

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Le citazioni e omaggi ad Akira nei prodotti successivi si sprecano.

Uno dei più interessanti è l’evidente omaggio della serie cult Stranger things: oltre ai vari riferimenti visivi, la storia di Eleven e come messa in scena nelle sue dinamiche – soprattutto nella quarta stagione – ricorda tantissimo quella di Akira per quanto riguarda la parte degli esperimenti sui bambini e lo scopo degli stessi.

Anche i poteri di Tetsuo inizialmente sono molto simili.

Un altro riferimento degno di nota – e che racconta molto bene l’importanza di Akira nel panorama occidentale – si trova nella puntata L’astuccio del cacciatore (4×12) di South Park: la citazione all’anime cult viene affiancata a riferimenti ad altre pellicole importantissime per il genere, 2001: Odissea nello spazio (1968) e Terminator (1984).

Ma è in primo luogo Akira a citare un cult della fantascienza: la Neo Tokyo del film non è altro che una versione nipponica della Los Angeles di Blade Runner (1982), di cui ricorda le atmosfere…

Come Akira cambiò il mondo

A cura di Carmelo

Prima di Akira, gran parte degli occidentali credeva che l’animazione giapponese consistesse in cartoni animati televisivi come Speed racer (1967-68), roba per bambini tecnicamente frettolosa e malamente doppiata.

Ma il regista Katsuhiro Ōtomo (autore in precedenza del monumentale manga omonimo) diede invece a questa epica dispotica un intreccio complesso, violenza grafica, immagini allucinate, umorismo nero.

Così una colonna sonora ipnotica e ricca di percussioni, un’attenzione artigianale al dettaglio, è un dialogo perfettamente sincronizzato ricco di assorte meditazioni sull’ evoluzione, l’illuminazione e la distruzione di massa. 

Kuwata in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Quando esplose Akira, la civiltà si era sgretolata, ma quando esplose akira (anch’esso il 16 luglio 1988, data della prima cinematografica) la sua onda d’urto aprì la strada ad anime di altissimo livello come La città incantata (2001) e Ghost in the shell (1995) e fissò tutt’un tratto un nuovo importante standard nell’arte dell’animazione.

E già solo l’impegno produttivo è testimone di questa rivoluzione: il primo caso di collaborazione tra più studi di animazione di queste proporzioni, con 1.300 animatori provenienti da 50 studi diversi al lavoro su un unico progetto. Inoltre, si utilizzarono una serie di tecniche piuttosto innovative all’epoca per l’uso della CGI e del doppiaggio.

Insomma, con l’uscita di questo film inizia l’ascesa dell’animazione giapponese.

Le citazioni di Akira

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Le citazioni e omaggi ad Akira nei prodotti successivi si sprecano.

Uno dei più interessanti è l’evidente omaggio della serie cult Stranger things: oltre ai vari riferimenti visivi, la storia di Eleven e come messa in scena nelle sue dinamiche – soprattutto nella quarta stagione – ricorda tantissimo quella di Akira per quanto riguarda la parte degli esperimenti sui bambini e lo scopo degli stessi.

Anche i poteri di Tetsuo inizialmente sono molto simili.

Un altro riferimento degno di nota – e che racconta molto bene l’importanza di Akira nel panorama occidentale – si trova nella puntata L’astuccio del cacciatore (4×12) di South Park: la citazione all’anime cult viene affiancata a riferimenti ad altre pellicole importantissime per il genere, 2001: Odissea nello spazio (1968) e Terminator (1984).

Ma è in primo luogo Akira a citare un cult della fantascienza: la Neo Tokyo del film non è altro che una versione nipponica della Los Angeles di Blade runner (1982), di cui ricorda le atmosfere…

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Metropolis – Riscrivere un classico

Metropolis (2001) di Rintarō è un lungometraggio animato nipponico, ispirato al classico della cinematografia omonimo del 1927.

Come la maggior parte dei prodotti di questo tipo, ebbe un costo sostanzioso (¥1.5 miliardi) e un incasso misero (¥ 100 in Giappone e 4 milioni di dollari in tutto il mondo).

Di cosa parla Metropolis?

Il giovane Kenichi e lo zio Shunsaku Ban sono sulle tracce in uno scienziato criminale, che sembra coinvolto in uno strano progetto che ha come mandante il misterioso Duke Red…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Metropolis?

Una scena di Metropolis (2001) di Rintarō

Assolutamente sì.

Oltre a racchiudere al suo interno concetti di grande interesse e profondità, Metropolis riesce anche ad essere una pellicola piacevolissima, con una costruzione intrigante e una regia piena di fascino.

Si viene infatti facilmente coinvolti in dinamiche anche piuttosto semplici, ma in una costruzione della storia e della mitologia davvero avvincenti.

Un recupero obbligato.

Vivere di contrasti

Una scena di Metropolis (2001) di Rintarō

Metropolis è una pellicola che vive di contrasti.

Lo stile di animazione è piuttosto peculiare, e sembra molto più tipico di prodotti rivolti ad un pubblico infantile – per certi versi mi hanno ricordato i disegni del classico per ragazzi Tintin.

Tuttavia, la regia e l’animazione sono in questo senso davvero sorprendenti, riuscendo a mettere in contrasto la delicatezza dei disegni dei protagonisti con la crudezza dei temi trattati.

Non mancano infatti diverse scene di morte e violenza, anche piuttosto esplicite – fra tutte la morte di Pero, con la testa spappolata per terra. E così, più in generale, la trattazione dei robot, uccisi continuamente senza pietà e trattati alla stregua di schiavi.

Un contrasto piuttosto peculiare, che non mi aspettavo.

Una regia sorprendente

Una scena di Metropolis (2001) di Rintarō

La regia è stato l’elemento forse più sorprendente della pellicola.

Una messinscena piuttosto variegata, che gioca molto sui già detti contrasti, con un uso magistrale delle luci e della costruzione della tensione. Particolarmente avvincente sono le scene di duello, con piccoli tocchi registici che riescono a tenere per tutto il tempo col fiato sospeso.

Una regia inoltre che lascia profondamente respirare il mondo trattato, vivendo di tantissimi particolari e scene piene di vita.

Raccontare il mondo

Una scena di Metropolis (2001) di Rintarō

Quando si vuole raccontare un mondo nuovo, soprattutto se complesso e intricato, si possono percorrere diverse strade.

Metropolis sceglie una strategia simile a quella de La compagnia dell’Anello (2001): inserire piccole ma significative didascalie all’interno dei dialoghi stessi dei personaggi, che permettono allo spettatore di muoversi con facilità all’interno del mondo raccontato.

E, anche di più, costruendo molto bene la mitologia e i misteri del film, svelandoli a poco a poco allo spettatore quanto ai protagonisti stessi, che si vedono fin da subito interrogare sulle questioni principali della storia, rimanendo all’oscuro per la maggior parte della pellicola.

Il mito della Torre di Babele

Il mito della Torre di Babele è più volte citato all’interno della pellicola.

Una costruzione che si perde nella leggenda, ma che in generale – metaforicamente parlando – racconta la superbia umana nel voler sfidare i suoi limiti e gli dei in particolare.

In Metropolis questa metafora è riletta intrecciandosi col tema sempreverde della fantascienza moderna: la macchina che si rivolta – e supera – il suo creatore, in maniera anche simile a Ghost in the shell (1995).

Così il Duca Red vuole superare i limiti umani mettendo a capo della sua creazione un superumano, capace di controllare ogni arma e ogni elemento, così da poter distruggere ogni cosa, per – secondo la sua folle idea – ricreare e migliorare.

Il confronto con Metropolis (1927)

Nonostante Metropolis sia un film a sé stante, non mancano ovviamente i riferimenti all’opera originale di Fritz Lang.

Oltre alla costruzione della città simile – sempre distinta in tre livelli – in entrambe le pellicole si cita il mito di Babele, ed in entrambe un’enorme torre domina la città.

Altrettanto simile è la scena della rivolta e in generale la rappresentazione della classe più umile e dei robot trattati come schiavi: sicuramente l’ispirazione è la famosissima scena degli operai che vanno al lavoro, muovendosi quasi come automi.

In ultimo, una citazione visiva: la scena del risveglio di Tima avviene con le stesse dinamiche del risveglio della Maria-robot nel film del 1927:

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Paprika – Il potere dell’incubo

Paprika (2006) di Satoshi Kon è l’ultimo lungometraggio animato diretto da questo visionario regista, autore di splendidi prodotti dal sapore onirico come l’indimenticabile Perfect blue (1997).

A fronte di un budget molto esiguo (300 milioni di yen, circa 2,6 milioni di dollari), incassò meno di un milione in tutto il mondo.

Niente di sorprendente, visto il tipo di prodotto.

Di cosa parla Paprika?

In un futuro non troppo lontano, il DC Mini, dispositivo che permette di vedere i propri sogni, viene rubato. E il mistero è piuttosto fitto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Paprika?

Assolutamente sì.

Se avete visto l’opera prima di Satoshi Kon – Perfect blue – avete un’idea del tipo di film che vi troverete davanti. In questo caso il regista gioca a carte scoperte, introducendoci in una storia che fin dalle prime battute gioca profondamente con l’elemento onirico.

Un prodotto che lavora per sottrazione, in cui è facile perdersi.

Ma che vale assolutamente la pena di scoprire.

Il doppio

Una delle maggiori tematiche di Paprika è il doppio.

La maggior parte dei personaggi in scena vivono di doppi: Paprika e Chiba, Tokita e Himuro, Konakawa e il misterioso amico del suo passato. E in qualche modo ogni personaggio si definisce tramite la sua controparte.

Anzitutto Tokita, un bambinone geniale che si sente fondamentalmente incompreso, ma che ricerca la sua controparte in Himuro, a cui assomiglia anche fisicamente. Con il suo perduto amico vorrebbe ritrovare una connessione che sembra ormai recisa, ma che lui sente ancora molto vicina.

In questo senso interessante il parallelismo fra il caos della casa di Himuro e lo stesso nella casa di Tokita: anche se con giocattoli diversi, il comportamento infantile è sempre lo stesso.

Discorso più complesso quello riguardo al Detective Konakawa.

L’uomo sembra costantemente vittima di sé stesso – come ben testimonia il sogno ricorrente in cui viene aggredito da personaggi con la sua faccia – e in qualche modo sente di aver ucciso un suo alter ego, una parte di sé, ovvero il suo vecchio amico venuto a mancare.

In realtà, prendendo consapevolezza della sua mancanza, Konakawa riesce a riabbracciare quella parte di sé e del suo passato che aveva insistentemente seppellito.

Paprika e Chiba

Ma lo sdoppiamento più profondo è quello fra Paprika e Chiba.

Paprika è una ragazza frizzante e piacevole, che si veste di colori brillanti; al contrario Chiba è una donna molto più austera e riflessiva, caratterizzata da colori più scuri e spenti. Le due sono in qualche modo una la parte dell’altra, anche se si presentano come sostanzialmente indipendenti.

E infatti molto spesso Chiba si scontra con il suo alter ego, cercando di sottometterlo, ma riuscendo a raggiungere la sua forma completa solamente quando davvero lo assorbe, lo accetta dentro di sé, diventando un essere capace di sconfiggere Tokita.

E proprio quella scena offre un ulteriore spunto.

La pluralità dell’uomo

Oltre al doppio, in Paprika si racconta la pluralità dell’individuo.

Abbastanza rivelatorio in questo senso il momento in cui Paprika entra nel famoso quadro rappresentante la sfida di Edipo, e prende le vesti della Sfinge. La Sfinge è già di per sé un essere che racchiude una pluralità – donna, leone e uccello – che ben si riassume nel famoso indovinello:

Chi è contemporaneamente bipede, tripede e quadrupede?

Ovvero l’uomo, all’interno delle diverse fasi della sua vita.

E infatti troviamo diversi riferimenti a questa pluralità all’interno del film, a cominciare proprio da Tokita, più volte definito un genio nel corpo di un bambino, ma in particolare nella scena sopracitata in cui Chiba accetta Paprika dentro di sé e diventa un neonato, poi una ragazza, fino a diventare una donna.

L’inviolabilità del sogno

Le motivazioni di Tokita sono meno banali di quanto potrebbero apparire.

Se apparentemente potrebbe sembrare che abbia un sogno di potenza tipico del più classico villain, in realtà a guidarlo effettivamente sono i suoi più profondi principi, che riguardano l’inviolabilità del mondo del sogno.

Come ben spiega fin dalla sua prima apparizione, il Presidente è profondamente contrario a questa volontà di onnipotenza dell’uomo, che cerca di controllare qualcosa che dovrebbe essere assolutamente incontrollabile, perché in qualche modo irrazionale.

E solo in seguito sogna di impossessarsi del potere dell’onirico.

La potenza dell’onirico

L’elemento onirico è esplosivo, strabordante, inarrestabile.

Ed è ben rappresentato dalla parata in continua espansione, in cui ogni personaggio prima o poi viene coinvolto. Una parata che non ha delle regole, che sembra avere una vita propria e che raccoglie ogni tipo di elemento fantastico, anche il più surreale e inimmaginabile.

E questo potere fa davvero gola a Tokita, che riesce progressivamente a superare la sua disabilità in vari modi – trasformando le sue gambe in radici, prendendo il possesso del corpo di Osanai e infine esplodendo nel suo massimo potenziale all’interno del sogno finale.

Chi è Paprika?

Se volessimo semplificare molto, potremmo dire che Paprika è semplicemente l’alter ego onirico di Chiba.

Ma Paprika è molto più di questo.

Come vediamo fin dall’inizio, è una figura che non vive assolutamente in funzione di Chiba – anche se forse è Chiba stessa che l’ha creata. Anzi, è un personaggio del tutto autonomo, che riesce a muoversi all’interno delle varie realtà – non solamente quelle oniriche – e in qualche modo essere sempre presente.

Possiamo semplicemente dire che è un elemento virtuale?

Non proprio.

Paprika è quasi come se fosse un’entità, che vive all’interno del sogno e si muove liberamente all’interno dello stesso, potendo trasformarsi a suo piacimento. Un elemento oltre la realtà più materiale, un fantasma inafferrabile e indefinibile.

Cosa rappresenta la bambola?

L’elemento più enigmatico del film è l’inquietante bambolina che si vede per la prima volta a casa di Himuro, che ha sul comodino anche una foto che la rappresenta.

Un personaggio che non parla mai, se non scoppiando nella risata zuccherina sul finale, quando diventa gigantesca. A livello materiale, probabilmente non è né più né meno che una bambola, che Himuro e Tokita avevano visto all’interno del parco di divertimenti abbandonato.

A livello simbolico, può essere facilmente letta come la rappresentazione del sogno stesso, il sogno delirante che trasforma degli elementi della realtà, magari anche appartenenti alla sfera infantile, in qualcosa di assurdo e mostruoso.

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Perfect blue – Il sogno proibito

Perfect blue (1997) di Satoshi Kon è un lungometraggio animato di produzione nipponica, dalle forti tinte thriller, quasi horror. Un film che mi ha profondamente sorpreso, vedendolo totalmente a scatola chiusa.

A fronte di un budget contenuto (90 milioni di YEN, circa 700 mila dollari), incassò circa lo stesso, con una distribuzione mista fra cinema e TV anche negli anni successivi.

Di cosa parla Perfect blue?

Mima è una idol, parte del gruppo di J-pop CHAM!, che decide di cambiare carriera e diventare un’attrice. Una scelta più dolorosa del previsto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Perfect blue?

Assolutamente sì.

Perfect blue è una sorpresa continua, con una costruzione magistrale che coinvolge passo passo lo spettatore in un vortice di follia, in cui ci si ritrova totalmente spaesati davanti ad un intrecciarsi fra realtà e finzione semplicemente sconvolgente…

Il racconto di una realtà lontana dall’immaginario occidentale, in maniera dolorosamente realistica, oltre ad essere incredibilmente avanguardistica nella rappresentazione della figura femminile, soprattutto in una società restrittiva come quella nipponica…

Il fenomeno delle idol è stato (ed è tuttora) piuttosto controverso in Giappone quanto in Corea del Sud.

Si tratta solitamente di adolescenti che hanno un boom di popolarità – solitamente passeggero – come attrici, modelle, ma, soprattutto, cantanti. Il loro successo non è tanto per il loro talento, ma per il loro aspetto fisico, che curano spasmodicamente.

Il pubblico di riferimento delle idol è principalmente maschile e sente di avere un rapporto molto personale con i loro idoli, anche proprio al di là della loro bravura.

L’aggancio ingannevole

Guardare Perfect blue a scatola chiusa è davvero un’esperienza.

A primo impatto sembra un film molto innocuo, con una storia raccontata dal punto di vista ingenuo e dolcissimo della protagonista, che si fa trascinare inevitabilmente in una nuova vita e una nuova carriera, fiduciosa e totalmente ignara delle conseguenze.

Il primo tassello dell’orrore è la scoperta del sito La stanza di Mima, che svela come la protagonista sia fondamentalmente vittima di stalking continuo e ossessivo, il cui colpevole è in realtà stato già rivelato dalle primissime sequenze.

E il film poteva già essere angosciante così.

Ma è solo il primo passo.  

Una storia a tre

La storia di Perfect blue solo apparentemente ha due attori principali – la vittima e l’antagonista. In realtà è articolata in un terzetto di personaggi, le cui identità vengono rivelate a mano a mano.

E che soprattutto si scambiano le vesti e i ruoli in maniera imprevista.

L’ossessione

Mamoru Uchida – o Me-Mania – è apparentemente l’unico vero antagonista del film.

Il suo aspetto grottesco è già di per sé indicativo della sua personalità, e il suo ruolo da stalker lo rende l’antagonista perfetto: un uomo profondamente innamorato non tanto di Mima, ma dell’immagine idealizzata che coltiva nella sua mente.

Infatti, come all’inizio il diario che scrive della sua idol è basato su eventi reali, più la pellicola procede e più le frasi sul sito raccontano i pensieri che Mamouru vorrebbe che la ragazza provasse, nel totale disprezzo della Mima falsa.

Perché la vera Mima, con cui dialoga continuamente, non farebbe mai certe cose…

Il pentimento

Rumi è apparentemente la prima e più importante alleata di Mima.

In realtà si trasforma in poco tempo nel suo peggior incubo, nutrito dall’ossessione della donna nel voler proteggere la figura della protagonista. Ma Mima non è obbediente, non sceglie le vie più sicure per mantenere intatta la sua bellezza e purezza agli occhi del pubblico.

Nonostante tutti i tentativi di Rumi.

E allora la donna si perde in un delirante tentativo di ristabilire l’ordine, sentendosi per estensione colpita dalle scelte di Mima, in cui rivede profondamente sé stessa. E così sceglie infine di prenderne il posto, come la vera Mima, il vero idolo del pubblico.

La vergogna

Mima è il primo nemico di sé stessa.

È molto più ossessionata dalla sua immagine di quanto è disposta ad ammettere, perennemente perseguitata dal suo stesso fantasma, che alla fine si concretizza nella figura di Rumi e nella sua ossessione.

Ed è tanto più interessante quanto la protagonista non è davvero vergognosa di per sé, non è a disagio né il suo personaggio è umiliato per le sue scelte. Anzi, si sente molto più libera, uscita dall’opprimente seminato di idol.

Infatti, il problema è esterno.

L’icona intoccabile

Con trame di questo tipo, sarebbe stato veramente facile prendere la via sicura dell’umiliare il personaggio femminile per le sue scelte, raccontarlo come vittima di una società in cui l’ipersessualizzazione è la chiave del successo.

Invece è esattamente il contrario.

In Perfect blue Mima si sente libera e sicura delle sue scelte, prendendo anche strade inaspettate e socialmente poco accettabili, in cui racconta in maniera sconvolgente e spregiudicata la sua sessualità.

Ed è davvero potente in questo senso la scena dello stupro, che dovrebbe essere drammatica e straziante, ma che in realtà è ben contestualizzata dallo scambio fra Mima e l’attore che la starebbe violentando sul set.

E si rivela infine una scena davvero potente perché mostra le vere capacità di Mima al di fuori dell’opprimente ruolo della idol.

Cosa significa il titolo di Perfect blue?

A primo impatto il titolo potrebbe far riferimento ad un concetto in realtà proprio della lingua inglese, in cui solitamente il termine blue viene associato alla tristezza, come quella della protagonista della pellicola.

In realtà in giapponese il colore blu fa riferimento alla purezza e all’energia femminile, il punto di arrivo proprio delle figure delle idol.

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Ghost in the shell – La profondità travestita

Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii è un lungometraggio animato giapponese, uno dei più grandi cult dell’animazione orientale. Un prodotto che si cercò in seguito di riportare sullo schermo con il live action omonimo del 2017, che fu sommerso dalle critiche.

A fronte di un budget abbastanza contenuto di appena 2 milioni di dollari (330 milioni di yen), incassò comunque pochissimo (circa 10 milioni), ma divenne col tempo un cult, rientrando per così dire nelle spese grazie agli incassi dell’home video (43 milioni in tutto).

Un ringraziamento speciale a Carmelo, senza cui questa recensione non avrebbe potuto esistere.

Di cosa parla Ghost in the shell?

In un futuro lontano ma probabile, l’uomo si è sempre di più fuso con le macchine. Ma le divisioni politiche sono sempre le stesse…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ghost in the shell?

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Assolutamente sì.

Ghost in the shell è un film incredibile da ogni punto di vista.

Il reparto tecnico e artistico è di una bellezza che lascia senza fiato, sia nelle animazioni perfette, nei disegni e nel character design meravigliosamente pensato.

Inoltre, questa pellicola è di fatto una riflessione profonda e filosofica travestita da film action e cyberpunk. Una serie di concetti che magari non arriveranno immediatamente alla prima visione, ma che sono frutto di una scrittura profondamente immensa.

Non un film, ma un’esperienza.

Tutto cambia…

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Il mondo raccontato in Ghost in the shell è assolutamente visionario, se non anche molto probabile.

Da anni i futurologi ipotizzano un futuro neanche troppo lontano in cui l’uomo vivrà sempre più compenetrato con la tecnologia.

Ma, all’interno di mondo in cui anche una macchina può essere considerata un essere vivente, l’umanità cerca di conservare la sua identità tramite l’anima, o il ghost – o il concetto della stessa – quello scintillio di consapevolezza che distingue l’uomo dalla mera macchina.

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Un concetto su cui la pellicola si interroga continuamente, in primo luogo attraverso il personaggio di Motoko, che sente di avere un’anima, si sente umana solamente perché viene trattata come tale.

Ma la risposta al suo dilemma arriva in un certo senso tramite Project 2051: un essere senza un corpo, senza un’anima, che esiste solo virtualmente, ma che ha acquisito consapevolezza, ambendo allo status di essere vivente al pari degli uomini.

E, allora, cosa è l’uomo e cos’è la macchina?

…niente cambia

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Davanti all’immensità di questi cambiamenti e avanzamento tecnologici, l’uomo non cambia la sua natura.

Continuano le divisioni politiche in un intricato gioco di potere che mi ha ricordato per molti versi 1984 (1949) e L’uomo nell’alto castello (1962). Con la sola differenza che la tecnologia avanza più veloce dell’uomo stesso, diventando sostanzialmente incontrollabile.

Un elemento alla base di tutta la fantascienza moderna: la macchina che si rivolta contro il suo stesso creatore.

Fermarsi

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Una particolarità della pellicola è che si ferma continuamente.

Diverse manciate di secondi dedicate a soffermarsi su splendide sequenze di grande potenza visiva e artistica, impreziosite da musiche lente e sibilline che raccontano un mondo lontano, eppure così vicino alla contemporaneità.

E gli infiniti momenti in cui ci si arresta, senza una parola, ad osservare i personaggi in inquadrature che sembrano delle opere d’arte.

E una continua e intensa riflessione, che tocca tantissimi concetti e li riesce organicamente a riflettere all’interno di pellicola che si propone come action, ma che di action ha ben poco.

Riflettiamo su Ghost in the shell

All’interno della pellicola si riprendono diversi concetti filosofici di grande interesse e profondità – che ho tentato di spiegare nella mia umile ignoranza.

L’angoscia singolarizzante

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Uno dei concetti più forti della pellicola si riassume nella cosiddetta angoscia singolarizzante di Heidegger.

Un processo di consapevolezza dell’uomo di fronte al nulla, in cui prova una profonda angoscia davanti alla possibilità di un’esistenza inautentica, in cui non può emergere, ma rimanere parte di una massa indistinta.

E questo lo spinge invece verso una singolarizzazione, ovvero una ricerca di un’identità che lo distingua dagli altri

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Questo concetto ben si articola nella lunga riflessione di Motoko.

Insieme a Batou, la protagonista riflette su quanto, nonostante sia forse uno degli esseri più avanzati e con l’accesso ad un numero virtualmente illimitato di informazioni, senta comunque di non aver espresso il suo pieno potenziale e che lo stesso sia lì, a portata di mano, ma irraggiungibile.

E questo sarà possibile in certa misura fondendosi con Project 2051, e creando qualcosa di nuovo e teso verso un miglioramento e un’evoluzione davvero soddisfacente.

E parlando di evoluzione…

Il darwinismo

Mokoto e Project 2051 in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Tutto il monologo di Project 2051 a Motoko è un riferimento alla teoria darwinista.

All’interno della teoria di Darwin l’evoluzione umana (o di una specie in questo caso) si articola in una serie di cambiamenti, per cui il cambiamento più forte e adatto all’ambiente è quello che domina.

All’interno del suo monologo il Puppet Master racconta come il miglioramento della specie e dell’individuo segua la strada del cambiamento, ma anche del sacrificio, in cui gli elementi devono unirsi per sopravvivere e raggiungere una condizione superiore.

La via di Damasco

 Project 2051 in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Il percorso della protagonista può anche essere associato a La via di Damasco, riguardante la conversione di San Paolo.

Prima di essere un discepolo di Cristo, il santo era un persecutore di cristiani per mano dei giudei gli ebrei della sinagoga. Un giorno una luce lo fece cadere da cavallo e l’uomo sentì la voce di Cristo, che gli chiedeva perché perseguitava lui e i cristiani.

Così avvenne la sua conversione.

Allo stesso modo Motoko, dopo aver perseguitato Project 2501, si connette alla sua coscienza e si fa convincere dalle sue parole a cambiare idea e ad abbracciare la sua visione – e la sua essenza.

Così come San Paolo accetta Cristo dentro di sé, così la protagonista accetta quello che prima pensava essere il suo nemico.

Il problema del live action di Ghost in the shell

A cura di Carmelo

Nel 2017 si cercò di produrre un live action della storia, con risultati disastrosi sotto ogni punto di vista.

Oltre alle accuse (dovute) di whitewashing – che compromisero per un certo periodo la carriera di Scarlett Johansson – il film fu un disastro di critica e pubblico.

E per ottimi motivi.

Anzitutto, le grafiche e scenografie sono pacchiane e fastidiose a livello visivo: ologrammi giganti futuristici a scopo pubblicitario – lontani anni luce da quelli di classe di Blade Runner (1982) – e luci epilettiche.

L’americanizzazione

Scarlett Johansson in una scena di Ghost in the shell (2017) di Rupert Sanders

Ma la mancanza più grave è la voluta americanizzazione dell’anime di Masamune Shirow per renderlo fruibile al pubblico medio americano.

In questo senso, la filosofia e personalità dei personaggi sono ridotti a frasi da baci perugina, con alcuni personaggi resi delle pure macchiette che si vedono per tre minuti scarsi solo per aiutare i protagonisti.

E l’antagonista, a differenza dell’anime, è il villain stereotipato e scialbo che si trova in quasi tutti i film di fantascienza e cyberpunk.

Così la storia d’amore tra i personaggi è ridicola e scontata, con un sentimentalismo smielato fra personaggi inesistenti nel manga (con un loro perché narrativo), che ricordano la brutta versione di Io Robot (2004) con Will Smith.

Scarlett Johansson in una scena di Ghost in the shell (2017) di Rupert Sanders

Per fortuna che hanno inserito Takeshi Kitano, attore nipponico, messo lì per ricordare che il film si basa su un Manga, ovvero una forma d’arte orientale.

E cercando sempre di attirare il pubblico dei fan, è stata inserita una gran quantità di fanservice piuttosto fastidioso, che serve solamente per far godere i fan del manga – ma che a me ha dato solo fastidio.

Le scene violente, diventate iconiche nel Manga, sono state o censurate o trasformate in versione PEGI 6, risultando in una comicità involontaria.

Scarlett Johansson in una scena di Ghost in the shell (2017) di Rupert Sanders

Secondo questo stesso concetto, le logiche narrative più che ricordare Ghost in the Shell ricordano la brutta versione di Dragon Ball (in particolare la storia dei Cyborg C18 e C17).

L’importante messaggio dell’anime è ridotto ad una esaltazione dell’umanità in pieno stile qualunquista simil Adriano Celentano.

Insomma, se fosse stato un film cyberpunk generalista qualsiasi, sarebbe rimasto sulla soglia del guadabile.

Ma, avendo come titolo Ghost in the shell, non è assolutamente accettabile.

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Strange World – Ambientalismo generazionale

Strange world (2022) di Don Hall è un lungometraggio animato di genere avventura, con un forte elemento fantastico-fantascientifico e una piccola morale molto interessante.

Peccato che nessuno ne stia parlando.

Il film è stato infatti un disastro commerciale: a fronte di una produzione piuttosto importante di 180 milioni di dollari, ne ha incassati ad oggi 66 in tutto il mondo.

E ormai è sbarcato su Disney+ e la sua vita in sala è finita…

Di cosa parla Strange world?

Jaeger Clade e suo figlio Searcher sono due avventurieri che stanno per scoprire cosa si nasconde dietro le montagne che circondano il loro piccolo mondo. Ma qualcosa di più interessante si trova su quelle montagne, che porterà le loro strade a dividersi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Strange world?

In generale, sì.

Strange world è un film fatto apposta per essere visto con tutta la famiglia, con un cast di personaggi piuttosto corale che mette in scena tre diverse generazioni, e i rapporti che le legano.

Oltre a questo, è una piccola avventura molto simpatica e piacevole, che sicuramente potrebbe allietare un pomeriggio in compagnia, senza particolari difetti. Più che altro il grande problema del film è il fatto che è molto dimenticabile

Ed è solo uno dei motivi del suo insuccesso…

Perché Strange world è un flop?

Strange world è stato un disastro commerciale.

Si potrebbe pensare che questo insuccesso sia dovuto unicamente alla scarsissima campagna marketing e alla recente antipatia della Disney per i prodotti animati al cinema, all’interno di una crisi del genere tutto.

Sia Red (2022) quanto Lightyear (2022) sono testimoni di questa tendenza.

Tuttavia, secondo me non è l’unico motivo.

La Disney si è trovata fra le mani un prodotto non particolarmente forte, per vari motivi: per quanto sia appunto un prodotto piacevole e davvero adatto al target familiare, è purtroppo davvero dimenticabile e non è così originale e memorabile sotto nessun punto di vista.

Questo sia per la trama molto semplice, ma sopratutto per la mancanza di canzoni: come mi ha ben fatto notare il caro collega di @cangius.movie, la parte musicale resta molto più facilmente in testa ed è parte del successo di un film Disney.

E Encanto (2021) lo testimonia perfettamente.

Per cui, davanti ad un prodotto non molto forte, che forse sapevano anche non avrebbe avuto un gran profitto, hanno deciso di non promuoverlo e scaricarlo il prima possibile su Disney+.

Con le conseguenze che abbiamo visto.

Un film per tutta la famiglia

Strange world è un film confezionato alla perfezione per colpire i diversi target: il bambino o ragazzino, il padre e anche il nonno, raccontando i conflitti e rapporti che definiscono queste tre generazioni.

Per quanto in qualche misura le risoluzioni sembrano un po’ affrettate e semplicistiche, colpiscono indubbiamente al cuore e raccontano delle dinamiche in cui un po’ tutti possono ritrovarsi, ed essere per questo coinvolti e commossi.

E la rappresentazione del conflitto generazionale è tanto più interessante in riferimento al tema di fondo.

Ambientalismo intergenerazionale

Il tema di fondo diventa tanto più evidente più ci si avvicina al finale.

Strange world vuole in realtà parlare di ambientalismo, di vivere in armonia con il pianeta che abbiamo colonizzato senza pietà per millenni e del male che gli stiamo facendo con la nostra scorsa allo sfruttamento selvaggio.

E questo tema si articola nei tre personaggi protagonisti.

Jaeger Clade rappresenta la generazione più vecchia e con una volontà distruttiva: come si vede, il personaggio si fa largo nell’ambiente in maniera aggressiva e mettendo solamente la propria persona al centro, considerando nemico ogni elemento che gli si pone davanti.

Più morbido il comportamento di Searcher Clade, che rappresenta la generazione fra i Millennial e la Generazione X, che comunque sfrutta l’ambiente in cui vive, nonostante questo provochi dei danni allo stesso.

E si sente anche nel giusto nel farlo.

In quest’ottica il Pando può essere associato a tutte le risorse della Terra che sfruttiamo all’inverosimile e al conseguente inquinamento dovuto all’ipersfruttamento e all’utilizzare tutto unicamente a nostro vantaggio.

La generazione di svolta è quella di Ethan, che fin da subito si sente in colpa nello sterminare esseri viventi, per quanto aggressivi, e che alla fine riesce insieme al padre a comprendere la verità sulla situazione in cui si trova e, di conseguenza, a salvare il proprio mondo.

Con un finale in cui le generazioni si ricongiungono in un messaggio di speranza.

Una rappresentazione positiva?

Strange world ha fatto un certo rumore per la rappresentazione del protagonista come esplicitamente omosessuale.

Durante la pellicola Ethan racconta più volte di essere interessato a Diazo, e tutti i personaggi accettano pacificamente, anzi felicemente, questa potenziale relazione. E tutta la rappresentazione del loro rapporto è molto tenera e naturale.

Tuttavia, io non sono del tutto convinta.

Mi rendo perfettamente conto che stiamo parlando della Disney che va con i piedi di piombo su questo argomento, ma a me sembra che ancora non sia abbastanza e che forse non sia la migliore rappresentazione auspicabile.

Il mio dubbio sta anzitutto nel character design sia di Ethan che di Diazo: volevano dare una rappresentazione del maschile che si sente più libero di avere una aspetto non rigidamente e stereotipicamente di genere, oppure stavano semplicemente giocando con uno stereotipo?

E qui sta tutta la differenza.

Oltre a questo, nonostante alla fine abbiamo una relazione, non si vede mai che si scambiano effusioni, a differenza di quanto succede piuttosto esplicitamente fra Searcher e Meridian.

Io personalmente, più che una buona rappresentazione, vedo ancora dei contentini e delle mani messe avanti…

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Frozen – Il mediocre di successo

Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee è uno dei lungometraggi animati più redditizi della storia della Disney. Un prodotto che ebbe infatti un successo immenso, tanto che alcune parti del film sono ancora oggi assolutamente iconiche.

Per capire il tipo di riscontro che ebbe, a fronte di un budget di appena 150 milioni di dollari, incassò quasi 1,3 miliardi in tutto il mondo.

Se avete vissuto nel periodo della frozen-mania saprete fino a che punto eravamo bombardati dalle infinite riproposizioni di Let it go e affini, da cui io stessa fui coinvolta. Tuttavia, andando a guardare il prodotto con un giudizio più analitico, e non di pancia, emergono tutte le crepe.

Di cosa parla Frozen?

Elsa e Anna sono due sorelle in un regno immaginario dal sapore germanico, e vivono un’infanzia spensierata. Se non fosse che Elsa possiede dei poteri apparentemente incontrollabili…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Frozen?

Anna (Kristen Bell) e Elsa (Idina Menzel) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

No.

E potremmo chiuderla qui.

Ammetto di avere un malcelato fastidio per questa pellicola, che mi portò al tempo a vederlo due volte al cinema, non riuscendo per nulla a capire l’entusiasmo che aveva suscitato. Lo trovai un film assolutamente normale, anzi molto difettoso, una brutta copia di Rapunzel (2010), da cui pescava a piene mani, in maniera anche piuttosto maldestra.

Col tempo, mi resi conto di quanto questo prodotto dovesse il suo successo a pochi elementi di vincenti, che oscurarono tutto il resto. Per me è un film mediocre, mediocrissimo, ma se proprio volete vederlo, non aspettatevi gran che.

Sicuramente i bambini lo ameranno.

Elsa: un’adulta irrequieta

Elsa (Idina Menzel) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

Elsa non è un bel personaggio.

E con questo intendo dire che la sua figura è stata particolarmente esaltata come un grande passo avanti per la Disney a livello di rappresentazione dei personaggi femminili, dal momento che è forse la prima che non abbia una storia romantica all’interno del suo percorso.

Tuttavia questo non significa che sia un passo veramente avanti né un buon esempio per il target di riferimento.

Infatti il problema non è tanto avere o meno un interesse romantico, ma essere definito dallo stesso: protagoniste come Mulan e Rapunzel vivono indipendentemente dalle loro storie romantiche, e hanno una crescita emotiva molto più interessante.

Elsa è infatti un’adulta irrequieta, prigioniera (per motivi che poi affronteremo) della sua stessa famiglia, e che non è capace di vivere serenamente la sua vita e che, da un momento all’altro, perde la testa e lascia totalmente a briglia sciolta i suoi poteri.

E tutta la sua storia manca di un’evoluzione emotiva degna di questo nome.

I problemi non risolti

Elsa (Idina Menzel) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

L’evoluzione emotiva di Elsa dovrebbe portare alla risoluzione di un profondo conflitto interiore che la rendeva incapace persino di uscire dalla sua stanza.

Tuttavia questo prende anzitutto una strada del tutto negativa, dove lei sembra quantomeno risolvere (senza che questo abbia una chiara spiegazione) il valore distruttivo dei suoi poteri, rendendoli invece positivi e costruttivi.

Ma nulla si risolve dal punto di vista emotivo.

E infatti la troviamo ancora piuttosto tormentata sia quando Anna la va a trovare, sia dopo, con intere scene in cui mostra la sua irrequietezza. E la risoluzione di tutti i suoi problemi sembra l’accettazione dell’amore della sorella e, per estensione, l’accettazione di tutti gli altri.

Ma senza che di fatto ci sia stata una vera evoluzione o un vero percorso, se non una sorta di terapia d’urto con la morte della sorella. Senza che sappiamo nulla sull’origine dei poteri, di come infine riesca a controllarli.

Nulla.

Anna: il bilanciamento drammatico

Anna (Kristen Bell) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

Anna è di fatto la vera protagonista della pellicola.

E non è di per sé un personaggio problematico, ma è piuttosto appiattita nella figura della principessa ingenua e ingiustificabilmente positiva, che riesce facilmente a farsi circuire da un personaggio assolutamente ridicolo come Hans.

Ma c’è un chiaro motivo.

Elsa è un personaggio troppo drammatico per un prodotto con target infantile, troppo tormentato per essere effettivamente digeribile ed essere effettivamente protagonista del film.

Per questo ha bisogno di un bilanciamento drammatico da parte di Anna, nonostante il suo comportamento sia totalmente poco credibile, in quanto dovrebbe avere almeno la metà dei drammi emotivi di Elsa.

Invece Anna sostiene tutto il peso emotivo della sorella, la va a cercare e in ultimo la salva effettivamente. E si salva da sola.

Insomma, un personaggio che poteva essere ben più interessante di come è stato scritto.

L’anello debole

Anna (Kristen Bell) e Kristoff (Jonathan Groff) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

La storia romantica di Anna e Kristoff è uno degli elementi più deboli della pellicola.

Complice anche lo screentime veramente scarso che gli è stato concesso.

Di fatto, Anna e Kristoff si devono innamorare, e devono intraprendere una relazione perché la trama lo richiede. Dal punto di vista emotivo, Anna non ha effettivamente imparato così tanto, perché capisce di amare il suo compagno di viaggio dopo non tantissimo tempo che stanno insieme e dove non sembra che ci sia un’effettiva evoluzione del loro rapporto.

E questo è così tanto diverso dall’apparente rapporto idilliaco con Hans?

Banalmente, basterebbe confrontare l’eccellente costruzione del rapporto fra Flynn e Rapunzel in Rapunzel: i due partono da una relazione incredibilmente antagonistica, vivono una precisa e interessantissima evoluzione, con una relazione romantica va molto oltre il semplice amore, ma che ha un significato ben più profondo.

Possiamo dire lo stesso per Anna o concludiamo che si tratta dell’ennesima principessa che si innamora perché deve innamorarsi?

Alla faccia del passo avanti…

Una relazione quasi grottesca

Inoltre, relazione fra Anna e Kristoff è talmente forzata da risultare quasi grottesca.

Il punto più drammatico è quando i due si recano dai troll per curare Anna, ma la scena si trasforma in una sequenza senza senso, anzi piuttosto fastidiosa, in cui i troll pensano che Kristoff voglia sposare Anna e li costringono quasi a farlo.

Per concludere con la più classica paraculata Disney del vero amore che vince su tutto.

E a questo punto Anna viene riportata a palazzo per essere salvata da Hans, per poi inseguire in maniera anche abbastanza disturbante Kristoff per farsi baciare. E per fortuna questa idea è sventata dal film stesso, in cui mostra che il vero amore è quello fra Anna e Elsa.

Elemento che, però, va ancora più a svalutare la relazione fra Anna e Kristoff.

Un viaggio dispersivo

Anna (Kristen Bell), Kristoff (Jonathan Groff) e Olaf (Josh Gadd) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

Altro elemento problematico di Anna è la gestione del suo viaggio.

Anna intraprende il viaggio per andare da Elsa, non risolve assolutamente niente, e si lascia inutilmente trasportare da Kristoff verso un siparietto agghiacciante (di cui sopra), e infine si mette in trappola da sola.

Quindi sostanzialmente Anna diventa vittima degli eventi stessi, riesce a salvarsi sul finale, ma di fatto, da circa metà del film in poi, si dimentica del problema principale della pellicola, ovvero sua sorella, e mette (anche comprensibilmente) al centro della trama la sua salvezza personale.

E tutto viene risolto magicamente negli ultimi minuti.

I genitori: i veri villain

La conclusione più surreale di questa pellicola è rendersi conto che i genitori sono i veri villain.

Non stiamo parlando certo di popolani che devono proteggere la figlia dal linciaggio della massa, ma regnanti che potenzialmente potevano rendere la loro figlia una figura di culto, persino un’arma, e modellare l’opinione pubblica a loro uso e consumo.

Invece, giustamente, non solo non cercano neanche di provare ad aiutarla a capire i suoi poteri, magari cercando una persona che potesse darle una mano, ma la fanno sempre più rinchiudere in sé stessa, traumatizzandola definitivamente.

Un meccanismo della trama senza alcun costrutto.

O piuttosto una forzatamente versione positiva del rapporto distruttivo fra Rapunzel e Madre Gothel…

Olaf: un disastro estetico

Olaf (Josh Gadd) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

So che molti non saranno d’accordo, ma io detesto Olaf.

Le sue canzoni sono veramente di cattivo gusto a livello estetico, plasticose e totalmente fuori contesto, non mi piace l’ironia e il punto chiave della sua personalità, ovvero amare un elemento contrario alla sua natura.

Ma soprattutto detesto il suo character design, che trovo molto abbozzato e sinceramente brutto, secondo solamente a quella mostruosità del mostro marshmallow che caccia Anna e Kristoff dal palazzo di Elsa.

Ed è un problema anche più ampio.

L’unica cosa che funziona

Anna (Kristen Bell) e Elsa (Idina Menzel) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

Nonostante tutti i difetti, la relazione fra Anna e Elsa è l’elemento più solido della trama, e forse anche quello che tutto sommato la tiene insieme.

Un elemento emotivo molto forte, forse anche più importante da raccontare ad un pubblico infantile piuttosto che replicare nuovamente la questione del vero amore romantico. E infatti una delle canzoni più iconiche della saga è Wanna build a snowman?, con tutto il carico emotivo che si porta dietro.

E la scelta di rendere il salvataggio della protagonista per mano della sorella e non di un uomo appena conosciuto, nonostante si incastri male nel contesto, era una buona idea, almeno sulla carta.

Perché Frozen ha avuto tutto questo successo?

Il successo di Frozen, ovviamente, è stato veicolato dal pubblico infantile che si è innamorato del prodotto, e in particolare del personaggio di Elsa.

Perché, nonostante tutte le mie analisi, è indubbio che Elsa sia un personaggio intrigante e sicuramente diverso dal solito. Ma soprattutto il suo character design è davvero incredibile, ben pensato e davvero vendibile.

E infatti per me ancora rimane un mistero come abbiamo fatto un lavoro creativo così ottimo con questo personaggio e così pessimo col resto.

Stesso discorso vale per Let it go, canzone che personalmente apprezzo, sia per la scena, sia perché è stata cantata da un’artista di grande talento come Idina Menzel, sia per il valore emotivo che l’accompagna.

Un altro elemento molto iconico, in un mare di canzoni, con l’eccezione di Wanna build a snowman?, piuttosto mediocri e dimenticabili.

Insomma, un prodotto con pochi elementi vincenti e iconici in un oceano di mediocrità.

Frozen 2 – La rivelazione

Mi sono fatta delle grassissime risate con Frozen II (2019).

Sia perché il film si presta molto di più (volontariamente o involontariamente) alla risata, sia perché sono state confermate tutte le mie ipotesi sul successo del primo film, di cui sopra.

Se ci avete fatto caso, questo prodotto, nonostante un incasso sempre straordinario, è stato accolto molto più tiepidamente dal pubblico non in target, che invece aveva tanto lodato la prima pellicola.

E questo perché, secondo me, Frozen II è un film che mostra la stessa mediocrità del primo, con la differenza che manca degli elementi iconici che avevano definito il successo del precedente film.

Tuttavia un ottimo modo per vendere nuovi giocattoli, indubbiamente.

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Animazione Avventura Azione Cinema gelido Cinema per ragazzi Comico Drammatico Dreamworks Fantasy Film Racconto di formazione

The rise of the guardians – Cosa ci insegna l’infanzia

The rise of the Guardians (2012) di Peter Ramsey, in Italia noto con il titolo infelice di Le 5 leggende, è un lungometraggio animato, risalente al periodo in cui la Dreamworks era ancora capace di far sognare…

Un prodotto per un pubblico infantile, ma che parla piacevolmente anche agli adulti, con tematiche profonde e raccontate in maniera incredibilmente brillante e originale.

Un film che purtroppo non portò ai risultati sperati: a fronte di un budget di abbastanza ingente di 145 milioni di dollari, incassò complessivamente 306 milioni, non riuscendo a rientrare nelle importanti spese di marketing.

Di cosa parla The Rise of the guardians

I guardiani dell’infanzia, North (Babbo Natale), Easter (il coniglietto pasquale), Sandman (L’omino dei sogni) e Tooth (la Fatina dei denti), di trovano a dover fronteggiare un nuovo nemico, Pitch Black, l’uomo nero…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The rise of the guardians?

Jacke Frost, doppiato da Chris Pine, in una scena di The rise of the Guardians (2012) di Peter Ramsey

La domanda forse più giusta sarebbe: vale la pena di vedere questa pellicola anche da adulti?

Per me assolutamente sì, perché è un prodotto con diverse chiavi di lettura, create con una cura e un’eleganza che poteva solamente provenire da questa casa di produzione ai tempi d’oro…

Ovviamente specifico che sono totalmente di parte: al tempo vidi il film al cinema quattro volte, con l’aggiunta delle infinite visioni domestiche. E non a caso, insieme a Rapunzel (2010), è fra i miei lungometraggi animati preferiti in assoluto.

Quindi non lasciatevi frenare (né qui né altrove) dal fatto che sia un prodotto animato: vi perdereste veramente una perla.

Jack Frost – La spensieratezza

Jack Frost è fondamentalmente il protagonista del film è anche, soprattutto da un certo punto in poi, il filo conduttore dell’intera vicenda.

Il suo centro non viene esplicitamente rilevato, ma, guardando con attenzione la pellicola, è quantomai evidente: Jack Frost rappresenta la spensieratezza, ma anche la capacità di andare oltre propri limiti e oltre le proprie paure.

Ma anche, in una lettura più adulta, può essere anche il non lasciarsi sopraffare dalla tristezza e dal buio interiore.

Il percorso di questo personaggio è alla ricerca della sua identità, che gli fa scoprire come sia sempre stato capace di vincere la paura, sua e degli altri. Così aiutare i Guardiani a ritrovare il contatto con i bambini che dovrebbero proteggere.

E come, per estensione, di come anche da adulti, sommersi dagli impegni, non possano dimenticarsi di quella spensieratezza tutta infantile che rende la vita un pochino più leggera da vivere…

North – La meraviglia

North, insieme a Easter, è il personaggio col character design più interessante e originale, di fatto inaspettato.

Il nome completo è Nicholas St. North, facendo quindi riferimento alla ben più antica figura di San Nicola, che poi coi secoli si è riadattata a quella di Babbo Natale.

Tuttavia è un Babbo Natale assolutamente atipico: è battagliero, rumoroso, guascone, ma anche la figura più saggia del gruppo. Un uomo dalla statura immensa più vicino allo stereotipo dell’uomo del Nord che alla figura tipica di Babbo Natale.

Ma, nonostante il suo aspetto, è il personaggio che racchiude la magia della meraviglia che i bambini provano davanti a questo mondo tutto nuovo e eccitante da scoprire

Ed è anche un invito all’adulto a non lasciarsi vincere dal grigiore della vita quando si è oppressi dalla pesantezza quotidiana, ma ritrovare la bellezza della scoperta e del lasciarsi (e volersi) far sorprendere ed emozionare.

Easter – La speranza

Easter, ovvero il Coniglio Pasquale, è indubbiamente il personaggio più interessante e a cui è legato il simbolismo più evidente.

Come viene più volte ripetuto, la Pasqua, e quindi anche la sua figura, sono legati alla speranza, che è ribadita anche in altri due elementi: il colore degli occhi, di un verde intenso, e che, quando una delle sue buche si chiudono, spunta un fiore, persino nella neve.

Entrambi elementi tradizionalmente associati al concetto di speranza.

Un concetto che sembra molto astratto, ma che in realtà è incredibilmente concreto: perdere la speranza, quindi la fiducia e l’ottimismo che è intrinseco per l’infanzia, è devastante per un bambino.

E infatti, la perdita della speranza rappresenta l’ultimo momento delle luci che si spengono. E la speranza si sgretola molto più facilmente una volta raggiunta la vita adulta, quando si ha effettivamente conoscenza del mondo…

Tooth – Il ricordo

Anche se forse Tooth, la Fatina dei denti, è il personaggio di per sé meno interessante, il suo potere è quantomai affascinante.

Il periodo dell’infanzia è il momento fondamentale della crescita, che getta le basi della nostra personalità e dei valori che in seguito si formeranno. E la perdita, il cambio per così dire dei denti, rappresenta il passaggio dal periodo infantile, più fragile, a quello adulto, dove si dovrebbe avere i denti più forti e definitivi.

Tuttavia quei denti persi non possono essere sprecati, perché raccontano un periodo che appunto non può essere mai dimenticato, e che ci definisce.

Altrimenti saremmo persi e senza un’identità come Jack Frost…

Sandman – Il sogno

Sandman è il guardiano del sogno e del sonno.

Tuttavia non si tratta solamente del sogno che si fa di notte, ma anche della capacità di immaginazione positiva, che crea immagini piacevoli e fantastiche. Così i bambini creano un universo alternativo, a loro misura, in cui rifugiarsi.

Ma il sogno è fondamentale anche per un adulto: insieme alla speranza è quello che non ci fa mai arrendere, e che ci ricorda che non c’è mai limite a quello che potenzialmente possiamo sognare e realizzare…

Pitch Black – L’incubo

Pitch Black significa buio pesto.

E il buio è una paura atavica, sia per bambini che adulti.

Infatti Pitch è un’ombra, uno spettro, che si nasconde effettivamente sotto ad un letto come il mostro sotto il letto, o l’uomo nero, per l’appunto.

La paura è anzitutto legata all’incubo, quindi il contrario dei sogni. Ma lo stesso è derivato da delle paure che possono essere molto più concrete, proprio come quelle di Jack Frost: non essere creduto, accettato, visto…

E la paura si evolve e si differenzia, con situazioni anche molto più diverso e gravi, ma il concetto rimane sempre lo stesso: con la spensieratezza, la speranza, la meraviglia e il sogno, la potremo sconfiggere.

Attraverso lo sguardo

Jacke Frost, doppiato da Chris Pine, in una scena di The rise of the Guardians (2012) di Peter Ramsey

Gli occhi sono un elemento fondamentale della pellicola, quasi un fil rouge che unisce tutti i protagonisti.

La magia di Jack Frost si vede proprio attraverso gli occhi, la meraviglia di North è attraverso gli occhi enormi di un bambino, Jack Frost vede i suoi ricordi attraverso i suoi occhi e gli occhi della sorella…

Lo sguardo quindi la percezione, la percezione che può essere mutata e plasmata, con i sentimenti sia positivi che negativi. E così si può passare facilmente dalla paura al divertimento, alla spensieratezza, e con poco…

Il mascheramento smascherato

Tooth, doppiata da Isla Fisher, Jacke Frost, doppiato da Chris Pine, North, doppiato da Alec Baldwin, Easter, doppiato da Hugh Jackman in una scena di The rise of the Guardians (2012) di Peter Ramsey

Guardando il film da un punto di vista più superficiale, appare evidente che sia stato concepito come una sorta di film di supereroi.

Infatti, come si cerchi di raccontare concetti importanti e di grande profondità, ma mascherandoli in una veste digeribile per il grande pubblico e, soprattutto, per il pubblico infantile. Tuttavia è evidente che non ha funzionato.

Questo probabilmente perché, per quanto il ritmo sia incredibilmente incalzante e la storia interessante, anche uno sguardo più superficiale intuisce che ci sia qualcosa di più rispetto a quanto viene mostrato. E questo di più non è per nulla immediato.

Aspetto che purtroppo potrebbe aver solo confuso il pubblico di riferimento…

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Fantastic Mr. Fox – Una favola per adulti

Fantastic Mr. Fox (2009) è il primo lungometraggio animato con la tecnica stop-motion di Wes Anderson, a cui è seguito L’isola dei cani (2018).

Il film fu purtroppo un pesante flop commerciale: a fronte di un budget non esattamente ridotto come 40 milioni di dollari, ne incassò appena 46 in tutto il mondo.

Di cosa parla Fantastic Mr. Fox?

In un mondo con animali semi-antropomorfi, Mr. Fox è una volpe che ha rinunciato alla sua natura animalesca di rubagalline su richiesta della moglie. Tuttavia, la sua avventatezza lo porterà a conseguenze inaspettate…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Fantastic Mr. Fox?

George Clooney come Mr Fox in Fantastic Mr Fox (2009) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Fantastic Mr. Fox è assolutamente quello che vi potreste aspettare da Wes Anderson, con una tecnica di animazione che sembra calzargli a pennello e che per certi versi mi ha ricordato alcune sequenze di Grand Budapest Hotel (2018).

Un piccolo film di breve durata che ho trovato davvero piacevole da guardare, con una trama a sorpresa davvero piena di colpi di scena. Come al solito, non fatevi frenare dal fatto che sia un prodotto di animazione: non è un prodotto per l’infanzia, anzi è molto più godibile da un pubblico adulto.

Cos’è la tecnica stop-motion

La tecnica stop-motion, in Italia nota come passo uno, è una tecnica di animazione con l’utilizzo di una speciale macchina da ripresa, che riprende fotogramma per fotogramma.

Questo richiede diverse pose degli elementi della scena, rendendola una tecnica quanto affascinante che complessa.

Nel caso di Fantastic Mr. Fox i soggetti in scena sono dei pupazzi, avendo alle spalle professionisti come lavoratori anche con Tim Burton per La sposa cadavere (2005), altro prodotto creato con la stessa tecnica.

Anderson, oltre al successivo prodotto di animazione L’isola dei cani, utilizzò tecniche simili anche per Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004) e Grand Budapest Hotel.

Se volete approfondire, ecco un dietro le quinte della realizzazione del progetto:

Perché è così difficile trasporre Roald Dahl

Vale la pena di spendere due parole su questa questione, soprattutto perché Roald Dahl è stato l’autore della mia infanzia, di cui lessi ogni storia, compresa l’autobiografia e la biografia.

E per l’occasione ho ripreso anche in mano il romanzo originale.

Generalmente parlando, la particolarità di questo autore sta tutto in certi elementi grotteschi, quasi orrorifici che inseriva nelle sue opere, nonché le morali non scontate dietro alle sue storie.

Uno dei punti più alti era forse ne Gli Sporcelli, in cui la coppia protagonista quasi si mangiava dei bambini che catturava, oltre a farsi gaslighting a vicenda, con tinte davvero horror.

Ma anche più semplicemente il finale de Le Streghe, che non è esattamente quello che ti aspetteresti da una storia per bambini, e che infatti è stata edulcorata senza alcuna vergogna nel film del 1990.

Paradossalmente è stato meglio che l’abbia preso in mano un regista come Wes Anderson, che ha cercato anzi di rendere la storia originale più digeribile per il suo pubblico.

Tuttavia, mentendo un totale rispetto per l’opera originale, arricchendola di contenuti, invece che cambiarla radicalmente

Una trama inaspettata

Willem Dafoe come Rat in Fantastic Mr Fox (2009) di Wes Anderson

In un prodotto più banale mi sarei aspettata che il punto di arrivo sarebbe stato la scoperta da parte della moglie delle malefatte di Mr. Fox.

E invece le stesse sono quasi il motore della vicenda che porta al finale.

Questa apparente anomalia riguarda anche il modo in cui Anderson ha cercato di arricchire la storia, che originariamente era molto più lineare e molto più breve. Nel libro in particolare manca tutta la sequenza iniziale di contrasto di Mr. Fox e la moglie.

Il regista è riuscito ad aggiungere dove bisognava aggiungere, soprattutto rendendo i personaggi più tridimensionali e la storia più ampia, ma mantenendo inalterato il cuore della storia.

Antropomorfi, ma non del tutto

Il carattere di antropomorfismo dei personaggi è reso con grande equilibrio, senza renderli del tutto umani, ma mantenendo il loro lato animalesco.

Si vede particolarmente nei momenti in cui le volpi mangiano come animali, appunto.

Nonché la questione di Badger, l’opossum, che in dei momenti improvvisamente perde coscienza del mondo. Questa caratteristica tanto strana è tipica del comportamento dei membri della sua specie, che in dei momenti sembrano morti.

Una reazione quasi involontaria che questi animali hanno quando si sentono minacciati, e che ha uno spassoso effetto comico all’interno del film.

Altrettanto geniale è tutta la messa in scena di come Mr. Fox organizzi di fatto una rapina umana, ma del tutto coerente con la sua natura da volpe ruba galline, appunto.

Il topos della fuga dal quotidiano

Un elemento che potrebbe apparire quantomeno bizzarro di questa pellicola è il tipo di rappresentazione del rapporto matrimoniale fra Mr. Fox e Mrs. Fox.

Tuttavia, facendo abbastanza attenzione si può notare come evidentemente la storia sia ambientata negli Anni Sessanta-Settanta, proprio quando fu pubblicato (e ambientato) il libro di ispirazione.

Così appare molto più comprensibile questa idea dell’uomo scapestrato in gioventù che si sente intrappolato nella vita matrimoniale, come effettivamente era tipico a livello sociale in quel periodo.

Fra l’altro il personaggio di Mr. Fox è molto più ampliato rispetto al libro, in cui era un eroe positivo in tutto e per tutto, nonostante in certi momenti si mettesse in luce la sua furbizia per finalità non del tutto positive…