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Il castello errante di Howl – Il gioco delle maschere

Il castello errante di Howl (2004) è uno dei miei prodotti preferiti di Miyazaki, nonché di uno dei progetti più ambiziosi del maestro nipponico.

A fronte di un budget non particolarmente sostanzioso – 2,4 miliardi di yen, circa 24 milioni dollari – fu un incredibile successo commerciale, incassando 236 milioni di dollari. In Italia uscì nel 2005 e in DVD nel 2006, il primo film Ghibli distribuito dalla Lucky Red.

Di cosa parla Il castello errante di Howl?

Sophie è una modesta cappellaia di paese, che sembra non voler abbandonare il negozio di famiglia. Ma la sua vita prenderà una via inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il castello errante di Howl?

Testa di rapa e Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Assolutamente sì.

Ammetto che dopo una recente revisione de Il castello errante di Howl l’avevo un po’ rivalutato in negativo, per via di alcuni snodi di trama che mi sembravano poco chiari e comprensibili.

In realtà, rivedendolo, mi sono resa conto che, comprendendo la chiave di lettura, tutto assume un senso.

Oltre a questo è un superbo film di avventura, con un world building paragonabile per bellezza solo a La città incantata (2001), ma che prende strade nuove e anche più importanti, pur con temi comuni.

Insomma, non ve lo potete perdere.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Il castello errante di Howl è incredibilmente basso.

Come detto, questo fu il primo film distribuito dalla Lucky Red e anche il primo doppiaggio dello Studio Ghibli curato da Cannarsi. Proprio perché era agli inizi e non aveva neanche tutto questo potere decisionale, fece un lavoro incredibilmente accettabile.

Ovviamente non mancano gli arcaismi, i dialoghi che suonano a tratti artificiosi, ma niente che vi porterà a voler abbandonare la visione.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

Un’origine modesta

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

L’incipit racconta anche solo visivamente il carattere della protagonista.

Una ragazza dall’aspetto e dai comportamenti molto riservati e modesti, che si scontra continuamente con il carattere e l’estetica molto più chiassosa delle altre donne della sua vita, soprattutto la madre e la sorella.

In particolare la sorella, ragazza piacente e corteggiata da molti uomini, si oppone all’idea della sorella maggiore di rimanere per sempre ancorata al suo nido paterno, per condurre una vita riservata e senza grandi sorprese.

Howl e Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Per questo l’incontro con Howl è così sconvolgente.

Il mago è infatti un personaggio emotivo e travolgente, che trascina improvvisamente Sophie nella sua vita. Una vita fatta di fughe e di colpi di scena, in cui la protagonista sembra costantemente di star partecipando ad un gioco di cui tutti conoscono le regole, tranne lei.

Ovviamente Sophie è subito – comprensibilmente – folgorata, ma si lascia anche abbastanza facilmente l’accaduto alle spalle.

Una nuova maschera

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Il primo incontro-scontro con la Strega delle Lande è tanto più determinante.

Sophie mostra abbastanza in fretta di non essere così tanto docile come potrebbe apparire, reagendo piuttosto fermamente alla scortesia della donna. Potrebbe sembrare che questo suo comportamento sia il motivo della maledizione…

…ma non è così.

La strega, così come Howl, è un personaggio sfacciato e pieno di se stesso, così altrettanto indifferente delle conseguenze delle proprie azioni. Per questo, avrebbe comunque punito Sophie per aver aiutato il suo nemico.

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

In realtà, questa maledizione è un’opportunità.

Sia in senso positivo che negativo.

In senso positivo, Sophie può cambiare vita: la protagonista non ci mette molto ad accettare la sua nuova condizione, e si rifugia in realtà abbastanza divertita dietro una serie di luoghi comuni e battute frizzanti che il suo nuovo aspetto le permette.

In senso negativo, Sophie ha una nuova maschera dietro cui nascondersi: anche se riesce comunque a mostrarsi più intraprendente e decisa nel suo agire, in qualche modo finisce per trovare anche un altro rifugio per il suo tanto agognato quieto vivere.

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Per questo, Sophie non è tanto diversa da Howl.

Con queste nuove vesti da vecchietta innocua ma decisa, si ritaglia il suo spazio nella vita del mago, senza arrendersi mai neanche davanti alle proteste degli altri personaggi.

Ma è ancora una volta un’apparenza dietro cui nascondersi, per celare tutta la sua insicurezza e paura, che non a caso emerge di tanto in tanto, anzitutto col primo (ri)incontro con Howl, mentre sta cucinando…

Una sfacciata apparenza

Howl in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Howl è un giovane favoloso.

All’apparenza è un uomo attraente e sicuro di sé, che si muove abilmente in tutte le situazioni della vita con anche una certa giocosità, fin dalla sua primissima apparizione quando si trova tampinato dagli sgherri della Strega delle Lande.

Questo aspetto viene ancora confermato, anche se in senso diverso, dalla sua attività segreta: scegliere di non allearsi per principio con il Re per combattere la guerra, ma boicottarla segretamente, mettendo in pericolo la sua stessa vita.

E proprio qui avviene il punto di svolta.

Howl in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Da un errore apparentemente innocuo – una tinta per capelli andata male – Howl svela la sua prima insicurezza.

L’ossessione per la bellezza esteriore.

Infatti basta questo piccolo ostacolo per farlo crollare in una profonda depressione, tale da annientarlo completamente e fisicamente, oltre a mettere in pericolo anche chi gli sta intorno. E in questo momento la sfuriata di Sophie è più fondamentale di quanto sembri…

Una svolta inaspettata

Howl in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Come un bambino imbronciato, Howl si chiude in camera sua.

Un contesto già in apparenza assai infantile – con molti giocattoli che ricordano quelli di Bō, il figlio di Yubaba, ne La città incantata – ancora più sottolineato dal suo non voler parlare e non accettare le cure di Sophie.

Tuttavia, Howl ha già imparato qualcosa.

Ha accettato almeno una parte del suo aspetto, scegliendo di non tingersi più – neanche successivamente – i capelli, ma mantenere il suo aspetto originale. Insomma, la sfuriata di Sophie contro la sua vanità incontrollata ha avuto un inaspettato effetto positivo.

Howl e Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Inoltre, da questo momento Howl comincia a fidarsi di Sophie.

Per quanto sia probabile che Howl abbia riconosciuto subito la ragazza appena se l’è trovata in casa, proprio la notte che torna dal combattimento la vede addormentata col suo vero aspetto, e così conferma il suo sospetto.

E per questo, consapevole della determinazione della protagonista, le affida una missione importante per riuscire ad affrontare faccia a faccia Madame Sullivan, non essendo capace lui stesso di fronteggiare le trappole della maga.

Howl e Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

E infatti, in un gioco delle parti piuttosto intraprendente, Howl entra nel luogo che aveva da così tanto tempo avuto paura di penetrare.

Sia lui che Sullivan sono fin da subito consapevoli di star giocando – Howl sa che Sullivan l’ha riconosciuto – ma è l’unico modo per cui il mago riesce finalmente a dire alla sua ex-maestra che non vuole prendere parte a questa guerra.

Ovviamente la maga non si arrende così facilmente, e cerca di insidiarlo con diverse e spaventose illusioni, in cui lui rischia inevitabilmente di soccombere, se non fosse ancora una volta per l’intervento di Sophie.

La lenta trasformazione

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

La prova del palazzo è un punto di svolta anche per Sophie.

È infatti il primo momento in cui la protagonista esprime apertamente i suoi sentimenti felici, che la fanno ritornare improvvisamente al suo vero aspetto. Aspetto che è per tutto il tempo sotto gli occhi di tutti, ma che lei è l’unica a non voler accettare.

Dal rientro al castello, Sophie comincia piano piano ad abbandonare la sua maschera, ringiovanendo lentamente, ma visibilmente:

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Da questo momento Howl comincia sempre di più a mostrare il suo amore e la sua riconoscenza verso la ragazza: non solo col trasloco le dà una stanza tutta per sé, ma con lo stesso ricrea la casa natale della protagonista.

Ma il picco è il rifugio nella natura.

Il mago le fa questo meraviglioso regalo, che la fa scoppiare di felicità, facendola ritornare improvvisamente al suo aspetto reale. Nella stessa occasione Sophie prova anche ad esternare le sue paure, e Howl le risponde con forza per rassicurarla, ma riuscendo solo a farla rinchiudere di nuovo in se stessa.

Sophie  e Howl in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Il momento effettivo è quando Sophie si rende conto delle intenzioni di Howl.

Quando infatti la protagonista accetta finalmente l’amore del mago, accetta di essere amata nonostante non sia bella, e quando altresì la paura la domina definitivamente, si ribella ai suoi stessi timori e prende in mano la situazione.

E ritorna definitivamente al suo aspetto.

Distruzione e costruzione

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Pur armata di grande determinazione sulle prime, Sophie è un personaggio umano, che quindi può sbagliare.

Anzitutto la protagonista accetta la sua vera forma, anzi sceglie di prenderne una nuova: regalare la sua treccia a Calcifer, e cambiando del tutto aspetto. Ed è anche il primo momento di distruzione di Howl, tramite il castello stesso, che rappresenta questa apparenza dietro a cui il mago continua a nascondersi.

Ma l’inseguimento non va a buon fine.

Howl in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Questo momento di apparente sconfitta – Sophie è convinta di aver ucciso Howl gettando l’acqua su Calcifer – in realtà è il momento della rivelazione. Grazie all’anello che l’amato le aveva regalato, la ragazza riesce a trovare Howl, scoprendo il suo segreto.

Sophie capisce così come salvare il mago da se stesso, ridonandogli quella vera natura che ha cercato di fuggire per tutta la vita – ovvero il suo cuore. E Howl è ancora più felice quando vede Sophie nella sua splendida, migliore forma.

La strega delle lande spiegazione

Nel terzo atto, le azioni della Strega delle Lande e Heel, il cane di Madame Sullivan sono apparentemente incomprensibili.

In realtà, sono facilmente spiegabili.

La Strega delle Lande ha vissuto tutta la vita con un solo obbiettivo: possedere Howl – le interpretazioni sul come vuole possederlo le lascio alla vostra immaginazione.

E neanche quando è privata dei suoi poteri, non si arrende.

Cerca infatti giocosamente di boicottare Howl, in modo da indebolirlo e potersene impossessare. Per questo dà in pasto l’insetto spione a Calcifer – che viene annientato e non può più proteggere la casa.

Infatti per questo il castello viene preso di mira, portando Howl a tornare e ad intestardirsi nel difenderlo, ma essendo anche in costante difficoltà.

E infatti alla fine riesce a prendere possesso del cuore.

Strega delle lande il castello errante di Howl

Perché Howl non la caccia?

Ci possono essere varie motivazioni, ma una in particolare è la più comprensibile: come Chihiro in La città incantata, Howl ha la capacità di vedere la vera natura delle persone – e non solo.

Per questo si rende conto che la Strega, ormai senza poteri, non può fargli del male e che non ha neanche effettive cattive intenzioni: è semplicemente ossessionata, ma anche pronta ad arrendersi per il bene di Howl stesso.

Heel il castello errante di Howl

Heel in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Per lo stesso motivo, Howl non caccia Heel.

Per quanto abbia paura di Sullivan, Howl è anzitutto sicuro di essere protetto dalla sua magia e da Calsifer, quindi accetta quasi giocosamente di avere la maga alle calcagna – avendo fra l’altro la testa su tutt’altro obbiettivo.

Ma, soprattutto, Howl capisce le vere intenzioni del cagnolino, che è naturalmente riconoscente a Sophie, di cui ha visto la natura generosa e temeraria, e che per questo non vuole boicottare – e infatti non lo fa.

Il castello errante di Howl rapa

Una storia molto secondaria è quella di Testa di Rapa.

Un personaggio apparentemente molto di contorno, in realtà fondamentale in molti momenti: dopo che Sophie l’ha salvato, le fornisce un aiuto per camminare, le trova una casa e le recupera anche lo scialle.

E, oltre alla tenerissima scenetta in cui la aiuta col bucato, è il personaggio che di fatto salva la vita a tutti i personaggi quando stanno per cadere in un dirupo, mettendosi lui stesso in pericolo…

E, proprio in quel momento, Sophie gli dimostra finalmente affetto e lui può tornare alla sua vera forma così da fermare la guerra, pur dovendo accettare un amore non ricambiato…

Anche dal punto di vista artistico, Il castello errante di Howl è uno dei prodotti che più apprezzo della filmografia di Miyazaki.

Insieme a Yubaba, Sophie nella sua versione anziana è uno dei migliori visi anziani gestiti nella filmografia del maestro, ricchissimo di particolari e con delle animazioni stupefacenti:

Nonostante per i personaggi di Howl e Sophie – da giovane – Miyazaki utilizza dei modelli piuttosto standardizzati, senza particolari note di merito, non manca una cura particolare nei dettagli e nell’uso delle ombre, oltre che nel loro cambiamento durante il film:

Ma uno dei punti più alti è sicuramente la rappresentazione degli ambienti, sia esterni che interni.

Il castello in particolare è pieno zeppo di particolari, sia nella sua visione esterna che interna, sopratutto nei momenti di distruzione e cambiamento:

Così mi ha sempre fatto sognare la bellezza e la profondità con cui Miyazaki è riuscito a raccontare visivamente gli spazi esterni, in particolare la città reale:

Ma forse quello che mi piace di più di questo film è la rappresentazione del cibo e soprattutto dei personaggi che lo mangiano:

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La città incantata – La maturazione invisibile

La città incantata (2001) è forse l’opera più famosa di Hayao Miyazaki, parte di quello che io considero il terzetto delle meraviglie – insieme a La principessa Mononoke (1997) e il successivo Il castello errante di Howl (2004).

Fu anche uno dei maggiori successi del maestro nipponico: con un budget di appena 19 milioni di dollari, ne incassò quasi 400raddoppiando il successo del film precedente. In Italia venne distribuito prima nel 2003 e poi nuovamente nel 2014, con un nuovo doppiaggio.

Di cosa parla La città incantata?

Chihiro è una bambina di appena 10 anni che sta viaggiando verso la sua nuova casa. Ma nel viaggio il padre sbaglia strada, e la protagonista si trova coinvolta in un’incredibile avventura…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La città incantata?

Chihiro e Lin in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

Assolutamente sì.

Non vi nascondo che sono personalmente molto legata a questa pellicola – anche solo per il fatto che è il primo prodotto di Miyazaki che ho visto. Ma nondimeno è un film veramente fantastico, uno dei punti più alti di tutta la produzione del regista.

Un’avventura piuttosto articolata, con tanti personaggi, ma che agiscono all’interno di spazi ben precisi, e senza mai far sembrare il film troppo pesante da guardare – come era stato invece per La principessa Mononoke.

Insomma, non ve lo potete perdere.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di La città incantata dipende.

Sono abbastanza sicura di averlo visto per la prima volta – e negli anni successivi – con il primo doppiaggio del 2003, curato da un’altra casa di produzione e non vivaddio! – da Cannarsi.

E infatti è un buon doppiaggio.

Il problema è che nel 2014 la palla è passata alla Lucky Red, e quindi a Cannarsi. Ho rivisto la pellicola quando è stata ridistribuita nel 2022 al cinema, con credo il doppiaggio del 2014 – a meno che Cannarsi non ci abbia di nuovo rimesso le mani.

Ed è un doppiaggio da incubo, da cui vi consiglio di stare lontani.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

La città incantata titolo originale

La traduzione del titolo de La città incantata è piuttosto particolare.

Infatti, se sostanzialmente la totalità dei titoli precedenti di Miyazaki era traducibile alla lettera – e così è stato fatto – in questo caso era un’impresa ben più complessa.

Se ci si pensa un attimo, il titolo italiano non ha molto senso.

Anzitutto, la storia non è ambientata in una città, ma principalmente in una sorta di centro benessere. Inoltre, in italiano incantata ha un’accezione più che altro positiva, favolistica, mentre in questo caso sarebbe meglio usare il termine stregata.

Una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

Il titolo originale è 千と千尋の神隠し, letteralmente La sparizione causata dai kami di Sen e Chihiro.

Se è in generale la prima parte è abbastanza comprensibile – effettivamente la protagonista, che avrà i due nomi indicati, è scomparsa – meno chiara è la seconda parte.

I kami sono divinità o spiriti venerati dalla religione shintoista – e alcuni sono presenti effettivamente nella storia. Ma, più in generale, l’espressione kamikakushi contenuta nel titolo indica la sparizione improvvisa di una persona, che si presuppone essere rapita dalle divinità.

Non a caso, in inglese ha il titolo più attinente di Spirited away.

Una protagonista perfettamente umana

Chihiro in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

Chihiro è forse la protagonista meglio scritta della produzione di Miyazaki.

Inizialmente viene presentata come una ragazzina anche piuttosto timida, insicura e paurosa, ma anche dotata di idee molto forti, che però non riesce a farsi ascoltare. In realtà, le sue proteste iniziali verso i genitori raccontano una delle sue più importanti qualità.

L’abilità di guardare oltre l’apparenza.

Questa capacità si rifletterà nelle diverse prove che dovrà affrontare e che hanno tutte come sottofondo l’idea di capire la vera natura di qualcuno o qualcosa, mentre tutti gli altri si lasciano abbagliare solo dalla pura apparenza.

Chihiro e Kamaji in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

E l’altra qualità imprescindibile della protagonista è la sua perseveranza.

Nonostante si trovi in una situazione di effettivo pericolo per la propria vita – ed è per questo evidentemente spaventata – Chihiro non si lascia mai abbattere: riesce a seguire le indicazioni di Haku ed arrivare a Kamaji, con cui insiste testardamente per avere un lavoro, tanto da mettersi in gioco in prima persona.

E proprio davanti alla perseveranza e al coraggio della protagonista, l’inquietante e burbero yōkai la aiuta.

Chihiro e Yubaba

Yubaba in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

E questa sua implacabile tenacia si vede ancora meglio nell’incontro con Yubaba.

Chihiro fino a questo momento è stata maltrattata, e, come se non bastasse, in questa scena le viene cucita la bocca, viene fisicamente aggredita da questa inquietante ed enorme donna, che minaccia – ancora una volta – la sua stessa vita e quella dei suoi genitori.

Ma ancora una volta la protagonista non si arrende, ma continua a inseguire il suo obbiettivo.

E a che prezzo…

La città incantata nome

Il modo in cui Yubaba ruba il nome alla protagonista è incomprensibile se non si conosce il giapponese.

Fondamentalmente il nome Chihiro in giapponese è scritto 千尋, quindi con due kanji – i caratteri della lingua giapponese. Yubaba ruba alla protagonista uno dei due, ovvero 尋, lasciando solo 千, che da solo si legge appunto Sen.

Il significato è piuttosto semplice: la strega sottrae il nome a chi sigla un patto con lei, quindi rubando l’identità del malcapitato, così da renderlo più obbediente – e, soprattutto, incapace di scappare…

Yubaba Kamaji folklore giapponese

Come la maggior parte dei personaggi fantastici presenti nel film, Yubaba e Kamaji sono ispirati al folklore giapponese.

Yubaba prende il nome dalla creatura di riferimento, ovvero 山姥, la Yama-uba: una mostruosa strega con i capelli spettinati, il kimono stracciato e che si nutre di carne umana.

Invece il nome Kamaji è molto esplicito: 釜爺 significa vecchio della caldaia ed è un tsuchigumo, ovvero un uomo dalla forma di ragno, animale che simboleggia l’operosità e l’abilità, ed indica anche un umano che vive sottoterra.

Le due prove

Nella parte centrale del film, Chihiro viene messa davanti a due prove.

La prima ha al centro il Dio del Fiume, travestito da Spirito del cattivo odore, ovvero una creatura il cui corpo è composto da sporco e spazzatura. Yubaba costringe la protagonista ad occuparsene, cercando di punirla.

Ma proprio per la sua capacità di guardare oltre, Chihiro – come in realtà già Yubaba – capisce che questo spirito non è quello che sembra, e cerca di aiutarlo a ritrovare il suo vero aspetto, eliminando tutta la spazzatura che lo ricopre.

Questo episodio è fra la sfida e la burla – il Dio si congratula con lei e poi scappa via ridendo, piuttosto divertito. Ma è anche il primo momento in cui Sen guadagna un po’ di rispetto dagli altri personaggi.

E, soprattutto, acquisisce un oggetto fondamentale.

Chihiro e Haku in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

Mentre tutti i dipendenti sono abbagliati dall’oro lasciato dal dio, Chihiro si ritrova fra le mani un 苦団子, Niga-Dango: il dango è una sorta di gnocco di riso, che però in questo caso ha un sapore disgustoso – niga significa amaro.

Questo strumento è un elemento chiave per la prova successiva: Sen capisce che questo boccone disgustoso permette di liberare chi lo mangia di tutto quello che lo ricopre e con cui si nasconde, per svelarne la vera natura.

Per questo in primo luogo lo utilizza per aiutare Haku, facendoglielo mangiare quando è in fin di vita: in questo modo inconsapevolmente Chihiro libera il ragazzo sia dal sigillo che aveva rubato da Zeniba – e che lo faceva star male – sia dal demone che Yubaba usava per controllarlo.

La città incantata senza volto

Senza Volto e Chihiro in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

Ma il momento fondamentale è lo scontro con Senza Volto.

Uno spirito piuttosto sofferente, che è privo di un’identità, e che cerca di trovarne una incorporando proprio altre persone, di cui prende l’aspetto e la voce. E riesce a tentarle proprio offrendo loro quello che desiderano.

Ma Chihiro non è così superficiale.

La protagonista non ha bisogno dell’eccesso di ricchezza che lo spirito le offre, motivo per cui lo stesso impazzisce e non desidera altro che possederla. Ma ancora una volta Sen capisce la vera natura di chi ha davanti e lo libera tramite il dono fattogli dal Dio.

Senza Volto Dio Del fiume folklore giapponese

La misteriosa figura di Senza Volto è di fatto un’invenzione del film, ma la maschera è un riferimento alla forma di teatro giapponese 能, , caratterizzato da movimenti lenti e dei testi aperti all’interpretazione dello spettatore.

Il significato del Dio del fiume è un po’ più complesso: questo spirito non ha un nome, ma Yubaba lo descrive come 名のある川の主, ovvero Signore di un fiume famoso. Allo stesso modo in La principessa Mononoke, il Dio Cinghiale, Nago, veniva definito Signore di una famosa montagna.

Riprendendo quindi la lettura ambientalista tipica delle opere di Miyazaki, entrambi potrebbero rappresentare delle divinità naturali che sono state corrotte dalla pressante presenza umana e dall’inquinamento che ne è derivato.

L’ultimo atto

Bambino in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

Nella sua corsa verso il finale, Chihiro viene accompagnata da due figure che hanno perso il loro aspetto naturale: Bō, il figlio di Yubaba trasformato in topo, e Yu-Bird, uno dei servi di Yubaba, che diventa un uccellino.

Particolarmente interessante è l’arco evolutivo del bambino: inconsapevolmente imprigionato in una stanza, soffocato dalle coccole e dalle attenzioni della madre, si trova infine nella condizione di poter esplorare il tanto temuto mondo esterno.

Sicuramente il momento di passaggio è quando la Yubaba non lo riconosce, shock che porta il personaggio a voler essere così indipendente da non accettare neanche il passaggio sulla spalla di Chihiro quando sono scesi dal treno.

Zeniba, Chihiro e Senza Volto in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

All’arrivo alla casa di Zeniba, la situazione è molto più tranquilla di quanto ci si aspettasse.

Come altri personaggi prima di lei, la strega ha compreso la natura fondamentalmente buona di Chihiro, che, invece di tenersi per sé il prezioso sigillo, ha intrapreso un importante viaggio per venire a restituirglielo e scusarsi, evidentemente perché pensava fosse la cosa giusta.

Proprio lì Senza Volto trova il suo posto nel mondo, e si scopre che i due piccoli accompagnatori di Chihiro potevano già da tempo tornare al loro aspetto originale, ma hanno preferito continuare a mantenere questa forma per portare a termine la loro missione.

Ovvero, aiutare la protagonista.

Haku la città incantata

Chihiro e Haku in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

Ma il momento di passaggio fondamentale è con Haku.

Chihiro riesce a portare a termine la sua missione più importante: permettere ad Haku di ritrovare il suo nome, proprio grazie alla loro connessione, che ha permesso loro di salvarsi vicendevolmente la vita in più occasioni.

In realtà già da prima Haku era in parte riuscito a liberarsi dal giogo di Yubaba, proprio grazie all’uccisione dello spirito che lo controllava: si vede molto bene che, nel confronto successivo che ha con la strega, il ragazzo ha un atteggiamento del tutto diverso.

La città incantata finale

Nel finale, Chihiro riesce a superare efficacemente l’ultima prova di Yubaba, dimostrando ancora una volta di essere più acuta di quanto gli altri personaggi si aspettassero da lei.

L’ultima sequenza è apparentemente paradossale.

Infatti, Chihiro rincontra i suoi genitori, che evidentemente non si ricordano nulla, e torna indietro rivivendo il viaggio dell’andata apparentemente con le stesse dinamiche e sentimenti.

Ma tante cose sono cambiate.

Anche se Chihiro comunque è ancora una bambina spaventata e impacciata, ha capito molte cose su sé stessa, ha compreso la potenza delle sue qualità, e quanto sia prezioso essere gentili e corretti con gli altri.

Insomma, una maturazione invisibile, ma fondamentale.

Bambino la città incantata

Il figlio di Yubaba, Bō, è ispirato a Kintaro, un personaggio mitologico raccontato come un bambino dotato di forza sovrumana, e che secondo alcune versioni era stato proprio cresciuto da Yama-uba.

Sia Yubaba che Zeniba hanno degli shikigami, degli spiriti servitori: la prima, fra gli altri, il già citato Yu-Bird, mentre la sorella gli spiriti a forma di pezzi di carta.

La città incantata è uno dei punti più alti nell’evoluzione artistica di Miyazaki.

Anzitutto, per il lavoro fatto su Chihiro, personaggio che riprende il modello usuale per i volti più giovani, ma lo arricchisce di particolari, dandogli un’inedita profondità:

Inoltre, la protagonista è un personaggio incredibilmente espressivo, anche in maniera macchiettistica, ma nondimeno efficace:

Inoltre, in questa pellicola si trova il momento più alto nella rappresentazione dei volti anziani, con Yubaba, con un livello di dettagli e cura delle ombre semplicemente perfetto:

E anche in questo caso si continua con la rappresentazione delle donne con nuovi particolari, riuscendo a distinguerle in maniera abbastanza netta:

Ovviamente fantastica la rappresentazione di tutte le creature magiche, in particolare Yubaba, con la sua espressività esplosiva, e Haku nella sua versione drago:

Senza contare ovviamente la grande originalità nella rappresentazione degli ambienti, sempre ricchissimi di particolari e mai banali:

E, in ultimo, l’evoluzione essenziale nel rappresentare i cibi, che avrà il suo picco nel successivo Il castello errante di Howl:

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La principessa Mononoke – Caos naturale

La principessa Mononoke (1997) è il primo film del terzetto delle opere più ambiziose di Hayao Miyazaki – insieme ai successivi La città incantata (2001) e Il castello errante di Howl (2004).

Una pellicola che ottenne un ottimo riscontro internazionale, raddoppiando i risultati commerciali finora ottenuti da Miyazaki: a fronte di un budget di circa 23 milioni (2,1 miliardi di yen), ne ha incassò quasi 170 in tutto il mondo.

Di cosa parla La principessa Mononoke?

Il giovane principe Ashitaka rimane vittima di un attacco da parte di un cinghiale-demone, che lo porta a cercare una cura lontano da casa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La principessa Mononoke?

La principessa Mononoke e Moro in una scena di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

Assolutamente sì.

Anche se devo ammettere che è uno dei prodotti non solo più complessi, ma anche più impegnativi di Miyazaki, è comunque un’opera piena di fascino, che racchiude la totalità dei temi cari a questo regista, raccontati però in una forma più matura.

Una trama piuttosto intricata, affollata di tanti e diversi personaggi, focalizzata sulla tematica dell’ambientalismo, ma anche sulla caoticità, imprevedibilità, nonché la temibilità della natura, e delle conseguenze del provare a distruggerla…

Insomma, non un film facile, ma un film da vedere.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di La principessa Mononoke il pericolo è medio-alto.

Infatti, il doppiaggio è una barzelletta: oltre alle solite forzature, è il caso più iconico dell’incapacità di Cannarsi di scrivere degli adattamenti, con la traduzione del Dio della Foresta con Dio Bestia – e tutta l’ilarità correlata.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

La natura caotica

La principessa Mononoke e Moro in una scena di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

La principessa Mononoke riprende alcune tematiche e dinamiche centrali di Nausicaä della Valle del vento.

Ma le riscrive con un’ottica del tutto nuova.

Se infatti nella sua opera prima Miyazaki rappresentava una natura vista come nemica e distruttiva, ma solamente perché gli umani non erano capaci di comprendere i danni che le avevano inferto, e il tentativo della stessa di curarsi.

Diversamente nella pellicola del ’97 la natura è semplicemente caotica, financo temibile: animali giganteschi e aggressivi, quasi preistorici, testardi ed indomabili, pronti persino a sacrificare sé stessi in nome della salvezza del proprio ambiente.

La principessa Mononoke e Okkoto di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

In particolare, le due divinità, la lupa Moro e il cinghiale millenario Okkoto: bestie enormi, ricchissime di particolari, dei capi saggi, ma anche incapaci di scendere a compromessi e sempre pronti ad aggredire il nemico – anche solo presunto.

Al contempo, Re della Foresta, che rappresenta la Natura, racchiude al proprio interno sia la vita che la morte, come si vede chiaramente dal suo incedere: nelle sue orme la natura sboccia immediatamente rigogliosa, ma altrettanto velocemente perisce.

La violenza chiama la violenza

Lady Eboshi in una scena di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

Se la natura è violenza, l’umanità è distruzione.

L’ambientazione storica non è casuale: la pellicola si ambienta nel Periodo Muromachi (XIV-XVI sec.), in cui il Giappone vide un indebolimento del potere centralizzato, con una scena politica dominata invece dagli shōgun, i capi dell’élite militare.

Ma, soprattutto, fu l’epoca in cui il Giappone conobbe le armi da fuoco.

E infatti Lady Eboshi è proprio una shogun – una signora della guerra, se la volessimo dire all’occidentale – a capo della Città di Ferro, specializzata proprio nella produzione di queste armi moderne e micidiali.

Lady Eboshi in una scena di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

Ma Eboshi è anche il personaggio più tridimensionale della pellicola.

Anche se apparentemente è solamente un capo spietato e senza cuore – come testimoniato dal fatto che non raccoglie neanche i cadaveri dei suoi uomini dopo il primo attacco dei lupi – si mostra anche come protettrice degli ultimi degli esclusi.

E infatti la sua città accoglie non solo gli uomini, ma anche i lebbrosi e le prostitute, i suoi veri sostenitori. Quindi si potrebbe dire che basa il suo potere sulle armi e sull’essere una sorta di capopopolo.

Ma è vera benevolenza o semplice sete di potere?

Due anonimi protagonisti

La principessa Mononoke e Ashitaka in una scena di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

Come ho apprezzato Lady Eboshi come personaggio, ho molto meno gradito i due protagonisti.

Anche a fronte di uno screentime abbastanza ridotto per quelli che dovrebbero essere gli eroi della storia, li ho trovati molto più anonimi e bidimensionali di quanto si sarebbero meritati. Portano infatti sulle spalle entrambi tematiche e questioni piuttosto interessanti e non facili da trattare, ma si comportano anche con la massima ingenuità.

Da un certo punto di vista penso sia un aspetto anche voluto, per contrapporre agli antagonisti due eroi testardi e indomabili, effettivi motori della trama per molti tratti, così da seguire una strada tutto sommato semplice verso la conclusione, a fronte di una trama invece piuttosto complessa.

E a questo proposito…

Una trama (troppo) complessa

Forse anche nella sua volontà di voler rappresentare in maniera molto realistica e credibile il periodo storico scelto, Miyazaki ha scritto una trama per certi versi veramente troppo complessa.

E non era veramente necessario.

Infatti, si poteva facilmente alleggerire il lato degli antagonisti – non dovendo intrecciare addirittura tre gruppi di personaggi – e riequilibrare il lato invece degli eroi, offrendogli una maggiore personalità e tridimensionalità.

Soprattutto perché di fatto la storia non è di per sé così complicata, ma è stata inutilmente appesantita.

La principessa Mononoke e Ashitaka in una scena di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

Nondimeno ho apprezzato molto il finale.

Il Dio sacrifica se stesso, dopo aver rischiato di distruggere la sua stessa foresta, e ridona il verde alla valle, concedendogli una seconda occasione per prosperare. E come spiega proprio Ashitaka, il Dio non è morto, ma è la vita stessa che continua a vivere e a rinascere.

I due protagonisti scelgono due vie diverse, per ricreare sia il mondo della Natura, sia la realtà degli uomini, con la speranza che possano coesistere in armonia. E l’apparizione del kodama alla fine fa ben sperare…

Cosa significa Mononoke in La principessa Mononoke

Anche se emerge molto meno nella traduzione sia italiana che inglese, Mononoke non è un nome proprio – e infatti la protagonista si chiama San – ma ha un significato preciso.

I mononoke ((物の怪) sono degli spiriti, in particolare spiriti maligni che prendono possesso di altri esseri viventi per causargli dolori e sofferenze.

In questo caso è possibile che si intenda la parola anche come yōkai, ovvero esseri soprannaturali del folklore giapponese, come termine ombrello per raccontare il mondo spirituale della foresta, con i suoi spiriti e i suoi dei (kami)

All’interno di un’opera così ambiziosa, era quasi scontato che il lato artistico di Miyazaki migliorasse ulteriormente.

Anzitutto, si vede un’interessante evoluzione nel rappresentare i volti femminili, riuscendo davvero a differenziare Lady Eboshi da San:

Fra l’altro il modello di Lady Eboshi è stata una rappresentazione talmente interessante per Miyazaki da utilizzarla in maniera quasi identica nel successivo La città incantata:

Al contempo, interessanti sperimentazioni per i volti maschili, evolvendo il modello di base utilizzato finora, che poi si ritrova sempre nel film successivo:

Ma soprattutto con l’introduzione di un modello del tutto nuovo, rappresentato in questo caso da Jiko-Bō, in La città incantata da vari personaggi maschili:

Ma le sperimentazioni più interessanti riguardano sicuramente la rappresentazione degli animali, ricchissimi di particolari e di tecniche del tutto nuove, che si evolveranno in maniera diverse sia in Il castello errante di Howl, sia in La città incantata:

E lo stesso vale anche per i corpi giganteschi e gelatinosi, qui per il Dio della Foresta, in la Città Incantata con il Senza-volto nella sua forma finale:

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Porco rosso – Un’avventura italiana

Porco rosso (1992) è la prima avventura italiana di Hayao Miyazaki, nonché il primo suo lungometraggio con un protagonista maschile.

Un prodotto che confermò nuovamente l’andamento positivo del maestro nipponico a livello internazionale: sempre 44 milioni di dollari di incasso, a fronte di 9,2 milioni di yen (circa 7 milioni di dollari).

Di cosa parla Porco rosso?

Porco Rosso, soprannome dell’aviatore Marco Pagot, è un ex pilota dell’Aeronautica Italiana e cacciatore di taglie. Il nome deriva dal suo particolare aspetto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Porco rosso?

Porco Rosso in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

Assolutamente sì.

Porco rosso è fra i minori di Miyazaki che assolutamente preferisco, al pari del precedente Il mio vicino Totoro (1988). Solo la prima delle due avventure italiane del maestro nipponico, prima del più recente Si alza il vento (2013).

Una storia che unisce il realismo più stringente e l’elemento fantastico in maniera organica e ben pensata, con un protagonista carismatico e interessante. E non manca anche di un tono che mischia il drammatico e i momenti più gustosamente comici.

Da vedere, assolutamente.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Porco Rosso il pericolo è medio-alto.

Il solito appesantimento insostenibile dei dialoghi, con utilizzo di termini totalmente fuori contesto: insomma, al solito i personaggi parlano come dei libri stampati – e pure datati. Ci mancava solo che Cannarsi avesse tradotto il titolo Maiale cremisi

Proprio per questo, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

Una storia semplice e perfetta

Porco Rosso e Fio Piccolo in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

La bellezza della storia di Porco rosso è soprattutto nella sua semplicità.

Una piccola storia di pirati, che riprende i livelli di comicità degli analoghi personaggi di Laputa (1986) e un protagonista inedito Miyazaki, più complesso e non del tutto positivo, ma anzi con dei picchi drammatici piuttosto interessanti.

La vicenda è divisa in due atti e ruota intorno allo scontro fra Marco e Curtis, arricchendosi di tante sottotrame piacevoli e divertenti, e, al contempo, con approfondimenti sul protagonista e la sua storia, anche se non viene mai del tutto chiarita…

La donna oggetto?

Fio Picolo in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

Anche in questo caso Miyazaki conferma la sua superba gestione dei personaggi femminili.

Ambientando la vicenda alla fine degli Anni Venti, sarebbe stato del tutto irreale inserire un personaggio come Fio senza un’adeguata contestualizzazione. E infatti la ragazza viene trattata in maniera estremamente verosimile: sottovalutandola, sminuendola e oggettificandola.

All’inizio Porco Rosso non vuole che lei si occupi del suo aereo, dicendo esplicitamente che non si fida perché femmina e troppo giovane. Ma basta poco perché la ragazza dimostri le sue capacità, al punto che, grazie alla sua forte intraprendenza, diventi persino motore dell’azione.

In seconda battuta, con i pirati, e soprattutto con Curtis, Fio diventa l’oggetto del desiderio, ma in realtà è anche il personaggio che riesce a risolvere la disputa in maniera ordinata e senza che nessuno si faccia veramente male, dimostrando arguzia e intelligenza.

Essere liberi

Porco Rosso in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

Meglio maiale che fascista.

Il contesto storico è assai sottolineato durante la narrazione, con uno spiccato accento sul pacifismo e sull’opposizione al regime. Tuttavia, anche spogliando la narrazione del suo esplicito significato politico, la morale è un’altra.

Marco, dopo aver visto i suoi compagni morire, ha capito di dover volare da solo, libero, ma anche escluso dagli altri. Una libertà quindi guadagnata a caro prezzo, dovendo soffrire un aspetto repellente e al contempo l’essere nel costante mirino del Fascismo.

E a questo proposito…

Perché Porco Rosso è un maiale?

Il motivo della maledizione di Porco Rosso che lo rende un maiale non è esplicitato, ma si può intuire dal suo racconto.

Marco era un pilota dell’aeronautica, che ha visto morire amici e nemici insieme, trovandosi solo nel mondo, e capendo proprio in quel momento che quella doveva essere la maledizione della sua vita: volare da solo.

Una maledizione che forse è anche dovuto all’autosuggestione, a come il protagonista ha interpretato quella scena, decidendo anche di recidere ogni contatto personale e relazione potenziale, in particolare con Gina.

Cosa succede nel finale di Porco rosso?

Porco Rosso e Gina in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

Quindi cosa succede nel finale di Porco Rosso?

La narrazione è affidata alle parole di Fio, che spiega l’esito della scommessa di Gina è un segreto, ma che lei comunque non ha più incontrato Porco Rosso. Quindi un finale aperto, che lascia però una speranza allo spettatore.

Io personalmente spero che Marco sia riuscito a ricongiungersi con Gina, a stringere una vera e profonda relazione con lei, e, in questo modo, si sia liberato di quella maledizione che in qualche modo si è autoimposto. Così da tornare umano.

E meno solo.

Le parole italiane in Porco rosso

Miyazaki, come altri autori nipponici, dimostra un profondo amore per l’Italia. E, per questo, mi viene più facile perdonargli alcuni errori di pura ingenuità.

Fra tutte le scritte in italiano che compaiono nella pellicola, ce ne sono alcune con piccoli errori, in particolare nell’officina Piccolo vi è il classico cartello che dice Non si fa credito, ma è scritto Non si fo credito.

Al contempo, l’ambientazione della storia è abbastanza generica, in particolare la Milano rappresentata sembra più ispirata a diverse città europee, e non specificatamente alla capitale lombarda.

In ultimo, nella sua totale ingenuità, Miyazaki evidentemente non si rendeva conto di quanto sia involontariamente comico il fatto che Fio chiami il protagonista Porco, che ha un altro significato in italiano…

In Porco Rosso Miyazaki sperimenta in nuove direzioni.

Anzitutto, qui per la prima volta si vede il nuovo modello per i personaggi femminili, principalmente quelli adulti, che si distinguono più nettamente da quelli invece più giovani, che restano costanti fin da Nausicaä della Valle del vento (1984).

Infatti, Fio Piccolo è sostanzialmente identica a Nausicaä:

Mentre Gina è il primo personaggio femminile adulto veramente differente, con un modello poi ripreso sia ne La città incantata (2001) che nel Il castello errante di Howl (2004):

Elemento curioso: è la prima volta che in un film di Miyazaki i personaggi fumano, elemento incredibilmente presente in La città incantata:

Inoltre, continua qualche passo avanti nella rappresentazione degli oggetti domestici, con un netto miglioramento:

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Kiki – Consegne a domicilio – Una piccola storia

Kiki – Consegne a domicilio (1989) è uno dei prodotti meno noti di Miyazaki, e anche quello che personalmente apprezzo di meno – all’interno di una produzione di opere meravigliose, beninteso.

Un prodotto che confermò l’andamento positivo delle opere di questo regista in ambito internazionale: a fronte di 6,9 milioni di dollari (800 milioni di yen), ne incassò 41,8 in tutto il mondo, al pari del precedente.

Di cosa parla Kiki – Consegne a domicilio?

Kiki è una giovane strega di appena tredici anni, che si imbarca nel suo anno di formazione, pronta ad affrontare un mondo del tutto nuovo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Kiki – Consegne a domicilio?

Kiki in una scena di Kiki - consegne a domicilio (1989) di Hayao Miyazaki

In generale, sì.

Come anticipato, non è esattamente fra i miei preferiti della produzione di Miyazaki: fra tutti, è quello che mi sembra il meno ispirato e il meno interessante. Quasi un esercizio di stile, che conferma gli ottimi passi avanti a livello di animazione e tecnica, e al contempo muove i primi passi verso altre direzioni meno esplorate finora.

Nel complesso un prodotto piacevole, che vive più di piccoli archi narrativi che di una vera e propria storia unitaria. Fra l’altro storyline a volte pure difettose dal punto di vista della credibilità delle dinamiche rappresentate…

Insomma, se volete approcciarvi per la prima volta a Miyazaki, non cominciate da qui.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Kiki – Consegne a domicilio il pericolo è medio.

Ascoltando il doppiaggio italiano ci troviamo di fronte alle solite forzature, costruzioni sconclusionate e frasi artificiosissime: il solito, insostenibile Cannarsi. Ma, complessivamente, c’è molto di peggio.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

Fin troppo semplice…

Kiki e Jiji in una scena di Kiki - consegne a domicilio (1989) di Hayao Miyazaki

Le sfide di Kiki tutto sommato si risolvono fin troppo facilmente.

Fin dall’inizio la protagonista sembra trovarsi in un ambiente ostile e sconosciuto, in cui fa fatica ad orientarsi. Ma in realtà non ci vuole molto perché riesca facilmente a trovare una sistemazione, senza dimostrare in realtà alcuna capacità e dando un aiuto abbastanza marginale alla panetteria che la ospita.

Allo stesso modo, nonostante qualche imprevisto, riesce a completare il suo lavoro e ad essere immediatamente amata da tutti, così da raggiungere facilmente il successo e la fama. Non mancano le insidie, ma sembrano più avere un sapore quasi comico che essere delle vere minacce.

Per esempio, fra tutte le difficoltà della prima consegna, il cane che le viene in aiuto è davvero fin troppo conveniente…

Coming of age?

Kiki e Tombo in una scena di Kiki - consegne a domicilio (1989) di Hayao Miyazaki

Apparentemente Kiki – Consegne a domicilio dovrebbe essere un racconto di formazione, un coming of age.

Tuttavia, è un aspetto che ho sentito veramente poco.

La protagonista viene messa davanti a diverse sfide, ma, proprio per quanto detto sopra, sembra come se ne sarebbe uscita vincitrice in ogni caso: non si vede una vera e propria maturazione del personaggio, ma più l’inizio della stessa.

Soprattutto nel finale, che dovrebbe essere il punto di arrivo, Kiki mostra semplicemente ancora una volta la sua intraprendenza e viene ancora di più amata ed ammirata da tutti: non un cambiamento sostanzialmente, ma la conferma di una situazione già esistente.

E a questo proposito…

Perché Kiki perde i poteri?

L’ultimo atto del film apre non pochi punti di domanda.

Anzitutto, perché Kiki perde i poteri?

La protagonista perde temporaneamente i suoi poteri da strega perché in un certo senso viene meno a sé stessa: sceglie di non accettare l’invito di Tombo e si mette anche in pericolo pur di finire il lavoro.

E quella che è un’apparente pausa, è invece il passaggio, la rottura fondamentale che la porta alla maturazione – almeno sulla carta. Infatti, Kiki alla fine dovrà dimostrare di sapersi impegnare in qualcosa di veramente importante.

Jiji Kiki consegne a domicilio

Jiji in una scena di Kiki - consegne a domicilio (1989) di Hayao Miyazaki

Perché Jiji non le parla più?

Apparentemente il comportamento cambiato di Jiji è dovuto alla perdita di poteri di Kiki. In realtà, anche quando la protagonista li riacquista, il gatto continua a non parlarne. E lei ne è consapevole, ma sembra accettare la nuova situazione con una ritrovata serenità.

L’interpretazione più evidente è che il mutismo di Jiji rappresenti un altro passaggio di Kiki, che abbandona un elemento che l’aveva definita nella sua infanzia, ma che adesso è cambiato: lei e il gatto continueranno a vivere insieme, ma con dinamiche differenti.

In questa pellicola Miyazaki sperimenta in nuove direzioni e consolida al contempo strade già intraprese.

Continuano le sperimentazioni sui volti giovani, portando ad una interessante differenziazione – anche solo per particolari del volto – fra i vari personaggi coinvolti:

con anche un curioso passo indietro rispetto a Il mio vicino Totoro nella rappresentazione delle bocche e dei denti: mentre nell’opera precedente erano molto marcati, in questo caso sono più naturali:

Una sperimentazione piuttosto peculiare anche nei volti anziani, con tre modelli totalmente differenti fra loro:

E si vedono anche i primi tentativi di differenziazione fra i volti più infantili – quello di Kiki – e quelli delle giovani donne – Ursula. In questa fase il volto della ragazza assomiglia di più a quelli maschili, ma personaggi come il suo saranno definitivamente differenziati in La principessa Mononoke (1997) e La città incantata (2001):

Allo stesso modo, confermata la bellezza degli sfondi e degli esterni:

Kiki in una scena di Kiki - consegne a domicilio (1989) di Hayao Miyazaki

Inoltre, per la prima volta Miyazaki sperimenta davvero con gli oggetti della casa e col cibo, con risultati ancora un po’ approssimativi, soprattutto se confrontati con la bellezza di Il castello errante di Howl (2004):

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Il mio vicino Totoro – La favola di Miyazaki

Il mio vicino Totoro (1988), traduzione abbastanza coerente del titolo originale – となりのトトロ, lett. Totoro il vicino è uno dei film dal taglio più delicato e favolistico della produzione di Miyazaki.

A fronte di un budget ad oggi sconosciuto, è il miglior riscontro di Miyazaki a livello internazionale, con 41 milioni di dollari di incasso. Il film venne proposto nei cinema italiani solamente nel 2015.

Di cosa parla Il mio vicino Totoro?

Le sorelle Satsuki e Mei si sono appena trasferite in una graziosa casa nella campagna di Tokyo degli Anni Cinquanta. Un paesaggio quasi favolistico, che nasconde molti splendidi segreti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il mio vicino Totoro?

Assolutamente sì.

Anche se l’ho scoperto più tardivamente rispetto agli altri prodotti di questo regista, è un film assolutamente imperdibile, per la sua delicatezza e piacevolezza. Una storia in realtà con un sottofondo piuttosto drammatico, perfettamente integrata in un contesto favolistico e quasi onirico, nel peculiare stile nipponico.

Fra l’altro una delle migliori prove di Miyazaki come autore, sia per la costruzione della trama, sia per la bellezza dei disegni, in particolare negli splendidi sfondi. Un’opera che ti cattura, ti commuove, ti intrattiene in una durata anche piuttosto contenuta.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Il mio vicino Totoro il pericolo è abbastanza basso.

Nonostante il doppiaggio risalga al 2015, forse anche per i pochi dialoghi, non è niente di così tanto drammatico, ma generalmente abbastanza ascoltabile.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

Il contesto fantastico…

Il world building de Il mio vicino Totoro è spettacolare.

Una realtà fantastica che si integra perfettamente nel tema di fondo molto presente nelle opere di Miyazaki: la bellezza della natura e della sua conservazione.

Forse proprio per questo la scelta di ambientare la vicenda in una realtà più lontana anche dall’uscita originaria del prodotto in un contesto meno urbanizzato, e dove la natura domina.

Una natura anche piuttosto misteriosa, piena di nascondigli e segreti, uno sfondo perfetto per raccontare una storia con due protagoniste così giovani e la loro riscoperta dell’ambiente che le circonda, per nulla osteggiato – come in altri contesti – dagli adulti.

E qui nasce il più importante contrasto.

…e il sottofondo drammatico

L’elemento drammatico è introdotto molto lentamente, facendo prima immergere lo spettatore nella spensieratezza del contesto fantastico.

La malattia della madre inizialmente non sembra neanche grave – nella sua prima apparizione viene mostrata serena e con nessun segno di cedimento. Il picco drammatico avviene con il rimando del ritorno a casa.

Per la mancanza di comunicazioni dirette, rinasce nelle protagoniste di nuovo la terribile paura di perdere la genitrice, una paura sotterranea, ma in realtà non nuova, che le angoscia terribilmente. E la tensione viene ancora più caricata con la scomparsa di Mei, che assume per certi versi dei tratti da cronaca nera.

Il fantastico rincuorante

Anche l’elemento fantastico è introdotto a piccoli passi.

E sempre ridimensionato in senso positivo.

Il primo contatto con il mondo nascosto degli spiriti e della magia è con i fantasmini della polvere, che i protagonisti riescono a cacciare dalla casa. E poi, ormai nella parte centrale della pellicola, si introduce finalmente Totoro, la cui scoperta avviene grazie al giocoso inseguimento di Mei e gli spiritelli impauriti.

Nei due incontri successivi, Totoro arriva proprio nei momenti di maggiore sconforto e paura delle due bambine: prima quando aspettano impazienti il padre che sembra non arrivare mai, nell’iconica scena della fermata dell’autobus, in cui questa meravigliosa creatura mostra tutta la sua piacevolezza e giocosità.

In ultimo, proprio nel picco drammatico della pellicola, Satsuki chiede aiuto proprio a Totoro, che non solo l’aiuta a ritrovare alla sorella, ma le dà un passaggio con il gattobus, altra creatura fantastica che sembra uscita fuori da un libro delle favole.

E riescono così anche a vedere in prima persona che la madre sta bene.

In questo film la tecnica di Miyazaki compie un passo avanti piuttosto decisivo.

L’elemento che salta subito all’occhio sono gli sfondi: curatissimi e pieni di dettagli, quasi dei dipinti in movimento, e rendono perfettamente quell’aspetto aulico e retrò dell’ambientazione:

Ovviamente il punto più alto sono i dettagli, l’animazione e la cura nel disegno di Totoro, e così anche del gattobus:

Continua inoltre l’ottimo studio sui volti anziani. Infatti, con Nanny sembra formarsi in via definitiva il modello per questo tipo di personaggi: occhi molto grandi, guance pronunciate, corporatura robusta e una fitta rete di rughe, che avrà poi il suo apice in La città incantata (2001) e Il castello errante di Howl (2004):

Diversi miglioramenti anche per la gestione dei personaggi giovani, che diventano molto più espressivi: piangono, si emozionano, urlano, paradossalmente in maniera quasi parallela al personaggio di Totoro:

Guardando al futuro più prossimo, nell’aspetto Satsuki assomiglia molto alla protagonista della prossima pellicola di Miyazaki, Kiki – consegne a domicilio (1989):

Mentre sia Mei che Kanta ricordano lo sviluppo dei bambini in Il castello errante di Howl, nel personaggio di Markl:

Il mio vicino totoro vs la città incantata

E ho notato anche un paio di interessanti – nonché strani – parallelismi con La città incantata. Anzitutto, Mei in certi momenti ha una faccia che assomiglia molto ad una rana, e infatti se si fa il confronto:

La scena in cui i semi cadono per la casa sul pavimento ricorda, anche se in maniera diversa, la scena delle pepite d’oro. Ma il collegamento più evidente è l’aspetto degli spiriti della polvere, che si vedranno identici nel film del 2001:

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Laputa – Il primo, comico Ghibli

Laputa Il castello nel cielo (1986) è il secondo lungometraggio di Hayao Miyazaki come autore completo, nonché il primo film prodotto dal neofondato Studio Ghibli.

E, come il precedente Nausicaä della Valle del vento (1984), fu un ottimo successo commerciale: a fronte di un budget di appena 500 milioni di yen (circa 3 milioni di dollari), incassò 16 milioni in tutto il mondo.

Arrivò in Italia prima direttamente in DVD nel 2004, in una versione ritirata subito dal mercato, e solo nel 2012 venne proiettato al cinema con il nuovo doppiaggio.

Di cosa parla Laputa?

Una misteriosa ragazzina è stata rapita da degli uomini senza scrupoli. Mentre cerca di scappare, cade dall’aeronave, ma riesce a non precipitare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Laputa?

Sheeta e Pazu in una scena di Laputa - Il castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki

In generale, sì.

Laputa è uno dei primi prodotti di Miyazaki, ma in cui mostra già grande abilità nel raccontare una storia ben costruita e una splendida ambientazione fra il mistico e il magico.

Inoltre, dopo Nausicaä della Valle del vento, in questa pellicola il maestro nipponico introduce nuovi spunti di riflessione, che saranno ancora più approfonditi nei suoi prodotti futuri.

Inoltre, vi è un piacevolissimo incontro fra una trama veramente drammatica, quasi paurosa, e alcuni elementi comici, al limite del grottesco e dell’assurdo, alternando così momenti più tragici a sequenze più leggere.

Insomma, da vedere.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Laputa Il castello nel cielo il pericolo è medio-alto.

Il doppiaggio risale al 2012, quando Cannarsi aveva già anche troppa importanza nel settore. E sembra incredibile che sia stato approvato un adattamento così sconclusionato, al limite dell’inverosimile, tanto da risultare quasi comico.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

Una protagonista troppo innocente?

Sheeta e Pazu in una scena di Laputa - Il castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki

Come caratterizzazione, Sheeta non è tanto diversa da Nausicaä, ma come caratterizzazione si compie un piccolo passo indietro.

Forse anche per la sua giovane età, la protagonista di Laputa è davvero un personaggio innocente, in parte intraprendente, ma anche tendenzialmente passiva, che rimette la risoluzione finale dell’avventura nelle mani di Pazu, che più che un compagno è quasi un coprotagonista.

Tuttavia, la sua caratterizzazione è del tutto funzionale alla trama: i toni più drammatici e minacciosi di Laputa e, soprattutto, di Muska, sono in aperto contrasto con la totale ingenuità della ragazzina.

Un personaggio più intraprendente e maturo non avrebbe avuto lo stesso effetto, insomma.

Il doppio nemico

Sheeta e Pazu  e i pirati in una scena di Laputa - Il castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki

Per questa pellicola Miyazaki sceglie di inserire ben tre gruppi di nemici, che si definiscono in una scala di sempre maggiore di cattiveria e spietatezza.

I pirati sono una minaccia per i personaggi limitatamente al primo atto, mentre la loro pericolosità si smorza sempre di più nel corso della pellicola. Diventano infatti dei personaggi fondamentalmente comici, con una leader solo apparentemente arcigna a capo di un gruppo di criminali che sono in realtà dei bambinoni.

Allo stesso modo molto meno minacciosi di quanto sembrino sono l’esercito e, soprattutto, il generale, che in realtà è totalmente nelle mani di Muska, raccontato come nemico piuttosto banale, che desidera solo arricchirsi e ottenere una nuova arma da guerra.

Mazuka Laputa

Mazu in una scena di Laputa - Il castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki

Il vero villain, appunto, è Muska.

Muska è uno degli antagonisti più temibili di tutta la produzione di Miyazaki: volendosi solo apparentemente arricchire, in realtà è un uomo assetato di potere, che non si fa alcuno scrupolo a maltrattare e usare una ragazzina così indifesa.

Molto indovinata la scelta di legarlo così direttamente alla protagonista, dando un sapore più importante al loro conflitto. Al contempo, è un antagonista elegante e ben raccontato, che non si sbilancia mai, ma rimane solo drammaticamente malvagio, a tratti persino inquietante.

Il paradiso inviolabile

Sheeta e Pazu in una scena di Laputa - Il castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki

Anche se Laputa è una destinazione desiderata per le sue ricchezze e la sua potenza, la bellezza del luogo è un’altra.

L’isola è mostrata come un luogo dalla natura incontaminata, con un’atmosfera magica che racconta ancora una volta la bellezza degli ambienti quando sono sottratti al controllo umano.

Così un castello che era un’arma di distruzione, è diventato un paradiso terrestre, con dei robot killer che hanno riscoperto la loro natura gentile.

Robot Laputa

Il robot in una scena di Laputa - Il castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki

La tematica dell’ambientalismo in questo caso è più sottile, mentre i temi centrali sono l’avidità umana e l’orrore della guerra. Il primo è meno incisivo, ma costante: nella loro completa onestà e ingenuità, i due protagonisti raggiungono Laputa per il piacere della scoperta, e non per arricchirsi.

Molto diverso dal comportamento dei soldati mentre spogliano il castello delle sue ricchezze senza pietà.

Più drammatico è il tema della guerra, racconto dall’azione distruttiva – letteralmente – dei villain, ma racchiuso soprattutto nella scena in cui Mazuka utilizza per la prima volta l’isola come arma, che ricorda molto una certa bomba atomica…

Temi che saranno anche meglio raccontati l’uno in La città incantata (2001), e l’altro in Il castello errante di Howl (2004).

La tecnica artistica di Miyazaki in questo film mostra già un’importante evoluzione.

La tecnica generale è ancora molto abbozzata per diversi personaggi, soprattutto nelle scene affollate, e forse è la pellicola in cui si vede di più l’importanza dell’esperienza del regista con Lupin e Heidi.

Sheeta – ma anche Pazu – è molto simile per i tratti del viso ad Heidi, e anche un po’ per la caratterizzazione:

In generale, per il momento Miyazaki rimane sul semplice per la maggior parte dei volti, e alcuni personaggi maschili ricordano Lupin, appunto.

Inoltre, in Laputa si guarda al futuro, ma anche al passato: le volpi che corrono sulle spalle dei robot sono identiche all’animale da compagnia di Nausicaä:

E ci sono due personaggi che sembrano dei bozzetti per prodotti futuri: la sorella di Pazu assomiglia moltissimo alla protagonista di Ponyo sulla scogliera (2008), mentre il macchinista dei pirati sembra la prima versione di quello che sarà poi Kamaji ne La città incantata:

Ponyo Laputa

I passi avanti più promettenti sono i primi studi fatti sui volti anziani, in particolare quello delle matrone, come appunto Dola, che avrà la sua migliore realizzazione in La città incantata con Yubaba e soprattutto in Il castello errante di Howl con la protagonista:

Altrettanto buono è il lavoro fatto sulle espressività del viso dei personaggi, che offrono molti spunti soprattutto per Mazuka, ma anche sempre per Dola:

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Nausicaä della Valle del vento – L’ambientalismo di primo pelo

Nausicaä della Valle del vento (1984) è il primo film in cui Miyazaki è sia regista che sceneggiatore, possiamo dire la sua prima avventura in autonomia, dopo essersi già affacciato al cinema con Lupin III – Il castello di Cagliostro (1979).

A fronte di un budget davvero ridotto – appena 180 di yen, circa 750 mila dollari – incassò 8 milioni in tutto il mondo (o almeno nei paesi in cui uscì). Arrivò nei cinema italiani solamente nel 2015.

Di cosa parla Nausicaä della Valle del vento?

Circa mille anni dopo una terribile guerra termonucleare che ha distrutto gran parte della Terra, il mondo è diviso in due grandi imperi e frammentato in piccole comunità autonome. Ma c’è chi ancora vuole riportare l’Umanità al suo splendore…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Nausicaä della Valle del vento?

Nausicaä della Valle del vento

Assolutamente sì.

Soprattutto se siete appassionati di Miyazaki, non potete assolutamente perdervi questo titolo – e lo dico io che non l’ho visto se non prima di questa recensione. Un’opera prima che però racchiude già molti temi cari al regista, che si ritroveranno anche e soprattutto in La principessa Mononoke (1997).

La tecnica artistica, nonostante sia più semplice e meno dettagliata rispetto alla sua produzione successiva, riesce comunque a raccontare mondi sorprendenti, personaggi peculiari e atmosfere fascinose. Al contempo la storia è intrigante, avvincente, e racchiude un’importante riflessione che ha davvero anticipato i tempi…

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Nausicaä della Valle del vento il pericolo è medio.

Essendo uscito nel 2015 in Italia, al tempo Cannarsi aveva già acquisito uno status piuttosto importante. Tuttavia, non era ancora all’apice della sua follia: i dialoghi appaiono abbastanza artificiosi, ma non ad un livello tale da compromettere complessivamente la godibilità del film.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

La prima protagonista

Nausicaä della Valle del vento

Una peculiarità di Miyazaki è di scegliere come protagoniste, nella maggior parte delle sue opere, personaggi femminili con capacità fuori dal comune.

In questo caso il potere di Nausicaä poteva prendere delle strade molto semplici e ridondanti, trasformandola nella più classica delle Mary Sue. Ma non è nello stile del regista: al contrario le abilità della protagonista sono strettamente connesse con la tematica centrale della pellicola stessa.

Infatti Nausicaä è l’unica capace di riconnettersi con quella natura, che invece l’umanità considera solamente ostile e distruttiva, combattendo la violenza solamente con la violenza. E lo si vede fin da subito, quando riesce a placare sia l’Ohm sia il cucciolo che Yupa gli porta.

E la sua connessione è fondamentale per la sopravvivenza dell’umanità stessa.

La potenza della natura

Nausicaä della Valle del vento

Come spiega la saggia anziana della Valle del Vento, ogni volta che si è cercato di distruggere il Mar Marcio, gli Ohm si sono diretti in massa verso i centri abitati, distruggendo a loro volta tutto quello che incontravano.

Agli occhi degli umani colonizzatori, quindi il Mar Marcio e i suoi abitanti sono il nemico da sconfiggere per riportare l’umanità alla gloria. Ma neanche il popolo della Valle del vento è privo di colpe: molto ingenuamente, continua a distruggere le spore che starebbero avvelenando le coltivazioni.

Ma Nausicaä capisce che la realtà è ben diversa.

Nausicaä della Valle del vento

Dopo la terrificante distruzione operata dall’uomo, la Terra, e quindi la Natura, sta solo cercando di depurarsi dall’avvelenamento e dall’inquinamento che gli è stato rovesciato addosso, e quindi, più in generale, sta tentando di purificarsi dalla presenza umana e dei suoi danni.

E allora l’unico modo per l’umanità di continuare a vivere sulla Terra è di imparare rispettarla, ma per davvero: vivere in armonia con l’ambiente, e lasciare che sia lo stesso a curarsi dei danni che gli sono stati inflitti.

E il Mar Marcio che depura la terra non è tanto diverso dalle nostre foreste che depurano l’aria che respiriamo…

Atmosfere magiche

Nausicaä della Valle del vento

Già in questa prima pellicola Miyazaki riesce a rappresentare un mondo davvero splendido.

La peculiarità di questo maestro dell’animazione è proprio il far immergere i personaggi in ambienti fascinosi e pieni zeppi di particolari, curati alla stregua di un’opera d’arte – tratto che avrà il suo picco con Il castello errante di Howl (2004).

In Nausicaä della Valle del vento si vede già in nuce questa tendenza: paesaggi e ambienti più semplici e ordinari si alternano ad ambientazioni davvero suggestive, in particolare nel caso del Mar Marcio, un luogo magico e pieno di sorprese.

Fra l’altro lo stesso mi ha ricordato le meravigliose ambientazioni del videogioco Hollow Knight (2017):

Un eccessivo didascalismo

Nausicaä della Valle del vento

L’unico elemento che non mi ha entusiasmato della pellicola è il didascalismo delle primissime scene.

Dovendo sottostare alla necessità di raccontare alcuni elementi della trama fin dall’inizio, Miyazaki si è andato ad incastrare in diversi momenti in cui la protagonista dice a voce alta delle cose che probabilmente erano solo nei suoi pensieri.

E se la pesantezza e la poca naturalezza di queste scene si sente abbastanza nella versione originale, in realtà il vero dramma è il doppiaggio di Cannarsi, che riesce come sempre a portare all’ennesima potenza ogni elemento anche solo potenzialmente negativo…

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2022 Animazione Avventura Azione Comico Commedia Drammatico Dreamworks Fantasy Film Il gatto con gli stivali

Il gatto con gli stivali 2 – La rinascita?

Il gatto con gli stivali 2 – L’ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford è stata una grande sorpresa fra la fine del 2022 e l’inizio del 2023: un sequel arrivato a più di dieci anni di distanza dal primo – mediocre e dimenticabile – capitolo.

Infatti, aprendo con un incasso non molto promettente – appena 20 milioni negli Stati Uniti – il film ha cominciato la sua scalata verso il successo proprio grazie all’ottimo passaparola, che l’ha fatto arrivare ad incassare 470 milioni di dollari in tutto il mondo, a fronte di un budget di 90.

Ed è un caso più interessante di quanto si potrebbe pensare…

Di cosa parla Il gatto con gli stivali 2?

Il gatto con gli stivali è un eroe amato da tutti, con una vita spericolata e senza freni. Ma un incontro inaspettato gli farà cambiare drasticamente idea…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena vi vedere Il gatto con gli stivali 2?

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Assolutamente sì.

Non avevo inizialmente alcun interesse per questa pellicola – né d’altronde per il primo capitolo, che non avevo mai visto. Mi sembrava il solito strascico senza senso di una saga – quella di Shrek – che boccheggiava già con il terzo film della storyline principale.

E per fortuna il passaparola mi ha salvato.

Il passaparola positivo è stato infatti la salvezza di questo prodotto, che inizialmente sembrava destinato al collasso economico – come la maggior parte dei film d’animazione di questo periodo. E ha portato anche me alla visione.

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Il gatto con gli stivali 2 è un’ottima pellicola d’animazione, che dopo tanti anni riporta la Dreamworks verso quel taglio narrativo che l’aveva resa così diversa dai prodotti della concorrenza.

A questo si aggiunge una tecnica d’animazione che mischia la grafica 3D con quella 2D, ottimamente realizzata, che ricorda molto la bellezza di altri ottimi prodotti come la serie Arcane (2021 – …) e Spiderman into the spiderverse (2018).

Insomma, se non l’avete ancora fatto, recuperatelo assolutamente.

Ma passiamo alla domanda fondamentale…

Per vedere Il gatto con gli stivali 2 devo vedere Il gatto con gli stivali del 2011?

Questa sezione è dovuta perché non voglio che voi facciate il mio stesso errore.

Visto il mio totale disinteresse per il primo capitolo – e il mio totale disprezzo per le ultime morenti fasi della saga di Shreksono passata direttamente al sequel. Poi, per completezza, ho deciso di vedere anche il primo capitolo.

E ho sbagliato.

Non solo il dislivello fra i due film è immenso, ma la visione del primo capitolo è fondamentalmente inutile per fruire del seguito. E potrebbe anzi avere l’effetto contrario: allontanarvi dalla visione de Il gatto con gli stivali 2.

Purtroppo, Il gatto con gli stivali (2011) è veramente mediocre: una trama banalissima e di nessun interesse, personaggi quasi grotteschi e villain assai deboli e mal costruiti. Per questo, nelle prossime righe vi dirò le poche cose che vi servono per godervi appieno Il gatto con gli stivali 2.

Non proseguire se non vuoi spoiler su Il gatto con gli stivali (2011)!

Quando era solo un cucciolo, il gatto con gli stivali fu adottato da una donna che curava un orfanotrofio, e la stessa gli regalò il suo iconico paio di stivali, simbolo della sua futura vita da eroe.

Nel primo film il gatto conosce anche Kitty Softpaws, che ritorna nel seguito, con cui intraprende una relazione romantica, nonostante la gatta sia una doppiogiochista e nel film si scopre essere parte dell’inganno del villain.

Ora potete vedere Il gatto con gli stivali 2!

La caduta dell’eroe

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

L’incipit è davvero ottimo.

La pellicola si apre con un rocambolesco numero musicale con protagonista il gatto, a cui segue un combattimento incredibilmente ben realizzato contro il gigante che ha involontariamente risvegliato e che attacca la città.

Questa sequenza ci racconta tutto quello che dobbiamo sapere sul nostro protagonista.

Il gatto con gli stivali vive una vita a metà fra l’eroismo e la criminalità: salva la città ed è ammirato dal popolo, ma in parte osteggiato dai personaggi più in vista, di cui si approfitta, conducendo una vita piuttosto spericolata e dissoluta.

Ma non è una scelta sostenibile nel tempo.

Il viaggio della maturità

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Il film racconta la maturazione del protagonista, una sorta di passaggio da un’esistenza più giovane e, volendo, adolescenziale, verso una vita più adulta e consapevole.

Infatti, all’inizio della pellicola il gatto viene messo davanti alle sue responsabilità: ha sparato tutte le cartucce che gli hanno permesso di ridere in faccia alla morte, vivere senza pensare alle conseguenze…

…e gli è rimasta una sola vita.

Inizialmente il protagonista si rifiuta di accettare questa possibilità, e sceglie di continuare a vivere come ha sempre fatto. Il momento del drastico cambio di idea, e della decisione di spogliarsi della sua identità, è l’incontro con la Morte.

La Morte è infatti l’unica cosa che fa davvero paura al protagonista.

Un’inquietante ombra che lo insegue per tutta la sua avventura, senza che il gatto sia – per la maggior parte del tempo – capace neanche di raccontarlo ai suoi compagni. E la sua maturazione sta proprio nel come affrontare la Morte o, meglio, la responsabilità di avere una sola vita da vivere, e per questo di trattarla con cura.

E infatti il primo istinto del protagonista è di aggirare il problema, concedendosi ancora molte vite e molte occasioni da utilizzare, ma, soprattutto, da sprecare.

Ma nel finale la sua scelta di non sfuggire dalla morte, ma di guardarla in faccia e sfidarla, è quello che fa capire alla stessa che il gatto non è più quello di una volta, non è più l’eroe sfacciato che non aveva alcun interesse o cura della sua esistenza. E per questo lo lascia andare.

Le favole adulte

Riccioli D'oro e i Tre Orsi in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Con Il gatto con gli stivali 2 finalmente la Dreamworks torna a delle scelte narrative più interessanti e mature, in questo caso portando in scena le versioni adulte delle favole stesse, che in certo senso rispecchiano anche il pubblico di riferimento.

La favola di più immediata comprensione per il pubblico europeo è quella di Riccioli d’oro, che ormai è una giovane adulta che vive insieme a tre orsi: un simpatico quanto temibile quartetto di criminali.

Big Jack Horner in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Anche più interessante è la riscrittura della storia di Little Jack Horner – nel film Big Jack Horner, per ovvi motivi. La sua favola proviene da una canzoncina del folklore inglese, che recita quanto segue (la traduzione è mia):

Little Jack Horner
Sat in the corner,
Eating his Christmas pie;
He put in his thumb,
And pulled out a plum,
And said, “What a good boy am I!”

Little Jack Horner
Stava seduto in un angolo
Mangiando la sua mince pie
Vi mise dentro il pollice
E tirò fuori una prugna
E disse: “Che bravo bambino che sono!”

Quindi la storia di un bambino incredibilmente viziato e dispettoso, per cui i genitori stravedevano e a cui permettevano di fare tutto quello che voleva, fra cui mettere il pollice dentro le torte, appunto.

E, da bambino capriccioso è diventato un adulto capriccioso, che vuole tutto per sé: colleziona ogni oggetto magico esistente, ma ancora non gli basta.

E per questo è un villain perfetto.

Un terzetto di villain

Mentre in un altro contesto la presenza di così tanti villain poteva impattare negativamente sul risultato finale, nel caso de Il gatto con gli stivali 2 questa scelta favorisce invece una narrazione articolata e senza tempi morti.

Il primo gruppo di villain – o quasi – è quello di Riccioli D’oro e i Tre Orsi.

Alle spalle dei Tre Orsi, la ragazza vuole portare indietro i suoi genitori perduti, in un atto di totale egoismo e di mancanza anche di rispetto nei confronti di personaggi che si dimostrano veramente accoglienti e amorevoli nei suoi confronti.

Un bellissimo racconto di come una famiglia si possa formare anche al di fuori dei perimetri più tradizionali, portando Riccioli D’oro ad una consapevolezza non tanto dissimile da quella del protagonista: essere felici della propria vita, che può essere già piena e soddisfacente senza dover inseguire sogni di felicità solo apparentemente risolutivi.

Big Jack Horner in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Due sono gli elementi di forza di Big Jack Horner: il suo ruolo nella trama e il non abbandonare mai la sua natura malvagia.

Per fortuna per il sequel si è scelto di non perpetuare il tremendo e ridondante errore del primo film: far diventare buono il villain. Una scelta solo apparentemente diversa, in realtà diventata col tempo piuttosto prevedibile, con risultati veramente mediocri se gestita così male come in Il gatto con gli stivali (2011).

Invece Jack dice esplicitamente di essere morto dentro, e, nonostante i tentativi del Grillo Parlante di farlo rinsavire, rimane cattivo fino alla fine. E la sua disfatta determina anche la definitiva maturazione dei personaggi positivi, che si alleano ai suoi danni e rinunciano al desiderio tanto ambito.

La sua gestione è altrettanto ottima nel finale: Jack viene messo temporaneamente da parte – apparentemente sconfitto – per far spazio alla Morte.

Morte Il gatto con gli stivali 2

Morte in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

La Morte è uno dei migliori villain mai creati dalla Dreamworks.

Finalmente si ritorna a nemici nello stile di Kung Fu Panda, profondamente malvagi e temibili. In questo caso la Morte è veramente un avversario spaventoso, nell’aspetto e nei comportamenti, e che, soprattutto, viene sconfitto dalla maturità del protagonista.

E fa tanto più paura in quanto si contrappone un animale così possente e pauroso – almeno nel folklore – del lupo, armato di due mannaie, con quello che in fin dei conti è un piccolo gattino, che quasi scompare davanti alla possanza del suo nemico…

Un film per tutte le età

Il grande pregio de Il gatto con gli stivali 2 è stata la scelta di tornare ad un target variegato come era stato per i suoi brand di successo, soprattutto quello da cui deriva: Shrek. Ed è possibile grazie alla scelta di un gruppo di personaggi piuttosto variegato che riesce ad agganciare diversi tipi di pubblico.

Il protagonista racconta una fascia di pubblico intermedia, di giovani adulti che si trovano ad abbandonare l’adolescenza per abbracciare la complessità della vita adulta, con grandi dubbi e paure, ma anche importanti soddisfazioni.

Per un pubblico più giovane e adolescenziale, il punto di riferimento è Riccioli D’oro, che rappresenta proprio la classica adolescente insicura e dal brutto carattere, che però riesce a rendersi conto del valore della famiglia e, in generale, degli affetti che la circondano.

Ma anche il pubblico infantile rimane soddisfatto grazie a Perrito, l’adorabile cagnolino che diventa l’improbabile compagno di avventure del gatto e di Kitty. Il cucciolo – da cui il nome, perrito – racconta proprio lo sguardo infantile e sognante, offrendo quel tocco di dolcezza e tenerezza che non poteva mancare.

Un cambio di passo?

Proprio in questa scelta di un pubblico così variegato come ai vecchi bei tempi io spero di vedere l’inizio di un ripensamento di questa casa di produzione: dopo il cambio di direzione del 2016 – ma per certi versi anche da prima – la Dreamworks ha perso del tutto la sua identità.

Infatti ha cercato di mimare i successi della Illumination Entertainment – madre dei grandi successi della saga di Cattivissimo me e Sing – ma finendo solo per snaturarsi: a differenza dei grandi incassi dei concorrenti – quasi un miliardo solo per il recente Minions 2 (2022) – alla Dreamworks sono rimaste solo le briciole.

Infatti, quando ormai i grandi successi della saga di Shrek erano lontani, dal 2016 i tentativi di rilanciarsi con prodotti solo destinati al pubblico infantile come Trolls o Baby Boss, ma solo il secondo è riuscito a fare un incasso dignitoso.

Per il resto, solo poche centinaia di milioni di incasso per ogni film, se non veri e propri flop.

Che sia il momento della svolta?

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Akira Animazione Animazione giapponese Avventura Azione Cult rivisti oggi Distopico Drammatico Fantascienza Film Futuristico Recult

Akira – Tutto nacque, tutto morì

Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo è uno dei più grandi cult – forse il più grande – del cinema animato nipponico. Un’opera complessa, che affronta tematiche anche abbastanza tipiche della fantascienza moderna, ma con una profondità di riflessione inarrivabile.

Con un budget abbastanza contenuto (700 milioni di yen, circa 5 milioni di dollari), incassò molto bene: 1.5 miliardi di yen, circa 50 milioni di dollari.

Di cosa parla Akira?

In un futuro ucronico, in cui la terza guerra mondiale ha distrutto Tokyo, la Neo Tokyo è nel totale degrado, dominata da bande di criminali motociclisti. Uno di questi, Tetsuo, si scontra con uno strano bambino…

Vi lascio lo splendido trailer per il 30° anniversario per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Akira?

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Assolutamente sì.

Akira è un film davvero imperdibile, e non solo per la splendida scrittura e animazione, ma soprattutto per la profonda riflessione che costruisce, che può lasciare interdetti ad una prima visione, ma che acquisisce un chiaro significato dopo un’attenta riflessione (e revisione).

Uno dei quei prodotti che non possono mancare nel proprio bagaglio cinematografico, anche se non si è mai messo piede nel cinema orientale.

Tutto nacque da una bomba

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Il punto di partenza di Akira è la bomba atomica.

Infatti la primissima scena del film mostra lo scoppio di una bomba che distrusse, nell’ucronia del film, la città di Tokyo – con un parallelismo molto netto fra i drammatici eventi di Hiroshima. E così anche il punto di arrivo – o di partenza – della Terza Guerra Mondiale.

Un racconto che sembra molto lontano da noi ma che, al tempo dell’uscita della pellicola – e soprattutto del manga originale – non lo era per niente. Negli Anni Ottanta infatti la Guerra Fredda e la conseguente paura dell’Atomica – che si era visto esistere e poter essere utilizzata – era ancora molto reale.

Kuwata in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Quindi sarebbe stato tanto improbabile immaginare un mondo in cui la bomba atomica era derivata da sperimentazioni umane – già emerse dalla drammatica pagina della storia nipponica dell’Unità 731 – e che questa avrebbe portato ad un terzo conflitto mondiale?

Di fatto, Akira non era un’ucronia, ma una realtà possibile.

Volevo rievocare un Giappone come quello in cui ero cresciuto, dopo la seconda guerra mondiale, con un governo in difficoltà, un mondo in ricostruzione, pressioni politiche esterne, un futuro incerto e una banda di ragazzini abbandonati a sé stessi, che combattono la noia correndo con le moto.

Katsuhiro Ōtomo

Il superuomo

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

E se la bomba atomica fosse l’uomo stesso?

L’atomica – nella realtà, quanto nella finzione fantascientifica – è un esempio chiarissimo di quanto la creatività umana e la sua hybris possa essere totalmente distruttiva. Per questo Akira riprende il tema classico della creazione che sfugge dal controllo del suo creatore, ma la amplia in una direzione del tutto nuova.

In questo caso, l’uomo che, tramite l’uso immorale della scienza, non riesce a controllare sé stesso.

Ed è tanto più problematico quando un potere del genere viene dato – o risvegliato, per meglio dire – ad una persona divorata dal risentimento e dal senso di inferiorità. Quasi fino all’ultimo Tetsuo si atteggia come una persona potente, inarrestabile e al di sopra di tutti gli altri – come ben testimonia il suo sedersi sul trono dello Stadio e mettersi un mantello per darsi un’aura regale.

Cos’è Akira?

Akira in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

La figura di Akira può essere letta su più livelli.

Nel contesto più materiale della pellicola, era solamente l’esperimento effettivamente riuscito della creazione di un superuomo, che poi si era rivoltato contro lo stesso creatore, distruggendo un’intera città – che sia volontariamente o involontariamente, non è dato saperlo.

A livello più astratto, Akira è un’energia vitale e primordiale dell’uomo, che lo eleva dal suo stato bestiale e lo rende capace dell’inimmaginabile. Anche se l’uomo non è riuscito fisicamente – per ora – a modificare sé stesso, è stato in grado di modellare il mondo a sua immagine e funzione, costruendo tutto quello di cui aveva bisogno.

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Il passo successivo era proprio quello di rendersi pari ad un dio, capace di avere poteri sovrannaturali, ma che in qualche modo erano sempre presenti nel suo potenziale.

Ma la bellezza di Akira sta anche nel non banalizzarsi su questo concetto, ma ampliarlo mettendo in scena una distruzione che è al contempo una creazione stessa. Un dualismo che si vede bene nella scena finale, quando lo scienziato dice:

È come se stessimo assistendo alla nascita dell’Universo.

Cosa succede nel finale di Akira?

Kiyoko in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Il finale di Akira si apre a diverse interpretazioni.

Quando i tre bambini si trovano in presenza di Akira si inginocchiano come alla presenza di un dio, e decidono di salvare Tetsuo dalla morte certa, mentre il suo corpo non gli risponde più e lo sta fondamentalmente distruggendo.

Tuttavia, allo stesso modo sono consapevoli che, seguendo Akira, non potranno più tornare indietro.

Secondo la mia personale interpretazione, nel finale tutti perdono la loro forma materiale e umana, riducendosi ad un forma atomica e in qualche modo rinascendo con Akira, in un modo (per il momento) incomprensibile all’essere umano.

Come Akira cambiò il mondo

A cura di Carmelo

Prima di Akira, gran parte degli occidentali credeva che l’animazione giapponese consistesse in cartoni animati televisivi come Speed racer (1967-68), roba per bambini tecnicamente frettolosa e malamente doppiata.

Ma il regista Katsuhiro Ōtomo (autore in precedenza del monumentale manga omonimo) diede invece a questa epica dispotica un intreccio complesso, violenza grafica, immagini allucinate, umorismo nero.

Così una colonna sonora ipnotica e ricca di percussioni, un’attenzione artigianale al dettaglio, è un dialogo perfettamente sincronizzato ricco di assorte meditazioni sull’ evoluzione, l’illuminazione e la distruzione di massa. 

Kuwata in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Quando esplose Akira, la civiltà si era sgretolata, ma quando esplose akira (anch’esso il 16 luglio 1988, data della prima cinematografica) la sua onda d’urto aprì la strada ad anime di altissimo livello come La città incantata (2001) e Ghost in the shell (1995) e fissò tutt’un tratto un nuovo importante standard nell’arte dell’animazione.

E già solo l’impegno produttivo è testimone di questa rivoluzione: il primo caso di collaborazione tra più studi di animazione di queste proporzioni, con 1.300 animatori provenienti da 50 studi diversi al lavoro su un unico progetto. Inoltre, si utilizzarono una serie di tecniche piuttosto innovative all’epoca per l’uso della CGI e del doppiaggio.

Insomma, con l’uscita di questo film inizia l’ascesa dell’animazione giapponese.

Le citazioni di Akira

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Le citazioni e omaggi ad Akira nei prodotti successivi si sprecano.

Uno dei più interessanti è l’evidente omaggio della serie cult Stranger things: oltre ai vari riferimenti visivi, la storia di Eleven e come messa in scena nelle sue dinamiche – soprattutto nella quarta stagione – ricorda tantissimo quella di Akira per quanto riguarda la parte degli esperimenti sui bambini e lo scopo degli stessi.

Anche i poteri di Tetsuo inizialmente sono molto simili.

Un altro riferimento degno di nota – e che racconta molto bene l’importanza di Akira nel panorama occidentale – si trova nella puntata L’astuccio del cacciatore (4×12) di South Park: la citazione all’anime cult viene affiancata a riferimenti ad altre pellicole importantissime per il genere, 2001: Odissea nello spazio (1968) e Terminator (1984).

Ma è in primo luogo Akira a citare un cult della fantascienza: la Neo Tokyo del film non è altro che una versione nipponica della Los Angeles di Blade Runner (1982), di cui ricorda le atmosfere…

Come Akira cambiò il mondo

A cura di Carmelo

Prima di Akira, gran parte degli occidentali credeva che l’animazione giapponese consistesse in cartoni animati televisivi come Speed racer (1967-68), roba per bambini tecnicamente frettolosa e malamente doppiata.

Ma il regista Katsuhiro Ōtomo (autore in precedenza del monumentale manga omonimo) diede invece a questa epica dispotica un intreccio complesso, violenza grafica, immagini allucinate, umorismo nero.

Così una colonna sonora ipnotica e ricca di percussioni, un’attenzione artigianale al dettaglio, è un dialogo perfettamente sincronizzato ricco di assorte meditazioni sull’ evoluzione, l’illuminazione e la distruzione di massa. 

Kuwata in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Quando esplose Akira, la civiltà si era sgretolata, ma quando esplose akira (anch’esso il 16 luglio 1988, data della prima cinematografica) la sua onda d’urto aprì la strada ad anime di altissimo livello come La città incantata (2001) e Ghost in the shell (1995) e fissò tutt’un tratto un nuovo importante standard nell’arte dell’animazione.

E già solo l’impegno produttivo è testimone di questa rivoluzione: il primo caso di collaborazione tra più studi di animazione di queste proporzioni, con 1.300 animatori provenienti da 50 studi diversi al lavoro su un unico progetto. Inoltre, si utilizzarono una serie di tecniche piuttosto innovative all’epoca per l’uso della CGI e del doppiaggio.

Insomma, con l’uscita di questo film inizia l’ascesa dell’animazione giapponese.

Le citazioni di Akira

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Le citazioni e omaggi ad Akira nei prodotti successivi si sprecano.

Uno dei più interessanti è l’evidente omaggio della serie cult Stranger things: oltre ai vari riferimenti visivi, la storia di Eleven e come messa in scena nelle sue dinamiche – soprattutto nella quarta stagione – ricorda tantissimo quella di Akira per quanto riguarda la parte degli esperimenti sui bambini e lo scopo degli stessi.

Anche i poteri di Tetsuo inizialmente sono molto simili.

Un altro riferimento degno di nota – e che racconta molto bene l’importanza di Akira nel panorama occidentale – si trova nella puntata L’astuccio del cacciatore (4×12) di South Park: la citazione all’anime cult viene affiancata a riferimenti ad altre pellicole importantissime per il genere, 2001: Odissea nello spazio (1968) e Terminator (1984).

Ma è in primo luogo Akira a citare un cult della fantascienza: la Neo Tokyo del film non è altro che una versione nipponica della Los Angeles di Blade runner (1982), di cui ricorda le atmosfere…