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Luca – Un’estate italiana

Luca (2021) di Enrico Casarosa è un film Pixar, uno dei tanti – insieme a Red (2022) e Soul (2021) – rilasciati direttamente su Disney+.

Ma fu comunque un grande successo di pubblico.

Di cosa parla Luca?

Luca Paguro è una creatura marina, ma anche un ragazzino spaventato che ha sempre vissuto sott’acqua e che non ha mai visto la superficie. La sua vita cambierà grazie all’incontro con Alberto, ragazzino scapestrato ed esperto del mondo di superficie, con cui comincerà la sua grande avventura.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Luca?

Luca (Jacob Tremblay) e Alberto (Jack Dylan Grazer) in una scena di Luca (2021) di Enrico Casarosa, film Pixar

Assolutamente sì.

Per quanto Luca non sia fra i migliori della Pixar, lo porto veramente nel cuore. Poche volte ho visto così tanto amore e una mano così attenta, un regista che riesca veramente a raccontare l’Italia in maniera credibile e riconoscibile, pur dovendosi piegare alle richieste del cinema statunitense.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Raccontare (davvero) l’estate italiana

Luca (Jacob Tremblay) e Alberto (Jack Dylan Grazer) in una scena di Luca (2021) di Enrico Casarosa, film Pixar

Come abbiamo visto in tempi più o meno recenti, il pubblico statunitense ha bisogno di essere nutrito di stereotipi per l’Italia (e non solo).

In particolare, nel loro immaginario l’Italia è ferma agli Anni Sessanta, come dimostra il successo di pellicole come Call me by your name (2016), e sono spesso incapaci di distinguere fra la cultura italiana e quella italo-americana, come ben dimostra per l’ennesima volta House of Gucci (2021).

Tuttavia, la Pixar non è la prima arrivata e ha dato permesso ad un regista italiano alla sua opera prima di rappresentare davvero l’estate italiana, con una rappresentazione sicuramente datata ed adattata ad un pubblico statunitense, ma, per una volta, per un buon motivo: Enrico Casarosa ha voluto raccontare la sua estate dell’infanzia in Liguria.

Ci sono vari elementi che mostrano davvero un grande impegno nel rappresentare qualcosa di vero e credibile. Uno dei più evidenti è la scelta delle canzoni da utilizzare: canzoni pop che rappresentano l’infanzia per la generazione degli Anni Ottanta-Novanta, poco o per nulla conosciute al di fuori del nostro paese.

In secondo luogo, la rappresentazione di Portorosso: una cittadina di mare in cui facilmente qualunque italiano, soprattutto se ligure, può riconoscersi. E una raffigurazione del genere non poteva venire se non da chi ci ha veramente vissuto.

Ma il vero virtuosismo è stato il doppiaggio.

Scegli un doppiaggio, sceglilo bene

Luca (Jacob Tremblay) e Ercole (Saverio Raimondo) in una scena di Luca (2021) di Enrico Casarosa, film Pixar

Il doppiaggio e la scrittura dei dialoghi di Luca sono veramente di alto livello.

In particolare, ho adorato il doppiatore di Luca, Jacob Tremblay, un giovanissimo interprete in rampa di lancio che abbiamo visto in Bad boys (2020) e che sarà la voce di Flanders nel live action de La Sirenetta in prossima uscita.

In generale i doppiatori del terzetto di protagonisti si sono veramente impegnati e sono anche piuttosto credibili quando parlano italiano, semplicemente perché non forzano l’accento alla Super Mario che abbiamo visto in House of Gucci, appunto (film che può essere citato all’infinito come esempio negativo).

Ma la vera punta di diamante è stato il doppiatore di Ercole, che sia in italiano che in inglese è interpretato dall’ottimo Saverio Raimondo, comico nostrano che ci ha offerto una performance di primissimo livello.

E non di meno la scelta di utilizzare doppiatori italiani per i personaggi secondari e di sfondo è stata un tocco di classe.

Le poche sbavature

In una scrittura e rappresentazione così coerente e credibile, stonano più del solito un paio di elementi, probabilmente prodotti di sceneggiatori che non hanno la stessa conoscenza dell’Italia come il regista.

In particolare, certe espressioni che usa Giulia, come santa mozzarella, molto infantili e che sembrano più derivate dal collegamento di uno statunitense fra gli italiani e il cibo, più che da espressioni effettivamente realistiche.

Oltre a questo, purtroppo il finale appare molto debole e forzato, non riuscendo a portare una giusta credibilità alla scelta dei personaggi di accettare i mostri marini che cacciavano fino al giorno prima.

Tuttavia, per l’esperienza che mi offre il film, non è un elemento che mi dà neanche così tanto fastidio.

Luca: Creare un trend

Una delle aspre polemiche che si sollevarono al tempo dell’uscita di Luca fu su come un prodotto così meritevole non fu distribuito in sala. E il successo della pellicola a livello globale si vide nel trend che si creò su TikTok. Qui un esempio:

https://www.tiktok.com/@steppingthroughfilm/video/7076131066016320773?_r=1&_t=8UbwXDICHtG

Un caso analogo a quello di Encanto (2021), prodotto di animazione che floppò ampiamente in sala, ma divenne incredibilmente popolare dopo il rilascio in streaming, su TikTok e oltre, per la canzone We dont talk about Bruno.

Insomma, sembra che i prodotti animati funzionino di più in streaming che in sala, e il futuro, vedendo appunto i risultati di Lightyear, non è promettente.

Luca: Creare un trend

Una delle aspre polemiche che si sollevarono al tempo dell’uscita di Luca fu su come un prodotto così meritevole non fu distribuito in sala. E il successo della pellicola a livello globale si vide nel trend che si creò su TikTok. Qui un esempio:

https://www.tiktok.com/@steppingthroughfilm/video/7076131066016320773?_r=1&_t=8UbwXDICHtG

Un caso analogo a quello di Encanto (2021), prodotto di animazione che floppò ampiamente in sala, ma divenne incredibilmente popolare dopo il rilascio in streaming, su TikTok e oltre, per la canzone We dont talk about Bruno.

Insomma, sembra che i prodotti animati funzionino di più in streaming che in sala, e il futuro, vedendo appunto i risultati di Lightyear, non è promettente.

Cosa significa Piacere, Girolamo Trombetta?

Luca (Jacob Tremblay) e Alberto (Jack Dylan Grazer) in una scena di Luca (2021) di Enrico Casarosa, film Pixar

L’espressione ha totalmente confuso gli statunitensi, e già per un italiano non è del tutto intuitiva. Si capisce meglio vedendola in atto: giro-la-mano (girando appunto la mano a chi la stiamo stringendo) e trombetta perché si fa il gesto col braccio come se si stesse suonando una trombetta, appunto.

Vi lascio qui il video dove viene spiegato bene:

https://www.tiktok.com/@antonioparlati/video/6979273456667872518?_t=8UbuahFh9m9&_r=1

Cosa significa Piacere, Girolamo Trombetta?

Luca (Jacob Tremblay) e Alberto (Jack Dylan Grazer) in una scena di Luca (2021) di Enrico Casarosa, film Pixar

L’espressione ha totalmente confuso gli statunitensi, e già per un italiano non è del tutto intuitiva. Si capisce meglio vedendola in atto: giro-la-mano (girando appunto la mano a chi la stiamo stringendo) e trombetta perché si fa il gesto col braccio come se si stesse suonando una trombetta, appunto.

Vi lascio qui il video dove viene spiegato bene:

https://www.tiktok.com/@antonioparlati/video/6979273456667872518?_t=8UbuahFh9m9&_r=1

Una vera chicca

Una vera chicca, che non so quanti possano aver notato, è la foto che Alberto tiene sullo specchietto della vespa: niente poco di meno di Marcello Mastroianni, il più incredibile attore del nostro cinema (e non solo), nei panni del Barone Fefè in Divorzio all’italiana (1960) di Pietro Germi.

Una commedia grottesca splendida, uscita nel periodo d’oro della Cinematografia Italiana, che si vede di sfuggita anche in un’altra scena.

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Il gigante di ferro – Ubriachi di guerra fredda

Il gigante di ferro (1999) di Brad Bird è un lungometraggio animato che ebbe una storia particolare, analoga a quella di un altro piccolo cult Anni Novanta, ovvero In viaggio con Pippo (1995).

La pellicola fu infatti un flop disastroso (30 milioni di incasso contro 50 di budget), ma venne ampiamente rivalutato col tempo, divenendo un piccolo cult per la generazione dei millennial.

Di cosa parla Il gigante di ferro?

1957, Rockwell, Montana. Piena guerra fredda. Hogarth è un ragazzino fantasioso che si ritrova per caso ad imbattersi con un enorme gigante di ferro, dalla provenienza sconosciuta.

Ma Hogarth non è l’unico ad essere interessato…

Perché Il gigante di ferro è un cult?

Come anticipato, Il gigante di ferro fu un caso simile a In viaggio con Pippo: come era normale per il periodo, i lungometraggi animati erano pensati per un pubblico infantile.

E così venivano a loro indirizzati anche tramite la campagna marketing.

Tuttavia, Il gigante di ferro non è un film propriamente per bambini: vi è un ampio (e ottimo) utilizzo della comicità per stemperare la tensione di certe scene. Tuttavia, a conti fatti, nella pellicola ci sono non poche scene di violenza, si parla di morte, di morale, e di armi. A questo riguardo, la condanna schietta all’utilizzo delle armi potrebbe essere anche stato un motivo che allontanò il pubblico statunitense.

Al contrario col tempo il prodotto venne riscoperto proprio per la sua profondità dei personaggi e della trama, che affronta appunto diverse tematiche di grande importanza. Oltre a questo, il film presenta personaggi davvero irresistibili, e, a differenza di altri film di questo tipo come anche E.T., il gigante è molto più umano e lo spettatore riesce ad empatizzare più facilmente con lui.

Il gigante di ferro può fare per me?

Il gigante di ferro in una scena de Il gigante di ferro (1999) diretto da Brad Bird

Assolutamente sì.

Il gigante di ferro è un ottimo prodotto di animazione, sia per la scrittura sia per l’animazione. Per me, che sono patita delle dinamiche di film per ragazzi di fantascienza, è stato un amore confermato anche dopo tanti anni che non lo vedevo.

Per questo se appunto apprezzate prodotti come E.T. (1982) e I Goonies (1985), o anche recuperi nostalgici come Stranger Things, molto probabilmente vi piacerà. Ovviamente se siete allergici a quelle dinamiche, non dico di non vederlo perché la pellicola non si appiattisce sulle stesse, ma potrebbe non entusiasmarvi.

I am not a gun

Il gigante di ferro in una scena de Il gigante di ferro (1999) diretto da Brad Bird

Splendida e inaspettata è la storia del gigante.

In realtà la sua backstory non viene raccontata in maniera approfondita: possiamo intuire che proviene da un pianeta alieno, che era parte di una produzione in serie di armi per una guerra che probabilmente è stata del tutto distruttiva.

Una macchina così intelligente che in poco tempo è capace di imparare una nuova lingua e assorbire concetti di grande profondità. E così arriva ad interrogarsi sulla sua natura e, alla fine, a sacrificarsi per salvare la comunità.

La sua morale è racchiusa in concetti semplici, come I am not a gun (non sono un’arma) e sul personaggio di Superman, figura di assoluta bontà (almeno negli Anni Cinquanta). Concetti semplici appunto, ma di grande effetto.

Il taglio narrativo

Kent Mansley,  Dean McCoppin, Hogarth Hughes e il generale Rogard in una de  Il gigante di ferro (1999) diretto da Brad Bird

Un aspetto che sinceramente non mi ricordavo e che mi ha davvero colpito è stato il taglio narrativo estremamente realistico. Si percepisce davvero il momento storico e il tipo di mentalità che lo dominava.

E non solo il villain, che ne è fondamentalmente ossessionato, ma anche i compagni di scuola di Hogarth pensano e parlano secondo il pensiero popolare, anche in maniera violenta per la loro età. Ma niente di strano per gli Stati Uniti della Guerra Fredda (e anche odierni, in realtà).

Oltre a questo, tutto il discorso sulle armi e sulla violenza è piuttosto forte ed incisivo, andando a criticare pesantemente l’utilizzo delle stesse, senza grandi possibilità di eccezioni.

Personaggi mai banali

Hogarth Hughes e il generale Rogard in una de  Il gigante di ferro (1999) diretto da Brad Bird

I personaggi de Il gigante di ferro sono tutti ben scritti e ispirano naturale simpatia.

Anzitutto Hogarth, un bambino molto fantasioso e che si entusiasma molto facilmente, ma anche un bambino capace di tenere testa ad un adulto molto più potente di lui. Ed è sempre lo stesso che, con tutta la sua semplicità, trasmette i giusti valori al gigante, portandolo verso una felice risoluzione.

Ma assolutamente irresistibile è Dean, artista sognatore che crea arte dai rottami. Questo personaggio aveva l’arduo compito di riempire un vuoto nel centro del film. E ci riesce in maniera molto simpatica, quando scopre che anche il gigante può creare delle opere d’arte per lui.

E poi c’è il villain.

Sempre un ottimo villain

Il regista e sceneggiatore di questo film è Brad Bird, lo stesso che pochi anni dopo diresse per la Pixar Gli Incredibili (2004), un altro di quei film che porto davvero nel cuore. E infatti Kent Mansley, il villain de Il gigante di ferro, presenta non poche somiglianze con Sindrome de Gli Incredibili.

A parte la scelta estetica simile (capelli rossi e inquietanti occhi azzurri), anche il carattere è analogo: sono entrambi guidati da un’ossessione e si sentono entrambi capaci e potenti più degli altri.

In particolare Kent Mansley è quello più ubriaco della guerra fredda: completamente ossessionato dalla minaccia russa, in questo caso rappresentata dal gigante, che deve essere eliminata a qualunque costo.

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Lightyear – Verso la metanarratività…e molto oltre!

Lightyear (2022) è l’ultimo film della Pixar uscito la scorsa settimana, il primo uscito in sala dopo quasi due anni. Ed il motivo è facile da capire: questa pellicola non è un film Pixar come lo intendiamo comunemente, ovvero un percorso di crescita e maturazione con un risvolto profondo. Si parla più che altro di una space opera, un film avventuroso in senso classico, che comunque gode di una robusta morale.

Tuttavia, per ora non sembra una scommessa vincente: la pellicola è infatti più o meno stroncata da gran parte della critica e ha aperto miseramente (appena 84 milioni la prima settimana), rischiando già il flop commerciale. E la causa potrebbe essere che in primis molti si aspettavano un film molto più collegato a Toy Story (cosa che non è) e forse che era un film meno spendibile per il grande pubblico, soprattutto infantile, di quanto si pensasse.

Di cosa parla Lightyear?

Buzz Lighyear è uno space ranger che si trova naufragato con la sua squadra in un pianeta sconosciuto e minaccioso. Dovrà quindi tentare di riparare la navicella per ritornare a casa, con molti tentativi che non andranno come si aspettava…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Lighyear?

Lighyear e Sox in una scena di Lightyear (2022) nuovo film Disney Pixar

In generale, Lightyear è un film che mi sento di consigliare, a patto di approcciarsi alla visione con la giusta mentalità. Infatti, come anticipato, il film c’entra veramente poco con Toy Story e le sue dinamiche. Ma non è per forza un difetto: dopo quel maledetto Toy Story 4 (2019), è anche ora di lasciare intatta la magia del brand.

Io, pur da grande purista della Pixar, sono andata in sala con grande tranquillità, con la consapevolezza che non sarebbe stato un film Pixar in senso stretto. E così sono riuscita a godermi un film sicuramente non perfetto, ma che riesce ad intrattenere ed a riallacciarsi (seppur debolmente) alle tematiche tanto care alla casa di produzione.

Quindi, se vi piacciono le avventure spaziali, che giocano con il genere del buddy movie, e se in generale vi piace Star Wars, è molto probabile che Lightyear vi piacerà. L’importante, appunto, è andarci con le giuste aspettative. Insomma, dimenticatevi Toy Story.

Distaccarsi da Toy Story: buona idea o commercialata?

Lighyear e Sox in una scena di Lightyear (2022) nuovo film Disney Pixar

Come anticipato, è Lighyear non è strettamente legato a Toy Story. I riferimenti sono infatti abbastanza sporadici: a parte dire che il film sia quello visto da Andy nel 1995 (di cui parleremo), il film si limita ad inserire qualche citazione e dinamica famosa della saga. Per il resto, prende tutta un’altra strada.

La pellicola sembra più decostruire il personaggio di Buzz, i suoi atteggiamenti abbastanza ridicoli di voler fare sempre rapporto e la sua ossessione di portare a termine la missione. Per il resto, la maggior parte dei personaggi sono totalmente nuovi o, nel caso di Zurg, rivisitati.

E, per me, non è stata una cattiva idea. Infatti, come ci insegnano eventi recenti di Star Wars, andare a rimettere le mani sul canone e portare collegamenti mal pensati, solitamente non è una buona idea. Invece andare a sfruttare un personaggio molto amato come Buzz ed ampliare l’universo di Toy Story, senza intaccare il canone, è stata un’idea decisamente migliore.

Detto questo, si tratta sicuramente di un film prodotto con l’intento di far conoscere il personaggio ad un pubblico infantile e vendere molti giocattoli. Con una situazione che fra l’altro supera il concetto di metanarratività in maniera quasi agghiacciante.

Buzz Lighyear: un personaggio coerente?

Lighyear e Sox in una scena di Lightyear (2022) nuovo film Disney Pixar

Il personaggio di Buzz è stato fortemente criticato, soprattutto negli Stati Uniti, per via del suo doppiatore, Chris Evans, famoso soprattutto per aver interpretato Captain America nell’MCU. La critica ha sembrato rimpiangere la voce storica di Tim Allen, non considerando Evans per nulla all’altezza.

A me personalmente il doppiaggio di Buzz ha assolutamente convinto e non ho mai trovato straniante il cambio di doppiatore. Oltre a questo, secondo me il personaggio è scritto ottimamente, ampliando il suo carattere e la sua storia in maniera assolutamente coerente con il canone.

Troviamo infatti un Buzz sempre concentrato sulla missione, fino all’ultimo intestardito all’idea di portarla a termine, quasi ridicolo nei suoi atteggiamenti. Proprio il Buzz che vedevamo in Toy Story, soprattutto nel primo film.

Zurg: un cattivo a metà

Zurg in una scena di Lightyear (2022) nuovo film Disney Pixar

Ho generalmente apprezzato il personaggio di Zurg: è coerente con quello di Toy Story ed è stato un bel colpo di scena. Il punto di partenza della morale più adulta del film, che però pecca in un elemento fondamentale: il minutaggio.

Al personaggio di Zurg non viene evidentemente dato il tempo di respirare: viene introdotto, viene spiegata la sua storia, ma nel giro di pochissimo tempo Buzz gli si rivolta contro. E da quel momento diventa semplicemente il personaggio di Zurg di Toy Story, ovvero un cattivo molto tipico e stereotipato. E con un minutaggio risicato.

Lightyear e una trama imperfetta

Complessivamente parlando, la trama di Lightyear mi è piaciuta: ben strutturata, con alcuni momenti abbastanza prevedibili, ma comunque toccanti. Per esempio, mi aspettavo assolutamente che Alisha morisse, ma lo stesso, vedendo Buzz che entra nell’ufficio vuoto, mi si è stretto il cuore.

Nonostante la trama riesca a ben posizionare le pedine in gioco, tende ad incartarsi nella parte centrale. Infatti i protagonisti vengono continuamente messi davanti a continui ostacoli, in maniera quasi estenuante.

Anche se non penso che fosse quello l’intento, questa dinamica dà taglio di verosimiglianza alla vicenda. Infatti, a differenza della finzione cinematografica, è molto più credibile che in una situazione reale i personaggi si sarebbero trovati davanti a una marea di imprevisti.

La doppia morale

Lighyear in una scena di Lightyear (2022) nuovo film Disney Pixar

Dal punto di vista della morale, il film si struttura su due livelli: la morale per il pubblico di bambini e la morale per il pubblico di adulti. Molto Pixar, senza dubbio.

La morale per i bambini, drammaticamente didascalica, riguarda l’importanza di non isolarsi e intestardirsi sulle proprie idee, ma cercare di lavorare di squadra. Infatti Buzz è per la maggior parte restio a lavorare con gli altri personaggi, sottovalutandoli, ma alla fine capisce il loro valore, proprio come Alisha aveva fatto con lui.

La morale adulta riguarda invece il non inseguire un sogno impossibile e non sapersi godere la propria vita per quello che è, con i suoi alti e bassi. Una morale davvero bella e toccante, con una messa in scene molto convincitene. Peccato che sia la stessa morale di Up (2009).

Una comicità non sempre vincente

Lightyear è un film che sembra volerti far continuamente ridere, buttando lì battute pensate probabilmente più che altro per un pubblico infantile. Soprattutto all’inizio, ho trovato quasi fastidiosa questa continua insistenza. Tuttavia, all’interno della pellicola ci sono diversi momenti in cui ho riso sinceramente.

La maggior parte, ovviamente, sono collegati a Sox, un personaggio su cui non contavo per nulla, ma che invece è stato fra i miei preferiti dell’intero film.

Lightyear è il film che ha guardato Andy?

Volevo aggiungere questa piccola coda alla fine della recensione, perché penso di non essere l’unica ad essersi fatta questa domanda. All’inizio del film viene detto esplicitamente che Lightyear è il film che vide Andy nel 1995 e che lo fece innamorare del personaggio.

Ovviamente, questo non è possibile. Il film di Lightyear nel 1995 non sarebbe mai stato un film dove il protagonista viene messo così tanto in discussione, con una morale del genere, con un cast così inclusivo.

Sarebbe stato al contrario un film alla Terminator, ma nello spazio, pieno di violenza edulcorata e un trash che solamente gli Anni Novanta possono regalarci.

Ma, ovviamente, qui parliamo di sospensione dell’incredulità totale. E va bene così.

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In viaggio con Pippo – Il mio terribile papà

In viaggio con pippo (1995) di Kevin Lima fu un caso incredibile di rivalutazione di un prodotto alla sua uscita in home video.

Il film infatti uscì nelle sale più per un obbligo contrattuale della Disney che per vera fiducia nel progetto, tanto che incassò pochissimo (37 milioni di dollari contro 18 di budget) e ricevette critiche poco entusiaste.

Tuttavia, con l’uscita in videocassetta, divenne un piccolo cult degli Anni Novanta e Duemila, in particolare per la generazione dei millennials.

Di cosa parla In viaggio con Pippo

Max è un giovane adolescente che vorrebbe solo essere popolare e conquistare la ragazza dei suoi sogni. Per uno strano caso di equivoci, finisce costretto ad un viaggio con il padre, Pippo, che vuole riallacciare i rapporti con lui.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere In viaggio con Pippo?

Assolutamente sì.

Per me ancora oggi è un film che vale una visione, anche per immergersi appieno negli Anni Novanta e in uno dei suoi maggiori cult. Una commedia davvero gustosa e divertente, la quale, nonostante qualche ingenuità, è ancora assolutamente attuale.

La consiglio soprattutto se apprezzate le dinamiche alla buddy movie in ambito familiare e il genere road movie.

Oltre a questo, ha una durata talmente breve, che passa in un attimo.

Un rapporto difficile

Max in una scena del film In viaggio con Pippo (1995) per la regia di Kevin Lima

In viaggio con Pippo è un road movie dal taglio buddy comedy, che racconta il tentativo di un padre di riallacciare i rapporti col figlio ormai cresciuto. Una storia di fatto molto semplice che però, per quanto dovrebbe essere comica, ha dei tratti molto drammatici, al limite dell’inquietante.

Già solamente il motore della vicenda, ovvero l’equivoco di Pippo che pensa che Max possa diventare un delinquente e finire in prigione, è terribilmente realistico e agghiacciante, anche per la messa in scena.

Pippo, da sempre convinto di avere un figlio con la testa a posto e che non farebbe nulla di male, viene terrorizzato dal preside della scuola, che scruta Max con fare poco rassicurante. E l’idea che il figlio prenda una brutta strada è una delle paure che colpiscono qualunque genitore, negli Stati Uniti anzitutto.

Così Max agisce con grande ingenuità, cercando di ingannare il padre per i propri fini ma sentendosi al contempo terribilmente in colpa.

Davvero straziante la scena in cui, con grande riluttanza, cambia il percorso del loro viaggio sulla preziosa mappa del padre. Lo stesso padre che cerca di ascoltare il figlio, dandogli in mano la mappa del loro viaggio e, di conseguenza, fornendogli la libertà di decidere come meglio ricostruire il loro rapporto.

Nonostante questi aspetti che lo rendono un film maturo e ancora interessante, la pellicola pecca in non pochi aspetti.

Un film imperfetto

Pippo e Max in una scena del film In viaggio con Pippo (1995) per la regia di Kevin Lima

Un problema non indifferente del film è che sembra che manchi qualcosa.

Alcuni eventi della trama, soprattutto verso la fine, sembrano molto raffazzonati. Così Roxanne perdona immediatamente Max della sua bugia, così Max e Pippo si riconciliano troppo facilmente con una canzone e con altrettanta facilità riescono ad entrare al concerto, che era l’obbiettivo finale del film.

Se guardate qualsiasi prodotto analogo dello stesso periodo, la risoluzione finale richiede sempre un minimo di costruzione, anche improbabile, in cui i personaggi superano un ostacolo apparentemente insormontabile.

Per fare un esempio molto banale, in Quanto è difficile essere teenager! (2004) la protagonista vuole (come Max) recarsi ad un concerto, pur non avendo i biglietti. Questo elemento viene portato avanti per tutta la trama e ha un tipo di costruzione che poi porta effettivamente al finale.

Niente di tutto questo per In viaggio con Pippo.

Non è un sorprendente scoprire che ci furono diversi problemi produttivi, sia per il budget abbastanza risicato sia per problemi tecnici, col risultato che si dovette rifare da capo parte del film.

Oltre a questo, la pellicola fu approvata da Jeffrey Katzenberg, che fu a capo della Disney fino al 1994, per poi essere licenziato e diventare uno dei cofondatori della Dreamworks Animation.

Per questo i nuovi capi della casa di produzione di Topolino non ebbero evidente interesse nel progetto e lo rilasciarono, come detto, principalmente per obblighi contrattuali con Katzenberg.

Perché In viaggio con Pippo divenne un cult

Big Foot in una scena del film In viaggio con Pippo (1995) per la regia di Kevin Lima

Quindi, perché In viaggio con Pippo divenne un cult?

La bellezza del film risiede principalmente due aspetti: l’originalità di alcune trovate e il taglio narrativo.

Anzitutto, diversi elementi di questa pellicola diventarono immediatamente iconici, come il gorgonzola spray tanto amato da Bobby e la divertentissima gag di Big Foot. Elementi non del tutto comuni in piccoli film per bambini di questo tipo, e che oggi avrebbero sicuramente generato una quantità infinita di meme.

Oltre a questo, il taglio narrativo è piuttosto particolare, ed è anche il motivo del suo insuccesso: non parla per niente ai bambini, ma al contrario racconta in maniera credibile sia le ansie del protagonista adolescente sia le preoccupazioni di Pippo come padre.

Oltretutto il personaggio di Pippo in questo film è nel ruolo piuttosto atipico di padre, con anche dei tratti drammatici non indifferenti.

Perché fu un disastro al botteghino?

Anche in questo caso le motivazioni non sono più di tanto difficili da individuare.

Come detto, il taglio narrativo è eccessivamente adulto e rivolto ad un pubblico più adolescenziale che infantile, una problematica simile all’insuccesso de Il pianeta del tesoro (1998).

Al contempo, ci sono delle scene onestamente inquietanti, che possono colpire non nel modo migliore un pubblico di bambini, come è stato per Cup Head Show.

Fra queste, la bambina al negozio di foto di Pippo il cui posteriore viene incollato letteralmente al tavolo, così lo spettacolo degli Opossum, che ha un taglio al limite dell’orrorifico per raccontare la frustrazione di Max.

Una seconda possibilità

Proprio per il grande riscontro che ebbe con l’uscita in home video, la Disney decise, a cinque anni di distanza, di rilasciare un seguito, An Extremely Goofy Movie (2000), noto in Italia come Estremamente Pippo.

In questo caso ebbe un buon riscontro di pubblico e di critica, pur essendo rilasciato nella versione direct to video, ovvero direttamente in videocassetta. Gli fu dedicata una campagna marketing non da poco, con diversi gadget negli Happy Meal di McDonald’s in occasione della sua uscita.

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Quando c’era Marnie – Nel mare dei ricordi

Quando c’era Marnie (2014) è un film dello Studio Ghibli diretto da Hiromasa Yonebayashi, recentemente tornato alla regia con Mary e il fiore della strega (2018).

Il film si colloca in un momento abbastanza drammatico per lo studio: dopo lo scarso successo de Il racconto della principessa splendente (2013), la casa di produzione decise di prendersi una pausa.

È tornata recentemente con Earwig e la strega (2020), primo film in animazione 3D, stroncato da pubblico e critica.

A fronte di un budget abbastanza risicato – 10,5 milioni, circa 1,15 miliardi di yen – incassò abbastanza bene: 36 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Quando c’era Marnie

Anna è una ragazzina di tredici anni, chiusa in sé stessa e con molti drammi interiori irrisolti. La madre adottiva, preoccupata anche per la sua salute, decide di mandarla in campagna dalla zia, così da respirare aria fresca e rimettersi in forma.

In questa occasione Anna incontrerà una misteriosa e bellissima ragazza, Marnie.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Quando c’era Marnie?

Anna e Marnie in una scena di Quando c'era Marnie (2014) film dello Studio Ghibli diretto da Hiromasa Yonebayashi

Assolutamente sì.

Ho recuperato abbastanza recentemente Quando c’era Marnie, ma è subito diventato uno dei miei film preferiti.

Sarà per la storia che sento molto vicina, per tutti momenti davvero toccanti della pellicola e la profondità della vicenda raccontata, ma anche ad una seconda visione è riuscito ancora ad emozionarmi e coinvolgermi.

Una pellicola racconta in maniera matura e profonda il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, del ritrovare sé stessi e venire a patti col proprio passato, con piglio molto drammatico, anche a livelli strazianti, ma complessivamente ben equilibrato.

Marnie dei miei ricordi

Marnie in una scena di Quando c'era Marnie (2014) film dello Studio Ghibli diretto da Hiromasa Yonebayashi

In originale Quando c’era Marnie si intitola 思い出のマーニー, che significa Marnie dei miei ricordi.

Quando l’ho scoperto, non ho potuto che apprezzare ancora di più la bellezza e la profondità di questa pellicola.

Il film gioca sul limite fra il magico e il reale, senza volerlo spiegare fino in fondo. Semplicemente la nonna di Anna, Marnie, ha voluto ritornare in contatto con la nipote, legata a questo particolare luogo della sua memoria e che amava molto: la villa della sua infanzia.

In realtà Marnie è sempre stata nella vita di Anna, anche se lei non lo sapeva: da notare in particolare la bambola con le sembianze della nonna che la piccola Anna abbraccia nelle scene di flashback.

Anna, non conoscendo finora la vera storia della sua famiglia, ha sofferto terribilmente, sentendosi abbandonata.

In realtà, proprio dopo un passato di reale abbandono, Marnie cercò di crearsi una famiglia migliore, ma tutto le crollò addosso con la morte del marito e poi della figlia, portandola ad una profonda depressione, che infine la vinse.

Ma, nonostante tutto, ci viene raccontato come non si perse mai d’animo e cercò fino alla fine (e oltre) di essere felice e ricostruire la sua vita.

Un’emotività problematica

Anna e Marnie in una scena di Quando c'era Marnie (2014) film dello Studio Ghibli diretto da Hiromasa Yonebayashi

Anna viene fin da subito raccontata come un personaggio molto problematico.

Un’emotività fragilissima, che non si sente per nulla amata dalla sua madre adottiva, soprattutto dopo la scoperta dei sussidi ricevuti dalla sua famiglia. Oltre a questo, odia i suoi genitori e sua nonna per averla abbandonata, anche se sa che non era colpa loro.

E si odia per questo.

Il contatto con Marnie, ragazza che la ama incondizionatamente e che sente da subito vicina a sé, la porta a volerla salvare dalle sue fragilità e debolezze.

Aiutare sé stessi

Aiutando la Marnie del passato, Anna aiuta sé stessa.

In questo riesce a ritrovare pian piano la propria felicità e a venire a patti con il proprio passato e col proprio presente. Particolarmente toccante e significativo il momento in cui Anna si sente abbandonata da Marnie, sia effettivamente che metaforicamente, ma che infine riesce a perdonarla per la sua debolezza e per non esserle stata vicino.

Infatti, Marnie evidentemente desiderò accoglierla fin da subito nella sua casa con affetto e amore, anche per colmare i suoi sbagli passati. E, finalmente, ha la sua occasione di riscatto: regalare alla nipote una vita felice e appagante.

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Cip & Ciop agenti speciali – Attivare parental control

Cip e Ciop: Agenti speciali (2022) è una delle ultime pellicole in tecnica mista uscite su Disney+ e che sta facendo parlare molto di sé. Il motivo è semplice: se pensavate che fosse un film per bambini, dovete ricredervi.

Io per prima pensavo quanto sopra, ma, grazie al passaparola positivo che ho ricevuto da diverse persone, mi sono convinta a recuperarlo. E non è nulla di quanto mi sarei mai potuta immaginare. Mi è sembrato di tornare a tanti anni fa, allo splendido Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988), cult assoluto della mia infanzia, con tutto quello che ne consegue.

Di cosa parla Cip & Ciop agenti speciali

Cip e Ciop sono amici fin dall’infanzia e riescono a diventare protagonisti di uno show televisivo (che dà il nome al film e che è stato veramente trasmesso fra il 1989-90), ma si dividono inaspettatamente per il desiderio di Ciop di smarcarsi dall’ombra di Cip.

I due dovranno riunirsi molti anni dopo per salvare Monterey Jack, il loro ex-collega della serie.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Cip & Ciop agenti speciali non è niente che potreste aspettarvi

Cip e Ciop nel film per Disney+ Cip & Ciop agenti speciali (2022)

Come anticipato, io avevo bollato (ingiustamente) questo film come il solito revival di prodotti del passato per farli apprezzare alle nuove generazioni, come era stato appunto per il recente Tom & Jerry (2021) e altri prodotti simili. E mai come in questo caso ringrazio con tutto il mio cuore il buon passaparola che ho ricevuto.

Cip & Ciop agenti speciali è fondamentalmente un buddy movie nel senso più classico del termine, richiamando anche direttamente uno dei prodotti pionieristici del genere, 48 ore (1982). Due personaggi che partono come antagonisti (in questo caso divisi da un vecchio rancore) e che riusciranno a ricostruire il loro rapporto. Detto così, potrebbe sembrare un film innocuo. Niente di più sbagliato.

In realtà questo film non è minimamente pensato per un pubblico infantile, e forse neanche per un pubblico di ragazzini, ma principalmente per il target dei figli degli Anni Ottanta e Novanta, che conoscono i vari meme di internet e che sono cresciuti con i cartoni animati dell’epoca.

Nessuno pensa ai bambini!

Cip e Ciop nel film per Disney+ Cip & Ciop agenti speciali (2022)

Per quanto non sia detto esplicitamente, in Cip & Ciop agenti speciali si parla di dipendenza dalle droghe, quindi spaccio e traffico di esseri umani. Già questo getta un’ombra sul film, ancora più aggravato da scene non tanto spaventose, ma sottilmente disturbanti.

Oltre a questo, un bambino rischia di annoiarsi: per la maggior parte delle battute sono riferite a meme di internet e a prodotti degli Anni Novanta e Anni Duemila. Il massimo che potrebbe intrattenerlo sarebbe la storia raccontata, ma è impossibile (e per fortuna) che la capisca fino in fondo.

Perché dovreste vedere assolutamente Cip & Ciop agenti speciali

Cip e Ciop nel film per Disney+ Cip & Ciop agenti speciali (2022)

Fatte queste dovute premesse, Cip & Ciop agenti speciali è un film sorprendentemente geniale. La vera trama appunto riguarda temi abbastanza pesanti, cui si aggiunge il tema evergreen, già ben sperimentata in Bojack Horseman, ovvero quella riguardante la crudeltà dello show business hollywoodiano.

Un film profondo e maturo, pur con qualche ingenuità nel riprendere dei topoi molto abusati. Oltre a questo, soprattutto all’inizio, ci sono delle battute assolutamente geniali in riferimento a prodotti ormai entrati nella cultura popolare, in cui la Disney arriva a parodizzare sé stessa (e non solo). Un film gustoso e divertente, che dovreste assolutamente recuperare, soprattutto se fate parte della generazione che è cresciuta con questi personaggi.

Cos’è il genio?

Ugly Sonic in una scena del film per Disney+ Cip & Ciop agenti speciali (2022)

That weird animation style in the early 2000s where everything looked real but nothing looked right

Quello stile di animazione all’inizio degli Anni Duemila quando tutto era realistico ma sembrava sbagliato

Riuscire a mettere così tanti riferimenti alla cultura pop di un certo periodo non era semplice, ma è Cip & Ciop agenti speciali ci è riuscito alla perfezione.

Per me le battute più geniali sono state sicuramente quelle dell’animazione anni 2000 e soprattutto Ugly Sonic, uno dei casi cinematografici più discussi in tempi recenti. Per non parlare della quantità di riferimenti di prodotti animati, Disney e non.

Riuscire poi ad edulcorare tematiche pesantissime come il traffico di organi e di essere umani, lo sfruttamento di Hollywood e la dipendenza dalle droghe, riuscendo al contempo a contestualizzare tutto perfettamente nel contesto raccontato, non è cosa da tutti. Ma, ancora, questo film ci riesce perfettamente.

Il rapporto fra Cip e Ciop

Cip e Ciop nel film per Disney+ Cip & Ciop agenti speciali (2022)

Ho davvero adorato come il rapporto fra i due non sia affatto appiattito, non limitandosi a raccontare una banalissima dinamica da buddy movie.

Cip e Ciop erano due bambini molto soli e incompresi, in particolare Cip non riusciva ad avere amici e finalmente ha trovato un compagno di vita in Ciop: il suo racconto alla fine sul corpo esanime di Cip è uno schiaffo emotivo.

Un bellissimo racconto di amicizia, di come i rapporti possono essere guastati da una semplice parola non detta, accecati da un senso di inferiorità ingiustificato verso i propri amici, anche più stretti.

La scelta del rilascio in streaming

Il film è stato rilasciato direttamente sulla piattaforma Disney+, senza quindi passare per la sala. In questo caso, potrebbe non essere stata la scelta peggiore: probabilmente altri come me si saranno fermati davanti al titolo, bollandolo come un film per bambini.

Così il pubblico infantile e i genitori si sarebbero fiondati in sala, convinti di vedere un film pensato per loro. E, vista l’eccelsa capacità di rating dell’Italia (vi ricordo The Suicide Squad era classificato come film per tutti), probabilmente avremmo avuto una generazione di bambini traumatizzati per la vita.

Per questo probabilmente avrebbe avuto un pessimo passaparola e sarebbe stato un flop. Invece, rilasciandolo subito in streaming e rendendolo così più accessibile, ha permesso che fosse più facile che i vari influencer (adulti) lo vedessero e creassero un ottimo passaparola. E così è successo.

E non sarà né la prima né l’ultima pellicola che vivrà di migliore salute in streaming piuttosto che in sala.

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Mary e il fiore della strega – Una piccola storia di magia

Mary e il fiore della strega (2017) è un film diretto da Hiromasa Yonebayashi, il più giovane regista dello Studio Ghibli, che ha lavorato per anni spalla a spalla col maestro Hayao Miyazaki.

Questa pellicola non è una produzione dello Studio Ghibli, ma dello Studio Ponoc, fondato recentemente dal regista della pellicola. A fronte di un budget sconosciuto, ebbe un incasso abbastanza normale: circa 42 milioni di dollari.

Di cosa parla Mary e il fiore della strega

Mary, la protagonista della pellicola, è una ragazzina che, appena arrivata in una nuova città, deve riempire il tempo nella settimana prima dell’inizio della scuola. Ma un’avventura l’aspetta…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Mary e il fiore della strega?

Mary in Mary e il fiore della strega (2017) film diretto da Hiromasa Yonebayashi dello studio Studio Ponoc

In generale, sì.

Mary in Mary e il fiore della strega è un film adatto a tutti e che, a differenza de Il racconto della principessa splendente (2013), consiglierei per accedere al mondo dell’animazione giapponese.

Infatti, le dinamiche sono semplici e facilmente comprensibili anche per il pubblico occidentale, con dei trope piuttosto tipici anche nel nostro cinema, ma non per questo meno funzionali.

Insomma, un film leggero e intrattiene facilmente, pure con qualche interessante colpo di scena ben congegnato.

Le animazioni, come detto, sono un’ottima eredità dello Studio Ghibli e in particolare a Miyazaki: non rasentano il capolavoro come i suddetti, ma sono comunque di ottimo livello, con un character design piuttosto convincente per la maggior parte dei personaggi.

Una protagonista perfetta

Mary in Mary e il fiore della strega (2017) film diretto da Hiromasa Yonebayashi dello studio Studio Ponoc

L’undicenne Mary è una protagonista scritta a regola d’arte.

Viene dedicato il giusto minutaggio a raccontarci la sua personalità, il suo essere profondamente buona, ma anche piuttosto imbranata. In questa piccola avventura, come nei migliori racconti di formazione, riesce ad assumere maggiore consapevolezza di sé stessa e delle sue abilità, con un finale piacevole che ci lascia con un sorriso.

Al contempo, è una protagonista con cui è facile empatizzare: proprio per la sua semplicità e goffaggine, è un personaggio che appare da subito simpatico e piacevole. Inoltre, la sua fallibilità e incertezza la rende al contempo una protagonista molto accessibile, in cui, anche con importanti differenze di età, è facile immedesimarsi.

Ingenuità di scrittura

Peter in Mary e il fiore della strega (2017) film diretto da Hiromasa Yonebayashi dello studio Studio Ponoc

Il film, come anticipato, presenta importanti ingenuità di scrittura, che in parte rovinano la solidità della storia. In particolare, ci sono due cose che non funzionano del tutto: il rapporto di Mary con Peter e la backstory dei villain.

La backstory degli antagonisti è troppo poco esplorata, tanto da diventare superficiale: manca un adeguato minutaggio per raccontare la situazione di partenza, il cambiamento e il dramma che si verifica. Per come è messo in scena, sembra che Charlotte decida di portare via il fiore della strega all’improvviso, senza averci pensato prima.

Inoltre, per come te lo presenta il film, Peter dovrebbe essere una persona a cui Mary tiene tantissimo, in quanto diventa quella da salvare all’interno del film e per cui la protagonista mostra costantemente di avere un grande legame emotivo.

Tuttavia, questo stesso legame sembra un po’ nato dal nulla: manca un’adeguata costruzione che riesca a farti coinvolgere realmente con il dramma del suo rapimento.

Trigger emotivi fallimentari

Mary in Mary e il fiore della strega (2017) film diretto da Hiromasa Yonebayashi dello studio Studio Ponoc

Per questo stesso motivo, tutti i trigger emotivi legati a Peter non funzionano fino in fondo: manca appunto un racconto funzionante del rapporto con Mary per poterci far emozionare nei vari momenti di dramma che vanno a crearsi. Invece nelle scene di difficoltà più che altro si viene coinvolti dalle emozioni di Mary più per il personaggio di Mary in sé che per il suo rapporto con Peter.

Infatti il loro rapporto nasce prima come antagonista, poi vi è un piccolo momento di riconciliazione, per poi avere un altro battibecco. Dopodiché, quando si rincontrano, sembrano immediatamente legati da un profondo rapporto.

Questo è il difetto più grande della pellicola, ma che, per la poca esperienza dello studio di produzione, mi sento di perdonare.

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La storia della principessa splendente – La difficoltà di raccontare una favola

La storia della principessa splendente (2013) è un lungometraggio animato nipponico, opera di Isao Takahata, uno degli animatori di punta dello Studio Ghibli.

Una produzione lunghissima: otto anni, di cui solo cinque per lo storyboard. All’uscita in sala ottenne incassi discreti, ma un grande riconoscimento di pubblico e critica.

Di cosa parla La storia della principessa splendente?

La principessa splendente, trovata per caso da un tagliatore di bambù all’interno di un fusto, la principessa è un essere magico che cresce a velocità incredibile. Ma diventa anche in fretta un oggetto del desiderio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La storia della principessa splendente?

Dipende.

In generale, consiglierei questa pellicola a persone che hanno già dimestichezza con lo Studio Ghibli e con un tipo di animazione giapponese piuttosto riflessiva e legata all’elemento magico ed enigmatico.

L’ho trovato tra i film più difficili per questa casa di produzione, ma comunque un tassello importante nella storia della stessa.

Se non ve la sentite di approcciarvi a questo tipo di visione, cosa assolutamente comprensibile, vi consiglio di provare altri prodotti più accessibili dello Studio. Sicuramente non è la pellicola che consiglierei a chi si approccia per la prima volta a questa produzione o addirittura all’animazione giapponese in toto.

Una tecnica unica

La principessa splendente in una scena del film La storia della principessa splendente (2013) diretto da Isao Takahata

La tecnica di animazione de La storia della principessa splendente è assolutamente unica, almeno secondo la mia esperienza.

Si ispira evidentemente ai dipinti su rotolo della tradizione giapponese, portando personaggi definiti con pochi tratti, talvolta addirittura caricaturali, dispersi su grandi spazi bianchi.

Questa tecnica di animazione non è neanche del tutto nuova allo Studio Ghibli: molti dei film di questa casa di produzione hanno degli sfondi che sembrano dei dipinti. In questo caso il risultato è di grande raffinatezza, che può piacere o meno a seconda del proprio gusto.

A me personalmente ha convinto a metà.

Una favola, un archetipo

La principessa splendente in una scena del film La storia della principessa splendente (2013) diretto da Isao Takahata

Essendo una favola, è evidentemente un racconto archetipico, in cui è facile riconoscere degli stilemi piuttosto comuni sia nel cinema occidentale che orientale.

Questo aspetto può essere più o meno di vostro gusto, a seconda anche di quanto conoscete o volete conoscere del folklore giapponese e di un tipo di impostazione così tanto favolistico.

Oltre a questo, la pellicola racconta anche una cultura antichissima, profondamente sessista e segregante per entrambi i sessi, tanto che la principessa è per molto tempo tenuta quasi prigioniera all’interno del palazzo.

In questo senso torna un tema molto caro allo Studio Ghibli, ovvero il contrasto fra la realtà urbana e artificiosa e quella naturale e più genuina.

La durata immensa

La principessa splendente in una scena del film La storia della principessa splendente (2013) diretto da Isao Takahata

Visto che la storia è allungata moltissimo rispetto all’opera originaria, la pellicola è appesantita da una durata veramente immensa. Inoltre, nonostante l’apparente semplicità della trama, verso la fine il film diventa complesso e non facile da seguire.

D’altra parte, il tipo di trama archetipica, quindi per certi versi veramente prevedibile, toglie in parte godibilità alla visione. Infatti, per la maggior parte del tempo, possiamo già intuire le svolte di trama.

La storia della principessa splendente

L’approfondimento dell’esperta

La pellicola è tratta da un racconto anonimo risalente al X secolo, tradizionalmente considerato il primo esempio di monogatari, un genere fondamentale per la letteratura giapponese classica.

Il contesto storico

Nel X secolo il Giappone si trovava in piena epoca Heian, un periodo di pace e di fioritura delle arti. Le uniche testimonianze giunte fino a noi sono quelle della vita di corte, che raccontano una società poligamica.

La norma era infatti che un uomo avesse una moglie ufficiale e varie concubine, mentre la poligamia delle donne era solo sopportata. Una realtà omosociale, ossia c’era una netta divisione tra gli ambienti maschili e quelli femminili, i quali non si intersecavano mai, se non di notte, quando l’uomo raggiungeva in segreto l’amante.

Il motivo della riscrittura

La trama del Taketori monogatari è molto ampliata nel film, soprattutto per la prima parte, che racconta una situazione di iniziale equilibrio e pace: della vita in campagna con la famiglia adottiva e agli amici nel testo originale non vi è traccia.

Di conseguenza le scene di conflitto tra il padre e Kaguyahime (lett. principessa splendente) che si fondano sulla nostalgia della vita agreste, più semplice e autentica, non avevano motivo di esistere.

Perché allora riscrivere la storia originale, allungandola e rischiando di risultare pesanti?

In effetti un motivo c’è: il finale del Taketori monogatari non è lieto perché, secondo le interpretazioni, sarebbe una sorta di punizione per aver violato la netta separazione tra terreno e alieno, avvenuta nel momento stesso in cui il tagliabambù ha deciso di accogliere nella sua vita lo spirito della principessa.

Dalla rottura di questo tabù (ricorrente nella cultura giapponese antica) nascevano i conflitti del testo fino al ritorno di Kaguyahime al regno della luna, causa di grandissimo dolore per i genitori.

Un finale diverso

La pellicola vuole invece fare luce su un altro tipo di conflitto: il contrasto tra la bellezza altra e la sofferenza terrena viene riadattato e applicato al contrasto tra natura e urbanizzazione.

La vita in campagna era idilliaca, perfetta, semplice; quella nella capitale finta, costrittiva, crudele. Da qui nasce la brama della protagonista di ritornare ai luoghi della sua giovinezza, che scoprirà poi essere irrimediabilmente diversi: muore in lei anche la speranza della nostalgia.

Questo film, come molti altri dello studio Ghibli, presenta una pesante critica dello stile di vita moderno ed evoluto e allo stesso tempo piange la perdita di uno più antico e idealizzato.

Per dare questo effetto si è manipolato il principio estetico di epoca Heian detto mono no aware, concetto di difficile traduzione che indica il senso di meraviglia misto a nostalgia che gli animi sensibili provano di fronte alla bellezza della natura in relazione alla sua caducità.

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Animazione Avventura Azione Commedia Commedia romantica Disney Fantasy Film Film Primavera 2022 Musical

Rapunzel – L’inizio inaspettato

Rapunzel (2010) è un lungometraggio animato di casa Disney, il cinquantesimo fra i suoi Classici, nonché, insieme al Re Leone (2019), il film animato più costoso della storia del cinema.

E così, con un budget di 260 milioni di dollari, incassò bene: quasi 600 milioni in tutto il mondo.

Ed è fra i miei prodotti animati preferiti in assoluto.

Di cosa parla Rapunzel?

Rapunzel è una ragazza che sta per compiere diciotto anni, passati tutti nella torre in cui è stata imprigionata da Madre Gothel, che vuole sfruttare il suo potere…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena guardare Rapunzel?

Rapunzel e Flynn in una scena del film Rapunzel (2010) L'intreccio della torre, il 50esimo classico disney

Assolutamente sì.

Rapunzel è un ottimo prodotto di animazione, che riesce facilmente ad intrattenere e a divertire.

Oltre a non avere mai dei momenti morti, presenta una narrazione incalzante, porta in scena due protagonisti con un’ottima chimica, una storia d’amore davvero coinvolgente, pur nella sua semplicità. Inoltre, una serie di personaggi secondari genuinamente divertenti e ben scritti.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Rapunzel

Rapunzel è una protagonista all’avanguardia per i tempi.

oltre ad essere, insieme a Mulan, una delle poche principesse a possedere un’arma, come Mirabel in Encanto (2021), è un personaggio intraprendente e che prende in mano la propria vita, nonostante tutti gli ostacoli che le vengono messi davanti.

Ovviamente il maggiore ostacolo è Madre Gothel e i suoi ricatti emotivi, ma anche Flynn inizialmente cerca di ingannarla e manipolarla.

Ma Rapunzel è inarrestabile.

In particolare, la protagonista della pellicola ha due punti di forza: non ha un principe e si salva da sola.

Salviamoci insieme

Non solo Rapunzel si salva da sola, ma salva anche il principe.

Una caratteristica ben poco presente per i personaggi femminili, che solitamente sono figure passive che devono essere salvate, spesso premio di una prova del personaggio maschile.

In questo caso Rapunzel decide autonomamente di intraprendere il suo viaggio e riesce, pur con qualche difficoltà, a difendersi, sia fisicamente che psicologicamente, da Flynn e infine da Madre Gothel.

Inoltre, appunto, salva Flynn in almeno due situazioni: quando stanno scappando dai gendarmi dalla taverna, quando stanno per affogare, e infine, anche se indirettamente, quando Flynn è effettivamente morto.

E l’unico momento in cui viene effettivamente salvata non è il solito salvataggio della principessa in pericolo.

Flynn

Molto spesso nella narrazione classica si portava una rappresentazione del protagonista maschile che doveva essere il sogno di ogni bambina: trovare un uomo bello e ricco da sposare, possibilmente che sapesse mettersi in gioco per salvarci la pelle.

Tuttavia le prospettive e i desideri del pubblico già dieci anni fa si erano ampliati.

Per questo Flynn Rider è stato il primo anti-principe della Disney.

A questo esperimento ne è seguita una pallida imitazione con Kristoff in Frozen, e in parte Nick in Zootropolis (2016). Quindi personaggi maschili che si affiancano le protagoniste femminili più come compagni di avventure che (solo) come interessi amorosi.

Nel caso di Flynn troviamo un personaggio assolutamente inusuale per l’epoca: viene anzitutto presentato come fondamentalmente negativo, in quanto fuorilegge, furbo e approfittatore, oltre che vanitoso (caratteristica rara nei personaggi maschili protagonisti, se non per sottosensi queer).

Nonostante tutti questi difetti, Flynn ci sta subito simpatico perché è un personaggio umano.

Uscire dallo stereotipo

Flynn in una scena del film Rapunzel (2010) L'intreccio della torre, il 50esimo classico Disney

A differenza di Rapunzel, che è un personaggio più tipico, Flynn è un personaggio profondamente umano.

Come ci spiega lui stesso, Flynn non è rappresenta la sua reale persona, ma è una facciata che si è costruito. Anche se non è spiegato nel dettaglio, sicuramente proviene da una realtà di grave povertà, forse persino da un orfanotrofio.

Per cui rubare non era mai stato un atto di avidità, ma un modo di sopravvivere, e anche di inseguire, seppure in maniera negativa, il sogno di una vita migliore. La validità del suo sogno viene tuttavia più volte ridimensionata, anzitutto da Uncino, che gli dice Il tuo sogno fa schifo.

Compagno di vita

Rapunzel e Flynn in una scena del film Rapunzel (2010) L'intreccio della torre, il 50esimo classico disney

Così, come nel migliore dei buddy movie, Flynn insieme a Rapunzel riesce a crescere e a migliorarsi, con un effettivo lavoro di squadra, che non sia solo unidirezionale.

Infatti Flynn non salva Rapunzel in senso stretto, ma più che altro la aiuta a compiere quell’atto finale che non riusciva a compiere lei stessa, per via lavaggio del cervello cui era stata sottoposta: tagliare definitivamente i ponti, e così il cordone ombelicale metaforico con la madre.

Oltre a questo, Rapunzel riesce a tirare fuori il meglio da lui, portandolo ad abbandonare Flynn per tornare ad Eugene, ovvero una persona che si interessa a qualcun altro oltre che a sé stesso, e che ha mire definitivamente più oneste e positive.

Ovviamente all’interno di un finale molto semplice e prevedibile, ma del tutto funzionale.

L’innamoramento

Rapunzel in una scena del film Rapunzel (2010) L'intreccio della torre, il 50esimo classico disney

Un grande pregio del film è che il rapporto Flynn e Rapunzel, nonostante sia basato sui più classici e funzionali tropoi di enemy to lovers, è ben costruito.

Inizialmente entrambi, appena si scoprono, sono quantomeno colpiti. Soprattutto Flynn, che rimane sbigottito vedendola per la prima volta, anche perché in quella scena la ragazza è disegnata in maniera più adulta.

Immediatamente, sono entrambi sulla difensiva davanti all’ignoto: Rapunzel si difende disordinatamente con la padella, Flynn con i suoi stupidissimi metodi di approccio, che potrebbero funzionare con altre donne, ma non con Rapunzel.

Poi ci riprova, vedendola in difficoltà, usando trappole emotive al pari di Madre Gothel, anche se ovviamente non in maniera così diabolica.

L’ultimo inganno a cui la sottopone è quello decisivo: alla taverna, invece di arrendersi definitivamente, Rapunzel si dimostra nuovamente capace di gestire la situazione, portandola a suo vantaggio.

E così è anche la prima volta che Flynn è genuinamente interessato a lei, come si vede dal mezzo sorriso che le rivolge mentre sono nel tunnel sotto alla caverna. Da questo momento in poi comincerà a non considerarla più una ragazzina sprovveduta.

Ed è anche la prima volta in cui Rapunzel si rende conto delle sue capacità, e di non essere una buona a nulla come raccontava Madre Gothel.

Le ultime tappe

Flynn in una scena del film Rapunzel (2010) L'intreccio della torre, il 50esimo classico disney

La scena del falò è un altro momento decisivo.

Finalmente entrambi si svelano l’uno all’altro, in maniera in cui nessuno dei due aveva mai fatto con nessuno. A quel punto Rapunzel è già evidentemente già innamorata, ma Flynn non può concedersi questo passo: la guarda ammaliato, poi abbassa lo sguardo, genuinamente sorpreso, e si allontana con una scusa.

E in quel momento Rapunzel fa la mossa finale: dimostra di accettarlo per chi davvero è, e non per la facciata che Flynn ha dovuto usare tutta la vita. E da come lo guarda si vede che è definitivamente innamorata.

Lo stesso sguardo è negli occhi di Flynn quando in città vede Rapunzel con i capelli intrecciati di fiori. Ma, ancora una volta, davanti allo sbeffeggiamento di Maximus, cerca di allontanare quel pensiero.

L’amore fra i due è finalmente rivelato prima quando si trovano mano nella mano durante la danza nella città, e infine sulla barca, quando si dichiarano vicendevolmente, senza più imbarazzo.

Così il breve distanziamento fra i due, che per fortuna non viene eccessivamente drammatizzato ed è anzi occasione per Rapunzel di avere la sua rivalsa su Madre Gothel, viene risolto con la dichiarazione reciproca dell’amore di entrambi.

E non con un semplice ti amo, ma con una dichiarazione più profonda.

Sei il mio nuovo sogno.

Madre Gothel

Madre Gothel è villain da manuale.

un antagonista piuttosto tipizzato, ovvero quel tipo di cattivo la cui cattiveria non è particolarmente esplorata.

Tuttavia, leggendo più a fondo il suo personaggio, si scopre che non è così superficiale come potrebbe sembrare. Anzitutto, le sue motivazioni: non cattiva perché cattiva, ma perché ossessionata non tanto dalla vita eterna, ma proprio dalla bellezza.

Non a caso Madre Gothel è una donna fascinosa e magnetica, che utilizza anche questo suo potere a suo vantaggio.

Così ammalia uno dei delinquenti della taverna per sapere dove sbuca il tunnel sotterraneo, così inganna i due compari di Flynn Rider per utilizzarli a suo vantaggio.

E sempre sulla bellezza punta quando vuole sminuire Rapunzel, sia durante la canzone Mother knows best, quando le dice che è trasandata, persino grassa (a little chubby).

Ma soprattutto durante la scena del falò, quando le afferra i capelli per sbeffeggiarla e le dice Pensi che sia rimasto impressionato? ribadendo quanto la figlioccia sia strana, trasandata e per nulla attraente.

Ma, soprattutto, Madre Gothel è definita nella dicotomia luce – buio, in contrapposizione con Rapunzel.

Essere inghiottiti dall’oscurità

Madre Gothel e Rapunzel in una scena del film Rapunzel (2010) L'intreccio della torre, il 50esimo classico disney

Secondo un topos molto semplice, ma non per questo meno efficace, Madre Gothel è strettamente collegata al concetto di oscurità. Anzitutto per i colori del suo personaggio, molto intensi e scuri appunto, così per la maggior parte delle scene in cui compare, sempre in ombra o penombra.

Inoltre, questa dicotomia si trova nella già citata canzone Mother knows best: tutta la scena è la donna che cerca di togliere la luce alla figlioccia, sia in senso metaforico che effettivo.

Come le spegne le candele che Rapunzel cerca di accendere per fare luce, così Madre Gothel utilizza la luce a suo vantaggio, facendo vedere quello che vuole lei, e ottenebrando la mente della ragazza con paure insensate.

Un’ombra

L’ombra di Madre Gothel accompagna Rapunzel anche quando non è presente in scena.

Quando la ragazza è profondamente divisa sul da farsi, avendo paura di deludere la madre, nelle scene di spensieratezza l’ambiente è luminoso e con colori pieni, quando è invece triste e preoccupata la vediamo in ambienti nell’ombra o nella penombra.

Altrettanto importante per questo simbolismo è l’incontro del falò: la donna abbraccia Rapunzel, non per affetto ma per ingabbiarla nuovamente, la afferra per un polso e cerca di trascinarla con sé, lontano dal falò e quindi dalla luce, verso la foresta nera da cui è emersa.

E così tutta la canzone, che serve a sbeffeggiare la figlioccia e impiantare in lei il seme del dubbio, si svolge nell’ombra.

Rapunzel in una scena del film Rapunzel (2010) L'intreccio della torre, il 50esimo classico disney

Ancora la tematica della luce quando Rapunzel acquisisce consapevolezza: in inglese nella canzone delle lanterne dice Now I see the light, ovvero Ora vedo la luce, in senso sia letterale, sia metaforico.

E il parallelismo è scontato è quando assume la definitiva consapevolezza della sua identità, vedendo proprio i soli simbolo della sua famiglia nella sua stanza, e quindi la luce e la verità che gli era sempre stata nascosta.

Madre Gothel e Rapunzel in una scena del film Rapunzel (2010) L'intreccio della torre, il 50esimo classico disney

Ma Rapunzel si fa anche tentare da una luce ingannevole: quando finalmente (e per fortuna temporaneamente) Madre Gothel la fa tornare a sé dopo averle fatto credere al tradimento di Flynn, è accanto ad una lanterna.

Ma è una lanterna di una luce fredda, verdognola, di un colore solitamente associato al veleno e all’inganno.

E si potrebbe andare avanti…

Non solo il tuo animaletto

Per quanto si sarebbe potuto desiderare un villain più profondo, che non fosse limitato alla sua cattiveria apparentemente superficiale, la spietatezza con cui Madre Gothel tratta Rapunzel è da brividi.

Non c’è mai un momento in cui dimostra qualche tipo di effettivo affetto verso la figlioccia, che considera sempre invece come uno strumento, come una risorsa per sé stessa ed il suo tornaconto.

Madre Gothel e Rapunzel in una scena del film Rapunzel (2010) L'intreccio della torre, il 50esimo classico disney

Non solo uno strumento, ma anche un animale: nella sua prima canzone, Mother knows best, Madre Gothel chiama Rapunzel proprio pet, e in più di un’occasione le tocca la testa come si fa con gli animali da compagnia appunto.

Questo gesto è ribadito nell’ultimo atto, quando Rapunzel le si ribella, prendendola violentemente per il polso e impedendole di farlo.

E finalmente torreggia su di lei.

Personaggi secondari indovinati

Un altro merito di questo film sono sicuramente i personaggi di contorno.

Anzitutto i malviventi incontrati alla taverna, che nel finale diventano fondamentali. Soprattutto per la loro canzone dove vengono presentati, non sono altro che un’estensione di Flynn: criminali ma dal cuore d’oro e con altre passioni oltre al crimine di per sé.

Tra l’altro spassosissima la loro sfilza di interessi assolutamente anacronistici per il periodo rappresentato.

Altra punta di diamante della pellicola è Maximus.

Era forse dai tempi di Mushu che non si vedeva un animale così ben raccontato ed animato, con una mimica al limite della perfezione, che lo fa sembrare prima un uomo, poi un cane (nella scena in cui incontra Rapunzel). Maximus è proprio una storia a parte.

Nota a margine per Pascal: sembra un personaggio molto secondario, e invece ha un ruolo chiave nella vicenda. Infatti, fino alla fine, Madre Gothel neanche sa che esista e Rapunzel glielo nasconde volutamente.

Pascal è infatti la voce della ragione, una figura enigmatica e silenziosa che invita subito Rapunzel ad uscire, che veglia su di lei, riuscendo ad addomesticare Maximus e accettando tacitamente la sua relazione con Flynn.

E non è un caso che è Pascal stesso che interviene per rendere definitiva la dipartita di Madre Gothel.

Rapunzel: un’altra interpretazione

Il potere di Rapunzel è luminoso e puro e, una volta tagliato, perde il suo valore.

Non sarò la prima né l’ultima a dirvi che Rapunzel può essere letto in un’altra ottica.

Il dono di Rapunzel è in realtà la sua verginità, in una visione ovviamente molto tradizionalista. Così Madre Gothel la promette ai malviventi, in maniera davvero inquietante, così dice a Rapunzel che Flynn vuole solo una cosa da lei, come se dovesse sedurla per avere un rapporto sessuale e poi abbandonarla.

Una narrazione piuttosto utilizzata e radicata profondamente nell’immaginario collettivo, anche odierno. E il fatto che si parli di Rapunzel e del suo potere legato al fiore e della preziosità della corona, l’unico interesse di Flynn secondo Madre Gothel, non fanno che confermare questa visione.

Così, quando alla fine si baciano sulla torre e l’inquadratura si allontana, senza far mai vedere che escono o altro, i più maliziosi potrebbero intendere quello come effettivamente il momento in cui portano il loro rapporto ad un altro livello.

Ma sono interpretazioni maliziose…

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Encanto – L’happy ending a tutti i costi

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2022 per Encanto (2021)

(in nero i premi vinti)

Miglior film d’animazione
Miglior colonna sonora originale
Migliore canzone originale

Encanto (2021) è l’ultima pellicola Disney Pictures uscita lo scorso novembre, nonché il 60esimo classico della casa di produzione statunitense. Nonostante ad oggi sia diventato un piccolo cult online, soprattutto per la canzone We don’t talk about Bruno, è stato un discreto flop commerciale: 251 dollari di box office contro un budget di 120. Quindi forse sono riusciti a rientrare nei costi di produzione, ma, con la massiccia campagna marketing che è stata fatta, non è neanche detto. Comunque per la Disney non un buon risultato.

Il film è stato una sorprendete riscoperta quando è uscito in streaming a Natale, creando un trend tutt’ora vivo, soprattutto su TikTok. E dopo spiegheremo come questo è di fatto un precedente pericoloso.

Ma andiamo con ordine.

Di cosa parla Encanto

Mirabel, interpreta da Stephanie Beatriz, in una scena del film Encanto (2021) 60° classico disney miglior film d'animazione oscar 2022

La storia di Encanto ruota intorno a Mirabel, parte della famiglia Madrigal, il punto di riferimento per una piccola comunità immaginaria della Colombia. Tutta la famiglia di sangue è caratterizzata per possedere poteri eccezionali, che mette al servizio del bene comune. Tutti tranne Mirabel. La protagonista sarà anche l’unica a rendersi conto di come la magia stia sparendo e a cercare di risolvere il mistero e ricostruire la solidità della famiglia.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Perché guardare Encanto

Encanto, nonostante le problematiche che esporremo nella parte spoiler, è un film molto valido, dal grande potere intrattenitivo e con delle canzoni che ti entrano veramente ne cuore. Non a caso è diventato famoso soprattutto per quest’ultime. La protagonista è una ventata di aria fresca per il genere: non è la solita protagonista femminile stereotipata (da cui la Disney sta cercando di distaccarsi da anni), ma è intraprendente, coraggiosa e con una bellezza non convenzionale, ma più realistica.

La storia nel complesso, nonostante il finale a mio parere poco convincente, riesce a trasportati in un mondo nuovo e davvero magico, e a farti esplorare bene o male tutti i personaggi della famiglia. Nel complesso, un film che ogni fan della Disney dovrebbe avere nel suo arsenale.

La questione degli Oscar 2022

Come ampiamente previsto, questo film ha vinto miglior film d’animazione agli Oscar 2022. Personalmente, nonostante il film sia complessivamente gradevole e ben fatto, penso che il premio dovesse essere vinto da I Mitchell contro le macchine (2021), prodotto Netflix di altissima qualità che vi consiglio caldamente di recuperare. O, al massimo, da Luca (2021), altro prodotto veramente valido della Pixar uscito la scorsa estate.

Tuttavia, il posizionamento dell’uscita rendeva assolutamente telefonata la vittoria di Encanto: solitamente i film che si vogliono far vincere agli Oscar vengono fatti uscire il più vicini possibile alla premiazione.

Il precedente pericoloso

Mirabel, interpreta da Stephanie Beatriz, in una scena del film Encanto (2021) 60° classico disney miglior film d'animazione oscar 2022

Non è un buon momento per i film d’animazione e, più in generale, i film per famiglie: la pellicola d’animazione che ha incassato di più nel 2021 è stata Sing 2 (377 milioni contro 85 milioni di budget), portandosi a casa circa la metà degli incassi del primo capitolo della saga.

In generale, vuoi per la difficoltà di recarsi serenamente in sala, soprattutto con bambini piccoli, vuoi per la sempre maggiore offerta delle piattaforme streaming, il pubblico più giovane sta abbandonando la sala. E la Disney, consapevole di questo, ha rilasciato il film neanche un mese dopo la sua uscita in sala su Disney+, portando al successo che ha avuto.

Un pericolosissimo precedente: senza lo streaming, Encanto non avrebbe avuto successo. E non è un caso, quindi, che Red (2021), l’ultima pellicola Pixar, sia stata rilasciata in streaming direttamente. La terza pellicola Pixar di fila.

Perché le canzoni di Encanto sono già dei piccoli cult

Luisa, interpretata da Jessica Darrow, in una scena del film Encanto (2021) 60° classico disney miglior film d'animazione oscar 2022

Le motivazioni del successo delle canzoni di Encanto sono fondamentalmente due: Lin-Manuel Miranda e la loro funziona nella storia. Se il primo nome non vi dice niente, sappiate che bene o male questo personaggio fa già parte della nostra vita (e non ce ne siamo accorti). Diventato in poco tempo il golden boy di Hollywood, ha sceneggiato Hamilton (2020), tratto dal famosissimo musical che è stato un successo incredibile negli Stati Uniti, e ha diretto l’ottimo Tik, tik…boom! (2021). Oltre a questo, aveva una parte abbastanza importante ine Il ritorno di Mary Poppins (2018).

Miranda è un ottimo sceneggiatore di musical (e se avete visto Tik, tik…boom! sapete di cosa sto parlando) ed con Encanto è stato capace di portare aria fresca al genere animato. Infatti la particolarità delle canzoni di Encanto è appunto il loro ruolo nella storia: molto spesso nei classici Disney (e non solo) le canzoni sono poco memorabili anche perché hanno un ruolo veramente marginale nella storia, spesso solo momenti di riflessione dei personaggi. Il primo esempio davvero emblematico in questo senso è Frozen II (2019), di cui infatti alcuna canzone è rimasta nel cuore degli spettatori.

In Encanto, invece, la canzoni sono spesso anche mischiate anche ai dialoghi dei personaggi e hanno una funzione chiave nella trama: o la portano direttamente avanti (come nel caso di !Hola casita!, la canzone finale di Abuela), oppure sono funzionali a far capire profondamente i personaggi del film (come la canzone di Luisa). Oltre a questo, sono canzoni sempre diverse fra loro e molto orecchiabili. Io, personalmente, le ho adorate dalla prima all’ultima.

Toccare i tasti giusti

Mirabel, interpreta da Stephanie Beatriz, e Luisa, interpretata da Jessica Darrow, in una scena del film Encanto (2021) 60° classico disney miglior film d'animazione oscar 2022

Io, per la maggior parte del finale, ero in lacrime. E non la classica lacrimuccia, proprio un pianto vero. Perché per tutto il film, e soprattutto alla fine, Encanto è riuscito a toccare i tasti giusti. In particolare i problemi familiari che più o meno tutti abbiamo o abbiamo avuto nella vita, il rapporto coi nostri nonni e potenzialmente l’abbandono di una persona amata.

Sono delle situazioni in cui ci si può facilmente immedesimare, perché piuttosto comuni. Oltre a questo, più realisticamente parlando, la famiglia Madrigal e l’esperienza di Mirabel non sono altro che la storia di ragazzini prodigio, che sentono la pressione al successo da parte dei genitori. Un altro tema, non a caso, piuttosto comune.

Una protagonista diversa

Mirabel, interpreta da Stephanie Beatriz, in una scena del film Encanto (2021) 60° classico disney miglior film d'animazione oscar 2022

Come anticipato, uno dei grandi meriti di questa pellicola è di portare in scena una protagonista diversa dal solito: finalmente non una insopportabile e irrealistica Mary Sue, speciale fin dalla nascita, ingenua e senza nessuno spirito di intraprendenza. Mirabel è invece intraprendente, decisa, ha una gamma espressiva ampia e realistica, ha sentimenti positivi ma anche molto negativi e molto umani.

Ma, soprattutto, non è un personaggio positivo solo a parole: aiuto veramente la sua famiglia, aiuta Antonio nel suo viaggio con un sincero affetto e aiuto che il resto della famiglia non gli dà. E, incredibilmente, non è rancorosa contro la sua famiglia, composta per la maggior parte da adorabili stronzi.

Una rappresentazione davvero inclusiva

La famiglia Madrigal in una scena del film 60° classico disney miglior film d'animazione oscar 2022

Encanto non solo ha reso protagonista della scena la comunità latina, in particolare colombiana, finora ben poco presente sui nostri schermi, ma è riuscito a farlo in maniera interessante e intelligente. I personaggi non sono per nulla stereotipati come spesso succede, sono tutti diversi fra loro di aspetto, con una splendida varietà di volti e di rappresentazione.

Oltre a questo, Encanto ha portato in scena una delle poche rappresentazioni di una donna muscolosa e possente, senza ridicolizzarla o renderla una macchietta, ma con un profondo dramma personale. Ed è splendido come molte persone, di solito scarsamente rappresentate, si siano ritrovate nel suo personaggio.

Il personaggio di Bruno e l’umorismo vincente

Bruno, interpretato da John Leguizamo, in una scena del film

Il personaggio di Bruno è la vera punta di diamante del film e non a caso è anche quello spesso più citato. Il film utilizza un trope che io personalmente adoro, ovvero introdurre un personaggio a parole e poi crearvi dell’attesa intorno. Oltre a questo, è un personaggio con cui facilmente empatizziamo e a cui è dedicante una delle scene che più mi spezzano il cuore di tutta la pellicola, ovvero quando Mirabel scopre che Bruno ha creato un allungamento del tavolo della sala da pranzo e ha disegnato sopra il suo piatto.

Ma è anche un personaggio genuinamente divertente, soprattutto per le parti in cui interpreta i suoi alter-ego. Fra l’altro, ci sono diversi momenti in cui Bruno è presente in scena prima che appaia, in primo luogo nella scena della canzone a lui dedicata.

In generale l’umorismo del film è piuttosto vincente, con battute che riescono a farmi ridere anche ad una seconda visione, in particolare all’inizio quando Mirabel afferma che è speciale come tutti i membri della sua famiglia, uno dei bambini le dice Maybe your gift is being in denial (Magari il tuo talento è negare la realtà).

Perché il finale di Encanto non funziona

Abuela, interpretata da María Cecilia Botero, in una scena del film Encanto (2021) 60° classico disney miglior film d'animazione oscar 2022

Il problema del finale è in realtà triplice: la giustificazione assoluta del personaggio di Abuela Alma, la morale problematica e la mancanza di un finale vero.

Il problema di Abuela Alma

Nella conclusione Mirabel si mostra assolutamente comprensiva nei confronti della nonna, accettando il suo dolore e il suo trauma, e conseguentemente giustificando il suo comportamento terribile finora. Quella della nonna (e in parte anche degli altri membri della famiglia) era una pura violenza psicologica, infatti se non fossimo in un film Disney il potere di Mirabel sarebbe la depressione profonda.

La storia della nonna è indubbiamente bella e toccante, anche molto empowering a suo modo: una donna solo, con tre figli, che riesce a costruire una solida comunità. Tuttavia, appunto, il suo trauma non giustifica la violenza con cui opprime i suoi familiari, che portano appunto ad una distruzione dell’armonia familiare.

Nota a margine, fra l’altro, per l’ossessione ancora viva del co-regista del film, Byron Howard, per il tema della luce: se fate un confronto con Rapunzel (2010), di cui era sempre co-regista, noterete delle grande similitudini fra il fiore del film del 2010 e la candela di Encanto.

Il finale non finale

Mirabel, interpreta da Stephanie Beatriz, in una scena del film Encanto (2021) 60° classico disney miglior film d'animazione oscar 2022

Il problema del finale di Encanto è proprio che non è un finale, ma una conferma della situazione precedente. C’erano diversi e vari problemi all’interno della famiglia, anzitutto quello già detto della nonna, ma anche la generale ansia e infelicità dei componenti della famiglia. Questo problema non è veramente risolto, perché è assolutamente poco credibile che basti una canzone per risolvere il trauma profondo di Mirabel, quello di Bruno e a risaldare i rapporti fra i personaggi.

Anche perché il problema di fondo resta: anche se la famiglia Madrigal si vuole forse più bene ora, sono comunque persone che devono essere al servizio della loro comunità, dare una certa immagine di sè, come viene ben mostrato nel film. Tutto questo non viene risolto.

Ma il problema più grande a mio parere è proprio Mirabel.

La morale distorta

Mirabel, interpreta da Stephanie Beatriz, in una scena del film 60° classico disney miglior film d'animazione oscar 2022

Nella conclusione scopriamo che il vero potere di Mirabel è quello di tenere unita la famiglia e, di conseguenza, l’intera comunità. Tuttavia, questo la rende totalmente un personaggio dipendente, che non potrà mai veramente staccarsi da questo contesto senza che possa succedere ancora una volta il disastro della fine del film.

Questo perché, come già detto, i problemi della famiglia non sono risolti. Quindi Mirabel, che è comunque un personaggio intraprendente e con voglia di fare, non potrà mai essere più che il collante della famiglia, senza avere un vero ruolo se non quello fondamentalmente ancellare.

Il finale perfetto sarebbe stato se Mirabel si fosse allontanata dalla famiglia, cercando la felicità e la possibilità di esprimersi altrove. E invece deve rimanere ancora ad un ambiente, che, in fin dei conti, è davvero soffocante.