Categorie
Commedia Commedia romantica Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Film La mia crescita Racconto di formazione

Diario di una tata – La spersonalizzazione voluta

Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini è una piacevole commedia coming of age con protagonista una giovanissima Scarlett Johansson.

Con un budget molto contenuto – appena 20 milioni di dollari – ebbe un discreto riscontro al botteghino, con 47 milioni di dollari di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Diario di una tata?

Annie è una giovane neolaureata che, anche per le pressioni della madre, vorrebbe intraprendere una carriera in ambito economico. Ma il destino ha qualcos’altro in serbo per lei…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena vedere Diario di una tata?

Scarlett Johansson in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

In generale, sì.

Anche se non è un film imperdibile, Diario di una tata è una commedia veramente piacevole, che offre diversi spunti di riflessione che, pur nella loro semplicità, non sono per niente scontati, ma che anzi raccontano una realtà ancora molto attuale.

Il film è inoltre impreziosito da un cast di primo livello: oltre alla fantastica Scarlett Johansson, troviamo anche Chris Evans, Laura Linney e il fantastico caratterista Paul Giamatti, oltre ad un’improbabile apparizione di Alicia Keys.

Insomma, ve lo consiglio.

La strada obbligata

Scarlett Johansson in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

La situazione iniziale di Annie è piuttosto tipica per i giovani di oggi e di ieri.

A fronte di un genitore che ha dovuto fare grandi sacrifici per un lavoro tutt’altro che semplice, la protagonista viene spinta dalla madre verso una carriera più redditizia e, almeno nella sua visione, molto più felice.

La questione viene sottolineata in particolare dal personaggio di Lynette, che rappresenta la voce degli immigrati di seconda e terza generazione che poterono sperare in una vita più agiata proprio grazie agli sforzi dei genitori, che spesso erano stati i servi delle ricche famiglie bianche statunitense.

Spinta verso questa identità costruita a puntino, Annie tenta il colloquio che dovrebbe cambiarle la vita, ma che si rivela tanto più impossibile quando le viene chiesto di raccontarsi, di darsi un’individualità che la distingua da tutti gli altri candidati.

Proprio in questo mondo tutte le sicurezze della protagonista vanno ancora più in pezzi, andando a ricercare nella giungla newyorchese una nuova identità in cui ritrovarsi, e che la possa finalmente definire come persona.

La nuova non-identità

Scarlett Johansson in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

E la nuova identità arriva, ma non la definisce.

Trovandosi per caso a salvare un bambino distratto mentre già pensava di diventare una barbona, Annie si trova davanti un ventaglio di possibilità inaspettato: diverse donne che bramano per averla al loro servizio e un’incredibile – per quanto temporanea – via di fuga.

Per quanto confortata da questa opportunità, Annie è del tutto consapevole di star facendo un errore e di star rinnegando le possibilità che la madre ha costruito apposta per lei, motivo per cui le mente così spudoratamente.

Scarlett Johansso e Laura Linney n in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

L’identità di tata è infatti confortante quanto spersonalizzante, come testimoniano le parole della stessa Annie:

I’m referred to as “Nanny” by all the people in the X’s social network.

Sarò chiamata “tata” da tutti gli appartenenti al ceto sociale dalla signora X.

La tata non è altro che una figura usa-e-getta, una donna che viene coinvolta da queste ricche e disperati madri per essere spremuta fino all’inverosimile non tanto per crescere i loro figli, ma piuttosto per essere tutto quello che loro non vogliono – e non possono – essere.

La catena di miseria

Laura Linney e Paul Giamatti in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Il circolo vizioso della miseria di mogli e dei figli parte dai padri.

I padri sono figure misteriose, sostanzialmente assenti nella vita familiare, micidiali imprenditori a cui interessa solo guadagnare il più possibile, riuscendo comunque a mantenere sotto scacco i due simboli sociali altrettanto preziosi per il loro status: la sposa e la prole.

Le mogli – come i figli – per i mariti non solo altro che accessori, trofei da esibire in pubblico per dimostrare di aver successo non solo nella sfera lavorativa, ma anche in quella familiare, mentre dietro le quinte la loro mancanza di interesse per la stessa è micidiale.

Laura Linney n in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Così si creano delle madri tremendamente assenti e delle donne troppo impegnate a costruirsi un’identità sociale rispettabile tramite gli eventi sociali e l’acquisizione di simboli materiali – gioielli, vestiti… – per provare anche solo ad essere delle mamme.

Per questo scelgono di trasferire i loro obblighi genitoriali ad una terza persona, anzi ad una schiera di altre persone che si avvicendano continuamente nella vita dei loro figli, donne che possono tranquillamente strapazzare senza paura delle conseguenze.

E Annie si lascia strapazzare.

Going native

Scarlett Johansso in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Nonostante questa situazione ai confini della realtà, Annie viene inevitabilmente coinvolta emotivamente dai problemi di questa terribile famiglia.

Vivendo così vicino a questi animali sociali, la protagonista, una volta superati i capricci di Grayer, riesce ad entrare nelle sue grazie ed a ricevere il suo affetto e la sua approvazione, tanto da diventare in un certo senso la sua vera madre.

Allo stesso modo, Annie non può non provare pena per la terrificante situazione matrimoniale e famigliare della Signora X, arrivando a prendersi sulle spalle la responsabilità della riuscita del matrimonio della stessa.

Per questo, fino all’ultimo, la protagonista non riesce a distaccarsi da questa situazione, di cui lei stessa è consapevole di essere dipendente.

Una nuova strada

Scarlett Johansso e Laura Linney in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Tramite questa esperienza, Annie acquisisce un’importante consapevolezza.

Infatti, la protagonista si rende conto di quanto sia molto più importante costruirsi un’identità seguendo le proprie inclinazioni e passioni, piuttosto che inseguire un sogno di ricchezza, che però non garantirà alcun tipo di felicità personale.

Questa consapevolezza è confermata dalla relazione con Hayden, che inizialmente Annie respinge anche per la differenza delle loro condizioni sociali, di cui ha una concezione totalmente idealizzata.

Scarlett Johansso e Chris Evans n in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Infatti, il ragazzo – nel ruolo quasi da pixie girl – le fa ancora di più comprendere come queste situazioni di agiatezza economica non si accompagnano sempre – anzi, davvero raramente – ad una vita perfetta e desiderabile, anzi.

Secondo una consapevolezza non tanto dissimile, la Signora X riesce a grazie ad Annie a rendersi conto di essersi incastrata all’interno di un modello apparentemente felice – la moglie ricca e devota – che la porta solo ad essere una donna infelice ed una pessima madre.

E non è un caso che sul finale si rivela per il suo vero nome, Alexandra – un’Alexandra nuova di zecca.

Categorie
Commedia Cult rivisti oggi Drammatico Film La mia crescita Racconto di formazione Recult The best of 2000s

Il diavolo veste Prada – Una donna troppo intraprendente

Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel è uno dei più grandi cult degli Anni Duemila, ricordato soprattutto per la fantastica performance di Meryl Streep e per aver lanciato la carriera cinematografica di Anne Hathaway.

Con un budget medio – 35 milioni di dollari – fu un enorme successo commerciale, con 326 milioni di dollari di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Il diavolo veste Prada?

Andy è una giovane ragazza con un sogno: diventare una giornalista per le più importanti testate di New York. Ma la strada per arrivarci è strana quanto perigliosa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il diavolo veste Prada?

Meryl Streep in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Assolutamente sì.

Il diavolo veste Prada è un cult imprescindibile, che riesce a raccontare molto di più sul dramma della femminilità dell’inizio del Millennio (e non solo) di quanto appaia ad una prima visione, con delle performance attoriali indimenticabili e una maturazione della protagonista tipica e atipica insieme…

Al contempo, questa pellicola è un racconto molto lucido delle difficoltà del mondo della moda e, più in generale, della realtà lavorativa statunitense – e non solo – soprattutto per una donna in un mondo dominato dalla visione maschile.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Una ragazza con un sogno

Anne Hathaway in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

L’opening de Il diavolo veste Prada è già di per sé iconico.

Si alternano sullo schermo scene di diverse donne senza nome che si preparano per uscire indossando abiti favolosi e molto chic. Tutto il contrario invece della nostra protagonista, che ha un abbigliamento molto più semplice e – se così vogliamo dire – trasandato.

Quindi fin da subito capiamo un concetto fondamentale: Andy è fuori posto.

Ma non per questo si arrende.

Meryl Streep in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Nonostante fin da subito sia osteggiata da ogni parte, nonostante sia redarguita e sbeffeggiata per non essere vestita alla moda e per non venerare Miranda, Andy non si perde d’animo ed affronta a testa alta un colloquio che già capisce essere destinato al fallimento.

E ancora, nonostante Miranda la tratti con sufficienza e superiorità, la protagonista si lancia comunque in un racconto sincero e appassionato riguardo le sue capacità di lavorare sodo e di potersi quindi adattare anche ad un contesto così alieno per lei.

E per questo Miranda la sceglie.

Ostilità e epifania

Meryl Streep in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Fin da subito lavorare per Miranda si rivela un inferno.

Senza alcuna formazione, senza alcuna pietà, Andy viene travolta dal turbine di richieste impossibili e tiranniche che presuppongono che lei conosca già a menadito la rivista, i contatti e le abitudini della sua nuova capa.

Nonostante appaia impacciata, piena di dubbi e fuori posto, la protagonista non si arrende mai, dimostrandosi anzi ben cosciente che tutto quello sforzo è un passaggio necessario per percorrere la via più breve – ma anche più ardua – per conquistare il suo sogno.

L’epifania è l’iconica scena del ceruleo.

Nonostante sembri solo raccontare la cattiveria e la supponenza del personaggio di Miranda, in realtà rivela molto di più.

Miranda non se la prende con Andy perché non ne capisce nulla di moda: piuttosto la critica aspramente per la superficialità con cui sta approcciando il suo nuovo lavoro e l’ambiente di cui fa parte, considerando la moda come una roba che non la riguarda.

Ma proprio la direttrice di Runway le fa comprendere come invece il suo lavoro sia molto più trasversale e penetrante, molto più importante profondo di quanto creda: non solamente uno spreco di soldi per oggetti inutili, ma un’effettiva forma d’arte.

Ma sulle prime Andy questo non lo capisce.

Il diavolo veste Prada Nigel

Anne Hathaway e Stanley Tucci in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

La vera svolta arriva con il dialogo con Nigel.

Dopo l’amaro confronto con Miranda per non essere riuscita a riportarla a casa in tempo per la recita delle sue figlie, Andy si rivolge al braccio destro del suo capo per un conforto, sperando di trovare in lui una spalla su cui piangere.

Invece Nigel la sorprende.

Con il suo sentito monologo, l’uomo le fa comprendere una volta per tutte la faciloneria con cui ha approcciato il suo nuovo lavoro, scegliendo testardamente di non adattarsi e di continuare a sminuire Runway e tutto quello che – come spiega Nigel – effettivamente rappresenta.

La svolta superficiale?

Anne Hathaway in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Con l’atto centrale il film comincia a combattere contro sé stesso.

Se da una parte infatti la sceneggiatura vorrebbe che il cambiamento di abbigliamento di Andy andasse di pari passo con il peggioramento del suo carattere, in realtà questa svolta rappresenta il momento di consapevolezza della protagonista.

Infatti, parallelamente al suo cambio di look, Andy si dimostra anche più spigliata, più sicura, più determinata nello sfruttare effettivamente questa opportunità che le è stata concessa, non scegliendo più di combattere l’ambiente, ma di trarre il meglio dallo stesso.

Ed è anche il momento in cui Miranda la mette maggiormente alla prova.

Anne Hathaway e Meryl Streep in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Se il primo test di fiducia di Miranda fallisce miseramente – Andy è incapace di portare a termine una commissione così semplice come portare a casa il Book – la donna sceglie di metterla nuovamente alla prova con una missione impossibile quanto punitiva.

In questo modo, infatti, Miranda pensa di dimostrare definitivamente come Andy, pur essendosi adattata al suo mondo, sia comunque un’incapace.

E invece la protagonista incassa una vittoria dopo l’altra: prima superando brillantemente la prova impossibile del manoscritto di Harry Potter, poi dimostrandosi anche migliore di Emily alla Festa di Beneficenza.

Amici…serpenti

Sulla carta Il diavolo veste Prada vorrebbe raccontare come Andy abbandoni i suoi ideali e i suoi affetti, diventando una donna superficiale e spietata.

Nella realtà, vediamo tutt’altro.

Come detto, la protagonista si impegna sempre di più nel suo lavoro, ma non abbandona mai veramente i suoi amici o smette di preoccuparsi per loro, anzi cerca costantemente di conciliare la sua difficoltosa vita lavorativa con la sua sfera privata.

E dimostra anche di essere una buona amica quando ricopre i suoi amici di regali e li incoraggia continuamente nei loro sogni, al contrario degli stessi che si dimostrano costantemente ostili e di fatto poco rispettosi dello sforzo che sta compiendo.

Anne Hathaway in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Ma Nate è il peggiore di tutti.

Il fidanzato di Andy non si impegna mai ad essere veramente supportivo nei suoi confronti, anzi la ostacola costantemente, la fa sentire in colpa per prendere sul serio il suo lavoro, e infine la accusa perfino di non avere una dignità.

Ma il suo punto più basso è indubbiamente sul finale, quando Andy gli dice che ha voltato le spalle alla sua famiglia e ai suoi amici e si chiede per cosa l’ha fatto, e al che Nate risponde

For shoes and shirts and jackets and belts.

Per le scarpe. E le camicette. E le giacche e le cinte.

dimostrando di non aver capito assolutamente nulla.

La vera morale

Anne Hathaway e Meryl Streep in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Invece la vera morale della storia è racchiusa nel viaggio a Parigi.

Quando Miranda sceglie Andy al posto di Emily per la Settimana della Moda, non lo fa per metterla alla prova per un proprio tornaconto, ma per farle veramente comprendere cosa significa la strada che ha intrapreso, e se sia davvero disposta a percorrerla fino in fondo.

E Andy sceglie ancora una volta di mettere sé stessa al primo posto, dimostrando anche una grande maturità – a differenza dei suoi amici – nel capire finalmente l’importanza del lavoro che sta svolgendo e di quali opportunità le si stiano aprendo davanti.

Al contempo, tuttavia, Andy sceglie anche di distaccarsi da quel covo di vipere che è il mondo che ruota intorno a Miranda, fatto di sotterfugi, pugnalate alle spalle e odio intestino mal celato, scegliendo di aiutare la sua capa, con un’umanità anomala per l’ambiente.

Tuttavia, quando alla fine Miranda le spiana definitivamente la strada per continuare a lavorare per Runway, Andy sceglie di non proseguire fino in fondo: la protagonista non vuole smettere di essere una donna determinata, ma non vuole neanche perdere la sua integrità.

Di fatto Andy continua a seguire il suo sogno, ma alle sue regole.

Categorie
Avventura Cinema per ragazzi Commedia Dramma romantico Drammatico Fantastico Film La mia crescita Racconto di formazione

Peter Pan (2003) – Dalla parte di Wendy

Peter Pan (2003) di P. J. Hogan è l’adattamento più recente e pedissequo dell’opera omonima di J. M. Barrie, molto più anche del Classico Disney del 1953.

Fu purtroppo anche un flop commerciale piuttosto disastroso: a fronte di un budget di 130 milioni, ne incassò appena 122, rimanendo comunque nei cuori degli spettatori ancora oggi.

Di cosa parla Peter Pan (2003)?

Londra, inizio Novecento. La giovane Wendy si trova costretta a crescere, ma le viene offerta una via d’uscita piuttosto interessante…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Peter Pan (2003)?

Jeremy Sumpter in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Assolutamente sì.

Questa pellicola mi è sempre rimasta nel cuore e posso dire felicemente che mi ha accompagnato nella crescita: la vidi da bambina, da adolescente, e l’ho rivista ora da adulta, ogni volta percependola in maniera assolutamente differente.

Peter Pan è infatti una pellicola estremamente trasversale.

Per i suoi aspetti giocosi e favolistici può coinvolgere facilmente i più piccoli, può emozionare gli adolescenti che si possono rivedere nei protagonisti, ma anche gli adulti, con una riflessione sulle bellezze e le amarezze del diventare grandi…

Dalla parte di Wendy

Rachel Hurd-Wood in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Uno degli aspetti più vincenti della pellicola è la riscrittura del personaggio di Wendy.

Nelle opere originali – sia la pièce teatrale, sia nel romanzo derivativo – Wendy è un personaggio passivo, che viene costantemente ricondotto al ruolo della madre – per quello che voleva dire essere tale nell’epoca rappresentata.

E questo era proprio il primo ostacolo della trasposizione.

Come nella storia di P. J. Hogan Wendy più che madre dei bimbi sperduti diventava la loro balia e domestica – cucina, li mette a letto, li accudisce, Peter compreso – nel Peter Pan del 2003 si sceglie di ricondurre il ruolo della madre invece alla raccontastorie, soprattutto nel gioco dei ruoli fra lei e Peter.

Jeremy Sumpter e Rachel Hurd-Wood in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Al contempo, il dramma della crescita è principalmente sulle sue spalle.

Nel contesto storico raccontato, diventare adulta per una donna era un passaggio fondamentale quanto difficoltoso, in cui si doveva sottostare a precise aspettative ed obblighi, per mettersi sul mercato e maritarsi al più presto.

È quindi è piuttosto comprensibile che Wendy si lasci abbastanza facilmente lusingare dalle promesse di Peter – oltre ad essere totalmente ammaliata da lui fin dal primo incontro. Wendy di fatto scappa dalle responsabilità che le sono crollate addosso all’improvviso, e sceglie di rimanere per sempre bambina e felice.

Ma non è tutto oro quel che luccica…

Una crescita dolce e amara

Jeremy Sumpter, Rachel Hurd-Wood, Freddie Popplewell e Harry Newell in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Wendy è totalmente rapita – in tutti i sensi – dalla vita di Peter, fatta di continue avventure in un mondo pieno di creature fantastiche e uscite da un libro delle favole – praticamente la materializzazione di tutti i suoi sogni.

Ma Wendy non può non crescere.

Da preadolescente comincia inevitabilmente a sentire quei primi pruriti, che non riesce del tutto a comprendere, ma che sa che saranno più chiari quando sarà grande. In sostanza, Peter Pan parla della maturazione sia emotiva che sessuale di Wendy – e, in parte, anche di Peter.

Una maturazione che la protagonista sente non solo come necessaria, ma anche tutto sommato più auspicabile rispetto all’eterna giovinezza di Peter. E questo nonostante sia allo stesso tempo consapevole di cosa significa essere adulti.

Mrs. Darling racconta infatti alla figlia il lato più amaro della crescita: dover mettere da parte i sogni, chiuderli in un cassetto, ma mantenerli ancora nel proprio cuore, pur con sofferenza – proprio quello a cui Peter non vuole e non può rinunciare…

Un personaggio tragicomico

Jeremy Sumpter, Rachel Hurd-Wood e Ludivine Sagnier in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Peter Pan è un personaggio complesso, con diverse chiavi di lettura.

Rappresenta di fatto la giovinezza eterna, con le sue luci e le sue ombre: una perpetua spensieratezza – che gli permette di essere leggero e quindi di volare – ed avventure fantastiche, che farebbero la gioia di ogni bambino.

Ma è anche chiudere le porte alle felicità che solo un’effettiva maturazione può portare, anzitutto l’amore romantico, ben diverso dal semplice affetto dei propri genitori, e che Peter scopre proprio grazie a Wendy.

Un altro lato piuttosto drammatico – più volte affrontato nelle opere originali – è che questa eccessiva spensieratezza si accompagna anche ad una memoria fragilissima, che porta Peter a dimenticarsi continuamente delle sue stesse avventure e, potenzialmente, anche di Wendy stessa…

O a diventare come Uncino.

Il dramma di Uncino

Jason Isaacs in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Uncino è un personaggio speculare e parallelo a Peter Pan.

Un adulto pieno di rabbia e malignità, che odia Peter perché rappresenta tutto quello che lui ha ormai da tempo perduto. Al contempo, si rende conto che sia lui che Peter sono privi di un elemento fondamentale, anche se per motivi diversi.

Infatti Uncino, nella sua astuzia e malizia, vuole far paura a Peter quando capisce che anche lui sta vivendo il suo stesso dramma – non essere amati. E quello che gli racconta è per certi versi quello che succede effettivamente nel finale del romanzo: Peter si dimentica di Wendy e la ritrova adulta e sposata.

E glielo racconta così abilmente perché è proprio la stessa situazione in cui si trova lui stesso, la stessa consapevolezza che ha ormai da molto tempo, e che infine lo porta ad arrendersi, a rinunciare alla sua stessa vita…

Come Wendy salvò Peter

Jeremy Sumpter e Rachel Hurd-Wood in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Quando Uncino lo minaccia di un futuro senza Wendy, senza amore e senza affetti, Peter è inevitabilmente a terra, vinto.

Per questo Wendy riesce a salvarlo, promettendogli che, anche se le loro strade si separeranno, lei continuerà comunque ad amarlo, come suo primo ed unico amore. Per questo quel bacio rappresenta il momento di passaggio per entrambi.

Wendy accetta la sua maturazione sessuale ed emotiva, capisce in quale direzione la porteranno queste nuove sensazioni che la stanno travolgendo. Al contempo Peter conosce una felicità nuova, regalata non solo dalle emozioni di questa spensierata giovinezza, ma anche da altri sentimenti finora conosciuti.

Rachel Hurd-Wood in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Perché allora alla fine Peter e Wendy si separano?

Anche se Peter rimarrà per sempre un ragazzino, in qualche modo è diventato comunque un po’ più grande: ha capito meglio le sue scelte di vita, le gioie – la spensieratezza, la mancanza di responsabilità – e le amarezze – non avere l’affetto di una famiglia o l’amore di Wendy.

Ma la stessa Wendy è maturata: ha abbracciato questi nuovi e strani sentimenti, ed è pronta ad esplorarli come giovane donna. Ed è diventata anche abbastanza matura da capire le amarezze della vita di Peter, dicendo in un certo senso addio alla sua stessa infanzia.