The Blair Witch Project (1999) di Daniel Myrick e Eduardo Sánchez è un cult dell’horror, considerato uno spartiacque per il genere.
A fronte di un budget minuscolo – 60 mila dollari, circa 113 mila oggi – è stato un successo commerciale senza precedenti:248 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla The Blair Witch Project?
Un gruppo di cinque ragazzi si avventura nella foresta di Blair e scompare senza lasciare traccia. Tre anni dopo, assistiamo alla registrazione che ci rivela un’oscura verità…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere The Blair Witch Project?
Dipende.
Per quanto mi riguarda è difficile giudicare questo prodotto al di fuori del contesto in cui uscì: molto del suo fascino servirà dalla campagna marketing che fece credere al pubblico che si trattasse di una storia e la poca conoscenza della tecnica foundfootage al grande pubblico.
Tuttavia, a tanti anni di distanza, dopo anche la rinascita del genere con Paranormal activity, potrebbe non fare lo stesso effetto, nonostante in senso generale sia un discreto film di intrattenimento.
Insomma, a voi la scelta.
Aspettativa
The Blair Witch Project si basa su due fattori.
L’aspettativa e la mancanza.
Una tecnica semplice quanto funzionale – già sperimentata, fra gli altri, in Non aprite quella porta (1974) è di creare un certo tipo di attesa nel pubblico, che conosce già la conclusione della storia, ma non i dettagli del suo svolgimento.
In questo modo, assistendo alla iniziale ingenuità dei personaggi, al loro progressivo immergersi in un orrore incomprensibile e sconosciuto, il film riesce a toccare le giuste corde per creare una tensione facilmente coinvolgente.
Ma non è tutto.
Mancanza
The Blair Witch Project è, forse neanche del tutto consapevolmente, un film molto furbo.
Potendo contare su budget minuscolo, non si può permettere di mettere in scena sostanzialmente nulla degli orrori che racconta, ma riesce comunque a tenere sulle spine lo spettatore grazie ad un astuto uso della mancanza.
Sostanzialmente, meno il film ci fa vedere, più noi vogliamo vedere, e ci intrappola sostanzialmente in questa sorta di circolo vizioso in cui non possiamo fare a meno di stare attaccati allo schermo proprio in attesa di una rivelazione visiva…
…che, paradossalmente, non arriverà mai davvero.
Credibilità
Per quanto sulla carta fosse un progetto vincente, vi è un aspetto su cui non poteva sbagliare.
La credibilità.
Per riuscire a soddisfare le aspettative di un pubblico che in parte credeva onestamente di star vedendo una storia vera, era necessario che le immagini mostrate fossero assolutamente credibili e, così, coinvolgenti.
E da questo punto di vista non posso che promuovere la pellicola.
L’utilizzo della camera a mano è ben pensato, riuscendo tutto sommato anche a rendere credibile il fatto che non venga mai spenta, e così anche la costruzione della tensione fra il gruppo che li porta a dividersi internamente fra isteria e orrore.
Plauso anche agli attori protagonisti, che sono veramente riusciti a risultare verosimili nel mostrare la loro alternanza si emozioni: dalla totale inconsapevolezza, alla confusione, alla terrificante claustrofobia, del sentirsi intrappolati contro ogni logica, braccati da un nemico incomprensibile…
Nightmare (1984) di Wes Craven, noto anche col titolo di Nightmare – Dal profondo della notte, è il capostipite della fortunatissima saga omonima.
A fronte di un budget abbastanza contenuto – 1.1 milioni di dollari, 3.3 oggi – è stato un enorme successo commerciale:25 milioni in tutto il mondo – circa 75 oggi.
Di cosa parla Nightmare?
Tina Gray si risveglia da un brutto sogno in cui era inseguita da una misteriosa figura col volto ustionato. Ma è davvero solo un sogno?
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Nightmare?
Assolutamente sì.
Già prima di rivoluzionare il cinema horror con Scream (1996), Wes Craven si dimostrava una voce fuori dal coro all’interno di un genere purtroppo destinato all’inevitabile saturazione.
Uno slasher che non vuole esserlo, che si spoglia di tutta la drammaticità tipica del genere e rimescola le carte in tavola, impreziosito da un humour grottesco davvero irresistibile – e, per questo, diverso da quanto visto finora.
Insomma, non ve lo potete perdere.
Visione
Nessuno crede ai protagonisti…
…nemmeno loro stessi.
In un incipit per certi versi simile a Non aprite quella porta (1974), Freddy Krueger prepara le sue terribili armi e si mette all’inseguimento di Tina, mostrando fin da subito il suo fare giocoso, quasi surreale…
…che si distacca del tutto dal grande gioco delle soggettive di Halloween (1978) e diVenerdì 13 (1980) – e di Psycho (1960) a suo tempo.
Un nemico fin da subito visibile, che non cerca in alcun modo di nascondere il suo mostruoso aspetto né le sue intenzioni omicide, vincendo proprio grazie all’incredulità dei personaggi, che ne negano l’esistenza praticamente fino alla fine.
E proprio la sua natura onirica offre il fianco a sperimentazioni davvero sorprendenti.
Morte
Un elemento piuttosto tipico del genere slasher è la passerella della morte.
Un sequenza immancabile di omicidi di tutti i personaggi della pellicola, fino alla final girl, ma che già in Venerdì 13 mostrava la sua limitatezza in sperimentazioni non particolarmente brillanti, e che rischiavano già di diventare ripetitive…
…ma che avranno maggior fortuna artistica proprio grazie a Wes Craven negli Anni Novanta.
Ma già in Nightmare il regista dimostrava la sua particolare inventiva.
Vivendo come personaggio fra due mondi – reale e onirico – Krueger non si limita a squarciare le membra delle sue vittime, ma, piuttosto, se ne inventa sempre una nuova: farli sprofondare nel letto che diventa la loro tomba, affogarli in una vasca, farli volteggiare sulle pareti…
…e, la mia preferita, farli crollare in un pozzo di sangue.
Attiva
Sally è una final girl piuttosto particolare.
Solitamente questo tipo di personaggio, soprattutto nelle prime fasi del genere, doveva essere molto vicino allo spettatore: posseduta da un terrore indicibile davanti al killer di turno, ma abbastanza intelligente da reagire, pur spesso in maniera ben poco programmatica.
Un fulgido esempio è sicuramente Laurie in Halloween.
Al contrario, la scream queen di Nightmare è un personaggio incredibilmente attivo, la prima che comprende la vera natura del suo nemico e che cerca di coinvolgere gli altri nel suo piano per strapparlo dal mondo dell’incubo, e, così, sconfiggerlo.
Tuttavia rimane comunque un personaggio con i piedi per terra per la totale e continua fallibilità del suo piano, particolarmente nel finale…
Inception?
Nightmare è tipico e atipico insieme.
Una tendenza del genere che non si risparmia è il finale sostanzialmente aperto, in cui il nemico non è veramente sconfitto, aprendo le porte ad una sequela infinita di sequel potenziali per una storia ancora tutta da raccontare.
Allo stesso modo, non manca anche l’antefatto che definisce la natura del killer, pur in questo caso facendo sembrare questo film quasi il sequel di uno slasher con protagonista la madre di Sandy, Marge.
Ma la particolarità del film sta proprio nel suo finale.
Sandy diventa una sorta di Alice nel paese delle meraviglie: come la protagonista di Carroll si lasciava alle spalle il mondo onirico chiosando Siete solo un mazzo di carte, allo stesso modo la final girl di Craven volta le spalle a Krueger, togliendoli importanza e così, almeno apparentemente, vincendo su di lui.
In realtà, quasi come il finale di Inception (2011), la protagonista crede solo di essere nel mondo reale, ma invece sembra essere intrappolata in una nuova versione dell’incubo, in cui la macchina brandizzata di Krueger la trascina via sotto gli occhi di una Marge apparentemente ignara, che viene afferrata alle spalle…
Tornando cinquant’anni indietro, scopriamo l’origine della violenza cieca del killer del primo film…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Pearl?
Assolutamente sì.
Arrivata alla visione del secondo capitolo carica di aspettative, non sono stata per niente delusa:Pearl riprende ed amplia il discorso di X, esplorando un tema sociale particolarmente attuale, anche se in un contesto sociale lontano nel tempo.
Un Ti West, fra l’altro, molto onesto con sé stesso: pur affrontando un tema più impegnativo, mantiene una scrittura ed una messinscena semplice e diretta, portatrice di un messaggio piuttosto immediato, ma non per questo banale.
Ma, ancora una volta, ve lo lascio scoprire.
Sogno
Pearl è una ragazza piena di sogni.
Fin dall’inizio appare immersa nella sua fantasia di cavalcare le scene di Hollywood e così di evadere l’arida realtà in cui è costretta, che infatti irrompe bruscamente nelsuo sogno nelle vesti della severa figura della madre, che fin da subito cerca di distruggere le sue speranze.
E lo scontro fra questi due personaggi non è tanto diverso da quello fra Pearl e Maxine nel primo capitolo: un antagonismo apparentemente distruttivo, in realtà dovuto a cause più profonde, fra l’amarezza del presente e la cautela per il futuro.
La madre infatti cerca di portare Pearl lontano da quello che un tempo era il suo sogno – rappresentato dai vestiti non più indossati – che ormai ha compreso essere impossibile, cercando di proteggerla da insidie a cui la figlia sembra completamente cieca.
Perché della realtà Pearl vede solo una parte.
Fuga
La protagonista è alla ricerca del suo posto nel mondo…
…quello che le appartiene per diritto.
Infatti fin da subito Pearl deve essere la protagonista della scena, deve essere la star, arrivando a punire in maniera molto infantile chiunque sembri mettersi sul suo cammino –persino un’innocente oca che fa capolino in scena, curiosa del suo spettacolo.
E ogni ostacolo è dato in pasto al fedele coccodrillo, il quale, ancora di più rispetto al primo film, può essere letto come rappresentazione di una società solo apparentemente alleata della protagonista nel raggiungimento del suo sogno.
Così nella fuga in città Pearl ritorna finalmente nel suo luogo dei sogni, il cinema, che rappresenta perfettamente il dualismo della pellicola: uno splendido spettacolo di danza preceduto da un angosciante spaccato della guerra ancora in corso.
E proprio qui Pearl dovrebbe trovare la sua via di fuga…
Brandello
Il ragazzo senza nome del cinema è solo una delle tante illusioni di Pearl.
Nient’altro che un brandello di un mondo irraggiungibile, pari il piccolo fotogramma che la protagonista conserva gelosamente sulla via di casa, che inaspettatamente porta anche alla prima effettiva realizzazione del suo sogno…
…ma non più in uno spettacolo cinematografico, ma in una scena erotica – proprio come il porno amatoriale che lo stesso uomo dei sogni le farà vedere di nascosto – e con un fantoccio che rappresenta l’amante proibito che la protagonista è ancora restia ad accogliere.
Ma Pearl è stanca di tutte queste illusioni.
Di fronte alla possibilità concreta di fuggire dalla tediosa esistenza della fattoria, la protagonista comincia effettivamente a disfarsi di quanto la potrebbe ostacolare, prima di tutto l’odioso peso del padre, una delle principali cause della caduta in disgrazia della famiglia.
Ma in realtà la sua prima vittima è la madre, che cerca ancora più bruscamente di riportarla con i piedi per terra, utilizzando la sua sfortunata sorte come monito di quello da cui la figlia dovrebbe stare lontana, piuttosto che abbracciare così ingenuamente.
Ma ormai nessuno può fermare Pearl.
Spettro
Pearl vorrebbe lasciarsi tutto alle spalle, ma non può.
Non davvero.
Lo ben dimostra il sogno in cui Pearl è diventata una star di successo, rovinato dalla inquietante presenza degli spettri del suo passato, maliziosamente presenti fra il pubblico con il volto deturpato dalle colpe della protagonista.
Comincia così una corsa inarrestabile verso l’occasione che le cambierà la vita, in cui persino un ragazzo che solo esprime una comprensibile inquietudine nei confronti dello strano comportamento di Pearl diventa inevitabilmente vittima della sua furia.
E allora, non dovrebbe essere ora si vincere?
Perdere
L’audizione non è una semplice audizione.
Rappresenta invece il momento in cui Pearl mette alla prova il sogno che le è stato venduto, per cui ha letteralmente dato via ogni parte della sua vita, e dal quale ora si sente finalmente di dover essere premiata.
E invece la realtà torna ulteriormente a bussare alla sua porta, mettendola davanti ad un mondo dove non basta essere bravi, ma dove bisogna anche essere nel posto giusto al momento giusto, dove è necessaria anche la faccia giusta…
E con questa amara realizzazione, finalmente Pearl diventa onesta con sé stessa, intraprendendo un intenso dialogo col fantasma del marito, spettro sempre presente anche in precedenza, considerato come l’ostacolo invalicabile per la realizzazione del sogno.
E così, eliminato l’ultimo testimone, non resta che ricostruire un’altra facciata, quella della famiglia perfetta…se non fosse che il cibo in tavola è marcio, due dei convitati sono in putrefazione, e la reazione del marito ritornante è di puro orrore…
…davanti al volto sfigurato della protagonista, che forza un sorriso perfetto, che però gradualmente si scioglie in lacrime di profondo dolore.
Venerdì 13 (1980) di Sean S. Cunningham è considerato fra i film fondativi del genere slasher.
A fronte di un budget piccolissimo – mezzo milione di dollari, circa 2 milioni oggi – è stato un enorme successo commerciale:40 milioni di dollari in tutto il mondo (circa 152 oggi).
Di cosa parla Venerdì 13?
1958, New Jersey. Due animatori di un campo estivo vengono brutalmente assassinati da una figura misteriosa. E quindici anni dopo l’orrore sembra pronto a ripetersi…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Venerdì 13?
Dipende.
Personalmente ho trovato Venerdì 13 un film veramente tedioso, privo di mordente, niente più che una passerella di omicidi che cerca di buttare molto fumo negli occhi allo spettatore per nascondere la sua inconsistenza di fondo.
D’altra parte, se siete particolarmente fan del cinema slasher, troverete in questa pellicola tutti gli stilemi tanto amati del genere nella loro forma primigenia, che aspettavano solo di essere esasperati all’interno dei suoi sequel e nel filone in generale.
La scelta sta a voi.
Punto di vista
Uno degli pochi elementi che ho apprezzato della pellicola è l’uso della soggettiva.
Per quanto non si tratti di niente di nuovo – la tecnica era già stata ampiamente sperimentata in Halloween (1978), e pure con effetti migliori – tuttavia riesce nel tentativo di farti immergere nella storia, diventando quasi complice dell’omicidio iniziale.
E infine questa tecnica, che pure alla lunga è talmente esasperata da diventare poco credibile, nondimeno permette di far sentire l’inquietante presenza del killer in scena, in quanto la soggettiva è ormai quasi un’esclusiva del suo personaggio.
Il problema è il resto…
Scatto
Uno dei punti più bassi della pellicola è la recitazione.
Finché gli attori protagonisti devono sostenere il ruolo di adolescenti spensierati ed unicamente concentrati sul loro costante desiderio sessuale, diventando quasi indistinguibili l’uno dall’altro, tutto sommato presentano una recitazione discreta…
…ma, quando si tratta di portare in scena emozioni più complesse, di mostrare il puro terrore davanti alla morte, è come guardare una mano invisibile che schiocca le dita e li fa passare in un attimo da uno stato di tranquillità ad una paura devastante, risultando il meno credibili possibile.
Che sia cattiva direzione o cattive capacità interpretative è difficile dirlo, soprattutto visto che invece l’interpretazione dell’unica attrice di qualche valore, ovvero Betsy Palmer nei panni della terribile signora Voorhees, è in parte sporcata da un leggero overacting…
…ma, nel complesso, riesce a funzionare come rivelazione finale del film.
Ma nel frattempo…
Ritmo
Un grande problema di Venerdì 13 è il ritmo.
La storia è incredibilmente ripetitiva, non racconta sostanzialmente nulla per la maggior parte del tempo, particolarmente nel lunghissimo atto centrale, che cerca un minimo di costruire la tensione con dei piccoli indizi del pericolo in agguato – come il serpente…
…ma che infine è solamente una sequenza interminabile di personaggi trucidati in maniera sempre più creativa, a volte proprio per il loro essere promiscui – tema incredibilmente classico all’interno del genere – a volte per puro spettacolo.
E, anche se il vero motivo dell’assassino non è per nulla banale, anzi cerca, come tanti altri film simili – specificatamente Non aprite quella porta(1974), da cui sostanzialmente saccheggia il colpo di scena – di dare un ulteriore significato alla furia omicida del killer…
…ma che, alla lunga, risulta solo stancante, soprattutto considerando quantoil film sia derivativo – rubando, non per ultimo, la colonna sonora a Psycho (1960) – quanto il finale sia sorprendentemente aperto, spunto per una serie sequel che posso solo immaginare…
Il robot selvaggio (2024) di Chris Sanders è un film d’animazione a tecnica mista tratto dal libro omonimo di Peter Brown.
A fronte di un budget medio – 78 milioni di dollari – ha aperto abbastanza positivamente il primo weekend: 35 milioni nei soli Stati Uniti.
Di cosa parla Il robot selvaggio?
ROZZUM è un robot creato appositamente per assistere gli umani. Ma cosa succederebbe se invece finisse in un ambiente selvaggio e ostile?
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Il robot selvaggio?
Assolutamente sì.
Con Il robot selvaggio stiamo scrivendo la storia dell’animazione, che aveva già cominciato la sua rivoluzione artistica con Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) – e il suo sequel – e poi con Il gatto con gli stivali 2, portando – si spera – la Dreamworks ad orientarsi finalmente verso orizzonti più interessanti.
L’unico elemento – forse inevitabile – che penalizza la pellicola è il percorrere una storia fin troppo tipica e prevedibile, che inizialmente si dimostra davvero fuori dagli schemi, ma che nel finale si riduce ad un esito fin troppo favolistico, e che secondo me non si integra in maniera ottimale con il tono generale del film.
Ma non per questo ve lo potete perdere.
Ostile
Roz precipita in un ambiente ostile.
Pur con tutte le buone intenzioni, il robot protagonista si deve scontrare con un ambiente per cui non è stato programmato, ma che cerca di piegare a quella che è per lei l’unica visione possibile: cliente effettivi e clienti potenziali.
Ma in un mondo profondamente dilaniato da odi interni, definito dalla legge del più forte, la divisione è ben diversa: l’io che domina incontrastato si scontra costantemente con un perpetuo nemico – che può essere chiunque, persino appartenere alla stessa specie, financo alla stessa famiglia.
E lo stesso incontro con Beccolustro si articola in una paradossale dinamica di distruzione che previene la distruzione: se un Roz stermina accidentalmente un nucleo familiare, in realtà ne salva il suo componente più debole, che sarebbe stato destinato ugualmente alla morte.
E da questo strano incidente si sviluppa un discorso molto peculiare sulla maternità…
Maternità
Il robot selvaggio racconta una maternità realistica…
…che raramente si ritrova in prodotti pensati per un pubblico così giovane.
L’incontro insperato con il neonato Beccolustro farebbe subito pensare all’innesco di una dinamica affettiva di imprinting da entrambe le parti – soprattutto per come viene caricato emotivamente il momento del primo incontro…
…e invece Roz si limita a continuare per la sua esistenza incredibilmente binaria, in cui un pulcino incapace di esprimere direttamente i suoi bisogni, e che si limita solo a seguirlo incessantemente, non può essere suo cliente.
Ed è in questo contesto che entra in gioco il modello di Codarosa.
L’opossum si presenta con un peso emotivo e materiale sulle spalle: la nuova cucciolata, il nuovo carico di figli non voluti, ma semplicemente capitati, che si trova a dover gestire controvoglia, sperando in più di potersene sbarazzare.
E con il suo scambio con Roz finalmente la maternità si spoglia di quella idealizzazione che ha infestato decenni di animazione, portando in scena invece una madre imperfetta, che sceglie di prendersi cura di un bambino solo perché le circostanze lo richiedono.
Ma, non per questo, risulta un una figura negativa.
Semplicemente, impreparata.
Imparare
La maturazione dei protagonisti è interconnessa.
L’apprendimento di Roz si articola in una presa di consapevolezza del mondo in cui si trova immersa, riuscendo infine a comprendere le sfumature del reale: come Fink può essere doppiogiochista e al contempo un amico fedele, così anche Paddler può essere egocentrico quanto altruista.
E questa evasione graduale dal binarismo iniziale permette a Roz di esprimersi non più solo tramite modelli prestabiliti, ma di diventare un’inaspettata mente creativa, il cui primo passo è proprio il battezzare il suo figlioccio non con un nome in serie, ma con un affettuoso nomignolo.
Al contrario, Beccolustro cresce per imitazione.
Nel suo racconto quasi crudele della genitorialità, Il robot selvaggio mette in scena una dinamica ormai fin troppo nota: la prole che ha come primo contatto con il mondo il genitore, che considera come unica fonte di verità e di conoscenza e che, di conseguenza, imita senza controllo.
Una dinamica che si traduce in una serie di gag di passaggio in cui Beccolustro dimostra di aver vissuto fin troppo a stretto contatto con Roz, imitandone pedissequamente i comportamenti in maniera piuttosto bizzarra, diventando inevitabilmente un emarginato sociale.
Ma questa forte vicinanza è proprio il punto focale del loro rapporto.
Distacco
Roz e Beccolustro devono trovare il loro postonel mondo.
Le loro maturazioni sono talmente contigue da rendersi di fatto interdipendenti: come l’oca non può ancora volare e nuotare con le proprie zampe, così il robot non riesce a lasciare vivere il proprio figlio adottivo al di fuori del suo campo visivo.
Un rapporto quasi soffocante che paradossalmente gode molto della rivelazione sulla vera storia di Roz e del rivoltarsi di Beccolustro: un distacco brusco ma necessario per accompagnare il protagonista verso la propria indipendenza.
E la bellezza del loro rapporto sta proprio nel riuscire ad aiutarsi anche in vista di una separazione forse definitiva, che dovrebbe sancire la chiusura di questa breve parentesi nella vita di entrambi, dopo il quale ognuno potrà tornare ai suoi ruoli programmati.
Ma un ragionamento del genere sarebbe andato bene alla vecchia Roz, quella pronta a tornare alla prima occasione alla sua fabbrica, ma che invece ora è molto restia ad abbandonare questa realtà che l’ha definita più di quanto si potesse immaginare.
Ma c’è qualcun altro che potrebbe voler decidere per lei…
Unione
L’atto conclusivo de Il robot selvaggio è quello che mi ha lasciato più dubbi.
Risulta a mio parere molto convincente la linea narrativa che definisce definitivamente la maturazione di Roz nel suo confronto e scontro con un sistema in cui non si riconosce più, ma per il quale risulta molto attraente per il patrimonio di informazioni di cui involontariamente si fa portatrice.
Un sistema che ben si concretizza nell’unico effettivo villain della pellicola, ovvero Vontra, un viscido essere meccanico pronto ad irretire Roz con le sue parole, capace di ragionare solamente su due possibilità: la collaborazione del bersaglio o la sua distruzione.
Ed è proprio qui l’elemento che mi ha meno convinto.
Come avevo ampiamente apprezzato una rappresentazione crudele quanto realistica della natura selvaggia, al contempo questa risoluzione molto classica – ma, secondo me, poco adatta ai toni usati fino a questo momento – de l’unione da la forza l’ho trovato veramente poco incisiva.
Allo stesso modo, il finale mi ha lasciato una certa amarezza, soprattutto a fronte di un sequel già programmato e che potrebbe potenzialmente ridurre Il robot selvaggio all’ennesimo franchise di successo che viene snaturato con i suoi poco utili capitoli successivi…
She’s the man (2006) di Andy Fickman è un teen movie con protagonista Amanda Bynes, ispirato all’opera shakespeariana La dodicesima notte.
A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 20 milioni di dollari – non ha avuto un grande riscontro al botteghino: circa 57 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla She’s the man?
Viola è una bravissima giocatrice di calcio, limitata da un unico fattore: essere una femmina. E per questo cercherà vie alternative per riscattarsi…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere She’s the man?
Assolutamente sì.
She’s the man è uno di quei teen movie veramente da riscoprire, che riuscirono in tempi non sospetti ad aggiungere qualcosa di nuovo ad un genere che ha invece la tendenza a ripetersi, anticipando le tendenze future.
Infatti all’interno di una commedia molto leggera e spensierata, è inserita un’importante riflessione sui ruoli di genere, rimessi pesantemente in discussione, cercando il più possibile di evadere modelli e personaggi tipizzati che solitamente affollano questo tipo di film.
Insomma, da riscoprire.
Definizione
L’incipit di She’s The Man è fondamentale.
Fin da subito la protagonista è presentata come personaggio piuttosto peculiare, soprattutto in quel periodo: non la classica ragazza sfigata che deve trovare la sua identità, ma piuttosto un incontro fra diversi elementi che raramente si vedono integrati nella protagonista di un teen movie.
Ovvero, una ragazza piuttosto sicura di sé e già coinvolta in una relazione romantica – di cui tra l’altro sembra tenere le redini – e, al contempo, unmaschiaccio, in quanto più orientata verso interessi stereotipicamente maschili.
Una presentazione fondamentale per arrivare al primo punto di rottura della pellicola: non solo l’eliminazione della squadra di calcio, ma l’umiliazione di non essere considerata al pari della squadra maschile – sminuendo per estensione la stessa protagonista…
…e portando di conseguenza al distacco dal sistema e da Justin, da cui si sente ugualmente tradita.
Seminato
Sulla carta, la protagonista ha una sola alternativa possibile.
Ovvero, la proposta dalla madre, che nasconde molto goffamente il suo sollievo per la cancellazione della squadra, sperando che la figlia arrivi finalmente ad abbracciare invece un modello femminile piuttosto classico, che la protagonista sembra rigettare in toto.
Invece, il destino sembra essere dalla parte di Viola, suggerendole una strada alternativa, perfettamente apparecchiata per essere percorsa: assorbire in tutto e per tutto il modello maschile e colmare il vuoto lasciato dal fratello – altro personaggio in fuga da un modello imposto.
E già da qui la pellicola comincia un discorso piuttosto interessante…
Modello
Il modello maschile è fin da subito messo in discussione.
Come spesso questi film raccontano stereotipi femminili piuttosto ridondanti, in questo caso invece la situazione si ribalta, portando in scena una visione piuttosto ingenua e stereotipata del mondo maschile, ridotto ad uno uno stock di dinamiche incredibilmente stereotipiche.
Infatti la protagonista, nel suo allentamento per diventare un maschio credibile, cerca di imitare una serie di comportamenti che lei considera rappresentativi del mondo maschile, ma che invece via a via si riveleranno solamente la superficie di un una cultura machista unicamente dannosa.
Ma sono dei modelli fragili.
Infatti, fin dalla sua prima entrata in scena nelle nuove vesti, la protagonista risulta fuori luogo e forzata – in maniera molto ironica, visto che i primi personaggi maschili che incontra corrispondono perfettamente, almeno dal punto di vista estetico, allo stereotipo del maschio alpha.
E invece queste figure hanno molto da raccontare…
Successo
La chiave del successo di Viola è cangiante.
Da una parte, la protagonista risulta attraente agli occhi di Olivia proprio perché non rispecchia realmente il modello maschile che vorrebbe incarnare, ovvero del maschio potente, dall’emotività inscalfibile e che non può e non deve mai ammettere le sue debolezze.
Al contrario Viola, che rappresenta invece le aspettative sociali del femminile, può permettersi di mostrarsi deboli e di discutere di determinati argomenti stereotipicamente propri del genere di appartenenza, risultando nella sua diversità decisamente interessante.
Al contrario per il mondo maschile Viola risulta inizialmente solo respingente, anzi estremamente fuori luogo proprio per i suoi comportamenti eccessivi e forzati, che la riducono ad una macchietta con cui nessuno vuole avere a che fare.
E quindi infine l’unico modo per avere l’attenzione del microcosmo maschile è di mettere in scena un assurdo teatrino in cui non solo le sue amiche si prestano per interpretare le sua vecchie fiamme, ma in cui la stessa Monique diventa l’elemento di conferma per il nuovo status di dongiovanni di Viola.
Ma è solo la condizione necessaria per realizzare il suo sogno.
Traguardo
She’s the man riesce ad evitare un errore molto comune in questo tipo di film.
Ovvero, la fastidiosa tendenza a semplificare eccessivamente il percorso di maturazione della protagonista, presupponendo in un certo senso che la stessa non debba fare un particolare sforzo per raggiungere il suo obbiettivo.
In questo caso invece, per quanto Viola sia indiscutibilmente talentuosa, si deve comunque scontrare con un una realtà – il calcio maschile – in cui inizialmente non risulta vincente, venendo così relegata alle riserve.
Così la via del miglioramento si articola in una dinamica piuttosto classica: lo scambio di favori fra due personaggi – molto popolare nell’ambito enemy to lovers – in cui Viola aiuta Duke a conquistare Olivia in cambio di un allenamento intensivo.
E su questo punto c’è da fare un discorso a parte…
Interiore
Il tema della bellezza interiore non è niente di nuovo per il genere.
Solitamente però viene articolato in una narrazione piuttosto banale di competizione fra due modelli di femminilità: la mean girl superficiale ed egoista, e la ragazza sfigata e intelligente – un esempio molto classico è lo scontro fra Taylor e Laney in She’s all that.
Invece all’interno di She’s the man vengono presentati più modelli femminili possibili, e nessun personaggio viene condannato solamente per appartenere ad uno o l’altro, ma piuttosto per la propria insista natura di villain.
In questo senso, sia Monique e Olivia rappresentano due modelli di iperfemminilità…
…ma solamente la prima è un personaggio negativo, proprio perché si dimostra fin dall’inizio superficiale e arrogante, prendendo fra l’altro parte al duo maleficio con Malcom, che cerca infine di umiliare e punire la protagonista per il proprio tornaconto personale.
Aspetto
Viola non si innamora di Duke per il suo aspetto.
Solitamente in una dinamica in cui la protagonista emarginata si innamora di un ragazzo impossibile, l’attrazione in prima battuta è dovuta all’aspetto fisico, e solo in secondo luogo alla personalità effettivamente interessante dello stesso – come in Un compleanno da ricordare (1984).
Invece all’inizio Viola non è attratta da Duke, ma lo diventa nel corso della pellicola quando comincia a conoscerlo come persona, soprattutto al di là di quello stereotipo castrante che il ragazzo cerca in tutti i modi di evadere, mostrando invece il suo lato più fragile e sensibile.
Una fragilità che si può in questo senso direttamente ricollegare alla pesantezza delle aspettative sociali: come Duke sente di dover aderire ad un modello, così la sua difficoltà nell’accettarlo lo porta ad essere estremamente insicuro nell’approcciarsi alla sua ragazza dei suoi sogni.
Ma ci sono delle relazioni che semplicemente non sono fatte per esistere.
Equivoci
L’atto centrale mette in luce tutte le difficoltà relazionali.
Una classica commedia degli equivoci, che però intraprende anche nuove strade per raccontare e definire i personaggi, in particolare i due villain, Monique e Justin: entrambi dimostrano un atteggiamento possessivo e ossessivo, derivato dal loro non avere più il controllo su relazioni ormai finite.
Ed entrambi sono la miccia si risse scatenate per il medesimo motivo, che, per una volta, non sono esclusiva del maschile, ma coinvolgono nella scena immediatamente successiva anche il femminile, che si scontra nel bagno del country club.
Ma altrettanto immaturi sono anche i personaggi positivi.
Impossibilitati ad avere in breve tempo le relazioni dei loro sogni, i protagonisti ricorrono ad una serie di sotterfugi e illusioni autoindotte per ottenerli: così Viola cerca di spingere Duke lontano da Olivia e più verso sua sorella, mentre Olivia strumentalizza Duke per avere le attenzioni di Sebastian.
Ma la maturazione dei personaggi sta proprio nel comprendere i limiti di queste dinamiche – a cominciare dall’appuntamento fallimentare fra Olivia e Duke – scegliendo infine la via più diretta e semplice per mostrare il loro interesse nei confronti delle loro fiamme…
…anche se così si creano non poche incomprensioni che portano all’atto finale.
Rivelazione
L’atto finale è scatenato dall’arrivo di un elemento inaspettato.
Ovvero, il vero Sebastian che fa capolino in scena.
Così il momento dello scioglimento, solitamente dedicato al ballo scolastico, vede invece come protagonista la partita di calcio, in cui la commedia degli equivoci si scatena nella sua forma più pura, con Sebastian che prende involontariamente parte al match fondamentale per la sorella.
Un equivoco nell’equivoco che porta infine alle diverse rivelazioni, in cui i fratelli Hastings mostrano tutta la loro sfrontatezza nell’esibire l’unico elemento che sembra convincere effettivamente il pubblico del loro genere si appartenenza: i tratti sessuali primari e secondari.
Ma questo non basta per sciogliere tutti i nodi.
Le vere sfide per Viola sono ancora tutte da giocare: prima la vittoria morale nei confronti di Justin – e di tutto quello che rappresenta – non lasciandosi intimidire dalle parole di umiliazione con cui il suo ex-ragazzo cerca di farle sbagliare il gol decisivo.
E, infine, l’effettiva conquista di Duke, che accetta la lezione fondamentale del film: andare oltre le apparenze e ossessioni per avvicinarsi a persone che ci desiderano realmente per quello che siamo, e non per quello che rappresentiamo.
L’esorcista (1973) di William Friedkin è un classico del cinema horror sul tema possessioni, che ha dato vita ad un franchise piuttosto longevo.
A fronte di un budget non poco importante – circa 12 milioni di dollari, circa 85 oggi – è stato un incredibile successo commerciale:193 milioni in tutto il mondo (circa 1,3 miliardi oggi).
Di cosa parla L’esorcista?
Regan è una dolcissima bambina che non farebbe male ad una mosca. Ma se dentro di te è presente un ospite indesiderato…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere L’Esorcista?
Assolutamente sì.
Soprattutto davanti al desolante panorama cinematografico odierno sul tema, L’esorcista è riuscito a stupirmi per la sua ottima costruzione della tensione, mostrando l’involuzione della protagonista in maniera graduale e ben pensata.
Sicuramente una pellicola non leggera e che non manca di molti momenti di puro orrore ancora oggi in grado di sconvolgere profondamente lo spettatore, ma al contempo ben distribuiti all’interno delle due ore di durata.
Insomma, da riscoprire.
Pezzi
Nell’incipit, scopriamo i tre pezzi del puzzle.
Un attacco piuttosto straniante, in un misterioso panorama arabeggiante, in cui il nostro futuro esorcista viene per la prima volta in contatto con il demone, una figura ammiccante e spudorata fra il cristiano – il diavolo – e il pagano – i genitali in rilievo.
Si passa poi ad ambienti urbani più riconoscibili, in cui gli altri due protagonisti riesco appena a sfiorarsi con lo sguardo: Karras osserva pensieroso Chris, la madre di Regan, e poi si allontana senza che i due si siano scambiati neanche una parola.
E infine, la nostra futura vittima, Regan, una ragazzina così innocente e piacevole, il cui atto più grave è qualche innocuo capriccio, che mai potremmo immaginare nelle vesti mostruose, disobbedienti e sacrileghe che assumerà gradualmente nel corso del film.
Per questo, la trasformazione è ancora più inquietante.
Dualità
Due famiglie si alternano in scena.
Da una parte la dolcezza della relazione fra Regan e Chris, apparentemente turbata da un matrimonio finito male e da un padre assente, in realtà ben salda nel rapporto strettissimo fra madre e figlia, che si perdono nei loro piani per il compleanno della ragazzina.
Dall’altra, la durezza di casa Karras, elemento apparentemente scollegato da tutti il resto, in realtà fondamentale nel terzo atto: una situazione affettiva già precaria, che si spezza definitivamente con la morte fuori scena della madre…
…che ci offre anche un primo sguardo su uno spettro che perseguiterà la mente di Chris per tutto il resto della pellicola.
Ovvero, il reparto psichiatrico, un panorama desolante di donne anziane immerse in un mondo di incubi che cercano inutilmente di afferrare le vesti del povero Karras, che vuole solo ricongiungersi con la madre crudelmente legata ad un letto.
Ed è solo l’inizio.
Ignoto
Il vero incubo di Chris è l’ignoto.
La crescente preoccupazione per la situazione della figlia non nasce tanto dalla sua condizione di per sé, ma piuttosto dall’impossibilità di razionalizzarla: per quanto diverse figure apparentemente risolutive si avvicendano in scena, in realtà infine nessuna sarà capace di aiutarla.
E intanto l’isteria, l’incattivamento di Regan diventa sempre più esplosivo: un climax travolgente che comincia da un umore scostante e qualche rispostaccia – una tendenza che potrebbe anche essere derubricata ai primi momenti dell’adolescenza…
…ma che infine si concretizza in comportamenti sempre più incomprensibili, financo distruttivi: il demone non prende semplicemente possesso del corpo della bambina, ma cerca continuamente di violarlo con un sottofondo erotico veramente disturbante.
Infatti, la nutrita passerella di personaggi che si avvicenderanno al capezzale di Reagan diventeranno tutti vittime di questa di violenta così esplosiva, sia considerando la purezza di Regan, sia l’inserimento dei simboli cristiani.
E un’immagine così deturpante che non può essere che il preludio per la forma finale della possessione…
Resa
Come il suo incubo è l’ignoto, il vero dramma di Chris è l’essere l’unica a capire il vero problema della figlia.
Intrappolata in un crescendo sempre più angosciante di diagnosi, che cercano di trovare il razionale dove lo stesso non ha spazio, la donna si vede ignorata le sua grida d’aiuto, di una donna che ha visto con i suoi occhi elementi soprannaturali che quelle asettiche figure mediche non possono spiegare.
E l’aiuto viene infatti ricercato proprio in Karras, questa figura di mezzo fra il razionale – la psichiatria – e l’irrazionale – la fede – che in prima battuta cerca di mettere un freno allo slancio della madre del trovare nell’esorcismo la liberazione della figlia.
Ed infatti inizialmente combatte con grande convinzione questa idea, cercando tutte le vie possibili per contestare una presenza demoniaca ormai innegabile, ripercorrendo fra l’altro vie della razionalizzazione in precedenza già e fin troppo battute.
Ma infine persino questo uomo fra i due mondi si deve arrendere, e anzi cercare un effettivo esorcista che possa scacciare il male da casa MacNeil, portando finalmente in scena Padre Merrin, protagonista di un esorcismo che, a sorpresa, non ha nulla di spettacolare.
Infatti, più che un rito purificatore, assistiamo ad un effettivo martirio, in cui i due protagonisti vengono fisicamente consumati dall’atto depurativo, donando infine la loro stessa vita per permettere a Regan di continuare la propria.
Joker: Folie à Deux (2024) di Todd Phillips è il sequel dell’acclamato Joker (2019), con protagonisti Joaquin Phoenix e Lady Gaga.
A fronte di un budget decisamente più importante rispetto al precedente – 200 milioni di dollari – ha aperto con un primo weekend ben poco promettente:144 milioni in tutto io mondo.
Di cosa parla Joker: Folie à Deux?
Dopo i suoi multipli omicidi, Arthur è segregato nel carcere di massima sicurezza di Arkham. Ma un incontro inaspettato gli cambierà la vita…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Joker: Folie à Deux?
Magari no.
Che piaccia o meno, è purtroppo assolutamente evidente che Joker: Folie à Deux non fosse né previsto né voluto in prima battuta: lo dimostra anche solamente il fatto che l’incipit vanifichi completamente il finale della prima pellicola.
Quindi non stupisce di trovarsi davanti ad un film con qualche buona idea alla base, ma gestita in maniera del tutto insufficiente, con una povertà di scrittura allarmante e l’inserimento dell’elemento musical che sembra nient’altro che una passerella per Lady Gaga.
Però, sentitevi liberi di farvi la vostra idea.
Ma io non sarò complice della vostra visione.
Annullamento
Joker: Folie à Deux riesce ad essere incoerente fin dalla sua prima scena.
Dopo un corto animato che dovrebbe anticipare il tema della pellicola – ma che ci riesce molto limitatamente – ci immergiamo immediatamente nelle lugubri atmosfere di Arkham, con una costruzione scenica che vuole farci desiderare vedere l’apparizione di Arthur Fleck, in un’ottima occasione per distinguerlo dallo squallore degli altri detenuti…
…e invece, risultando in un momento finalizzato acaricare il più possibile la scena di un pietismo che personalmente ho trovato davvero insopportabile – già presente comunque nella prima pellicola, ma in quel caso in maniera ben più contestualizzata e interessante.
Invece in questo primo frangente Arthur non sembra altro che un cane bastonato – non a caso, molti sono i riferimenti alla figura canina – dalle barzellette alla scena in cui viene legato ad un palo – andando così ad annullare l’importante punto di arrivo del precedente film.
Una scelta che, per quanto non mi convinca in principio, poteva essere salvata da un’adeguata contestualizzazione, che risulta invece del tutto mancante: sappiamo solo che Arthur si è spento e ha ripudiato il personaggio di Joker – e le gioie che gli aveva regalato.
Ma ci sono figure anche più fumose…
Identità
Chi è Harley Quinn?
È veramente spiacevole notare come, scena dopo scena, il personaggio di Lady Gaga riveli sempre di più la sua inconsistenza, finendo per essere nient’altro che un intermezzo musicale del tutto scommesso, un motore della trama totalmente pretestuoso e forzato.
Infatti, nonostante il film cerchi di giustificare il suo personaggio e le sue intenzioni, nulla è realmente spiegato: dovremmo credere che Lee si sia fatta internare apposta per conoscere Joker, così ossessionata dalla sua figura e dalla sua storia da volerne prendere parte…
…ma tutto ciò è raccontato solamente a parole, senza che le azioni in scena abbiano un minimo di credibilità che possa giustificare come il suo personaggio entri ed esca da Arkham a suo piacimento – stesso luogo, ricordiamolo, in cui vige il pugno di ferro.
In generale, Lee dovrebbe rappresentare la voce di quella folla che, alla fine di Joker, vedevamo acclamare il personaggio nel suo momento di massima follia – la stessa che, per il resto, è sostanzialmente assente dalla scena – ma senza inserire neanche un significativo disegno politico che la renda di qualche interesse.
Ma la sua inconsistenza ha radici ben più profonde…
Negazione
Joker: Folie à Deux è l’apoteosi della negazione del personaggio.
Volendo maliziosamente leggere fra le righe, il percorso del protagonista può essere letto come un racconto del malcelato sentimento del regista: dopo l’inaspettato successo della prima pellicola, Phillips è tornato alla regia evidentemente controvoglia e privo di idee.
Così, come Joker è costantemente trascinato nel ruolo, come nei suoi sogni musicali appare nelle sue fattezze più classiche – e, per quanto mi riguarda, desiderabili – del personaggio fumettistico, infine entra in scena come un villain da operetta, rappresentando la massima esasperazione del personaggio.
Ovvero, un mero pagliaccio.
E in questo contesto è anche più doloroso vedere un personaggio del genere prendere parte a momenti musicali così mal integrati nella storia da sembrare degli inserimenti fatti solamente perché andavano fatti, mancanti di qualunque riflessione in merito.
Infatti sarebbe veramente bastato pochissimo, sarebbe bastato mostrare la dicotomia fra il sogno musicale e la realtà, sarebbe bastato mostrare la totale dissociazione mentale di Arthur – come, d’altronde, era stato fatto nel primo film – financo la ridicolaggine delle sue azioni.
Invece, tranne la breve ma quantomeno funzionante scena della fuga, il tutto si perde in una pochezza devastante…
Fuga
Il Joker di Todd Phillips non ha un futuro.
E non vuole averlo.
Nel finale della pellicola Arthur è bruscamente riportato a quella realtà che l’aveva in prima battuta spento, subendo indicibili violenze da parte delle guardie che vogliono nuovamente rimetterlo al suo posto, preparandosi così per il patibolo.
Così il momento della difesa si trasforma il momento della confessione, della negazione del Joker – riuscendo in ultimo ad evitare l’angosciante opzione della personalità multipla – ancora più sottolineata dalla sua fuga da uno dei suoi tanti ammiratori che lo vogliono costringere ad un ruolo da cui vuole solo fuggire.
E invece, negando ulteriormente lo splendido finale del primo film in cui Joker abbracciava questa malata connessione fra follia e amore, vedendo infrangere i sogni insieme alla sua (immaginaria?) Harley Quinn, Arthur torna nuovamente a spegnersi.
E allora forse la morte in scena è la morte che il Joker di Philips infligge a se stesso per mano di un altro – vero? – pagliaccio sadico, risultandoincapace di soddisfare chiunque…
Un’adolescente rockettara e una madre in carriera possono capirsi? Sì, ma solo se si scambiano di posto…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Freaky Friday?
In generale, sì.
Freaky Friday è un teen movie veramente molto classico, che racconta lo spostamento dell’attenzione del genere dalla figura paterna – positiva a quella materna – negativa, e, più in generale, un importante conflitto fra due generazioni che sembrano non riuscire a comunicare.
Una pellicola sostanzialmente comica, che è retta sulle spalle dalla inaspettata (?) verve comica di entrambe le attrici protagoniste, capaci di portare in scena personaggi così paradossali senza mai cadere nel ridicolo, anzi mostrandone anche i lati più drammatici.
Insomma, dategli una possibilità.
Conoscenza
Freaky Friday è perfettamente diviso nei tre atti canonici.
Nel primo atto lo spettatore ha l’importante ruolo di osservare quei due personaggi così agli antipodi, vedendo quei lati a cui anche di cui le due sembrano totalmente ciechi: anzitutto Anna, l’effettiva vittima di diversi personaggi che gli sono inspiegabilmente ostili.
Un fratello dispettoso – ma i cui dispetti sembrano del tutto invisibili alla madre – una ex-migliore amica diventata inspiegabilmente vendicativa, e un professore bullo che la punisce nonostante sia inequivocabilmente la migliore della classe.
Una situazione ancora più insostenibile dal momento che la madre, Tess, sembra del tutto cieca davanti a questa situazione, pensando che la figlia sia solamente una drama queen che pensa che tutto il mondo sia contro di lei.
E, molto ironicamente, la stessa Anna pensa che la madre abbia una vita perfetta, quando noi assistiamo come la stessa in realtà debba sopportare non poiché pressioni, non ultima la responsabilità di avere sulle spalle la fragile salute dei suoi pazienti.
E, arrivati al momento di massimo conflitto e incomprensione, avviene il miracolo.
Realizzazione
Il secondo atto è il momento della realizzazione.
Trovandosi nel corpo dell’altra, entrambe hanno l’occasione per vedere la realtà da un nuovo punto di vista: Tess ritorna per un giorno ad essere un’adolescente, pensa di avere tutta la situazione sotto controllo, di poter ricucire il rapporto con Ashley e di superare brillantemente il test…
…ma invece, inaspettatamente, capisce e risolve l’antipatia del professore contro la figlia, dovuta ad una infantile vendetta con vent’anni di ritardo, e diventa vittima della perfidia della vecchia amica di Anna, che la fa finire ingiustamente in punizione.
Anche più interessante è l’esperienza di Anna.
La giovane protagonista vive inizialmente un’ingenua euforia nel poter fare quello che vuole, facendo strisciare più volte la carta della madre per rivoluzionarle totalmente il look, immersa in un sogno di ribellione e indipendenza che farebbe impazzire qualsiasi adolescente…
…ma che infine, proprio come la madre, vive in brusco risveglio quando scopre la pesantezza delle responsabilità della vita adulta, talmente snervanti da portarla prima ad una crisi di pianto e all’inaspettato desiderio di tornare alla sua vita precedente.
Ma l’esaurimento nervoso non basta a risolvere la situazione…
Conciliazione
Il terzo atto è il momento della conciliazione.
Una volta compresi i limiti della vita dell’altra, le due protagoniste intraprendono involontariamente un percorso di riavvicinamento, pur all’interno di un campo minato di relazioni indesiderate che, semplicemente, non dovrebbero esistere.
Proprio in questo contesto Tess arriva veramente a comprendere l’importanza della passione di Anna, che prima considerava così poco importante – la band – trovandosi proprio in una posizione analoga alla figlia quando deve presentare il suo libro.
Un momento di altruismo che porta ad un momento di altrettanta bontà da parte di Anna, che passa dall’essere l’elemento di disturbo all’interno del futuro matrimonio della madre, alla sua principale promotrice e salvatrice.
Una buona narrazione che permette di perdonare un finale molto debole e fin troppo dipendente dalle gag conclusive.
Joker (2019) di Todd Phillips è stato fra i più grandi fenomeni cinematografici del decennio, che al tempo diede nuovo lustro al genere cinecomic.
A fronte di un budget piuttosto ridotto per un film del genere – circa 60 milioni di dollari – è stato un incredibile successo commerciale: oltre un miliardo di dollari in tutto il mondo.
Di cosa parla Joker?
Arthur Fleck è un emarginato sociale che vive in una città devastata dal crimine e dalla povertà. Eppure forse potrà diventare inaspettatamente un paladino degli ultimi…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Joker?
In generale, sì.
Per quanto apprezzi anche molto questa pellicola, ci tengo ad andarci un po’ più con i piedi di piombo nel consigliarvela: preso a sé, è un ottimo film drammatico, pur forse non così profondo come vorrebbe essere, e a tratti fin troppo patetico nella narrazione…
…ma, se si fa il confronto con la figura del Joker fumettistico e cinematografico, Joker potrebbe apparire per certi versi pretestuoso, financo fastidioso, soprattutto se siete particolarmente appassionati dell’universo DC.
Ma vi consiglio comunque di dargli una possibilità.
Realtà
Arthur vive fra sogno e realtà.
La sintesi della sua condizione è fin da subito esplicitata: forzando un enorme sorriso sul suo volto, il protagonista lo stressa al punto da spremere una singola lacrima che deturpa il suo volto da pagliaccio, e così svela la tragicità del suo personaggio.
Infatti se nella scena successiva, pur con un travestimento posticcio e quasi ridicolo, Arthur salta e balla in mezzo alla strada per attirare nuovi clienti, diventa immediatamente vittima dei crudeli dispetti di un gruppo di ragazzi che gli rubano il cartello e lo assaliscono in un vicolo.
Questo contrasto prosegue anche nel racconto del disturbo del protagonista, che in più momenti non può fare a meno di scoppiare in una risata isterica e incontrollabile, nonostante la stessa per nulla rappresenti il suo struggimento interiore.
Insomma, Arthur è costretto ad una realtà ostile e distruttiva, ad una guerra fra poveri senza fine istigata da una classe sociale di ricchi che non fanno altro che guardare dall’alto al basso questo gruppo di vergognosi pezzenti.
E infatti l’amore è possibile solo nel sogno…
Sogno
Il sogno è il rifugio di Arthur.
La prima felice allucinazione ha come protagonista Murray Franklin, figura scintillante che emerge da quella scatola magica, veicolo di una realtà lontana e felice, in cui effettivamente il protagonista potrebbe trovare la figura paterna tanto ricercata.
E la televisione è anche motivo di illusione per la madre, che sogna l’aiuto di Thomas Wayne, filantropo e figura politica di primo piano, che sarà capace di risolvere tutti loro problemi e salvarli dalla loro condizione di assoluta miseria.
E, più si prosegue, più i sogni diventano vividi.
Dopo mesi di preparazione e di una precisissima annotazione dei punti forti degli altri stand up comedian, Arthur è pronto finalmente a salire sul palco e farsi amare da quella pubblico che sembra effettivamente entusiasta della sua performance…
…all’interno del quale trova anche la dolce Sophie, vicina di casa con cui Arthur sembra subito avere un’intesa, e che lo supporta affettuosamente sia per il suo spettacolo, sia nell’affrontare la malattia della madre.
Ma il risveglio è vicino…
Bilico
Nel secondo atto, Arthur si trova in bilico.
Da una parte vive immerso in un sogno meraviglioso, dove tutto sembra andare splendidamente bene, dall’altra è costantemente tormentato da un elemento di disturbo, che sguscia fuori quando meno se lo aspetta:
la pistola.
La pistola è un simbolo con un significato molto potente: rappresenta sostanzialmente lo strumento con cui Arthur può liberarsi dal suo asfissiante presente, con cui può reagire ai colpi che la vita gli continua ad infliggere, diventando finalmente un personaggio attivo.
Non a caso, il suo primo omicidio inizialmente non racchiude alcun ulteriore significato, se non un tentativo di difendersi dall’ennesima aggressione, ma poi si trasforma gradualmente in una sorta di rivalsa che Arthur non può fare a meno di prendersi.
E, infine, è tutto quello che gli rimane.
Risveglio
La via verso il terzo atto è definita dal risveglio.
La vita sembra sfuggire dal controllo di Arthur: il lavoro viene ancora una volta ingiustamente perso, la presunta compagna si rivela invece solamente una proiezione della sua immaginazione, e il protagonista si scopre infine nuovamente e inevitabilmente solo.
Ma lo smacco più importante, lo schiaffo più potente è l’apparizione nel programma del suo beniamino, che però non va come si aspettava: Murray lo umilia in diretta TV, dimostrandosi nient’altro che l’ennesimo personaggio potente che si sente superiore ad uno stramboide come lui
Ma la delusione che definisce il tracollo del personaggio è proprio il confronto con Thomas Wayne, che fin da subito lo tratta come uno spostato, la solita sanguisuga che non vuole fare altro che approfittarsi della sua ricchezza…
…rivelandogli, fra l’altro, la più devastante verità sul suo passato: non solo Arthur non è suo figlio, ma non è neanche figlio di quella che pensava fosse sua madre, nient’altro che un’altra spostata preda di una delirante illusione.
A questo punto, due strade sono possibili.
Miccia
Arthur è una potenziale miccia.
Il protagonista sembra ormai aver intrapreso la strada della distruzione, tranciando l’ultimo cordone ombelicale che lo legava alla sua vecchia vita – la madre – e riscrivendo la sua figura, accettandone finalmente la dicotomia fra tragedia e commedia.
Così l’ultimo atto della sua vita sembra inevitabile: uscire di scena col botto, con una battuta che strapperà l’applauso di un pubblico che, infine, acclamerà la sua spettacolare morte in diretta TV.
Invece, Arthur sceglie infine la reazione.
Sedendosi accanto a Murray, il protagonista capisce che, scegliendo di togliersi la vita, accetterebbe quello che gli altri hanno scelto lui, arrendendosi definitivamente alle ingiustizie di figure come Murray e Wayne – e tutto quello che rappresentano.
Così infine Joker sceglie di distruggere quel simbolo odioso, e diventa la coronazione di una rivoluzione che era già cominciata per lui – ma senza di lui – ricevendo finalmente l’acclamazione del pubblico…
…mentre si disegna sul volto un emblematico sorriso di sangue.