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Robin Hood – Definire l’eroe

Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman è il ventunesimo Classico Disney basato sulla leggenda dell’omonimo eroe popolare.

A fronte di un budget medio per i prodotti animati del periodo – 5 milioni di dollari – è stato un enorme successo commerciale: 33 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Robin Hood?

In un medioevo occidentale dominato da animali antropomorfi, Robin Hood e la sua gente devono vivere sotto lo scacco dell’avido principe Giovanni, usurpatore al trono. Ma una ribellione è ancora possibile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Robin Hood?

Robin Hood in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Assolutamente sì.

La versione animalesca di Robin Hood riesce ad essere particolarmente vincente grazie al viscerale e irresistibile umorismo della pellicola, che vivacizza una storia che in realtà è tutt’altro che felice, non mancando anzi di frangenti piuttosto drammatici e angoscianti.

Ma Robin Hood è soprattutto vincente nel riuscire a dare la giusta importanza ad ogni momento della pellicola: anche quelli che potevano essere semplici siparietti comici, sono invece perfettamente integrati all’interno di una storia avvincente e ben strutturata, popolata da personaggi divenuti iconici.

Insomma, da riscoprire.

Parti

Robin Hood in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Robin Hood è un ottimo esempio di come gestire i caratteri in scena. 

Infatti fin da subito vengono introdotte le parti in gioco, con un antagonismo fra l’eroe e il villain che si esplica ancora prima che si incontrino: Robin Hood, nelle vesti di un’agile e furbissima volpe, è piuttosto abile nel mutare aspetto e nell’adattarsi alle diverse situazioni ed insidie.

Il Principe Giovanni si succhia il pollice in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Al contrario, il principe Giovanni, una versione felina di Giovanni Senzaterra, è un leone che non ha alcuna caratteristica tipica della sua specie: il corpo fragile e sottile affoga nei suoi vestiti regali e regge a malapena una corona che evidentemente non è fatta per lui.

E infatti basta pochissimo per gabbarlo.

Con un facile gioco di costumi, Robin e Little John diventano due avvenenti chiromanti che predicono il futuro che il principe si aspetta, ovvero quello di una vittoria sconfinata della sua persona e della sua dinastia…

…che lo distrae dal presente in cui viene sistematicamente derubato.

Irresistibile la dinamica che si esplica già da questo frangente, con il serpentesco consigliere, unico personaggio capace di vedere gli inganni di Robin Hood, che viene costantemente maltrattato e zittito, spesso persino confinato in spazi minuscoli che gli tolgono ogni accesso alla scena.

Ma se questo è il lato più giocoso…

Pugno

Lo sceriffo di Notthingam ruba la moneta a Scheggia in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Da solo, il Principe Giovanni non può essere un villain credibile.

Infatti la malvagità del suo personaggio è definita dalle figure che gli stanno intorno: oltre alla ben sorvegliata carrozza da animali imponenti e minacciosi, l’effettiva negatività del Principe si esplica nella figura dello Sceriffo di Nottingham, un lupo proponente e borioso.

Robin Hood come mendicante in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Viene così dipinta la tragicità di un regnante che riduce allo stremo la sua popolazione, come ben racconta la scena del compleanno del piccolo Saetta, che non può neanche godersi la minuscola moneta in regalo, perché per lo Sceriffo ogni occasione è buona per far cassa e per rivalersi sui più deboli.

Ma questa dinamica permette allo stesso Robin di definirsi definitivamente come protagonista positivo: non solo un abile furfante che fa le scarpe all’usurpatore di turno, ma bensì un eroe popolare che cerca di contrastare la fragile condizione dei suoi compaesani, regalandogli tutte le ricchezze che riesce a sottrarre.

Ma ancora non basta.

Obbiettivo

Lady Marian guarda il manifesto di Robin Hood in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Se la storia si fosse fermata qui, Robin Hood sarebbe stato fin troppo ripetitivo .

Infatti l’idea di salvare il suo popolo è vincente come obbiettivo, ma altrettanto importante che lo stesso si intrecci con altri obbiettivi secondari: in particolare, conquistare il cuore di Marian, personaggio quasi trascinato in scena dall’intrufolarsi maldestro della freccia di Scheggia nel suo castello.

Una piccola introduzione essenziale anche per dare maggior valore alla successiva gara di tiro con l’arco, che altrimenti poteva sembrare una sequenza fine a sé stessa, ma che invece non solo conferma le abilità del protagonista come teatrante – cambiando perfino specie di appartenenza – ma anche il suo ruolo centrale nella salvezza del regno.

Ed è arrivato il momento di farlo davvero.

Conferma

Fino a questo Robin non aveva fatto che grattare la superficie del problema…

…finché questo non diventa ben più incisivo di quanto anticipato.

La tristissima sequenza delle segrete del castello, accompagnata dalla melanconica melodia di Cantagallo, è l’occasione perfetta per Robin per dare una chiusura degna alla vicenda, per riuscire davvero ad umiliare Giovanni, di cui ormai è diventato il nemico designato.

Robin Hood ruba il sacchetto dei soldi al Principe Giovanni in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Così la pellicola mette in scena un divertentissimo teatrino che replica sostanzialmente le stesse dinamiche di Giovanni e Sir Bliss, con il borioso sceriffo che è così sicuro di sè da non voler dare ascolto alle giuste proteste delle sue guardie, che lo avvertono del pericolo imminente.

E così la liberazione fisica della popolazione si accompagna ad una liberazione sociale, con ogni soldo sottratto che viene recuperato, con un Robin disposto persino a rischiare la sua stessa vita per mettere tutti in salvo, portando alla angosciosa sequenza della sua presunta morte…

…che invece ci accompagna alla definitiva sconfitta del Principe Giovanni, ultimo atto di una tirannia ormai giunta al termine, come conferma il lieto finale, in cui il sogno d’amore di Robin e Marian riesce definitivamente a coronarsi…

…benedetto anche dal ritorno dal tanto sospirato Giovanni Cuor di Leone, che, con la sua robustezza e bonarietà, anticipa un futuro luminoso per Nottingham.

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Gli Aristogatti – L’iconicità del secondario

Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman è il ventesimo Classico Disney e il film di apertura del cosiddetto Medioevo Disney.

A fronte di un budget medio per le produzioni animate del periodo – 4 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 18 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Gli Aristogatti?

Duchessa e i suoi cuccioli vivono in una condizione di assoluto privilegio, come beniamini di una vecchia signora che li assicura tutti i comfort. Eppure un’insidia è proprio dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gli Aristogatti?

Bizet, Matisse e Minou in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

In generale, sì.

Per me Gli Aristogatti, parlando di altri film animaleschi, si pone fra l’ottimo La carica dei centouno (1961) e il più mediocre Lilli e il vagabondo (1955): non propriamente una raccolta di scenette fine a sé stesse come il secondo, ma neanche una storia così d’impatto come il primo.

Ed è tanto più curioso notare che sono stati proprio gli intermezzi della storia a diventare i più noti della pellicola, forti di una grande originalità di scrittura e nel loro essere piuttosto pittoreschi – quanto efficaci – nell’umanizzare in maniera divertita i personaggi animali.

Insomma, da riscoprire.

Privilegio

Duchessa e Adealide in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

La condizione iniziale dei gatti protagonisti è volutamente alienante…

…ma nondimeno mai banale.

Gli Aristogatti si sarebbe potuto incastrare in una dinamica che avrà una grande fortuna nel cinema del secolo successivo, in cui il gruppo di protagonisti è viziato, snob e in una condizione di assoluto privilegio, per poi essere catapultato in una realtà molto più difficile…

…il cui contrasto avrebbe rappresentato l’intera comicità del film.

Matisse in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

E invece la pellicola ci stupisce.

La caratterizzazione degli Aristogatti è piuttosto variegata, e li vede da una parte alle prese con attività del tutto umane – in una delle sequenze più iconiche del film – ma non manca anche di tratteggiare i cuccioli di Duchessa come dei bambini piuttosto litigiosi ed attaccabrighe.

Minou in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

E tutta la dinamica in cui le loro passioni si intrecciano e si scontrano è irresistibilmente comica, ma mai esasperata, anzi controllata proprio dalla figura materna, che li osserva amorevolmente mentre si sbizzarriscono nelle loro passioni in maniera disordinata quanto divertita.

E l’intrusione del villain è piuttosto…naturale?

Avidità

Edgar in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

Come Crudelia un decennio prima, anche la profondità della malvagità di Edgar non è di immediata comprensione per un pubblico infantile.

Infatti l’ascolto delle intenzioni della padrona lo porta ad un ragionamento piuttosto bislacco, quanto rivelatorio della sua spregevole avidità: incapace di avere la pazienza e la bontà di continuare a vivere nella magione della nobildonna insieme ai suoi amati gatti, il maggiordomo capisce che deve liberarsi di loro.

Bizet, Matisse e Minou e Contessa in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

E la modalità è ancora più malvagia: i protagonisti, fidandosi totalmente delle sue buone intenzioni, si gustano la sua famosa prelibatezza – l’iconica Crema della Crema alla Edgar – del tutto ignari di essere caduti vittime della sua trappola, il cui svelamento è affidato ad un personaggio che, come altri nella pellicola, è totalmente strumentale: il topolino Groviera.

Così la dinamica della fuga notturna fa da apripista per forse il punto più forte del film, ovvero le scene estremamente dinamiche, che riescono ad utilizzare la comicità slapstick in maniera mai banale, con punte di assurdità nell’inseguimento sotto al ponte dei due cani contro Edgar.

E così il primo atto si chiude sulla triste inquadratura della cuccia dei gatti abbandonata sotto la pioggia, mentre un pensieroso Groviera comincia a mettere insieme i pezzi del machiavellico piano del maggiordomo prima che lo stesso glielo sbatta in faccia.

E l’atto centrale è tutto un programma.

Quadri

I gatti jazzisti in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

Forse la narrazione centrale de Gli Aristogatti non si può definire propriamente per quadri

…ma poco ci manca.

All’interno di un road movie solitamente i personaggi incontrati lungo la strada sono funzionali alla maturazione dei protagonisti, confluendo spesso nel finale in un ruolo funzionale, proprio per dare organicità alla narrazione e non ridurla appunto ad una semplice collezione di intermezzi.

Le sorelle BlaBla in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

In linea generale, Gli Aristogatti riesce a seguire questa direzione, tramite il personaggio di Romeo – indispensabile aiutante e vettore della narrazione e della morale della storia – e con la scena che sembra il più fine a sé stessa possibile, e che invece diventa fondamentale per più motivi nel finale: i gatti jazzisti.

Al contrario, l’incontro con le sorelle Blabla è davvero un semplice intermezzo che non ha particolare utilità all’interno della storia, se non inserire delle colorite gag che vedono il loro apice con l’entrata in scena dello Zio Reginaldo, condito da un umorismo anche piuttosto pesante, e che permette alle due oche di uscire presto di scena.

Infine, è presente un fil rouge di grande interesse all’interno della pellicola.

Morale

Romeo e Duchessa in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

Nonostante il finale sia sostanzialmente lo stesso di Lilli e il vagabondo, Gli Aristogatti ha qualcosa in più.

L’incontro con Romeo è puntellato da più momenti – soprattutto all’inizio – in cui il gruppo sembra destinato a separarsi prima del tempo, ma che si ritrova invece abbastanza a lungo insieme per allargare le proprie vedute: come Romeo non crede nella bontà dell’uomo e soprattutto della padrona del quartetto di protagonisti…

Bizet, Matisse e Minou in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

…al contrario, Duchessa ribadisce più volte la sua affezione per Adelaide e la volontà di rimanerle fedele, nonostante le numerose richieste di Romeo di unirsi al suo mondo, in quanto la protagonista più volte dimostra una sincera curiosità e divertimento nell’essere coinvolta nello stesso.

Per questo il finale è tanto più importante.

L’ingenuo ritorno a casa del quartetto finisce per farli nuovamente cadere nella trappola di Edgar, definendo il momento di confluimento di (quasi) tutti i personaggi nel loro salvataggio, con anche il simpatico siparietto fra Groviera e i gatti jazzisti che diventano protagonisti di un ulteriore scontro incredibilmente dinamico e avvincente.

E a questo punto è solo normale che la casa di Adelaide sia aperta anche agli altri gatti randagi, confermandone così la valenza di personaggio positivo che vuole utilizzare le sue ricchezze per dare la vita migliore possibile non solamente ai suoi gatti, ma ad ogni randagio ne abbia bisogno.

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Lo sceicco bianco – Un sogno chiamato cinema

Lo sceicco bianco (1952) è uno dei primi film della filmografia di Federico Fellini.

A fronte di un budget sconosciuto, ha avuto un riscontro economico molto piccolo – pur venendo riscoperto nel tempo.

Di cosa parla Lo sceicco bianco?

Wanda è una giovanissima donna fresca di matrimonio, in viaggio a Roma per volontà del marito. Ma il suo sogno dimora altrove…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Lo sceicco bianco?

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

In generale, sì.

In Lo sceicco bianco si trovano già tutte le caratteristiche del primo Fellini: la classica commedia all’italiana ma molto più pungente, e fortemente contaminata dall’elemento magico e surreale che rende questa fase della filmografia del maestro italiano così identitaria.

Una pellicola che funziona ottimamente anche a livello di scrittura, scandendo la narrazione in tre atti perfetti, definiti da un climax ascendente – e discendente – genuinamente appassionante e coinvolgente.

Insomma, da riscoprire.

Controllo

Brunella Bovo e Leopoldo Trieste in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Inizialmente, Ivan ha il totale controllo della scena.

L’uomo definisce meticolosamente ogni mossa della neonata famiglia, dall’ordine in cui scaricare le valige dal treno fino allo strettissimo programma di visita della città, il cui culmine sarà la benedizione del matrimonio dal Papa in persona.

Ma basta poco perché l’attenzione si sposti altrove.

Brunella Bovo e Leopoldo Trieste in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Come la remissiva Wanda era fissa al braccio del suo nuovo marito, in un attimo è fuori dal suo controllo, salendo autonomamente in camera per cercare una non ancora precisata destinazione, col chiaro obbiettivo di evadere dalle anguste mura domestiche.

E, nonostante Ivan cerchi subito di riportare tutti all’ordine, già la moglie ha messo in atto il suo piano, orchestrando un apparentemente innocuo bagno caldo, che invece sarà proprio rappresentazione dello strabordare del caos che sta per abbattersi in scena.

E allora la ricerca ha inizio.

Ricerca

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

La ricerca di Wanda è appassionata quanto sofferta.

La giovane donna riesce in realtà abbastanza facilmente ad intrufolarsi all’interno dell’ufficio del tanto sognato Sceicco Bianco, in cui finalmente mette in mostra la sua ardente passione per questo mitico personaggio – per ora ancora fuori di scena.

Ed è così che veniamo facilmente coinvolti all’interno della sua struggente ricerca, che sembra continuamente rimandata dall’arrivo in scena di altri pittoreschi personaggi che rappresenteranno lo sfondo fondamentale della vicenda…

…il cui grande protagonista è ancora drammaticamente assente.

Ma proprio perché la sua entrata in scena è fondamentale.

Sogno

Alberto Sordi in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Nel suo atto centrale, Lo Sceicco Bianco si articola su due piani.

Il sogno e la realtà.

Dopo essere stata trascinata fuori da Roma – e quindi definitivamente fuori dal controllo del marito – Wanda può finalmente vedere il sogno concretizzarsi davanti ai suoi occhi, con lo Sceicco Bianco che appare in scena come una visione, dondolandosi su un’altalena che sembra appesa in cielo.

E tutta la dinamica successiva è definita da un abile inganno dell’attore, che alimenta i desideri della protagonista inventandosi persino una tragica fiaba ad hoc sul suo matrimonio fallito pur di portare a termine il suo spietato corteggiamento.

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Ma il contorno racconta qualcos’altro.

Come in altri contesti, Fellini utilizza abilmente l’ambientazione cinematografica per raccontarne la realtà molto meno idilliaca, di interpreti che hanno una presenza quasi mitica agli occhi degli spettatori, ma che nella realtà non sono altro che un gruppo di buzziconi capricciosi e viziati.

Brunella Bovo e Alberto Sordi in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

E, anche se Wanda riesce a vedere Fernando solamente con gli occhi del sogno, è lampante quanto lo stesso sia una prima donna, con la sua totale insofferenza per le regole e il suo continuo bisticcio con il regista che si alternano alle pose statuarie.

Ma, infine, la realtà torna a bussare alla porta.

Realtà

Il passaggio al terzo atto è magistrale.

Come Ivan è costantemente incalzato dalla sua famiglia per dare prova del suo nuovo status, con dei primi piani piuttosto stringenti e claustrofobici sui volti dei personaggi che hanno come unico desiderio di vedere coi loro occhi l’importante conquista del protagonista…

…il coronamento della sua angoscia è ben rappresentato dallo spettacolo a teatro, che da momento di unione familiare si trasforma nello svelamento della realtà, con il celebre scambio fra Zerlina e Don Giovanni, che, sullo sfondo della telefonata, racconta l’innegabile tradimento in atto.

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

E la sua crescente angoscia si accompagna con la fine dell’illusione, che va di pari passo con il dileguarsi di Fernando, che, all’arrivo della moglie, nonostante i disordinati tentativi di Wanda di tenere in piedi il sogno d’amore, si riappropria delle vesti borghesi e si congeda dalla scena.

A questo punto Wanda intraprende una parabola di annientamento, che la porta prima ad annullare il matrimonio, e poi a cercare di terminare la sua stessa esistenza – in una dinamica volutamente parossistica – per poi ricongiungersi col marito in un luogo vuoto dove può riprendere a sua volta le vesti borghesi.

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Ed è tanto più pungente che Fellini, nella sua parodia dissacrante della famiglia borghese, scelga come punto di arrivo di Wanda non una presa di consapevolezza e una conseguente accettazione del proprio ruolo sociale, ma bensì la tenga imprigionata all’interno di un sogno mai finito, solo con un protagonista diverso:

Il mio Sceicco Bianco sei tu.

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Mickey 17 – Il mosaico dello sfruttamento

Mickey 17 (2025) di Bong Joon-ho è una commedia nera fantascientifica.

A fronte di un budget abbastanza importante – 118 milioni di dollari – si prospetta un disastro commerciale, con un weekend di apertura davvero deludente.

Di cosa parla Mickey 17?

Terra, futuro imprecisato. Mickey e il suo socio, Timo, sono nei guai per un accordo andato male con uno strozzino. E allora la soluzione è andare il più lontano possibile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Mickey 17?

Robert Pattinson in una scena di Mickey 17 (2025) di Bong Joon-ho

In generale, sì.

Non riesco a sbilanciarmi l’apprezzamento di questa pellicola perché, nonostante con una seconda visione abbia rivisto la mia posizione decisamente in positivo, Mickey 17 non mi ha lasciato un ottimo sapore in bocca: sarà per le alte aspettative dopo Parasite (2019)…

…sarà perché, arrivati alla fine del secondo atto, non riuscivo a comprendere quale fosse il punto della pellicola – e la storia della stessa mi sembrava molto fine a sé stessa – ma l’ultima opera di Bong Joon-ho non mi ha lasciato entusiasmato come avrei sperato.

Però, dategli una possibilità.

Condizione

Robert Pattinson in una scena di Mickey 17 (2025) di Bong Joon-ho

Mickey ha accettato la sua condizione.

Il percorso del protagonista sembra ormai tracciato, costretto ad essere succube del potente di turno che lucra sulla sua pelle – letteralmente – e che, per sua ingenuità e scarsa scolarizzazione, si riduce ad essere l’ultimo gradino della scala alimentare: un sacrificabile.

In questo modo la sua esistenza diventa assolutamente insignificante, come dimostrano le numerose scene in cui Mickey sembra scomparire dalla scena, scalzato da un tappeto, da un lanciafiamme e persino da un enorme masso che lo supera di diverse spanne per importanza.

Robert Pattinson in una scena di Mickey 17 (2025) di Bong Joon-ho

Con queste dinamiche Bong Joon-ho riprende – seppur in maniera decisamente più comica – uno dei temi cardine della sua produzione: l’assoluta insignificanza degli ultimi, degli emarginati, che tutti possono sfruttare, di cui tutti si possono nutrire – e sono totalmente giustificati nel farlo.

Infatti i personaggi intorno a Mickey ci tengono più volte a ribadire come il protagonista abbia scelto la sua condizione attuale, ignorando del tutto una serie di fattori determinati – scarsa alfabetizzazione, estrazione umilissima – da cui è davvero difficile smarcarsi.

E, allora, Mickey non è altro che un corpo.

Corpo

Il corpo è il vero protagonista di Mickey 17.

Tutto parte, come detto, dal corpo del protagonista, che diventa lo strumento chiave per la riuscita dell’intera missione, tanto che può essere continuamente riprodotto e utilizzato per i più diversi fini, financo distrutto nella sua essenza – e senza possibilità di replica.

Una dinamica di sfruttamento che si esprime anche nei contesti più impensabili: la stessa gara per appropriarsi del suo corpo da parte delle due figure femminili, Nash e Kai, ribadisce ulteriormente come si tratti di un oggetto che può essere sfruttato, barattato e financo negoziato a proprio piacimento.

Robert Pattinson in una scena di Mickey 17 (2025) di Bong Joon-ho

Ma il momento di passaggio fondamentale è proprio la vicenda dello strozzino.

Una trama apparentemente secondaria, apparentemente solo un MacGuffin per dare avvio alla storia, che si rivela invece uno spaccato crudelissimo della posizione dei potenti nella società attuale: quando i soldi non sono più così importanti, il potere e il controllo sono il nuovo desiderio insaziabile.

Infatti il suo personaggio gode fisicamente nell’osservare come può fare sostanzialmente quello che vuole su dei corpi che ha in qualche modo comprato, anzi incastrato all’interno di un sistema ben congegnato che può risolversi solo con la loro morte.

Ma non è l’unico corpo sfruttato.

Colonialismo

Mark Ruffalo in una scena di Mickey 17 (2025) di Bong Joon-ho

Lo sfruttamento ha diverse forme.

Infatti la missione di Marshall era finalizzata ad una presa di possesso senza possibilità di scampo del nuovo pianeta, raccontata quasi come un atto sessuale – spargere il seme – financo come un atto parassitarioinfestare il nuovo ambiente.

Ed effettivamente il comportamento dei protagonisti è quello proprio del colonizzatore di turno, che distrugge qualunque ostacolo si ponga sul suo cammino, e che anzi identifica qualunque essere non uguale a lui come un nemico da distruggere ad ogni costo.

E invece risulta col tempo chiaro che il comportamento dei cosiddetti striscianti – in originale creepers – era di naturale curiosità verso i nuovi arrivati, tanto da volerli toccare, assaggiare in maniera del tutto pacifica, senza desiderare di fargli guerra o di annientarli come gli invasori quali sono.

Eppure, lo sfruttamento deve andare fino in fondo.

Sfruttamento

Mark Ruffalo e Toni Collette in una scena di Mickey 17 (2025) di Bong Joon-ho

Il terzo atto mette, anche se potrebbe non sembrare, un punto alla riflessione.

Se fino a questo momento avevamo assistito allo sfruttamento del corpo di Mickey, l’abuso infine si espande oltre i confini della nave, andando a coinvolgere gli innocui striscianti – che diventano bersaglio dell’interesse morboso di Qwen, la cui salsa è sostanzialmente il loro sangue…

…sia, più in generale, il pianeta intero.

In questo modo Mickey 17 definisce la portata del suo racconto: una narrazione graffiante quanto parossistica di quanto la mano dei potenti si espanda ben oltre il semplice arricchimento, andando a coinvolgere uno sfruttamento del corpo – umano o animale – e dell’ambiente – svuotandolo delle sue risorse e, inevitabilmente, danneggiandolo.

Ma rimane un ultimo punto da chiarire.

Mickey 17 sogno e finale significato

All’interno di una condanna piuttosto definitiva alla classe dirigente, Bong Joon-ho sceglie di includere anche una sorta di presa di consapevolezza degli oppressi, ricordando loro come possono essere la causa dello sfruttamento quanto il motore del cambiamento.

Infatti nel sogno Mickey osserva Qwen mentre stampa nuovamente Marshall, incoraggiandolo a nutrirsi della sua nuova salsa – il sangue, forse quello dello stesso marito? – e che gli ricorda che questo è quello che vuole veramente.

Ne consegue così un’enigmatica invettiva verso la parte bassa della società che finisce per sostenere personaggi davvero inaccettabili – i cui esempi contemporanei si sprecano – che non hanno mai desiderato la loro salvezza – da cui la profonda disparità di trattamento – ma che li hanno sempre e solamente sfruttati per i loro fini.

Per questo, quando Qwen cerca nuovamente di ingannare Mickey, cercando di convincerlo della sua esistenza – ed importanza – il protagonista ha un risveglio di consapevolezza riflettendo su come il suo alter ego – Mickey 18 – avrebbe reagito…

…ovvero, togliendo definitivamente importanza allo sfruttatore.

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Snowpiercer – Lo scontro di tendenze

Snowpiercer (2013) è il primo film in lingua inglese di Bong Joon-ho.

A fronte di un budget abbastanza importante – 40 milioni di dollari – non è stato purtroppo un gran successo commerciale, riuscendo appena a doppiare i suoi costi di produzione.

Di cosa parla Snowpiercer?

2031. In un mondo in cui l’umanità è stato sterminata da una nuova Era Glaciale, gli ultimi sopravvissuti vivono stipati in un treno che viaggia ininterrottamente intorno alla Terra. Eppure i problemi sono gli stessi di sempre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Snowpiercer?

Chris Evans e Song Kang-ho in una scena di Parasite (2013) di Bong Joon-ho

In generale, sì.

Grazie a questa seconda visione ho complessivamente rivalutato Snowpiercer, in quanto, con una consapevolezza maggiore dell’opera del maestro coreano, è riuscito più facile cogliere il racconto tematico che viene imbastito in maniera anche piuttosto vincente…

…ma che, a mio parere, rimane comunque sporcato da una tendenza al sensazionalismo spicciolo, che finisce spesso per appiattire un riflessione ben più profonda, rendendo in molti punti la narrazione claudicante e poco pensata.

Però, dategli comunque un’occasione.

Coda

Chris Evans in una scena di Parasite (2013) di Bong Joon-ho

Il primo atto del film è un’ottima introduzione da tutti i punti di vista.

La narrazione riesce infatti ad abbracciare solidamente i personaggi e la loro condizione iniziale, mostrandoli, grazie anche ad una fotografia piuttosto desaturata e ricca di chiaroscuri, costretti in una bolgia senza scampo, ammassati uno sopra l’altro.

Ed altrettanto ben definito è il trattamento opprimente da parte del resto del treno, che vede la Coda come un peso insopportabile, un invasore che può godere solamente del minimo indispensabile, e che deve anzi sopportare ogni tipo di sopruso.

Chris Evans in una scena di Parasite (2013) di Bong Joon-ho

In questo frangente è anche ben definito l’elemento più strettamente intrattenitivo: la costruzione di un climax crescente di tensione verso il misterioso piano di Curtis, che sembra quasi dialogare con il pubblico stesso, intimandolo di aspettare il momento giusto.

E, con l’arrivo della malefica Mason, il quadro tematico è completo.

Piede

Tilda Swinton in una scena di Parasite (2013) di Bong Joon-ho

Il discorso del personaggio di Tilda Swinton non è altro che l’esplicazione di un concetto già definito.

Memore della famosa parabola di Agrippa, Mason accompagna la dolorosa punizione del ribelle con un sermone educativo, che ribadisce l’importanza dei ruoli all’interno del corpo e quindi del treno, in cui ognuno ha il proprio posto definito all’interno di un grande schema che altrimenti crollerebbe su se stesso.

Un discorso che si collega perfettamente alla contemporaneità – con discorsi e immagini poi riprese anche in Parasite (2019) – di una società – nello specifico quella sudcoreana – in cui l’ascensore sociale è fermo e il classismo è il grande protagonista di un sistema che rivendica il suo ordine naturale.

Tilda Swinton in una scena di Parasite (2013) di Bong Joon-ho

Ma il discorso si aggrava, diventando, anche più attuale, se si pensa che gli abitanti della Coda si trovano in una condizione di assoluta miseria proprio per l’azione stessa della Testa del treno, che ha distrutto l’ambiente e ha poi concesso solamente ai suoi simili di salvarsi.

Per questo il tunnel di Curtis è tanto più significativo, perché rompe – letteralmente e metaforicamente – le barriere impenetrabili che dividono le classi sociali, forzando un sistema che risponde colpo su colpo ad ogni tentativo di ribellione. 

E da questo elemento si sviluppa l’ottimo concetto finale. 

Contenere

L’ultima classe è sacrificabile in più sensi.

La filosofia di un sistema perfetto da mantenere integro, anche eliminando le sue parti più deboli, racconta come ogni tentativo di ribellione sia in realtà orchestrato in funzione della sopravvivenza della Testa, all’interno di una filosofia apparentemente razionale, in realtà totalmente discriminatoria.

Un utilizzo delle leve di pancia della massa che ricordano più da vicino tendenze politiche emerse quasi un decennio più tardi dall’uscita del film, in cui improbabili – ma molto furbi – capipolo irrobustiscono la loro posizione di potere lucrando sulle paure del popolo in maniera sempre più viscerale.

Chris Evans in una scena di Parasite (2013) di Bong Joon-ho

E la debolezza del sistema è tanto più significativa con lo svelamento di un motore a pezzi, che può essere salvato solamente costringendo le nuove generazioni della Coda a compiere attività meccaniche e alienanti – esattamente come la classe operaia un tempo, e la realtà proletaria ed immigrata oggi.

Eppure, questo discorso è costantemente indebolito.

Sensazionalismo

Chris Evans in una scena di Parasite (2013) di Bong Joon-ho

È evidente che Snowpiercer non sia del tutto una creatura di Bong Joon-ho.

Infatti, per quanto tutti i discorsi di cui sopra siano validissimi e il regista coreano abbia fatto veramente del suo meglio per farli emergere, si è altrettanto pesantemente dovuto scontrare con una produzione che ha cercato il più possibile di rendere il prodotto vendibile – per cui i noti scontri con Weinstein sono solo la punta dell’iceberg.

Questo si traduce con due tendenze che ho davvero poco apprezzato.

Da una parte, un devastante sensazionalismo, visivo e di scrittura, che rende molte scene fin troppo eccessive e caricate nei toni, quasi ad esasperare un taglio grottesco da sempre proprio del regista coreano – in cui spicca la famosa scena della scoperta di cosa contengono le barrette proteiche.

Dall’altra, scene di azione spesso piuttosto affrettate e fin troppo confusionarie, con personaggi che entrano ed escono di scena senza che gli sia concesso il dovuto spazio, andando soprattutto a colpire l’atto finale, che risulta molto meno vincente proprio per una poca chiarezza della messinscena.

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2024 Animazione Avventura Film Oscar 2025 Postapocalittico Racconto di formazione

Flow – Insieme

Flow (2024) di Gints Zilbalodis è un film animato muto, il primo film lettone ad essere candidato agli Oscar come Miglior film internazionale.

A fronte di un budget piccolissimo – 3.5 milioni di dollari – è stato nel complesso un buon successo commerciale: 17.5 milioni di dollari in tutto il mondo.

Candidature Oscar 2025 per Flow (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film d’animazione
Miglior film internazionale

Di cosa parla Flow?

Il protagonista è un gatto che si immerge in un realtà apparentemente post-apocalittica con improbabili alleati incontrati lungo la strada.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Flow?

Assolutamente sì.

Flow è uno di quei prodotti indipendenti che emergono a sorpresa in un panorama al limite della saturazione, che però si sta rinnovando con sperimentazioni di tecnica mista che vanno dalle grandi produzioni come Il robot selvaggio (2024) fino a prodotti più piccoli – ma di valore.

Un effettivo esempio di arte povera, che lavora efficacemente coi pochi mezzi che ha, fra cui la mancanza del doppiaggio parlato, che diventa in realtà un valore dell’opera nel riuscire a portare in scena le dinamiche animali in maniera il più possibile reale.

Solo

Il gatto protagonista è solo.

Muovendosi in un ambiente abbandonato dall’umano per motivi imprecisati, la lotta diventa esclusivamente animale, totalmente selvaggia, dove il più forte ha inevitabilmente la meglio, dove un branco di cani rabbiosi vuole avere il dominio su tutto, terrorizzando il povero protagonista.

Il primo compagno sembra un altro solitario avventuriero, un capibara totalmente innocuo che lascia che il gatto viva insieme a lui nella sua barca di fortuna, lasciando pigramente salire chiunque lo desideri.

Ma il mondo del branco è ben più ostile.

Branco

Flow gioca molto sul concetto di branco e di smarcarsi dallo stesso.

Infatti in più momenti i personaggi si trovano a cercare una vita alternativa al di fuori della sicurezza del gruppo: il primo è proprio il curioso serpentario, che, per la sua imponenza, terrorizza il gatto, ma che cerca una via di pace offrendogli un pesce appena pescato.

Un tentativo di fatto inutile, perché l’uccello viene subito soverchiato dal resto del branco, che pensa prima di tutto a sé stesso raccogliendo il pesce per la propria prole, e che anzi gli si rivolta violentemente contro quando cerca di difendere il suo nuovo amico.

Una lezione di vita importante, che però non è subito colta dall’invece piuttosto ingenuo ed entusiasta labrador, che cercherà di coinvolgere i suoi compagni nel neonato gruppo, non riconoscendone pericolosità e il dannoso egoismo. 

Infatti, la minaccia è duplice.

Minaccia

Gli antagonisti di Flow sono due.

Uno reale, uno apparente.

Il nemico reale è un concetto: l’egoismo e la volontà di subordinare chiunque ci si metta contro, che si concretizza nel già citato branco di cani, che prima terrorizza il gatto, poi, accolto sulla nave, si impossessa senza ritegno del pesce faticosamente raccolto e rompe per dispetto lo specchio del lemure.

Un concetto in parte presente anche nella testarda solitudine del protagonista, che invece nel corso della pellicola impara a lavorare all’interno di un gruppo, anzi imparando dallo stesso – riuscendo a superare la paura dell’acqua e raccogliendo abbastanza pescato da sfamare i suoi compagni.

La minaccia apparente è invece l’immenso capodoglio che infesta le acque della città sommersa, una presenza che fa subito risalire il gatto sulla barca per paura di essere sbranato, ma che in realtà si limita ad esistere pacificamente accanto ai protagonisti protagonista, mostrandosi nella sua immensità.

Ma è una minaccia apparente perché lo stesso è vittima di quell’abbassamento delle acque che è invece la salvezza del gruppo, che riesce infine a vivere sulla terraferma senza paura di rimanere risucchiato dai flutti, essenziali per la sopravvivenza dell’enorme mammifero.

E proprio questa scena ci permette di comprendere il finale – e, per estensione, l’intera pellicola.

Flow significato

Il film può essere letto in due direzioni: per dichiarazione dello stesso regista, la pellicola racconta il percorso complesso ma necessario dell’imparare a lavorare in gruppo, nonostante le differenze e i timori, non mettendo più se stessi al primo posto – ma anche scegliendosi i giusti compagni.

Lo si capisce soprattutto nel comportamento dell’uccello segretario, che litiga con tutti per non far salire sulla barca i cani – che infatti si rivelano infidi ed egoisti fino all’ultimo – che si getta in un enigmatico sacrificio a cui segue la salvezza dell’intero gruppo. 

In senso più ampio, anche vista l’ambientazione serenamente post-apocalittica, l’opera può essere vista come racconto della necessità dell’umano di collaborare per non essere autore della propria distruzione, dettata  da un continuo egoismo che non avvantaggia davvero nessuno…

…e, in senso più ampio, nel finale si racconta la presa di consapevolezza del gruppo, che acquisisce comprensione del proprio esistere specchiandosi in quell’acqua che può essere ora salvezza, ora minaccia, a seconda di quale punto di vista la si guarda.

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Avventura Film Horror Nuove Uscite Film Thriller

Heretic – Il compromesso in bilico

Heretic (2024) di Scott Beck e Bryan Woods è un thriller psicologico con protagonista Hugh Grant.

A fronte di un budget molto contenuto – 10 milioni di dollari – è stato nel complesso un ottimo successo commerciale: 57 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Heretic?

Sorella Paxton e Sorella Barnes sono due giovani missionarie mormone che vanno di casa in casa a portare la parola del Salvatore. Ma uno di questi incontri potrebbe essere più complesso del previsto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Heretic?

Sophie Thatcher in una scena di Heretic (2024) di Scott Beck e Bryan Woods

In generale, sì.

Heretic è un buon film horror che non scade in molti trucchi che creano facilmente tensione e paura, ma piuttosto si impegna, tramite una regia attenta e puntuale, a costruire il senso di angoscia e di tensione, con un sottofondo riflessivo per nulla scontato, ma che anzi mi ha piuttosto sorpreso.

Inoltre, la pellicola è un altro tassello che si aggiunge all’ottima carriera attoriale di Hugh Grant, che negli ultimi anni – a partire da Dungeons & Dragons: L’onore dei ladri (2023) – si è lasciato alle spalle le romcom che ne hanno definito la popolarità per diventare un superbo caratterista.

Insomma, dategli un’occasione.

Definizione

Sophie Thatcher in una scena di Heretic (2024) di Scott Beck e Bryan Woods

La definizione delle due protagoniste avviene splendidamente tramite immagini.

Già l’apertura, con la sentita discussione sui preservativi, si scontra con la supposta riservatezza della comunità mormona, e tratteggia una coppia che non aderisce banalmente al tipo di personaggio devoto e la cui fede verrà messa in dubbio, ma anzi anticipa un racconto ben più sfumato.

E l’apparentemente futile dinamica di bullismo nei confronti di Sorella Paxton è ancora più fondamentale.

Sophie Thatcher e Chloe East  in una scena di Heretic (2024) di Scott Beck e Bryan Woods

Infatti la stessa mette subito a confronto le diverse tendenze delle due protagoniste, più volte ribadite anche nelle scene successive: come Sorella Barnes è un’attenta osservatrice, che riesce a cogliere i sottesi delle situazioni con grande abilità, e a non reagire prima del tempo…

…al contrario Sorella Paxton è un animo più semplice, che si affaccia al mondo senza alcuna malizia, anzi con la sicurezza che la sua bontà venga corrisposta, poco prona a scontrarsi con gli altri, ma piuttosto proattiva nel mettersi in gioco quando le viene data l’occasione.

Una dualità fondamentale soprattutto per l’incontro con Reed.

Contrasto

Hugh Grant in una scena di Heretic (2024) di Scott Beck e Bryan Woods

La personalità di Reed è estremamente contrastante.

L’ottimo Hugh Grant riesce a portare in scena un personaggio capace di muoversi su diversi tagli narrativi, indossando una maschera comica che però non contrasta con la sua vera natura, e che non agisce mai con gratuita crudeltà, ma bensì seguendo dei principi che per lui appaiono fondamentali.

Ma fin da subito si notano le prime crepe nella sua apparenza, i primi indizi di tutta una serie di trucchi utilizzati per provare la sua tesi, che però solamente Sorella Barnes riesce effettivamente a notare, restando per tutto il tempo restia ad aprirsi a questo ambiguo personaggio.

Hugh Grant in una scena di Heretic (2024) di Scott Beck e Bryan Woods

Da questo punto di vista, proprio come la scrittura del personaggio è sempre coerente con se stessa, anche il film riesce a non tradirsi, a non ricadere in facili trovate per risvegliare l’attenzione del pubblico, come il torture porn o elementi esplicitamente magici che avrebbero minato la credibilità della pellicola.

Al contrario, per mantenere viva la tensione, la pellicola fa un ottimo uso della soggettiva e falsa soggettiva, che unisce lo sguardo del personaggio a quello dello spettatore, spingendolo ad essere talmente immerso nella scena da guardarsi letteralmente intorno all’interno della stanza…

…e costruendo così un ottimo climax tensivo legato alla scoperta della casa.

Eppure, Heretic non mi ha convinto fino in fondo.

Tesi

La tesi di Reed non è banale, anzi è molto ben pensata.

Eppure il film sembra non crederci fino in fondo.

Anche comprensibilmente, più che imporre un’idea, Heretic offre uno spunto di riflessione, mettendo ottimamente in scena la tesi di Reed tramite l’utilizzo dei giochi da tavolo, andando a svelare alcuni altarini delle religioni abramitiche già ampiamente discusse in altre sedi…

…ma contrapponendogli l’antitesi di Sorella Barnes, un personaggio non ciecamente innamorato della sua fede, ma che al contrario mette più volte in discussione, e che, proprio rispondendo al suo antagonista, dimostra di avere consapevolezza dell’argomento – e di saperlo sostenere.

Tuttavia avrei preferito che questa contrapposizione fosse portata fino in fondo, anche senza dover dar per forza ragione a una o all’altra parte, invece che arrivare ad un finale che non definirei smaccato, ma che comunque introduce l’elemento magico per contrastare la pesante concretezza del resto della pellicola…

…forse troppo timido nel volersi imporre fino in fondo con la stessa, giungendo ad un compromesso tematico che non mi ha convinto fino in fondo.

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Avventura Bong Joon-ho Dramma familiare Drammatico Fantascienza Film

The Host – La responsabilità mostruosa

The Host (2006) di Bong Joon-ho è un film di fantascienza che anticipò molti temi importanti della nostra contemporaneità.

A fronte di un budget molto piccolo – circa 11 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale, con quasi 90 milioni di incasso.

Di cosa parla The Host?

In un laboratorio di Seul, una coppia di scienziati sceglie di versare nel fiume una sostanza tossica, perché tanto che vuoi che succeda…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Host?

Assolutamente sì.

Come altri titoli della filmografia di Bong Joon-ho, The Host vuole raccontare molto più di quello che sembra: pur seguendo – e, spesso, smentendo – i canoni classici del genere, il cineasta coreano amplia la narrazione in più direzioni, a suo modo anche molto avanguardistiche.

Infatti, davanti ad una trama tutto sommato molto lineare, si sviluppa una narrazione sotterranea che in realtà, se si coglie la giusta linea interpretativa, è altrettanto intuitiva, e che riflette lucidamente su un tema fondamentale del nostro secolo.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Colpa

La colpa è nostra.

L’antefatto della vicenda sembra la classica introduzione di un monster movie in cui un gruppo di personaggi diventa inconsapevolmente la causa della creazione della minaccia protagonista, in questo caso versando liquidi tossici nel fiume senza la minima consapevolezza delle conseguenze.

Song Kang-ho in una scena di The Host (2006) di Bong Joon-ho

Ma c’è molto di più.

Abbracciando la lettura per cui The Host è in realtà uno spaccato dell’inconsapevolezza umana davanti al disastro ambientale a cui sta sottoponendo il proprio pianeta, l’incipit della vicenda racconta come l’umanità inquini il suo habitat nella plateale illusione di non doverne mai subire le conseguenze.

Ma, appunto, è solo l’inizio.

Dormiente

Song Kang-ho in una scena di The Host (2006) di Bong Joon-ho

L’introduzione di Park Gang-du ha due funzioni.

Dal punto di vista puramente narrativo, la stessa è l’esempio principe di come tratteggiare un personaggio utilizzando unicamente il linguaggio visivo: il protagonista è inerte, un danno e un peso per la sua famiglia – dai cui la testa pesante che deve essere sollevata per prelevare il denaro per gestire il negozio…

…insomma, non è l’eroe di cui avremmo bisogno.

Ma c’è di più.

Song Kang-ho in una scena di The Host (2006) di Bong Joon-ho

Park Gang-du prosegue puntualmente il racconto dell’inconsapevolezza umana, ora unendosi alla tragica quanto emblematica folla che alimenta stupidamente il mostro appena questo si palesa dall’acqua, inquinando deliberatamente un habitat già pesantemente aggredito dalla sua presenza…

…ora quando non riesce a salvare la figlia, e, per esteso, quando non riesce a preservare, a condurre la sua stessa specie verso il futuro, diventando costantemente vittima della sua incapacità di gestire la situazione, conducendo in salvo la persona sbagliata.

Eppure, non è solo.

Mostrare

La più grande sfida al genere di The Host è la gestione del mostro.

Tipicamente lo stesso viene progressivamente rivelato lungo la pellicola, proprio per alimentare la curiosità dello spettatore che lo scopre pezzo per pezzo, dettaglio per dettaglio – come film fondativi del genere, fra cui The Thing (1982), insegnano.

Al contrario, Bong Joon-ho sceglie di mostrare la creatura fin da subito, proprio a raccontare come si tratti di un problema estremamente evidente davanti agli occhi di un’umanità inconsapevole che cerca di contrastarla disordinatamente e in maniera sempre più inefficace.

Ma la nostra attenzione è altrove.

Song Kang-ho in una scena di The Host (2006) di Bong Joon-ho

Il litigio della famiglia riunita davanti alla morte della piccola Hyun-seo racconta, da una parte, come egoisticamente ci azzuffiamo fra di noi per pure egoismo e ripicca, senza riuscire ad avere uno sguardo d’insieme che ci permetta di affrontare la minaccia.

Dall’altra, la reazione sciacallica dei giornalisti racconta come la collettività dia importanza all’aspetto più sbagliato, più frivolo della vicenda, o, meglio, alle sue lacrimose conseguenze, incapace però di riflettere sulla radice del problema.

Ma, di fatto, qual è il problema?

Problema

La via per la risoluzione è totalmente ingannevole.

La scelta infatti di ridurre la minaccia ad un unico elemento – il virus – racconta proprio come l’umanità cerchi di concentrare la sua attenzione su un unico problema che, una volta eliminato, risolverebbe la totalità della situazione con il minimo sforzo. 

E invece, la consapevolezza che questo virus non esiste è significativa per raccontare come si tratti di un problema fantasma, uno specchietto per le allodole che banalizza terribilmente la complessità della crisi climatica e ambientale che stiamo vivendo.

Per questo l’unico modo per affrontarlo è facendo fronte comune.

Scelta

La famiglia Park è distrutta internamente.

Il nucleo familiare è raccontato fin da subito come fragilmente tenuto insieme dalla figura del patriarca, rappresentativo della vecchia generazione che racconta la consapevolezza delle sue colpe nei confronti dei figli – aver fatto crescere debolmente Gang-du…

…e, al contempo, del rispetto delle autorità che costantemente le si mettono contro.

E infatti la sua morte è causa della definitiva dispersione dei personaggi, i cui sforzi singoli e maldestri raccontano un’umanità che agisce individualmente con timidi e poco pensati passi nella giusta direzione, che diventano effettivamente risolutivi quando si uniscono le forze.

Ma la conclusione non è del tutto felice.

Song Kang-ho in una scena di The Host (2006) di Bong Joon-ho

Nonostante gli ampi sforzi di tutti i personaggi, gli stessi non riescono a salvare la nuova generazione – Hyun-seo – ma un altro, apparentemente secondario personaggio, risultato di un’eredità mutilata: il giovanissimo amico della figlia defunta.

Infatti la chiusura della pellicola è rappresentativa della via felice della collettività, che smette di concentrarsi sulle conseguenze delle sue colpe – il chiassoso notiziario – ma di coltivare invece una generazione orfana e profondamente scossa internamente…

…ma che, tutto sommato, può essere ancora salvata.

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Avventura Dramma storico Drammatico Film L'altro lato del fronte

L’arpa birmana – Il peso della collettività

L’arpa birmana (1956) di Kon Ichikawa è un dramma storico ambientato alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

A fronte di un budget sconosciuto, ha incassato 33 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla L’arpa birmana?

Mizushima è un soldato parte di un battaglione nipponico fermo in Birmania con una particolarità: essere un superbo suonatore d’arpa.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’arpa birmana?

Assolutamente sì.

L’arpa birmana si inserisce nelle produzioni nipponiche che riflettono sul tema della guerra in maniera molto differente da come siamo abituati in ambito occidentale, collegando la tragica sconfitta bellico al sempiterno tema della rinascita del paese.

La particolarità di questo film è che, a differenza di titoli ben più pesanti come City of Life and Death (2009) e La tomba delle lucciole (1886), riesce a riportare la narrazione sul piano più dell’individuo e della pesantezza della responsabilità, verso anche quelle persone che un tempo chiamava amici.

Destino

Mizushima è destinato al suo ruolo.

Il primo contatto con la popolazione locale è ostile quando catartico: viene spogliato sia fisicamente che metaforicamente dei suoi vestiti e quindi della sua identità da soldato e, per estensione, del suo ruolo come portatore di morte che vuole solo fare ritorno in patria.

Elemento ancora più sottolineato dalla inaspettatamente dolcissima scena dell’incontro con l’esercito inglese, che i soldati prima affrontano fingendo di essere in stato di pace e tranquillità, immersi in un momento conviviale senza un pensiero al mondo…

…per poi ritrovarsi immersi in un canto di pace e fratellanza, in cui due popoli così lontani culturalmente e linguisticamente riescono a ritrovarsi nel comune confronto di un conflitto ormai concluso, in un commovente scambio canoro che sembra già da solo chiudere la questione.

Ma non tutti sono d’accordo.

Pace

L’arpa è simbolo di unione…

…o di codardia?

Il protagonista è costantemente scelto nel ruolo di mediatore, proprio forte delle sue melodie che, con un linguaggio non verbale, erano capace di confortare o avvertire i propri compagni, anche nell’incontro con l’altro esercito sicuro della possibilità di una conclusione pacifica.

Eppure proprio in questo frangente emerge un tema ben più doloroso – che sarà poi ampiamente affrontato, fra gli altri, da Lettere da Iwo Jima (2006): il senso di onore di un popolo legato ad una tradizione per cui la vittoria, sia da vivi che da morti, è l’unica via possibile per uscire di scena.

E così, davanti ad una conclusione che sembrava già scritta, Mizushima si scontra violentemente con l’ottusità di questo pensiero, in cui neanche una pace forzata può essere accettata, arrivando inevitabilmente fino al tanto agognato annientamento onorevole.

Eppure, è solo l’inizio.

Rinascita

La rinascita di Mizushima è rappresentativa del Giappone del secondo dopoguerra.

Come all’inizio il protagonista vive ingenuamente nella parentesi bellica con il solo fine di tornare a casa e i suoi compagni si gettano testardamente nel proseguo dello scontro, allo stesso modo il Giappone è intrappolato in sogno di vittoria e onore che è infine costretto a lasciarsi alle spalle.

Infatti, con l’esplosione che segna il fallimento della missione quanto del dramma di Hiroshima, si staglia davanti agli occhi del protagonista la tragedia umana in tutta la sua brutalità, di un popolo inutilmente disperso in un paese straniero.

Per questo, Mizushima non può più tornare indietro.

Prigione

Il protagonista è devastato da una ferita difficilmente sanabile.

Mizushima sceglie consapevolmente di alienarsi dal suo battaglione, dai suoi amici, di cambiare forma e aspetto fino a rendersi irriconoscibile persino a sé stesso, se non fosse per l’elemento che ne ha definito l’identità fino a quel momento, ma ora con un significato totalmente diverso.

L’arpa.

Il fragile strumento sembra l’unico filo che ancora collega il protagonista alla sua vecchia vita, diventando l’eco di una vita a cui non può più tornare, non prima di aver risolto la drammatica responsabilità che senta di portare sulle spalle: rendere giustizia a chi è morto per lui.

E allora per i suoi compagni – e per il suo paese – rimane un’unica, debole testimonianza persa nel tempo: la voce del pappagallo, anzi dei due pappagalli che rappresentano il prima e il dopo, e che restano in mano ai suoi compagni come promessa, forse, un giorno di ricongiungersi…

…o, per un paese, di rinascere.

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Avventura Cinema per ragazzi Fantastico Fantasy Film I classici di Robin Williams

Jumanji – Le insidie della crescita

Jumanji (1995) di Joe Johnston è uno dei titoli più iconici della filmografia di Robin Williams e, più in generale, del cinema per ragazzi Anni Novanta.

A fronte di un budget abbastanza sostanzioso – 65 milioni di dollari – è stato un incredibile successo commerciale: più di 250 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Jumanji?

Alan Parrish è un ragazzino costantemente bullizzato che vorrebbe fuggire dalla propria vita. Ma quella che sembra una strada possibile forse è anche la meno desiderabile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Jumanji?

In generale, sì.

Non mi voglio sbilanciare nel consigliarvi questa visione perché la piacevolezza della visione può dipendere molto da che tipo di rapporto avete con questo film: Jumanji è in tutto e per tutto un classico del cinema per ragazzi, e, come tale, da adulti potrebbe risultare meno coinvolgente.

Nondimeno, è possibile leggere nella storia un sottotesto non banale riguardo alla paura di diventare adulti, in cui i personaggi più cresciuti sono i veri protagonisti della scena, mentre i ragazzini fungono più da contorno, da aiutanti della storia.

Insomma, a voi la scelta.

Inizio

Adam Hann-Byrd in una scena di Jumanji (1995) di Joe Johnston

Jumanji deve gestire ben tre inizi.

L’antefatto della storia funziona a tratti: di per sé poteva essere uno spunto interessante per definire i contorni della minaccia in atto, in particolare introducendo l’inquietante tamburo che echeggia nei decenni fino ad arrivare al presente del protagonista, ma per certi versi risulta fin troppo abbozzato.

Il secondo attacco è l’inizio vero e proprio, che disegna il carattere e lo stato di partenza di Alan: un ragazzino continuamente preso di mira dai suoi compagni solamente per il nome che porta, che si trova involontariamente fra le mani una via d’uscita.

Adam Hann-Byrd in una scena di Jumanji (1995) di Joe Johnston

In questo frangente tocchiamo i primi elementi di debolezza della storia: come la fuga da parte di Alan è complessivamente credibile, meno lo sono le dinamiche che portano a coinvolgere anche Sarah nella partita, in uno snodo narrativo estremamente programmatico ai fini della storia, ma non molto pensato.

Soprattutto, si potrebbe rimanere leggermente spaesati davanti all’incontro fra i due, in quanto manca una costruzione significativa del loro rapporto, definito solamente da una breve battuta del protagonista e poco altro: per il resto, potrebbero essere due perfetti sconosciuti.

Ma la vera mancanza è successiva.

Pretesto

Bradley Pierce e Kirsten Dunst in una scena di Jumanji (1995) di Joe Johnston

Judy e Peter sono i protagonisti?

Se la relazione fra Alan e Sarah è carente in molti punti, la caratterizzazione dei due giovani protagonisti del terzo inizio è un baratro di scrittura, in cui sembra mancare proprio un pezzo fondamentale: l’essere fuori posto dei due personaggi, esplicitato dal loro essere immediatamente richiamati nella loro nuova scuola.

Bradley Pierce, Kirsten Dunst, Robin Williams e Bonnie Hunt in una scena di Jumanji (1995) di Joe Johnston

Insomma, il film vorrebbe riraccontare la storia di Alan sdoppiandola in due personaggi che si sentono altrettanto fuori posto, ma manca di scene significative in questo senso: avviene tutto fuori scena e la maggior parte della caratterizzazione avviene tramite le battute stesse dei personaggi.

In un certo senso, è come se il film fosse troppo affollato, con i personaggi adulti che soffocano totalmente la presenza dei più giovani, che riescono a smarcarsi dal ruolo di aiutanti incolori solamente grazie all’ottima prova attoriale di una giovanissima Kirsten Dunst.

Ma se fosse una mancanza voluta?

Crescere

Robin Williams in una scena di Jumanji (1995) di Joe Johnston

Forse non vi stupirà sapere che Jumanji presenta dei punti di contatto piuttosto sorprendenti con Peter Pan.

In un altro senso, Alan è un bambino che non vuole crescere, che non è capace di affrontare le insidie della vita – la pesantezza del suo nome – e, soprattutto, lo snodo fondamentale della sua vita, che lo porterebbe a seguire le orme della famiglia, reagendo in maniera piuttosto capricciosa e irragionevole.

La stessa Jumanji può essere considerata un’occasione di fuga, una versione distorta dell’Isola che non c’è, un parco giochi costruito non sui sogni di un bambino, ma sui suoi incubi: tutte le insidie dell’Africa Nera, tratte dai racconti dei grandi esploratori…

Robin Williams in una scena di Jumanji (1995) di Joe Johnston

…o, in altro senso, una proiezione delle paure verso il futuro, verso una crescita incomprensibile.

Non a caso, proprio come Peter Pan è tormentato dalla sua maledizione – l’Oblio – così Alan è condannato all’Isolamento, riuscendo effettivamente a sfuggire dalle paure del suo presente, per essere catapultato in una realtà dove deve crescere ancora più in fretta, proprio quando non si sentiva ancora pronto per farlo.

E c’è un altro elemento che conferma questa teoria…

Paura

Un classico delle trasposizioni teatrali – e cinematografiche – di Peter Pan è far interpretare Capitan Uncino e Mr. Darling dallo stesso attore.

E, guarda a caso, in Jumanji Mr. Parrish e Van Pelt sono portati in scena dal medesimo interprete.

Ma c’è di più.

Il padre di Alan è il vettore di questa crescita improvvisa e imposta – andare in collegio – mentre il terribile generale che dà la caccia al protagonista semplicemente perché esiste ricalca le dinamiche di Uncino insegue Pan perché lo stesso rappresenta quello che non può più avere: la spensieratezza dell’infanzia.

Robin Williams in una scena di Jumanji (1995) di Joe Johnston

Ribaltando la situazione, Van Pelt è la rappresentazione di quello di cui Alan ha più paura – e che non vuole affrontare: l’età adulta, come ben racconta l’ultimo momento della sua avventura, in cui finalmente si scontra faccia a faccia col nemico e viene ricompensato con la fine dell’incubo.

Infatti questa scelta finale è la definitiva rappresentazione della maturazione del protagonista, che finalmente accetta non tanto di andare al collegio, ma piuttosto di affrontare la situazione come un adulto capace di ragionare, volendo riallacciare il rapporto col padre non più in maniera antagonistica, ma collaborativa…

…come ben racconta lo scambio finale fra i due:

(Mr. Parrish) Let’s talk over tomorrow. Man-to-man.
(Alan) How about, father to son?

(Signor Parrish) Parliamone domani, da uomo a uomo.
(Alan) E se ne parlassimo come padre e figlio?

Andando quindi a confermare definitivamente come Alan ha imparato la lezione, non volendosi infine sostituire al padre come adulto, ma bensì affidarsi a lui come ancora punto di riferimento per una maturazione più graduale e serena.