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La morte ti fa bella – Un’ossessione eterna

La morte ti fa bella (1992) è uno dei film forse più particolari della prolifica carriera di Robert Zemeckis, che poté godere di un terzetto di protagonisti incredibili: Meryl Streep, Bruce Willis e Goldie Hawn.

A fronte di un budget abbastanza importante – 50 milioni di dollari – fu complessivamente un buon successo commerciale: 149 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla La morte ti fa bella?

Madeline è un’attrice senza talento e con un solo punto di forza: la bellezza. E farebbe di tutto per mantenerla…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La morte di fa bella?

Meryl Streep in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Assolutamente sì.

La morte ti fa bella è un piccolo cult della filmografia di Zemeckis, in cui sceglie delle strade già percorse in parte con Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988), con un umorismo profondamente grottesco, quasi orrorifico, ma che impreziosisce un importante tema di fondo.

Una pellicola che brilla in particolare per il terzetto di attori protagonisti, che riescono a gestire una recitazione molto caricata, ma mai eccessiva, all’interno di un reparto di effettistica davvero incredibile.

Insomma, da non perdere.

Un prologo improvviso

Meryl Streep in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

L’incipit di La morte ti fa bella viaggia a due velocità.

Il personaggio di Mad e la sua nomea vengono introdotti fuori scena, con uno scambio piuttosto aspro fra due spettatori scontenti per la sua prestazione attoriale, seguito dall’inquadratura su un volantino abbandonato sotto alla pioggia battente…

E, all’interno del teatro, la situazione non è differente: nonostante la baldanzosa performance della protagonista, buona parte degli spettatori è annoiata, addirittura addormentata, abbandona in massa la sala in uno scontento generale.

Meryl Streep, Bruce Willis e Goldie Hawn in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Tutti tranne uno.

L’entusiasmo travolgente di Ernest lo accompagna fino al camerino di una Madeline che già si dimostra ossessionata del suo aspetto, che però basta perché i due si scambiano sguardi languidi davanti ad una Helen terrorizzata – e, a posteriori, scopriremo anche il perché.

Il matrimonio improvviso, introdotto dalla rassicurazione di Ernest ad Helen – Non ha alcun interesse per Madeline! – introduce perfettamente il personaggio: un uomo che, anche per la sua professione, si fa facilmente e superficialmente ammaliare dalla bellezza e dal fascino di una donna che conosce appena.

I due estremi

Goldie Hawn in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

La condizione di Helen sette anni più tardi è rivelatoria della natura delle protagoniste.

Le due amiche si nutrono di due ossessioni: la ricerca ostinata della bellezza e del vivere eternamente giovani, e il profondo odio covato per anni l’una verso l’altra, raccontato perfettamente dal godurioso entusiasmo di Helen mentre guarda la scena in cui Madeline viene strangolata.

Al contempo questo lasciarsi totalmente andare rivela come entrambe siano di fatto incapaci di prendersi cura di sé stesse, tanto da limitare la loro esistenza solamente a due estremi: o l’obesità impossibile o la bellezza ricercata ad ogni costo.

Per questo all’interno di questo contrasto omicida, Ernest è infine solamente un trofeo, la prova di essere effettivamente riuscite a raggiungere un grado di desiderabilità tale da poter conquistare un uomo neanche così tanto desiderabile…

Il ribaltamento

Bruce Willis e Goldie Hawn in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

L’atto centrale è caratterizzato da un continuo ribaltamento di ruoli.

Una Helen tirata a lucido si ripropone agli occhi dell’ex-fidanzato, cominciando a muovere le prime pedine del suo piano omicida, in cui Ernest, ancora una volta, non è altro che un mezzo per la realizzazione di una personale vendetta.

Interessante in questo senso la sequenza che rappresenta il piano di Helen, in cui Madeline ne prende simbolicamente il suo posto – indossa infatti il vestito rosso – mentre Madeline e Ernest sono vestiti di bianco, come se si stessero finalmente sposando…

Meryl Streep in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Questo incontro è anche il momento che mette davvero in crisi Madeline, attonita davanti ad un marito che, per quanto non sia neanche più così interessante, è un simbolo sociale troppo importante per lasciarselo sfuggire dalle mani dell’arcinemica.

Il picco drammatico è rappresentato dalla disastrosa fuga in macchina: dopo essere stata respinta persino dal suo giovane amante – trofeo sostitutivo del marito – una Madeline disperata getta uno sguardo al suo volto devastato dal pianto…

…e lancia un urlo di terrore.

Segue la splendida sequenza dell’elisir di lunga vita, che sembra risolvere tutti i problemi della protagonista, che anzi non avrà neanche più bisogno della conferma del marito per considerarsi bella, in quanto il suo aspetto parlerà già da sé.

Il momento della trasformazione è anche quello in cui il film comincia a dare sfoggio del suo splendido reparto di effettistica, che funziona ottimamente e con pochissime sbavature -l’unico momento poco credibile è quando Madeline ha la testa rivoltata.

L’arco evolutivo…

Meryl Streep in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Il terzo atto è il più sorprendente.

L’unico personaggio che gode effettivamente di un arco evolutivo è Ernest, che sceglie di liberarsi della moglie autonomamente rispetto al piano di Helen, nonostante sia inizialmente pronto a salvarla dalla caduta dalle scale, ricredendosi immediatamente quando la donna si rivela nuovamente per la sua acidità.

Allo stesso modo, l’uomo ricomincia a prendersi cura di lei non tanto per un ritrovato amore, ma per riuscire finalmente a tornare a praticare la sua professione, iniziativa che però lo porterà ad essere nuovamente l’oggetto del desiderio delle due donne – anche se per motivi diversi…

Bruce Willis in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Ma più si immerge nel sogno folle della vita eterna delle due donne, che pur essendo morte, pur cadendo a pezzi, vogliono continuare ad essere ricostruite e messe a posto – una rappresentazione piuttosto sagace dell’inseguimento perfezione estetica tramite la chirurgia plastica – più se ne vuole allontanare.

Addirittura, scegliendo di togliersi la vita.

Pur in maniera molto semplicistica, nel finale il film racconta come la ricerca della bellezza e della vita eterna può essere ricercata al di fuori della mera realtà materiale ed estetica, riscoprendo la nuova vita di Ernest nei suoi ultimi trentasette anni di vita.

…e involutivo

Meryl Streep e Goldie Hawn in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Invece, nel loro arco involutivo, le due protagoniste dimostrano tutta la loro ristrettezza mentale.

Se fino ad un momento prima cercavano di distruggersi a vicenda, appena si rendono conto della reciproca immortalità, si ricongiungono per un motivo puramente egoistico: sostenersi in questa fragile vita eterna.

Allo stesso modo, l’interesse a tenersi vicino Ernest è del tutto dettato dalla paura di non poter effettivamente essere belle per sempre, dando anzi per scontato che questa orrenda vita eterna sia un desiderio condiviso anche dall’uomo.

Meryl Streep e Goldie Hawn in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Infatti, in diversi momenti si nota come la ruggine fra le due non sia mai stata risanata, al punto che, con un piacevolissimo parallelismo, Madeline lascia che Helen cada giù dalle scale, pensando finalmente di aver vinto…

…ma la sua ben più scaltra compagna la afferra per il bavaro, così che entrambe si trovino ancora più rovinate e inguardabili di quanto già non fossero, ma con una battuta di chiusura che fa forse presupporre che non è la prima volta che succede una cosa del genere…

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Il Corvo – Un semplice amore

Il Corvo (1994) di Alex Proyas, tratto dall’omonimo fumetto di James O’Barr, è uno dei più grandi cult cinematografici degli Anni Novanta.

La sua fama è legata anche all’infausto incidente dell’attore protagonista, Brandon Lee, che morì sul set a soli ventott’anni e non poté mai vedere il film finito…

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 23 milioni di dollari – fu un enorme successo commerciale, con 95 milioni di dollari di incasso in tutto il mondo, tanto da portare a ben due sequel.

Di cosa parla Il Corvo?

Eric e Shelly sono una giovane coppia innamorata, il cui destino viene stroncato da un evento improvviso. Ma la vendetta è dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il Corvo?

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

In generale, sì.

Non voglio troppo sbilanciarmi: Il Corvo è un film che va veramente inquadrato nel periodo in cui è uscito, in quanto figlio di un’estetica che ad oggi potrebbe essere considerata quasi trash e dozzinale.

Inoltre, se siete appassionati del fumetto d’origine, potreste rimanere parzialmente delusi – per me è stato così – in quanto questa trasposizione cerca di rendere più digeribile una vicenda davvero cupa e malinconica.

Tuttavia, al di là di questo, Il Corvo è indubbiamente una lettera d’amore verso l’opera di James O’Barr – presente anche con un piccolo cameo – che riesce al meglio delle sue possibilità – e con scelte complessivamente vincenti – a rendere una graphic novel così complessa e sofferta.

Insomma, da vedere.

In questa recensione inevitabilmente ci saranno dei confronti con l’opera originale, che vi invito a riscoprire.

Frammenti di dolore

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

Non era semplice rendere la scena dell’omicidio iniziale de Il Corvo.

Il film sceglie un taglio peculiare, ma assolutamente adatto alla narrazione dell’opera originale: un montaggio travolgente, in cui frammenti della scena si susseguono sullo schermo, attimi di dolore e paura…

Inoltre la pellicola opera alcuni cambiamenti funzionali alla riuscita del film: la violenza non avviene in strada, ma nell’appartamento della coppia, e così Shelly non viene uccisa con un colpo alla testa, ma affronta trenta ore di dolore in ospedale.

La monumentalità ammorbidita

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

Allo stesso modo, anche portare in scena Eric era la sfida più ardua.

Nel fumetto il protagonista è una figura monumentale e paurosa, che vive del contrasto fra l’orrido presente e la morbidezza delle scene d’amore quotidiano con Shelly, che sottolineano la profondità del dolore e del desiderio di vendetta del suo personaggio.

La pellicola in questo senso sceglie un taglio leggermente diverso: Brandon Lee sembra quasi uno zombie che riemerge dalla tomba…

…e riesce nel complesso a reggere sulle spalle un personaggio così complesso, con una buona presenza scenica e una resa visiva veramente calzante.

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

Al contempo però il film sceglie anche di riportare il protagonista più coi piedi per terra, di non giocare troppo con il contrasto fra presente e passato…

…ma piuttosto di mantenere questa dicotomia nel presente stesso: come Eric è un killer insaziabile, al contempo è anche un giovane ragazzo distrutto dal lutto, ma ancora legato agli affetti terreni.

Nello specifico, al personaggio di Sarah.

La felicità intrusiva

Nonostante ne comprenda la funzione, Sarah è l’elemento che ho meno apprezzato.

Nel fumetto Sarah ha un ruolo minore, limitato a pochi momenti, mentre nel film diventa una figura fondamentale per rendere più umano il protagonista e permettere allo stesso di trovare col suo ritorno in terra una funzione ulteriore oltre alla vendetta.

Insomma, serve a dare un briciolo di speranza in più allo spettatore.

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

Sempre per lo stesso fine, la madre di Sarah segue un percorso di redenzione proprio grazie al protagonista, liberandosi dalla dipendenza dalle droghe e ricominciando a curare la figlia.

Una scena di per sé inutile ai fini della trama, ma del tutto funzionale per ammorbidire il tono del film.

E lo stesso avviene nel finale.

Il vero amore?

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

Il finale del film ruota principalmente intorno al personaggio di Sarah.

A differenza del fumetto, Eric nel terzo atto ha fondamentalmente concluso la sua missione ed è pronto a ricongiungersi con Shelly, ma ritorna in campo proprio per salvare la ragazzina, perdendo anche parte dei suoi poteri – l’immortalità – e quindi dovendo combattere ad armi pari T-D.

Nel complesso tuttavia ho apprezzato il cambiamento della fine di del boss, che solo alla fine Eric comprende essere il vero artefice del suo dramma: per questo decide di punirlo con qualcosa di peggiore della morte stessa.

Ovvero, fargli provare l’insopportabile dolore di Shelly prima di morire.

Al contrario, mi è ha meno convinto la chiusura del film.

Per rendere la vicenda più comprensibile allo spettatore medio, si sceglie di glissare totalmente sul motivo originario – nel fumetto – della vendetta di Eric, ovvero il tentativo di liberarsi dalla colpa di non essere riuscito a salvare la sua amata, così da poter lasciare questa vita di mezzo e ricongiungersi con lei.

Il film sceglie una via più semplice, sottolineando la forza di un amore così sincero ed immortale come quello fra Eric e Shelly, che gli ha permesso di tornare in vita e di punire i suoi aguzzini, e, infine, di ricongiungersi amorevolemente con lei.

Il Corvo Sequel

A cura di Carmelo.

Vale la pena di vedere i sequel de Il Corvo?

Il secondo film è molto vicino allo spirito del primo capitolo: nonostante il protagonista sia diverso, la sua motivazione e le dinamiche della sua storia sono simili.

Fra l’altro, è presente un collegamento diretto con il film del 1994, per la presenza di Sarah, che funge da guida per il nuovo protagonista.

Un sequel che si distingue per un taglio più onirico e surreale, ma che può essere comunque apprezzato.

Lo stesso si può dire de Il Corvo 3 – Salvation (2000).

In questo caso il protagonista è un ragazzo condannato alla sedia elettrica per il presunto omicidio della sua fidanzata, e torna per vendicarsi dei veri assassini.

Insomma due sequel che cercano di mantenere il taglio del primo film, e che possono comunque essere apprezzati se vi intriga la dinamica raccontata.

Assolutamente sconsigliato invece il quarto capitolo, Il Corvo – Preghiera maledetta (2005): girato tutto alla luce del sole – quindi mancando totalmente dell’atmosfera originale – porta l’elemento magico-fantastico in direzioni molto meno desiderabili, snaturando l’opera originale.

Insomma, da evitare.

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Chi ha incastrato Roger Rabbit – L’inganno perfetto

Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988) è probabilmente l’opera più ambiziosa di Robert Zemeckis, uno dei migliori esempi dell’uso della tecnica mista nella storia del cinema.

Con un budget piuttosto consistente – 50 milioni di dollari, circa 130 oggi – fu un enorme successo commerciale, con 350 milioni di incasso (circa 900 oggi).

Di cosa parla Chi ha incastrato Roger Rabbit?

Eddie è un detective privato pieno di debiti e ubriacone, che viene coinvolto in una vicenda piuttosto piccante ma con retroscena inaspettati…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Chi ha incastrato Roger Rabbit?

Roger Rabbit e Eddie Valiant in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Assolutamente sì.

Chi ha incastrato Roger Rabbit è un classico della filmografia di Zemeckis, in cui sperimentò splendidamente con una tecnica piuttosto complessa, ovvero l’utilizzo del live action misto all’animazione…

…raccontando sostanzialmente un noir crudelmente realistico e con riferimenti culturali piuttosto attuali – nello specifico, il razzismo – ma cambiando un paio di elementi in scena e riuscendo a portarlo al cinema come un film per tutta la famiglia.

Un’opera imperdibile, insomma.

La seguente interpretazione più sul versante politico-sociale è avvallata anche dal libro di ispirazione, Who Censored Roger Rabbit? (1981, inedito in Italia), che presenta queste tematiche in maniera più netta.

Strappo

L’incipit di Chi ha incastrato Roger Rabbit è perfetto.

Infatti, volendo rivolgere la sua opera ad un pubblico piuttosto variegato, Zemeckis sceglie di mettere tutti sullo stesso livello.

Se il pubblico più adulto può riconoscersi nelle follie cartoonesche di Hanna & Barbera con cui è cresciuto, così anche gli spettatori più giovani, magari più abituati ai nuovi cartoni di derivazione nipponica, riescono a riavvicinarsi ad un taglio narrativo del tutto diverso.

Eddie Valiant in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

La sequenza iniziale non è infatti altro che il più classico episodio di un prodotto di animazione degli Anni Quaranta, nelle sue follie violente e profondamente comiche, che richiamano le dinamiche di serie popolarissime come Tom & Jerry e Willy il Coyote…

…che viene improvvisamente interrotta, accompagnandoci nel ben più crudo realismo del film, in uno studio hollywoodiano con star capricciose e artisti sottopagati, allontanando progressivamente l’inquadratura da un Roger Rabbit disperato, per rivelare un burbero figuro di spalle, che in una sola battuta rivela tutta la sua personalità:

Toons.

Un classico noir

Jessica Rabbit e Eddie Valiant in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Quello che segue è l’avvio piuttosto classico di un film noir.

Più Eddie ci viene introdotto, più scopriamo quanto sia un detective ormai fallito, pieno di debiti e schiavo dell’alcol, disposto a tutto per guadagnare qualcosa, persino scattare delle foto piccanti per far risvegliare le energie di un personaggio come Roger Rabbit.

Per il resto, l’introduzione di Jessica Rabbit è tutto un programma.

Betty Boop e Eddie Valiant in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

La donna è incredibilmente fascinosa e sensuale, ma svelerà a suo tempo come questa sua apparenza risulti col tempo insopportabile, in quanto la vincola ad essere un puro oggetto sessuale e nient’altro, anche facilmente dimenticabile come la povera Betty Boop, che cerca ancora di essere ammiccante…

…ma che è lasciata nel dimenticatoio, in quanto cartone d’altri tempi.

Per questo la battuta iconica Non sono cattiva, mi disegnano così racconta proprio la tragicità di questo personaggio intrappolato in un corpo più deleterio che premiante, e che infatti ricerca un compagno che la apprezzi non solo per la sua bellezza.

Il doppio inganno

Jessica Rabbit in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Proprio su questa linea, tutta la costruzione del Patty-Cake (in italiano farfallina) inganna lo spettatore per due volte.

Lasciando per lungo tempo le immagini esplicite fuori scena, Zemeckis fa credere abilmente che Jessica si stia intrattenendo sessualmente con Acme – e, oltre al velo della finzione filmica, è esattamente quello che succede – fingendo di utilizzare un’espressione gergale per indicare il tradimento sessuale…

Jessica Rabbit in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

quando in realtà il Patty-Cake non è altro che un gioco per bambini.

Ad un livello più profondo, si tratta del primo tassello di una storia ben più complessa di ricatti e di sesso, in cui sia Jessica Rabbit – personaggio molto più attivo di quanto sembri – sia Roger sono coinvolti apparentemente come i colpevoli, in realtà come vittime incastrate in un complotto.

L’autodistruzione

Giudice Morton in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Il giudice Morton – Judge Doom in inglese – è probabilmente l’elemento più iconico di Chi ha incastrato Roger Rabbit.

Interpretato in maniera magistrale da un Christopher Lloyd che dopo Back to the future (1985) era ormai il feticcio di Zemeckis, bastano pochi dettagli di trucco per caratterizzare un villain lugubre e spietato, che non è nient’altro che una rappresentazione neanche troppo edulcorata di un boss del crimine.

In una dinamica che ricorda molto da vicino quella di Wilson Fisk in Daredevil, questo spietato imprenditore ha ripulito la sua immagine e si è riproposto sullo scenario politico in modo da prendere lentamente il possesso di Cartoonlandia, sviluppando contro la stessa un piano di totale distruzione.

Giudice Morton in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Se non ci vuole tanta fantasia per rileggere la salamoia come l’acido in cui i mafiosi sono soliti a sciogliere le loro vittime, non viene neanche difficile sostituire i toons con delle minoranze etniche nel mondo dello spettacolo, dove sono maltrattate e sottopagate – si veda Dumbo, che si accontenta di un pugno di noccioline.

Secondo questa lettura, Morton non è altro che un uomo che faceva parte della stessa suddetta minoranza che ora perseguita, in una totale follia autodistruttiva che l’ha portato non solo a scalare la gerarchia sociale, ma a distruggere le sue stesse radici, nello specifico Cartoonlandia, un ghetto per i Toons, mal accettati in molti altri contesti per umani.

Edulcorare

Salamoia in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Dopo una rocambolesca fuga propria dei migliori buddy movie, quasi per caso Eddie scopre la verità dietro alle mosse di Morton, arrivando così ad un finale incredibilmente classico per il genere, ma nondimeno anche straordinariamente avvincente e scandito sul filo dei secondi.

Potrebbe risultare piuttosto sorprendente la scelta di non mostrare del tutto il vero aspetto del Giudice Morton, ma limitarsi ad un agghiacciante quanto iconico confronto con Eddie, che rivela la malvagità e la spietatezza di questo cartone…

Tuttavia, questa scelta è dettata da una motivazione metanarrativa.

Per questo film Zemeckis si fece prestare un gran numero di personaggi animati da altre case di produzione, evidentemente a patto che nessuna di queste ne uscisse danneggiata – e infatti sono tutti personaggi positivi – e un personaggio così diabolico come Morton non poteva essere in alcun modo associato al mondo dei cartoni.

Infatti, nonostante anche la spietata violenza che caratterizzava in quel periodo l’animazione per bambini, nessuno poteva essere considerato effettivamente cattivo come Morton, ma piuttosto le azioni negative dei villain venivano spesso stemperate da un taglio comico e grottesco a misura di bambino.

Non è quindi un caso che in chiusura Topolino e tutti gli altri toons si interroghino sulla vera identità del villain, chiosando che sicuramente non era né un papero, né un topo

…insomma, niente di associabile ai personaggi tanto amati dai bambini del periodo.

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Back to the future Part III – Una buona conclusione?

Back to the future Part III (1990) è il capitolo conclusivo della trilogia iconica creata da Robert Zemeckis.

A fronte di un budget complessivo fra secondo e terzo film – 40 milioni di dollari, circa 100 oggi – questa pellicola confermò il successo del precedente, anche se con un incasso leggermente inferiore: 245 milioni di dollari (circa 576 oggi).

Di cosa parla Back to the future Part III?

Dopo aver ricevuto la sua lettera dal passato, Marty raggiunge Doc nel Vecchio West…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Back to the future Part III?

Christopher Lloyd (Doc) in una scena di Back to the future Part III (1990) di Robert Zemeckis

In generale, sì.

Con Back to the future Part III Zemeckis riesce a mantenere una qualità costante anche per il finale della trilogia, pur ambientandolo in un contesto veramente anomalo per un’avventura fantascientifica, ma che invece permette di trovare nuovi spazi di esplorazione della storia e dei personaggi.

Il terzo capitolo infatti riprende i ritmi serrati e adrenalinici del film precedente, ma non manca di portare a compimento anche quegli spunti interessanti per l’evoluzione dei protagonisti già accennati nel secondo film.

Insomma, da vedere.

Il solito aggancio

Michael J Fox (Marty) in una scena di Back to the future Part III (1990) di Robert Zemeckis

Come per Back to the future Part II (1989), anche in questo caso il film si riaggancia direttamente al precedente.

Ma invece di ricalcare la scena finale del secondo capitolo, la pellicola fa rivivere allo spettatore l’iconico finale di Back to the future (1985), in cui il Marty del futuro si ricongiunge con il Doc del 1955, al tempo convinto di aver risolto tutti i problemi del viaggio nel tempo…

E bastano poche scene ben contestualizzate per preparare lo spettatore al nuovo scenario della pellicola – nello specifico, al nuovo villain – e ad introdurre un elemento già esplorato nei precedenti capitoli, ma ancora perfettamente funzionante: la morte di uno dei personaggi principali.

Due filoni

Ancora una volta Marty viene accolto nella casa dei suoi antenati…

…ma, in questo caso, introducendo il primo punto di riflessione del film – nonché il più importante: dalle parole del suo bisnonno il protagonista ritrova nel suo antenato defunto quel comportamento testardo e permaloso che attraversa tragicamente la sua famiglia.

Per il resto, i due antenati di Marty sono quasi del tutto limitati a questa funzione, rimanendo di fatto sullo sfondo per la maggior parte della pellicola, pur ben contestualizzati all’interno del panorama del Selvaggio West.

Thomas F. Wilson (Biff) in una scena di Back to the future Part III (1990) di Robert Zemeckis

Segue l’introduzione della parte più adrenalinica della pellicola, ovvero la minaccia di Biff Mad Dog: si comincia col più classico incontro fra il villain e Marty, che però a sorpresa non serve a portare ad una rocambolesca fuga del protagonista e alla conseguente umiliazione di Biff…

…ma piuttosto a reintrodurre in maniera veramente ottima Doc: con un breve scambio fra Brown e Biff si ripercorre una discordia emersa in precedenza – con al centro, come sempre, un antagonista sbruffone e spaccone – coronata dall’epifania di Marty sulla futura morte dell’amico.

La minaccia formativa

Michael J Fox (Marty) in una scena di Back to the future Part III (1990) di Robert Zemeckis

Tutta la dinamica fra Biff e Marty è funzionale alla maturazione del protagonista.

Trovandosi costretto ad affrontare Biff in un duello all’ultimo sangue, Marty raggiunge due consapevolezze: l’importanza di essere più scaltri che violenti, proprio riuscendo a sconfiggere il nemico non con la banale forza bruta, ma piuttosto la sua furbizia ed inventiva.

E, soprattutto, anche memore delle sue sconsolanti prospettive future, il protagonista riesce finalmente ad abbandonare quella sciocca permalosità che gli ha portato – e gli porterà – solamente guai, e a diventare molto più maturo e capace di scegliere le giuste battaglie da combattere.

Come confermato, fra l’altro, dallo scontro in auto evitato nel 1985.

Fughe & ritorni

Christopher Lloyd (Doc) e Michael J Fox (Marty) in una scena di Back to the future Part III (1990) di Robert Zemeckis

Per quanto riguarda le battute finali, Back to the future Part III delude.

Anzi, forse il piano per ritornare al futuro è il migliore della saga, perché inserisce l’incognita non tanto del possibile insuccesso – e del conseguente rimanere bloccati nel passato – ma proprio il pericolo di lasciarci la pelle, eventualità evitabile solamente sulla base di calcoli scientifici ed ipotesi totalmente teoriche.

Ma proprio per questo la conclusione è così emozionante e al contempo così ben contestualizzata nel panorama del film, con diversi picchi emotivi, non ultimo il ricongiungimento fra Doc e Clara, portando apparentemente ad un finale tragico sia per la macchina del tempo che per Doc.

Christopher Lloyd (Doc) e Mary Steenburgen (Clara) in una scena di Back to the future Part III (1990) di Robert Zemeckis

Invece, il finale è perfetto.

Come Marty aveva avuto un assaggio del suo futuro, al contrario Doc non aveva niente di particolarmente esaltante a cui puntare. Per questo è fondamentale per il suo personaggio trovare una compagna con cui condividere la sua passione, e, di conseguenza, con cui poter continuare le sue avventure nel tempo.

Così la coppia di amici si lascia con delle ottime prospettive all’orizzonte: il destino di entrambi non è ancora scritto, ma è totalmente nelle mani dei protagonisti e nella loro capacità di giocare al meglio le loro carte per un futuro migliore.

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Night & Day of the dead – L’inizio della fine

Night of the living dead (1968) e Day of the dead (1985) rappresentano rispettivamente l’inizio e la fine della trilogia originale degli zombie di George Romero, che ha come perno centrale il ben più famoso Dawn of the Dead (1978).

Rispetto al grande successo commerciale del capitolo mediano, gli altri due film ebbero un riscontro minore, ma comunque positivo: entrambi incassarono intorno ai 30 milioni di dollari, con un budget rispettivamente di 114 mila dollari e di 3,4 milioni.

Di cosa parlano Night & Day of the dead?

Come primo capitolo della saga, in Night of the living dead si racconta l’inizio dell’epidemia zombie e i primi tentativi di arginarla:

Al contrario, il capitolo conclusivo è ambientato negli Anni Ottanta e racconta i tentativi dei pochi sopravvissuti di ricostruire la società umana:

Vale la pena di vedere Night & Day of the dead?

Bub lo zombie in una scena di Day of the dead (1985) di George Romero

In generale, sì.

Partiamo col dire che si tratta di due film molto diversi, sia per taglio narrativo che per tematiche proposte: in Night of the living dead troviamo una poetica ancora acerba, per cui Romero riflette sulla società umana, ma senza aver un target specifico come per Dawn of the Dead.

Al contrario Day of the dead è il film più vicino al capitolo mediano, che rappresenta in maniera anche piuttosto diretta un periodo storico molto lontano per noi, ovvero quello della politica reaganiana, con tutte le conseguenze nella mentalità e nella società con la Guerra Fredda agli sgoccioli e dopo il disastro della Guerra del Vietnam.

Insomma, da vedere.

Night of the Living Dead

Il film è stato interpretato in diverse direzioni, nessuna delle quali secondo me definitiva.

In questa sede, per puro divertissement, ho scelto di abbracciare la lettura sulla Guerra Fredda.

Molto umani

John zombie in una scena di Night of the living dead (1968) di George Romero

Uno dei grandi meriti di Romero, soprattutto in Night of the living dead, è il riuscire a portare in scena gli zombie con poco.

I non-morti infatti sono definiti esteticamente giusto da pochi tocchi di trucco, mentre l’efficacia dei loro personaggi risiede nell’ottima presenza scenica degli attori, che risultano assolutamente credibili – sicuramente grazie alla direzione piuttosto abile e consapevole di Romero.

In questo senso si apre il primo spunto nei confronti del tema della Guerra Fredda: gli zombie non sono così tanto indistinguibili dagli umani, tanto che nella primissima scena John non riesce a comprendere il pericolo imminente del cimitero, anzi schernisce Barbra per il suo essere spaventata.

Harry in una scena di Night of the living dead (1968) di George Romero

In questo elemento si può leggere una rappresentazione dell’isteria collettiva che serpeggiava negli anni di una guerra non più materiale, ma principalmente psicologia e di propaganda, in cui per gli statunitensi era davvero semplice dubitare di chiunque e di additarlo come nemico.

Per questo, gli zombie rappresenterebbero appunto i sovietici.

Una storia di uomini

Harry in una scena di Night of the living dead (1968) di George Romero

Come sarà poi anche per Dawn of the dead, il centro della storia non sono gli zombie, ma i personaggi umani.

Di fatto i non-morti sono degli elementi sostanzialmente di contorno, una minaccia presente e pressante, ma che raramente è al centro della scena, ma che anzi è posta ai margini della stessa fino all’ultimo atto, quando l’home invasion ha finalmente la sua esecuzione.

Barbra in una scena di Night of the living dead (1968) di George Romero

Nei rapporti fra i personaggi dentro la casa si può leggere una rappresentazione dei diversi atteggiamenti nel contesto post-bellico: se infatti da una parte troviamo un Ben che sceglie di stare in prima linea, con lo sguardo puntato sulla minaccia esterna e pronto a combatterla…

…dall’altra Harry insiste nel rifugiarsi nella cantina, che può essere letta come una rappresentazione dei rifugi anti-atomici che non pochi statunitensi avevano dentro le porte di casa, il rifugio estremo all’interno dell’angoscia costante del periodo.

Ma infine nessuna tecnica è vincente.

Divorati dall’interno

Ben in una scena di Night of the living dead (1968) di George Romero

Le morti dei personaggi sono estremamente esplicative.

Anzitutto la dipartita di Barbra, ormai distrutta dalla nevrosi, che si butta fra le braccia del fratello perduto e tanto ricercato, incapace di accettare che lo stesso è ormai un nemico – ovvero, secondo questa lettura, una spia sovietica.

Altrettanto interessante è la morte di Harry, che cercava un rifugio estremo e sicuro nella cantina, del tutto cieco davanti al pericolo che lui stesso ha in casa – in un altro senso, ignaro di come dei simpatizzanti col nemico fossero proprio dentro le mura domestiche.

Harry in una scena di Night of the living dead (1968) di George Romero

Ma la morte più indicativa è quella di Ben, che sembra essere riuscito a scampare la morte grazie alla sua intelligenza e lucidità, ma che viene abbattuto dai suoi stessi compatrioti, che neanche si sprecano nel controllare che il personaggio sia effettivamente un loro nemico.

Per questa scena si possono prendere due strade interpretative, che in realtà si congiungono: Ben è ucciso da un gruppo di bianchi che utilizzano la situazione solamente come occasione per perpetuare il loro razzismo violento…

…e che al contempo continuano a ricercare il nemico all’esterno, mentre la vera ostilità è interna agli Stati Uniti stessi.

Day of the Dead

Per Day of the Dead la tematica sottostante è più chiara: una critica piuttosto aspra al modello economico e sociale di Ronald Reagan, che all’uscita del film era alla vigilia del suo secondo mandato.

Ricostruire e distruggere

Rodhes in una scena di Day of the dead (1985) di George Romero

Day of the dead si apre su un paesaggio desolante, in cui ormai gli zombie dominano il mondo e la civiltà umana è ridotta ad uno sparuto gruppo di personaggi.

Un barlume di speranza rimane nel laboratorio sotterraneo, dove si cerca di trovare una soluzione all’epidemia, ma è che è fin troppo sferzata da un Capitano Rhodes sempre più tirannico.

Nella visione di Romero, questo personaggio rappresenta il peggio della società reaganiana: una corsa alla soluzione facile e veloce, con uno stringente militarismo esaltato come eroico in una società americana appena uscita dalla Guerra in Vietnam e nel pieno della Guerra Fredda.

Il femminile anomalo

Sarah in una scena di Day of the dead (1985) di George Romero

Altrettanto indicativo del pensiero reaganiano è il trattamento del femminile.

La Dottoressa Sarah è costantemente osteggiata dalla maggior parte dei personaggi maschili, proprio in quanto donna indipendente e senza figli, condizione che la rende un perfetto bersaglio da umiliare ed insultare.

Il suo personaggio è infatti troppo lontano dall’ideale femminile materno e casalingo, esaltato dalla politica reaganiana, contro invece personaggi femminili fin troppo indipendenti raccontati come il motivo del fallimento del modello familiare.

Proprio per questo Sarah perde tutta la sua dignità davanti agli altri uomini, che la umiliano costantemente per avere una relazione extra-matrimoniale.

Isteria

Bub zombie in una scena di Day of the dead (1985) di George Romero

Nel trattamento dedicato agli zombie si può intravedere un racconto piuttosto crudele dell’attività politica reaganiana nei confronti dell’abuso di droghe.

Bub, lo zombie rieducato dal Dottor Logan, potrebbe in questo senso raccontare la figura del tossicodipendente che tenta una via di riabilitazione all’interno di un centro di cura, e così l’epidemia zombie può essere anche letta come un racconto del picco di dipendenza da sostanze che si registrò negli USA in quel periodo.

Rodhes in una scena di Day of the dead (1985) di George Romero

Così nell’atteggiamento totalmente ostile di Rhodes si può altresì leggere un racconto della semplificazione di Reagan nella sua lotta all’abuso di droghe, che sostanzialmente risultava nel dividere i cittadini fra buoni e cattivi.

In questo senso Bub agli occhi del Capitano è disgustoso ed irrecuperabile, al punto da sottovalutarlo e così da portare alla morte stessa del suo personaggio, aiutata in gran parte dal preciso colpo di pistola dello zombie, che non lo uccide, ma gli impedisce di fuggire…

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Halloween – Il nuovo horror

Halloween (1978) è uno dei film più importanti della filmografia di John Carpenter, che non solo lanciò la carriera attoriale di Jamie Lee Curtis, ma fu anche uno dei punti di partenza del genere slasher.

La pellicola fu anche un grande successo commerciale: a fronte di un budget veramente minuscolo – appena 700 mila dollari, circa 3 milioni oggi – incassò 70 milioni in tutto il mondo (circa 330 oggi).

Di cosa parla Halloween?

Haddonfield, 1963. Il giovanissimo Michael Myers uccide la sorella a sangue freddo. E quindici anni dopo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Halloween?

Jamie Lee Curtis in una scena di Halloween (1978) di John Carpenter

In generale, sì.

Per quanto non lo consideri uno dei migliori lavori di Carpenter – per il budget e la realizzazione può essere considerato quasi amatoriale – è un film altresì davvero sperimentale, nonché un caposaldo del genere slasher.

Infatti, in Halloween troviamo tutti gli elementi distintivi di questo sottogenere dell’horror, che avrà la sua fortuna negli anni successivi, soprattutto con film come Venerdì 13 (1980) e Nightmare (1984)

Insomma, una pellicola piuttosto fondamentale.

L’origine del male

L’incipit di Halloween è sperimentale quanto iconico.

Tutta la sequenza è filtrata dalla soggettiva di Michael, che si muove nelle ombre sinistre della casa natale, appropriandosi dei due elementi che definiranno il suo personaggio: la maschera e il coltellaccio – ormai iconico sia per Psycho (1960) che, successivamente, per Scream (1996)

E così anche il suo movente, anche se non è mai dichiarato, è tipico dei killer degli slasher: una sorta di purismo e punizione nei confronti delle pulsioni sessuali che Michael non può comprendere e che non può esperire, essendo fin da subito un emarginato sociale.

Lo svelamento infine del volto innocente del bambino omicida racconta la profondità della malvagità del personaggio, alla ricerca di un’identità alternativa dietro cui nascondersi, che in questa scena – e così anche alla fine del film – gli viene violentemente strappata di dosso.

La distinzione del femminile

Jamie Lee Curtis in una scena di Halloween (1978) di John Carpenter

Secondo un sentimento comune al genere, vi è una distinzione del femminile.

I personaggi femminili che circondano la protagonista sono accomunati dall’essere posseduti da un profondo desiderio sessuale, e dall’essere raccontate come ragazze poco serie che non si impegnano nello studio e che vogliono solo divertirsi.

Jamie Lee Curtis in una scena di Halloween (1978) di John Carpenter

Al contrario, Laurie è vestita in maniera piuttosto distintiva, è molto più contenuta nella sua sessualità ed è anzi da associare al modello materno, in quanto è l’unico personaggio che effettivamente si impegna per gestire i bambini fino alla fine.

Proprio per questo all’inizio a lei spetta il ruolo di vedere – a differenza di tutti gli altri – il mostro in agguato, che si nasconde dietro ad ogni angolo, funzione che poi passerà al piccolo Tommy, la cui voce di allarme verrà costantemente ignorata dagli altri personaggi.

Uccidere il sesso

Jamie Lee Curtis in una scena di Halloween (1978) di John Carpenter

L’avversione per il sesso è costante per tutti gli omicidi.

E si accompagna anche ad una certa lascivia dei corpi: la prima vittima, Annie, è costretta a privarsi degli abiti e a rimanere sostanzialmente nuda in scena per moltissimo tempo, e così viene uccisa mentre si sta dirigendo proprio verso il prossimo appuntamento sessuale.

Ma il parallelismo più evidente è l’uccisione di Lynda, che viene strangolata dal fantasma della sua colpa, proprio mentre si trova senza vestiti a letto ad aspettare il fidanzato dopo che la sua passione è stata soddisfatta, proprio come la sorella di Michael all’inizio del film.

Jamie Lee Curtis in una scena di Halloween (1978) di John Carpenter

E, nonostante Laurie non sia associabile a questo modello, il killer con il primo fendente cerca di renderla una vittima lasciva, proprio strappandole parte della camicia e rivelandone la pelle nuda…

Ma proprio per il suo non aderire a quel tipo di ragazza, la protagonista è l’unica capace di usare la propria inventiva per combattere il mostro, con la sua stessa arma o con tecniche improvvisate, non riuscendo a vincere solamente perché il male non si può veramente mai sconfiggere…

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Il villaggio dei dannati – La prole mostruosa

Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter, conosciuto anche come John Carpenter’s Village of the Damned, è il remake dell’omonimo film del 1960.

Nonostante il finale fosse piuttosto aperto, il film fu un tale fiasco al botteghinoappena 9,4 milioni di dollari di incasso a fronte di un budget di 22 milioni – che non se ne sentì più parlare…

Di cosa parla Il villaggio dei dannati?

In una tranquilla cittadina della California un improvviso blackout fa svenire tutti gli abitanti della città. Subito dopo, molte donne si ritrovano improvvisamente incinte…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il villaggio dei dannati?

Lindsey Haun in una scena di Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter

Dipende.

Il villaggio dei dannati purtroppo non si può annoverare fra le migliori opere del maestro dell’horror americano, in particolare per via di una sceneggiatura estremamente debole e difettosa – e, infatti, non opera di Carpenter – pur a fronte di un primo atto salvato da una regia ed un montaggio ben pensati.

Uno di quei film da vedere senza farsi aspettative, ma magari rimanendo intrattenuti dall’assurdità delle svolte narrative e dall’incubo degli effetti speciali – ingiustificabili davanti ad un The Thing (1982) di pochi anni prima.

Insomma, abbastanza dimenticabile, ma non tutto da buttare.

Un buon inizio

Il primo atto de Il villaggio dei dannati è il meglio riuscito.

La tranquillità della fiera cittadina viene stravolta da un blackout improvviso, senza che ci sia alcun tipo di preparazione in merito, riuscendo effettivamente a prendere contropiede lo spettatore, con anche una regia piuttosto indovinata.

Altrettanto azzeccato è il montaggio successivo, in cui si susseguono diverse scene con dialoghi spezzati, in cui le donne del paese scoprono della loro improvvisa gravidanza, con alternanza di gioia e di profonda angoscia, sopratutto da parte del pensieroso Dottor Alan.

Lo scambio fra il suo personaggio e Jill fa da prologo ad un’inquietudine che serpeggia costante anche nei momenti subito successivi, a fronte di una scena anche troppo realistica in cui il governo prende i cittadini per il portafoglio, riuscendo a renderli protagonisti del suo piccolo esperimento scientifico.

Così, al netto degli effetti speciali tremendi, la prima vittima di questi terribili bambini è al centro di una scena complessivamente ben raccontata, in cui il terrificante potere dei neonati nel controllare la volontà degli adulti viene mostrato in tutta la sua drammaticità.

Ma i problemi cominciano dopo.

Una terrificante ingenuità

Kirstie Alley in una scena di Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter

Per ovvie necessità di sceneggiatura, i bambini demoniaci non potevano rimanere neonati…

…ma è assurdo come gli adulti si comportino con loro.

Sarebbe bastata una linea di sceneggiatura per raccontare la crescita vertiginosamente veloce di questi infanti, così da superare il pesante problema della poca credibilità del secondo atto: se i bambini sono cresciuti naturalmente, dovrebbero ormai essere passati quantomeno dieci anni…

…e così non è verosimile che gli adulti – non invecchiati neanche di un minuto – sembrino raggiungere la consapevolezza della pericolosità di questi personaggi solamente a questo punto, come se prima il pericolo non fosse visibile.

Lindsey Haun in una scena di Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter

L’unica parte che effettivamente funziona di questo atto centrale è lo scambio fra i bambini e la Dottoressa Susan – il personaggio più magnetico della pellicola – e il terribile incidente oculistico, che mostra come queste creature siano davvero vendicative e senza pietà.

Al contempo, Carpenter ebbe la fortuna di lavorare con dei bambini piuttosto abili nel reggere la parte, particolarmente la brillante Lindsey Haun, che interpreta la terribile Mara – in un certo senso il villain principale della pellicola.

Poi, il delirio.

Repetita iuvant?

Lindsey Haun in una scena di Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter

L’atto finale presenta due problemi principali.

Anzitutto, la terrificante ripetitività delle scene: a fronte dei primi incidenti – i due con protagonista Barbara e l’accecamento – i successivi attacchi dei bambini risultano incredibilmente monotoni sia per la messinscena che per le dinamiche.

Sembra, insomma, di vedere per diverse volte la stessa scena.

E, ancora una volta, i personaggi – ad eccezione del Dr. Alan – sembrano solamente carne da macello, totalmente ignari dei poteri dei bambini e così incapaci di combatterli o anche solo di evitarli per non morire tutti nella stessa stupida maniera.

Lindsey Haun in una scena di Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter

Proprio su questa linea, i personaggi principali sono riportati in scena e fatti morire quasi a casaccio, e senza che la loro storia abbia un particolare significato – nello specifico, l’inutile dipartita del Reverendo George.

Particolarmente sprecata la morte della Dottoressa Susan, la cui scoperta della vera natura delle creature cade quasi nel dimenticatoio, all’interno dello scontro finale fra il Dr. Alan e i bambini che sembra più puntare sulla tensione che sull’essere effettivamente interessante.

E per fortuna il finale aperto non ha mai avuto un seguito…

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Avventura Azione Cinema per ragazzi Commedia Cult rivisti oggi Drammatico Fantascienza Film Futuristico Ritorno al futuro

Back to the future Part II – Un terribile futuro

Back to the future Part II (1989) di Robert Zemeckis è il sequel del fortunato prodotto omonimo uscito qualche anno prima, e che confermò il successo del progetto.

Pur a fronte di un budget duplicato – 40 milioni di dollari, circa 100 oggi – fu un grande successo al botteghino, con 332 milioni di incasso (circa 820 oggi).

Di cosa parla Back to the future Part II?

Dopo la rocambolesca avventura nel passato, la coppia di protagonisti intraprende un viaggio nel futuro per risolvere i problemi familiari di Marty…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Back to the future Part II?

Christopher Lloyd in una scena di Back to the future Part II (1989) di Robert Zemeckis

Assolutamente sì.

Il secondo capitolo della saga è per certi versi anche più avvincente del primo, con un ritmo serrato e travolgente soprattutto nei momenti cardine della trama, scegliendo, a differenza del precedente, di seguire maggiormente la strada dell’avventura fantascientifica in senso stretto.

Back to the future Part II è insomma una corsa continua, con un’estetica futuristica diventata ormai iconica, e che poteva solo esistere in quella visione forse più semplice del futuro che si aveva alla fine degli Anni Ottanta…

Insomma, da vedere.

L’aggancio diretto

Michael J. Fox e Christopher Lloyd in una scena di Back to the future Part II (1989) di Robert Zemeckis

L’incipit di Back to the future Part II si ricollega direttamente con il precedente.

E per un motivo molto pratico.

Anzitutto, essendo ormai passati quattro anni, il film vuole riconquistare sia il pubblico di appassionati sia quello dei casual watchers, riportandoli all’epica conclusione del primo capitolo, evitando così di travolgerli con una storia potrebbero non ricordarsi alla perfezione.

Michael J. Fox in una scena di Back to the future Part II (1989) di Robert Zemeckis

Ma la fretta sta tutta nell’incipit.

Il primo assaggio di questo mondo futuristico sono i nuovi vestiti di Marty – con un furbissimo product placement – che ci svelano un mondo dove tutto è più semplice, più automatizzato, più imprevedibile – dalle scarpe che si allacciano da sole agli skateboard volanti.

Ma lo sconvolgimento avviene quando Marty entra in un luogo noto.

Il falso passato

Michael J. Fox in una scena di Back to the future Part II (1989) di Robert Zemeckis

Con l’entrata nel bar nostalgico Anni Ottanta – una previsione incredibile dell’effettiva ossessione dei futuri Anni Dieci per quella decade – Marty si ritrova in un luogo noto e al contempo incomprensibile.

Nonostante infatti la musichetta che richiama le atmosfere del passato, ogni oggetto dentro al locale è snaturato: non c’è più un cameriere, ma una televisione insistente da cui ordinare una Pepsi che però non è più la solita Pepsi – per poi provare a giocare un videogioco che appare troppo fuori dal tempo per i ragazzini del futuro.

Michael J. Fox in una scena di Back to the future Part II (1989) di Robert Zemeckis

Per fortuna Back to the future Part II non ricade nel pericolo di essere ridondante nel riproporre la medesima dinamica del precedente film: Marty deve sempre salvare qualcuno dalle grinfie di Biff – non il padre, ma suo figlio – secondo una dinamica di scambio già nota.

Tuttavia, la sequenza è intrigante proprio per la grande capacità attoriale di Michael J. Fox, che riesce perfettamente a portare in scena il Marty degli Anni Ottanta e a distinguerlo dal futuro figlio, molto più insicuro e fuori posto, nonostante i due si differenziano solamente per il taglio di capelli.

Così lo stesso inseguimento ha un forte sapore di déjà-vu – per ammissione dello stesso Biff – ma è comunque piacevolissimo ed indimenticabile proprio per la presenza dello skateboard volante, elemento che tornerà utile anche nella conclusione della pellicola.

Il pericolo in agguato

Una scelta piuttosto intelligente del è il ribaltare la dinamica del presente da salvare.

Se infatti il divieto di cambiare il passato a favore del futuro era stato mandato completamente a gambe all’aria già nella prima pellicola, nulla vieta al villain di seguire le orme dei protagonisti, ma per un proprio guadagno personale.

Così, dopo aver assistito impotente al suo sconsolante futuro, Marty ritorna nel 1985 con la prospettiva di non viaggiare mai più nel tempo – con simpatici foreshadowing del terzo capitolo – ma notando non pochi elementi fuori posto nel suo presente…

Molto funzionale in questo senso riutilizzare la dinamica della famiglia impaurita che scaccia un Marty confuso da quella che dovrebbe essere la sua casa, e che va alla scoperta di un quartiere ormai devastato da una criminalità dilagante.

Questo spaccato del nuovo presente è funzionale a dare maggior valore alla missione dei protagonisti: cambiare il passato non è semplicemente un’esigenza egoistica di costruirlo su misura per le proprie esigenze, ma serve ad evitare un mondo che è a svantaggio di tutti, ad eccezione di Biff.

L’angosciante quadro familiare è introdotto dal museo dedicato all’eroe americano, così da rendere la spiegazione più digeribile e meno didascalica, seguita dall’introduzione di una Lorraine distrutta dall’alcol e dai debiti, del tutto in balia del suo oppressore, che racconta a Marty il triste destino del padre.

Tornare indietro

Michael J. Fox in una scena di Back to the future Part II (1989) di Robert Zemeckis

Se nel primo film il viaggio nel passato era totalmente casuale, questa volta è invece programmato con uno specifico obbiettivo.

Per fortuna Back to the future Part II riesce tutto sommato a non impelagarsi nella sua stessa narrazione, rendendo l’avventura di Marty tendenzialmente indipendente dal suo passato, andando ad inseguire un Biff che per la maggior parte del primo film era rimasto fuori scena.

E tanto più avvincente è l’inseguimento apparentemente impossibile dell’almanacco sportivo, che ha un percorso tutto tranne che lineare, anzi piuttosto caotico, pieno di imprevisti e colpi di scena, fra cui l’indimenticabile rivista pornografica Oh la là!

Michael J. Fox e in una scena di Back to the future Part II (1989) di Robert Zemeckis

E così ancora più appassionante la parte finale dell’inseguimento di Biff, che sembra davvero impossibile fino all’ultimo, ma che si risolve con la seconda umiliazione del villain, ma anche un finale apparentemente tragico per Doc…

…salvato all’ultimo da un messaggio imprevisto proveniente dal passato, che è solo il prologo – così come era stato nel primo capitolo – per il sequel, il cui trailer rappresenta la chiusura rassicurante della pellicola, che anticipa già il ricongiungimento fra Doc e Marty e le loro nuove – ed imperdibili – avventure.

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Killers of the flower moon – La strage silenziosa

Killers of the flower moon (2023) è l’ultima fatica di Martin Scorsese, autore arrivato a ormai più di cinquant’anni di carriera, ma ancora capace di sorprendere.

Il film è stato un enorme insuccesso commerciale: a fronte di un budget di ben 200 milioni di dollari, ne ha incassati appena 156 in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Killers of the flower moon (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Migliore regista

Migliore attrice protagonista a Lily Gladstone Miglior attore non protagonista a Robert De Niro
Miglior fotografia
Miglior montaggio
Migliori costumi
Migliore scenografia
Migliore colonna sonora
Miglior canzone

Di cosa parla Killers of the flower moon?

Anni Venti, Oklahoma. I membri della Nazione Osage scoprono un ricco giacimento di petrolio che li renderà ricchi. Ma non sono gli unici a metterci gli occhi sopra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Killers of the flower moon?

Lily Gladstone e Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Sì, ma…

Killers of the flower moon non è un film che si potrebbe definire scorrevole – né vuole esserlo: Scorsese torna al cinema con un film impegnato e pregno di significato, difficilmente apprezzabile se non ci si lascia travolgere dalla narrativa del film.

In un certo senso il regista statunitense scommette con lo spettatore, proponendogli un tipo di prodotto a cui non è abituato, con ritmi lenti e cadenzati, che vanno di pari passo con una regia molto curata ed una storia che necessita di un certo tipo di andamento per essere raccontata…

Siete pronti ad accettare la sua scommessa?

La baraonda, la calma

Dopo un breve prologo che racconta i sentimenti contrastanti degli Osage – l’euforia della ricchezza scoperta e la mestizia per il loro futuro incerto – l’arrivo di Ernest in scena mostra in poche sequenze la natura del mondo in cui è approdato.

Una realtà caotica, in cui domina una violenza senza significato, in cui due popoli si sono mischiati e sembrano in totale sintonia, almeno all’apparenza…

Poi, improvvisamente, la calma.

Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Il trasferimento nella più pacifica residenza di William Hale ci illude di essere sfuggiti alla baraonda, e così il pacato colloquio fra il patriarca e il protagonista: lo scambio appare con il più classico dei dialoghi fra il nonno e il nipote, che aggiorna il suo vecchio sull’andamento della sua vita.

Sulle prime ci lasciamo ingannare dalle parole di Bill, dal suo raccontarsi come amico degli indiani, del tutto fuori dalle dinamiche di guadagno e di potere che coinvolgono gli altri bianchi della città, invece unicamente interessato all’idea che il nipote si sistemi con una bella ragazza locale.

Ma la realtà è ben diversa.

La via obbligata

Lily Gladstone e Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

L’amore fra Mollie e Ernest sulle prime sembra genuino.

Il giovane uomo corteggia la donna che appare – anche comprensibilmente – molto restia a dargli confidenza, pienamente consapevole di come i bianchi stiano eliminando il suo popolo nelle retrovie, uno dietro l’altro…

Tuttavia, dal momento che la sua famiglia al tempo non è stata ancora toccata, infine Mollie si decide a sposare l’uomo.

Lily Gladstone in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Ma ci troviamo sulla soglia della tragedia.

In questo senso, da notare come Zio Bill si rivolge alla prima vittima dell’ancora non svelato piano di eliminazione sistematica.

La donna appare sofferente, provata, e l’uomo la sovrasta con tutta la sua statura e in maniera estremamente opprimente, rincuorandola su come potrà prendersi cura di lei e darle tutte le medicine di cui ha bisogno per farla stare meglio, quando è lui stesso ad essere il mandante della sua angosciante dipartita.

Una tragedia giustificata

Rovert De Niro in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Nel secondo atto, Bill rivela finalmente sua natura.

Il suo personaggio è indubbiamente il più significativo per il concetto fondamentale del film: al contrario di quei selvaggi violenti autori della strage di Tulsa, il caro zio è invece una figura accogliente, che voleva solamente fare in modo che le due famiglie si unissero pacificamente.

Robert De Niro e Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

…rivelando in realtà una sorta di razzismo benevolo: per quanto Bill possa aiutarli, gli indiani rimangono comunque una razza inferiore, che viene facilmente stroncata da diverse malattie – anzitutto il diabete – per il naturale svolgersi degli eventi.

E allora è meglio salvare quello che si può salvare…

Una convinzione che il suo personaggio mantiene fino all’ultimo…

Il non colpevole.

Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Ma Ernest è anche peggiore.

L’uomo si mostra fin da subito come un personaggio piuttosto ingenuo, la preda perfetta per le maligne bugie di Bill, pronto a farsi sottomettere e punire come un bambino a sculacciate, per non aver saputo tenere una mano ferma nel controllare la sua famiglia.

Ed infatti la sua mano è sempre incerta quando comincia a somministrare quella miracolosa medicina alla moglie, soprattutto quando deve sottoporle il siero letale, talmente combattuto con sé stesso da berne pure un bicchiere, come se questo potesse liberarlo dai suoi peccati…

Per questo, ad indagine avviata, Ernest diventa un burattino nelle mani delle due parti, convincendosi infine a mordere la mano del suo padrone, vedendo in questo gesto una possibilità per potersi redimere dalle proprie colpe, di potersi ricongiungersi pacificamente con la moglie e la sua famiglia.

L’ultimo degli Osage

Robert De Niro e Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Quando sposa Ernest, Mollie si fida ciecamente.

Non a caso davanti alle continue morti della sua famiglia, fino all’ultimo si fida del marito, si fida a lasciare solamente a lui la gestione delle sue medicine, e fino all’ultimo non ha il minimo dubbio che i colpevoli siano da ricercare altrove, tanto che, ormai distrutta dal veleno, mentre viene portata via, chiede dove si trovi Ernest…

E così, dopo essersi ripresa nella mente e nel corpo, sceglie di dare al marito la possibilità di ricominciare, raccontargli prima un sogno in cui congiuntamente si lasciano alle spalle le colpe, ricominciando così a camminare insieme, per poi metterlo davanti alla domanda fondamentale:

Cosa c’era veramente in quella medicina?

Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Ma Ernest è incapace di prendersi le sue responsabilità, ormai sentendosi rassicurato nell’idea di aver aiutato la giustizia e di aver trasferito i suoi peccati sul capro espiatorio di turno, rimanendo così indenne dalle condanne, soprattutto agli occhi della moglie.

Invece così Mollie capisce che non potrà più fidarsi del marito.

Ma il suo non è un finale positivo.

Fuori scena scopriamo che la donna è morta comunque piuttosto giovane, distrutta da una malattia che i bianchi salvatori non hanno saputo curare, dopo essere stata al centro di una tragedia che una giustizia tardiva e approssimativa non è stata capace di salvare dalla dimenticanza di una storia scritta da vincitori.

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Back to the future – Il cambiamento positivo

Back to the future (1985) non solo è fra i titoli più apprezzati della filmografia di Robert Zemeckis, ma è soprattutto uno dei più grandi cult di fantascienza della storia del cinema.

Non a caso, al tempo divenne un fenomeno culturale: a fronte di budget medio – 19 milioni di dollari, circa 54 oggi – e incassò 383 milioni di dollari in tutto il mondo (circa un miliardo ad oggi).

Di cosa parla Back to the future?

Marty McFly è un adolescente che viene coinvolto in una particolarissima avventura con il suo amico, lo scienziato pazzo Doc Brown…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Back to the future?

Michael J. Fox in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Assolutamente sì.

Back to the future è un cult non per caso: un film con una storia semplice, ma orchestrata perfettamente in tutte le sue parti, con una scrittura e una regia ben calibrate per raccontare le differenze fra le diverse epoche storiche e gli inevitabili parallelismi.

Uno di quei film che, anche a decenni di distanza, lascia facilmente un buon sapore in bocca per il suo ottimo equilibrio fra il dramma e una piacevole comicità, oltre a due protagonisti assolutamente iconici.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Il primo inizio

A sorpresa, il dramma familiare in Back to the future è importante quanto il viaggio nel tempo.

L’incipit serve infatti ad inquadrare la famiglia di Marty e il suo carattere, con un utilizzo di rara intelligenza delle didascalie: tramite le parole dei personaggi e le dinamiche in scena, scopriamo anzitutto come il protagonista si senta un emarginato incompreso, dalla scuola e dai suoi parenti.

Così la sua famiglia rappresenta la classica situazione della middle class americana, con l’aggravante di uno zio galeotto e di un padre totalmente sottomesso al suo bullo storico, Biff, e per questo incapace di farsi veramente strada in una vita di successo.

Così ampio spazio è concesso anche alla madre di Marty, che appare fin da subito piuttosto bacchettona e puritana, tanto che il protagonista le nasconde consapevolmente il suo progetto della gita al lago con la fidanzata.

La fantascienza di sottofondo

Christopher Lloyd in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Il dramma familiare si alterna ottimamente con l’elemento fantascientifico.

Lo stesso è introdotto fin dall’inizio, con un Doc che però rimane fuori scena fino alla fine del primo atto, ma che conosciamo già perfettamente dal dialogo al telefono con Marty: un intraprendente scienziato, autore di invenzioni piuttosto bislacche, legato da un forte rapporto col protagonista.

Così quando entra in scena rappresenta in tutto e per tutto il modello di inventore pazzo, che però non cade mai nel ridicolo grazie alla recitazione appassionata e ormai iconica di Christopher Lloyd – che ritornerà a lavorare con Zemeckis anche in Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988).

Christopher Lloyd e Michael J. Fox in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Così tutti gli elementi del viaggio del tempo vengono raccontati con precisione e creando anche una piccola tensione iniziale, quando il mistero non è ancora svelato, in modo da far identificare il totalmente l’ignaro Marty con lo spettatore.

Infine, quando l’avventura sta ormai per partire, il protagonista sembra già star per uscire di scena, in maniera talmente credibile che allo spettatore verrebbe anche da chiedersi a cosa è servita tutta la sua introduzione…

…ma proprio per questo l’atto centrale funziona così bene.

Un atto consapevole

Michael J. Fox in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Tutti gli elementi della parte centrale sono gestiti con particolare consapevolezza.

Appena Marty arriva nel 1955, già ci risuonano nella mente le parole di Doc, in una frase che sul momento sembrava inutilmente nostalgica, ma che invece è fondamentale per l’identificazione dello spettatore: qui intorno prima era tutta campagna.

Allo stesso modo la reazione della famiglia che entra per la prima volta in contatto con il protagonista sembra puramente una gag, ma risulterà invece determinante successivamente, quando il protagonista dovrà convincere il padre ad invitare al ballo scolastico la sua futura moglie.

E, al contempo, la dinamica della scena racconta il sentimento di Marty per tutta la sua permanenza nel passato: lo straniamento.

Allo stesso modo, Back to the future convince particolarmente nel raccontare le incomprensioni di un ragazzo del 1985 in un contesto così anomalo.

A partire dal fatto che viene continuamente scambiato per un marinaio per il suo giubbotto smanicato – tipico della moda degli Anni Ottanta – fino ai vari riferimenti storici – l’elezione futura di Ronald Raegan e gli eventi intorno alla famiglia Kennedy – tutti elementi che contestualizzano perfettamente il panorama di riferimento.

Così, per avvicinare ancora di più il protagonista al padre, particolarmente brillante la scena del loro incontro, in cui si muovono allo stesso modo e si girano contemporaneamente verso Biff quando il bullo chiama il padre di Marty per cognome.

Il teen drama âge

Lea Thompson e Michael J. Fox in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

La parte centrale di Back to the future è dominata dal teen drama.

La pellicola riprende un topos abbastanza tipico, in cui un personaggio cerca di far smuovere un suo compagno un po’ nerd così che riesca a conquistare la ragazza di turno e a diventare più sicuro di sé.

In questo caso ovviamente la situazione è molto più interessante ed avvincente, in quanto non c’è in ballo solamente un rapporto amoroso, ma piuttosto la sopravvivenza stessa del protagonista, e, più in generale, la maturazione del padre.

Lea Thompson e Crispin Glover  in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Infatti, tutti i personaggi compiono un percorso di maturazione.

Anzitutto, il protagonista diventa ben più consapevole di sé stesso e delle proprie potenzialità, riuscendo a superare il suo limite dell’essere mingherlino, tramite l’intraprendenza e l’inventiva, e così tenendo testa ad un bullo minaccioso come Biff.

Ma la maturazione principale, sopratutto a posteriori, è quella del padre, che smette di essere un totale perdente che si fa mettere i piedi in testa, per diventare invece un uomo consapevole e di successo, che riesce a combattere contro le sue paure.

Lorraine McFly

Ma la storia più interessante è quella della madre.

Back to the future riesce ben ad inquadrare la situazione femminile negli Anni Cinquanta: Lorraine vive alternativamente nel sogno della crocerossina e della principessa da salvare, all’interno di un mondo maschile violento e ostile.

Non a caso, anche se non è detto esplicitamente, la madre di Marty è stata sostanzialmente salvata da un tentato stupro da parte di Biff, e così, anche durante il ballo, prima di essere ripresa da George, è un pacco che viene passato di mano in mano.

Tuttavia, anche il suo personaggio ha il suo margine di maturazione: se all’inizio del film la donna era aspramente bigotta, al contrario nella situazione finale scopriamo un personaggio che è riuscito a trarre il meglio dalla sua esperienza adolescenziale, mantenendo una mente aperta e sapendosi prendere cura di sé.

Una nuova occasione

Christopher Lloyd e Michael J. Fox in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Parallelamente alla parentesi adolescenziale, la trama fantascientifica è indubbiamente la più iconica.

Il rincontro con Doc pone al suo personaggio un dilemma morale fondamentale, che è in realtà tipico dei racconti del viaggio del tempo: l’importanza di non cambiare il passato, consapevoli dei risultati potenzialmente disastrosi che potrebbe portare al presente.

Per questo, nonostante i vari tentativi di Marty, lo scienziato si ribella all’idea di essere salvato dal protagonista.

Christopher Lloyd e Michael J. Fox in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Invece, davanti ad un finale che rischiava di essere assai drammatico, Back to the future sceglie una via diversa.

Infatti, capiamo che il presente deve essere cambiato, perché ne va della sopravvivenza dei personaggi stessi, e, più in generale, della loro maturazione, compresa quella di Doc: l’uomo diventa meno rigido sulle dinamiche del viaggio del tempo e ne accetta le piacevoli conseguenze.

E, anche di più, il suo personaggio da questa esperienza riesce anche a migliorare la sua invenzione, rendendola meno dipendente da un materiale così difficilmente reperibile – il plutonio – e non più una semplice macchina, con tutti i limiti del caso, ma un mezzo che non ha bisogno di strade:

Roads? Where we’re going, we don’t need roads.

Strade? Dove andiamo non ci servono strade.