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Wish – Un’ubriacatura lunga cent’anni

Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn rappresenta il punto di arrivo di un centenario disneyano piuttosto drammatico…

…non a caso si prospetta già l’ennesimo flop commerciale per la Disney: a fronte di un budget piuttosto consistente – 200 milioni di dollari – ad un mese dalla sua uscita ha incassato neanche 150 milioni di dollari…

Di cosa parla Wish?

Asha si prepara alla cerimonia in cui il sovrano, Re Magnifico, realizza un desiderio di uno dei suoi cittadini. E la protagonista vorrebbe davvero che il sogno di suo nonno, ormai centenario, fosse esaudito…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Wish?

Sasha e Valentino in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

Dipende.

Personalmente non considero Wish un film particolarmente meritevole, anzi: mi sono trovata davanti ad un disordinato incontro di diverse intenzioni, fra uno sguardo gettato al passato e ai suoi Classici, e l’intenzione evidente di realizzare qualcosa di più al passo coi tempi.

Ne risulta un prodotto piuttosto incolore, che cerca di rifarsi a dinamiche narrative del passato, ma senza portare nulla di significativo, anzi perdendosi in una metanarrativa e in un citazionismo a tratti veramente esasperante.

Insomma, niente di imperdibile.

La volta buona

Sasha in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

L’ambientazione di Wish è una delle poche scelte vincenti del film.

Rosas è infatti storicamente piuttosto credibile, pur in un contesto fantastico come quello del film: una metropoli probabilmente tardo-antica, un incontro verosimile fra diverse culture – greca, latina, araba… – come poteva essere, per esempio, Alessandria d’Egitto.

Quindi è del tutto verosimile che, in un panorama del genere, vi sia la presenza di diverse etnie.

Sasha in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

Purtroppo, i meriti si fermano qui.

Come già detto in precedenza, fra tutte le case di produzione, la linea puramente politica della Disney negli ultimi anni è quella che meno digerisco, proprio per il fatto che non vi è la minima traccia di genuinità sul lato dell’inclusività.

Così, anche in questo caso, la produzione sembra voler riempire delle caselle per poter accontentare tutti, con una varietà di figure veramente poco interessanti – nello specifico con l’inclusione di un personaggio disabile, inserito unicamente per far presenza.

Un debole incontro

Sasha in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

La protagonista di Wish è un pasticciaccio.

Pur con qualche capitombolo lungo la strada, da Rapunzel (2010) in poi si può dire che la Disney abbia almeno tentato di portare in scena protagoniste femminili più tridimensionali ed estranee al concetto più classico di principessa.

Nel caso di Asha, ci troviamo in una drammatica via di mezzo: per molti versi il suo personaggio assomiglia a Rapunzel – e a tutte le principesse da lei derivate – quindi una ragazzina di buon cuore, un po’ sbadata e molto insicura di sé stessa…

Sasha in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

…ma, al contempo, si cerca in tutti i modi di ricondurla al prototipo della principessa destinata ad un certo lieto fine – in questo caso dal valore discutibile – cercando anche di renderla più attiva, ma risultando comunque mancante di un effettivo arco evolutivo.

Infatti, il punto di arrivo della sua evoluzione è più che altro il riuscire a riunire la comunità sotto la sua figura di fata madrina ante-litteram, mancando però delle basi consistenti e convincenti in questo senso.

Diciamo che più che un punto di arrivo, sembra un punto d’inizio.

La banalizzazione involontaria

Magnifico in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

Magnifico è una terribile occasione persa.

Anche in questo caso le intenzioni sono simili a quelle di Asha, con un incontro fra presente – un villain non semplicemente cattivo, ma con un background consistente – e passato – un antagonista volutamente negativo e spaventoso.

Il problema è che Magnifico non è nessuna delle due cose, ma piuttosto un villain piuttosto basilare e poco interessante, con una motivazione veramente banale – la conquista del potere – ed un arco narrativo estremamente prevedibile.

Magnifico in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

In questo senso, si potevano prendere due strade.

Si sarebbe potuto esplorare maggiormente la sua psicologia, legata ad un concetto genuinamente interessante – il controllo dei desideri delle persone per poterle sottomettere – e non renderlo semplicemente un sovrano frustrato per l’ingratitudine dei suoi sudditi.

Allo stesso modo si poteva aggravare la sua malvagità, magari arricchendola di colpi di scena più consistenti: fra questi, sarebbe stato molto calzante scoprire che Magnifico fosse l’autore della morte del padre di Sasha, agendo magari con la complicità della moglie.

Un vero peccato.

Persi in sé stessi

Magnifico, Valentino e Sabino in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

Più che puntare sulla storia, sembra che Wish voglia semplicemente essere celebrativo della Disney.

Quindi si sottrae moltissimo alla scrittura di una storia originale ed interessante, preferendo invece abbondare fino alla nausea con riferimenti alla storia della casa di produzione, anche con inserimenti veramente fuori luogo.

Infatti, per quanto sarebbe stato interessante raccontare una sorta di origine del mondo Disney – in particolare molto carina l’idea di rendere Magnifico lo Specchio di Grimilde in Biancaneve e i sette nani (1937) – non pochi elementi non tornano.

Sasha in Wish (2023) di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn

Anzitutto il riferimento alla fata madrina riguardante Asha – concetto introdotto nel panorama favolistico ben oltre l’epoca in cui è probabilmente ambientata la storia e legato fortemente alle storie Disney…

…e, soprattutto, l’inserimento di Peter Pan e, indirettamente, di Mary Poppins (1964), due personaggi con storie veramente troppo lontane dal contesto raccontato in Wish, e il cui inserimento va a togliere senso ai loro stessi film.

Insomma, non si poteva pensare a qualcosa di più sottile ed elegante, invece che questa sbrodolatura fin troppo entusiastica?

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Balto – Sottoterra

Balto (1995) di Simon Wells è uno dei pochi film prodotti al di fuori dei grandi studios che divenne negli anni un piccolo cult.

Eppure, al tempo fu un flop devastante: con un budget di 30 milioni di dollari, incassò appena 11 milioni in tutto il mondo, fra l’altro alla vigilia del fallimento della casa di produzione, la Amblimation.

Di cosa parla Balto?

Alaska, 1925. Balto è un cane randagio e meticcio, che fatica a trovare la sua identità all’interno di una cittadina che lo disprezza. Ma una situazione drammatica gli permetterà di rimettersi in gioco...

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Balto?

Balto e Jenna in Balto (1995) di Simon Wells

Assolutamente sì.

Balto è uno di quei film che porto nel cuore, e che migliora non solo ad ogni visione, ma soprattutto ad una revisione con un occhio più adulto e maturo, che permette di coglierne i significati più sotterranei e nascosti, ma in realtà fondativi della pellicola stessa.

Al contempo, non lo considero propriamente un film adatto ai più giovani: nonostante si cerchi in più momenti di ammorbidire i toni con alcune gag più a misura di bambino, si tratta a prescindere di una storia piuttosto drammatica e angosciante.

Insomma…qualcuno pensi ai bambini!

La non-identità

Balto in Balto (1995) di Simon Wells

Non è un cane. Non è un lupo. Sa soltanto quello che non è.

Balto è un eroe di mezzo.

Il suo ambiente naturale sono le retrovie, i vicoli bui e malmessi della città, in cui viene ripetutamente cacciato e a cui, in qualche modo, sente di appartenere: Balto è insomma sempre ad un passo da un mondo a lui proibito.

Anzi, due mondi.

Infatti, il protagonista non riesce mai a trovare il coraggio di penetrare la realtà civile – quella degli uomini e dei cani – ma neanche è capace di spingersi fino al mondo selvaggio e misterioso – quello dei lupi.

Balto e Steel in Balto (1995) di Simon Wells

Così, quando osserva i lupi in lontananza che ululano nella sua direzione, è incapace di rispondergli, e si allontana sconsolato fino alla barca al confine fra la città e il mondo selvaggio – ovvero, proprio il luogo in cui sente di appartenere.

E solo molto timidamente sceglie prima di gettarsi all’ultimo nella corsa – ma solo per riportare il cappello a Rosy – e, infine, solo dopo grandi meditazioni, è capace finalmente di partecipare alla gara per scegliere chi salverà la comunità, e a battere tutti gli altri concorrenti.

Ma non basta.

Il sotterraneo

Boris in Balto (1995) di Simon Wells

Il destino del protagonista sembra ormai scritto.

Balto sembra infatti incapace di emergere dalla sua condizione anche perché è circondato da altri personaggi emarginati: Boris, un’oca incapace di volare insieme alle sue compagne, e così Muk e Luk, due orsi polari che hanno paura dell’acqua.

Una situazione che ovviamente si aggrava per via della cattiveria degli uomini della città, che premiano a prescindere i cani di razza pura solamente per la loro discendenza, incapaci di comprendere il valore del protagonista.

Jenna in Balto (1995) di Simon Wells

Ma la realtà sotterranea è fondamentale.

Emblematica in questo senso la scena in cui Balto conduce Jenna per una via nascosta al di sotto della casa di Rosy.

Infatti, in questa scena Jenna riesce finalmente a comprendere la condizione della ragazzina, e per il resto del film e anche senza Balto, sarà sempre in grado di avere la zampa della situazione, pur rimanendo ai margini della scena.

Balto e Jenna in Balto (1995) di Simon Wells

Nella stessa occasione, il protagonista mostra alla sua amata un elemento fondamentale per convincerla della sua bontà: quei cocci di bottiglia rotti, che sembrano solamente pericolosi, mera spazzatura, in realtà possono essere utilizzati per creare una splendida aurora boreale.

Allo stesso modo Balto, un meticcio, un emarginato, apparentemente selvaggio e pericoloso, è in realtà un personaggio di grande valore.

Multiforme

Balto e Jenna in Balto (1995) di Simon Wells

Jenna è un personaggio femminile incredibilmente interessante.

Anzitutto, si sottrae al ruolo semplicemente di oggetto del desiderio – sia da una parte che dall’altra: inganna furbescamente Steel, quando questo cerca per l’ennesima volta di sedurla, e sceglie di avvicinarsi consapevolmente a Balto, nonostante la sua nomea.

Balto e Jenna in Balto (1995) di Simon Wells

Inoltre, non ha alcuna vergogna ad ammettere di aver interesse per il protagonista, nonostante questo sia considerato un emarginato e un bastardo – come si vede nella scena in cui Sylvie, una delle due cagne sue amiche, la mette alla prova.

Oltre a questo, per tutto il tempo rimane un personaggio estremamente attivo, sia quando spinge Balto all’avventura, sia quando lo salva dall’orso, sia poi nel momento in cui rimane l’unico personaggio che si sottrae alla narrativa fasulla di Steel.

L’ombra

Rosy in Balto (1995) di Simon Wells

La lugubre ombra della morte è costante in Balto.

La troviamo anzitutto in Rosy, una dei tanti bambini che si ammalano, prima quando comincia a tossire e viene richiamata a casa, poi nelle diverse e insistite sequenze in cui viene inquadrata a letto nella disperazione della malattia.

Ma la morte è presente anche in altri due momenti altrettanto inquietanti.

Nelle scene iniziali, quando Boris viene acciuffato dal macellaio, e l’ombra della lama si staglia sul suo collo, e poi quando ogni speranza sembra persa, e il giocattolaio, che poche scene prima aveva confezionato una slitta per Rosy, ora prepara la sua piccola bara…

Il gruppo spezzato

Il gruppo di salvataggio è troppo ingombrante.

Infatti, inizialmente tutti i personaggi partono all’avventura insieme a Balto, anche quelli più secondari e apparentemente inutili come i due orsi.

Invece saranno proprio loro a salvare Balto da morte sicura quando starà per affogare nel ghiaccio – trovando così la loro redenzione – e fondamentale sarà Jenna, che giungerà all’ultimo per sottrarlo dalle grinfie del terrificante orso, pur diventano poi lei stessa il motivo per cui il gruppo si spezza.

Ma l’avventura di Balto deve essere solitaria.

Il protagonista con questo viaggio non è solamente destinato a salvare la propria comunità – e nello specifico Rosy – ma si sta inconsapevolmente imbarcando verso un percorso per acquisire finalmente consapevolezza della sua identità.

Ma nel suo viaggio sono in agguato anche presenze che gli mettono i bastoni fra le ruote: la terribile bestia nera che lo attacca – assimilabile, per contrasto al Lupo Bianco, ad una figura quasi demoniaca – ma soprattutto Steel, disposto persino a rischiare la morte dei bambini per la propria gloria.

Rinascita

Infatti, la vera salvezza di Balto è l’incontro con il Lupo Bianco.

Inizialmente il protagonista aveva ingenuamente intrapreso il viaggio e il tentativo di salvataggio della medicina nelle vesti del cane – e proprio per questo aveva nuovamente fallito, trovandosi seppellito dalla neve in un dirupo…

…e così ancora una volta rinchiuso sottoterra, proprio come poco prima era stato seppellito dal ghiaccio dall’orso.

Ma stavolta deve salvarsi da solo.

Infatti, l’incontro con la misteriosa presenza – che può essere assimilabile alla figura dell’eredità di Balto, quanto a una figura quasi divina di salvezza – è l’occasione per il protagonista di riscoprirsi lupo.

Così Balto ricorda le sagge parole di Boris, che gli ricordano come una missione del genere non potesse essere portata avanti dei semplici cani – abituati alle comodità del mondo civilizzato ma solo da un lupo, capace di affrontare l’ignoto e il selvaggio, e uscirne indenne.

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The Nightmare Before Christmas – Crisi di Natale

The Nightmare Before Christmas (1993) è uno dei più incredibili progetti animati della storia del cinema, per la regia di Henry Selick – e non Tim Burton, che fu ideatore del progetto, ma lo seguì a distanza – proprio per l’utilizzo della tecnica stop-motion.

A fronte di un budget di 24 milioni di dollari, fu un grande successo commerciale – 101 milioni di dollari in tutto il mondo – anche se nulla in confronto alla popolarità che guadagnò negli anni.

Di cosa parla The Nightmare Before Christmas?

Jack Skeletron è il Re delle Zucche ad Halloween Town, ma si sente ormai vuoto nel dover organizzare ogni hanno la stessa festa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Nightmare Before Christmas?

Jack e Sally in Nightmare Before Christmas (1993) di Henry Selick

In generale, sì.

Per quanto consideri The Nightmare Before Christmas un prodotto di grande valore, mi rendo conto che i suoi meriti sono ritrovabili più nel lato artistico e musicale, che nella scrittura, che è piuttosto semplice e narrativamente non particolarmente brillante.

Tuttavia, se siete pronti a lasciarvi conquistare da un’opera davvero incredibile, una delle poche create con la splendida tecnica passo-uno (o stop-motion), vi innamorerete delle sue canzoni iconiche e degli splendidi character design dei personaggi.

Vuoto

Jack in Nightmare Before Christmas (1993) di Henry Selick

La sequenza di apertura di The Nightmare Before Christmas è iconica.

This is Halloween (Questo è Halloween) è una delle canzoni più celebri della pellicola, che rappresenta perfettamente la città di Halloween Town e i suoi fantasiosi personaggi, creati prendendo le mosse dalle paure più classiche dei giovani spettatori.

E, soprattutto, l’entrata in scena di Jack è uno dei momenti più splendidi della pellicola, semplicemente spettacolare nelle sue dinamiche, e che racconta perfettamente il ruolo di divo che il protagonista gode nella città.

Jack in Nightmare Before Christmas (1993) di Henry Selick

Ma non basta.

Jack si ritira quasi immediatamente dai festeggiamenti, muovendosi in un panorama lugubre e desolato, che rappresenta proprio i suoi contrastanti sentimenti sulla sua posizione, in una sorta di crisi di identità per cui non vuole più essere il Re di Halloween.

Un sentimento del tutto comprensibile, considerando che il protagonista ha vissuto tutta la sua vita circondato ed immerso nella stessa festa e nelle stesse atmosfere, nelle quali non riesce più a trovare la stessa soddisfazione di un tempo…

Scoperta

Jack in Nightmare Before Christmas (1993) di Henry Selick

La scoperta del Natale è in realtà una tentazione.

Il protagonista viene improvvisamente catapultato in un mondo nuovo, in delle atmosfere assolutamente opposte a quelle di Halloween Town, comportandosi proprio come un bambino a Natale.

Tutta l’iconica sequenza di What’s this? (Cos’è) è fondamentale proprio per raccontare l’entusiasmo del personaggio, che così riesce a risolvere la sua crisi d’identità, pur non riuscendo – né ora né dopo – a comprendere davvero la festa di riferimento.

Ma è così splendida questa sua adorabile ingenuità nel cercare di trovare la formula per comprendere il Natale, e nel suo travolgere tutti con un inguaribile trasporto verso questa nuova scoperta, nonostante non sia nelle corde né sue né degli altri personaggi di Halloween.

Ed è ancora più irresistibile quando assistiamo ai tentativi del tutto ingenui dei suoi concittadini nel creare questo Natale alternativo, senza averne capito l’essenza, anzi contaminandolo costantemente – ed inconsapevolmente – con la loro festa di riferimento.

Ma non tutti sono convinti…

Cassandra

Sally in Nightmare Before Christmas (1993) di Henry Selick

Sally è un personaggio molto meno banale di quanto potrebbe pensare.

Una sorta di rilettura di Frankenstein: una bambola di pezza che, come Jack sta attraversando una crisi esistenziale, è in una sorta di fase adolescenziale, che la porta ad essere totalmente invaghita del protagonista.

Al contempo è anche un personaggio particolarmente ingegnoso, del tutto consapevole delle sue potenzialità – poter usare le parti del corpo a suo piacimento – e anche piuttosto abile prima nello sfuggire dalle grinfie del suo creatore, poi nel gabbare – almeno momentaneamente – il terribile Bau Bau.

Sally in Nightmare Before Christmas (1993) di Henry Selick

Al contempo, Sally ha il ruolo di Cassandra.

Infatti, quando entra per la prima volta in contatto con il Natale, vede la piantina natalizia bruciarsi fra le sue mani: un oscuro presagio della futura disfatta di Jack, che il suo personaggio cerca più volte di spiegare al protagonista, rimanendo però inascoltata.

Così, davanti alla totale cecità di Jack, Sally è protagonista di forse non la canzone più iconica della pellicola, ma sicuramente di una sequenza molto sentita e soffertaSally’s song o La Canzone di Sally – in cui malinconicamente ammette che il suo sogno d’amore è irrealizzabile.

Ingenuità

Jack e Babbo Natale in Nightmare Before Christmas (1993) di Henry Selick

L’ingenuità di Jack non ha limiti.

Essendosi ormai intestardito nel suo progetto, il protagonista non vede nulla di male persino nel rapire Babbo Natale – anzi, pensa di stargli regalando finalmente una vacanza – e così niente di pericoloso nell’affidarsi ai maligni aiutanti di Bau Bau,

Ma, nonostante i suoi tentativi di spiegare il Natale – che, ricordiamolo, neanche lui capisce – ai suoi concittadini, i regali sono terribili, incapaci – per ovvi motivi – di portare gioia ai bambini, ma più che altro utili a regalare un profondo senso di orrore ed inquietudine.

Ma neanche questo basta a fermarlo.

In questo senso, la caduta del protagonista è fondamentale.

Nonostante lo scioglimento della vicenda sia a mio parere un po’ troppo sbrigativo, è necessario che Jack riceva un forte schiaffo che gli faccia comprendere finalmente che non può diventare il protagonista di un’altra festività.

Una realizzazione abbastanza angosciante, che però è sanata da un senso di rivalsa del protagonista, che è comunque felice di averci provato, sentendosi rinvigorito e pronto a riprendere le sue vesti di Re delle Zucche.

Sconfitta

Bau Bau in Nightmare Before Christmas (1993) di Henry Selick

Bau Bau è un villain necessario.

Trovandoci in un mondo dominato dall’orrore, con un protagonista non propriamente positivo, ma anzi a tratti profondamente negativo, il ritorno alla ribalta di Jack necessita della sconfitta di un antagonista ancora più pauroso e indiscutibilmente cattivo.

Infatti, Bau Bau rappresenta la paura massima per un bambino – l’incomprensibile e mutaforma Uomo nero – ed è infatti immerso in un ambiente piuttosto ostile, soprattutto per lo sguardo infantile: una sorta di sala giochi delle torture.

 Nightmare Before Christmas finale (1993) di Henry Selick

In questo modo, Jack ha una doppia rivalsa.

Il protagonista riesce a sconfiggere un villain per cui fin dall’inizio dimostrava una malcelata antipatia, considerandolo probabilmente una sorta di minaccia che poteva mettere in discussione la sua autorità.

E, ovviamente fondamentale nel finale riprendere e riscrivere la malinconica canzone di Sally, ma in positivo, con un finale estremamente felice, in cui Jack riesce finalmente ad aprire gli occhi e a capire cosa si stesse perdendo.

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Polar Express – In cosa credi?

Polar Express (2004) è una delle opere più iconiche della filmografia di Robert Zemeckis – il primo dei due film natalizi che produrrà nel giro di pochi anni insieme a A Christmas Carol (2009).

A fronte di un budget piuttosto ingente per un prodotto animato – 150 milioni di dollari – ebbe un riscontro discreto al botteghino: appena 314 milioni di incasso.

Di cosa parla Polar Express?

Un bambino senza nome, proprio la sera della Vigilia, sembra non riuscire più a credere al Natale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Polar Express?

Capotreno in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

Assolutamente sì.

Il motivo per cui probabilmente Polar Express fu un discreto flop è che non è per nulla un film di Natale in senso classico, né un film propriamente per famiglie: le dinamiche sfiorano il surreale, le atmosfere sono più angoscianti che gioiose, e, sopratutto, la morale è molto atipica e non semplicissima da comprendere.

Infatti, Zemeckis sceglie di portare in scena una concezione del Natale che vada oltre il mero ambito materiale, raccontando degli insegnamenti piuttosto importanti e profondi sul vero significato che dovrebbe avere il periodo natalizio.

Insomma, una pellicola da riscoprire.

Il dubbio

Bambino in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

I primi minuti di Polar Express sono quelli che forse meglio si adattano ad un pubblico infantile.

Infatti, l’incipit racconta dei dubbi del tutto legittimi e naturali che cominciano ad assalire i bambini quando si approcciano al passaggio all’adolescenza, ovvero il momento più tragico della crescita che rappresenta la fine del mondo dei sogni.

Tuttavia, il protagonista non sembra avere un atteggiamento disilluso e distruttivo, ma piuttosto speranzoso: sembra insomma che cerchi in ogni modo di riuscire a credere al Natale e alla narrativa che lo circonda.

Bambino in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

Ma il Polar Express non arriva per convincerlo.

Il conducente del treno gli offre semplicemente la possibilità di salire sul treno e per questo riuscire a vedere con una nuova prospettiva il senso della festività. Tuttavia, non insiste più del dovuto: davanti all’incertezza del bambino, semplicemente, lo lascia a sé stesso.

E infatti è il protagonista che infine decide di accettare questa nuova avventura.

La tasca

Bambino in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

Il viaggio in treno è funzionale al mettere alla prova il protagonista – e non solo lui.

Il bambino si immerge in un panorama particolarmente festoso, ma in cui riesce a fatica a prendere parte tanto che, paradossalmente, le scene iniziali di questa sequenza sono quelle più propriamente natalizie e adatte al target di riferimento – nello specifico, il numero musicale della cioccolata.

Al contrario, più sottili le dinamiche riguardo alla tasca bucata rappresentano l’atteggiamento del protagonista: nonostante il biglietto sia presente nella tasca sana, il bambino prima di tutto cerca nella tasca fallata.

Insomma, gli occhi del protagonista sono fissi verso il lato più inevitabilmente e irreparabilmente disilluso del suo animo, sempre alla ricerca di una prova materiale che c’è ancora qualcosa in cui credere.

Per questo, i suoi coprotagonisti sono fondamentali.

I due opposti

Bambina in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

La ragazzina senza nome e Billy rappresentano due opposti.

La bambina, che fin da subito guarda il protagonista in maniera divertita e concitata, è l’unica che ha già compreso il vero valore del Natale – e che rappresenta la morale del film: non una semplice festa consumistica e materiale, ma un’occasione per essere migliori.

Non a caso, quando cerca di convincere Billy sulla bellezza delle festività, non cita mai i regali, ma piuttosto fa riferimento ai sentimenti positivi e alle atmosfere che rappresentano il periodo natalizio.

Billy in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

Invece, Billy è molto più simile al protagonista.

Il suo personaggio non è sicuro di voler salire sul Polar Express – e quindi di voler credere al Natale – perché, essendo evidentemente molto povero, si rende conto che il periodo natalizio è molto meno piacevole e festoso di quanto si racconti.

Anche se non viene detto esplicitamente, è evidente che con ogni probabilità il sentimento primario di Billy verso il Natale non sia la gioia, ma l’invidia, l’invidia di non poter veramente vivere il periodo con dolci e balocchi, così da sottolineare ancora di più le differenze fra lui e gli altri bambini.

Il biglietto fantasma

Le dinamiche legate al biglietto e all’arresto del treno sono emblematiche.

In entrambi i casi, il protagonista dimostra di custodire dentro di sé i sentimenti che dovrebbero essere propri del Natale: aiutare gli altri – fermando il treno per far salire Billy – e essere onesti e altruisti – cercando sbadatamente di dare alla bambina il suo biglietto smarrito.

Da questo momento, parte la sequenza più surreale della pellicola.

La bambina scompare misteriosamente con il capotreno, e il protagonista sceglie di seguirla per aiutarla, con un susseguirsi di scene che abbracciano più di tutte il taglio onirico e surreale della pellicola.

Fantasma in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

In particolare, per quanto riguarda il fantasma.

Si comprende a posteriori che quel fantasma è assimilabile ai tre spettri che visitano Scrooge in A Christmas Carol (1843), ed infatti è uno dei personaggi che mette più alla prova il protagonista, quasi sbeffeggiandolo.

Non a caso, il fantasma chiede al bambino se crede agli spettri – quindi a lui stesso – proprio a dimostrargli come la sua disillusione nei confronti del Natale sia orientata nel verso sbagliato: la sua adesione allo spirito natalizio è sotto i suoi occhi.

Il freddo Natale

Come per la maggior parte del film, la città del Natale è più lugubre che natalizia.

Infatti, i tre protagonisti incidentalmente entrano all’interno della fabbrica di Babbo Natale, e vedono da vicino le dinamiche del dietro le quinte, muovendosi in ambienti freddi e vuoti, spiando gli elfi che si comportano in maniera quasi maligna.

Questa esplorazione è guidata dalla bambina – l’unico personaggio che conosce davvero il senso del Natale – che riesce a sentire il suono delle campanelle, rappresentative appunto dell’essere effettivamente vicini allo spirito natalizio.

Campanella in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

Il seguente arrivo di Babbo Natale è un momento genuinamente angosciante, in cui letteralmente il bambino non riesce a vederlo, nonostante questo sia davanti ai suoi occhi – e, allo stesso modo, non riesce a sentire la campanella, nonostante sia accanto al suo orecchio.

E qui avviene la svolta.

Il protagonista, dopo l’avventura rivelatoria che ha appena vissuto, si convince infine a riabbracciare lo spirito del Natale, al punto da chiedere a Babbo Natale proprio di poter portare con sé qualcosa che glielo confermi.

Per questo il finale è rivelatorio.

L’insegnamento immateriale

Campanella in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

Ognuno dei protagonisti ha imparato qualcosa.

Anche se la bambina sembrava quella che avesse meno bisogno di apprendere qualcosa, comunque riceve infine un incoraggiamento da parte del capotreno: continuare a credere in sé stessa ed essere una guida per gli altri.

Più complesso è il senso dell’insegnamento di Billy: sul biglietto è scritto count on fare affidamento: il bambino deve ricominciare a credere nel Natale e sulla buona volontà delle altre persone, smettendo di chiudersi in quella sconsolante disillusione.

Ma, sopratutto, si vuole insegnare a Billy – e agli altri bambini – quanto il Natale non sia solamente una festa materiale, basata sui regali che si riceve – e infatti il bambino deve essere capace di attendere il giusto tempo per aprire il suo regalo.

Ma l’insegnamento più importante è quello del protagonista.

Il bambino deve ricominciare a credere, ma non a credere semplicemente a Babbo Natale, ma piuttosto a saper mantenere nel suo animo gli insegnamenti che il Natale dovrebbe portare, indipendentemente dai suoi simboli più materiali.

Per questo la campanella gli viene ridata con una sorta di ammonimento, un feticcio da conservare per essere sicuro di saper ancora credere, a differenza proprio dei suoi genitori e di sua sorella: chi prima chi dopo, tutti loro smetteranno di sentire il suono della stessa.

In questo senso, è più che altro un insegnamento per gli adulti sul non limitare il senso del Natale all’ambito più materiale, e così di abbandonare in fretta il senso di meraviglia e di speranza che caratterizza l’infanzia, ma di mantenere quei sentimenti – e insegnamenti – per tutta la vita.

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Cast Away – Il crocevia

Cast Away (2000) è uno dei film più iconici della filmografia di Robert Zemeckis – che, fra l’altro, lo stesso anno fece uscire un altro prodotto totalmente diverso, Le verità nascoste.

A fronte di un budget piuttosto importante – 90 milioni di dollari – fu un ottimo successo commerciale: quasi 430 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Cast Away?

Chuck è un dipendente piuttosto appassionato della FedEx, che si trova in una situazione ai confini del mondo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Cast Away?

Tom Hanks in Cast Away (2000) di Robert Zemeckis

Assolutamente sì.

Cast Away è stata una bellissima sorpresa: Zemeckis riprese il sodalizio con Tom Hanks dopo l’ancora più iconico Forrest Gump (1998), per confezionare un prodotto piuttosto appassionante e splendidamente diretto.

Infatti, il regista statunitense sceglie consapevolmente di non abbracciare un taglio narrativo troppo idealizzato, preferendo invece una regia al limite del found footage, ma nondimeno ben dosata.

Insomma, da non perdere.

L’incastro perfetto

Tom Hanks in Cast Away (2000) di Robert Zemeckis

L’incipit di Cast Away è ingannevole.

La pellicola non ci introduce immediatamente il protagonista, ma ci accompagna alla scoperta dell’azienda di riferimento – la FedEx – per raccontarci il suo più appassionato dipendente, facendoci anche intendere che il suo lavoro lo tiene lontano da casa.

Così, nonostante l’insistenza del protagonista, le diverse chiamate senza risposta di Kelly ci fanno sospettare che la compagna sia insoddisfatta del comportamento di Chuck, fino al momento in cui va a trovarla in ufficio…

Tom Hanks e Helen Hunt in Cast Away (2000) di Robert Zemeckis

…e invece Kelly e Chuck sono fatti l’uno per l’altra: nonostante la turbolenta agenda del protagonista, i due riescono a trovare l’incastro perfetto nelle loro vite, con in sottofondo una proposta di matrimonio mai avvenuta.

L’ultimo incontro fra i due si chiude con un emozionante commiato, in cui Chuck sembra lasciare alla compagna qualcosa da cui tornare, così da rassicurarla che passeranno il Capodanno insieme come le aveva promesso.

Ma il destino è crudele.

Il grande silenzio

Tom Hanks in Cast Away (2000) di Robert Zemeckis

Già con l’incidente aereo, Zemeckis sperimenta con la regia.

Un utilizzo piuttosto attento di inquadrature sbilenche e imprevedibili, che alternano fra particolari, primi piani e soggettive piuttosto drammatiche del protagonista, lasciando anche il giusto spazio ai frangenti più violenti, permettendo un’immersione nella scena davvero vincente.

Così anche per i primi momenti dell’isola si sceglie un taglio il più possibile verosimile: i tentativi impacciati e disordinati del protagonista di sopravvivere sono del tutto credibili, anzi rappresentano a grandi linee quello che noi stessi faremmo in una situazione analoga.

Tom Hanks e Helen Hunt in Cast Away (2000) di Robert Zemeckis

Così l’intera sequenza è dominata da un costante silenzio, inframmezzato solo dai gemiti e dalle poche parole che il protagonista pronuncia, mentre la frustrazione e la disperazione lo assalgono…

…soprattutto quando cerca di trovare qualche uso per quei pacchi della FedEx, un tempo fondamentali, ora di dubbia utilità.

Infatti appare evidente che la più grande sofferenza di Chuck non sia la mancanza di cibo, ma la profonda solitudine che lo divora, la devastante frustrazione che lo obbliga a stare in silenzio e non poter neanche esprimere ad alta voce i suoi pensieri…

E così avviene il cambiamento.

Wilson, mi ascolti?

Tom Hanks e Helen Hunt in Cast Away (2000) di Robert Zemeckis

Il punto di svolta è definito da due momenti – l’uno conseguente all’altro.

Il primo ovviamente è Wilson, a cui Chuck sceglie di dare un volto per giustificare un dialogo con lui, riuscendo finalmente a vincere questo assordante silenzio, e così ad avere uno scambio utile non solo a non impazzire, ma anche a mettere in ordine le idee.

Questa scelta rappresenta proprio la consapevolezza di Chuck sul fatto che questa situazione anomala non si risolverà tanto in fretta.

Da qui, la scelta di togliersi violentemente il dente guasto.

Tom Hanks e Helen Hunt in Cast Away (2000) di Robert Zemeckis

Non a caso, proprio da qui parte un salto in avanti nel tempo di ben quattro anni, che ci rivela un protagonista ben più disperato, che ormai vive in funzione di due elementi: il ricordo di Kelly, che sia va via sbiadendo come la sua foto, e il dialogo con Wilson, che ha cercato di rendere un interlocutore sempre più credibile.

Così, quando sembra davvero al limite della disperazione e della follia, tornato al suo stato naturale, in realtà Chuck dimostra una sorprendente lucidità nel continuare a cercare di trovare una via di fuga – persino tramite il suicidio.

Per questo, l’effettivo abbandono dell’isola è un momento chiave piuttosto potente.

In particolare, per quanto riguarda Wilson: prima di partire Chuck gli regala una forma definitivamente umana – un corpo di legno – per poi perderlo nei flutti, disperandosi all’idea di aver maltrattato quello che per me anni era stato il suo unico compagno di vita.

Il crocevia

Nei suoi momenti finali, Cast Away sceglie di non banalizzarsi.

Sarebbe stato molto facile cavalcare l’onda emotiva di Chuck e Kelly, e così disfare quel matrimonio probabilmente di ripiego per ricomporre la coppia – e in effetti l’incontro a casa della donna, con anche la corsa disperata sotto la pioggia, farebbe intendere questa direzione.

E invece la scrittura ci sorprende.

Riportando Kelly a casa, Chuck prende finalmente consapevolezza di un concetto molto importante: come la sua vita non era finita il giorno in cui è naufragato, come non è finita quando ha provato a suicidarsi, così non è finita adesso che non può più realizzare il suo sogno d’amore.

Infatti, nel finale il protagonista si trova in un effettivo crocevia: il destino gli sta dando l’occasione di una nuova vita, di provarci con un’altra donna a cui sembra inevitabilmente collegato proprio per la sua avventura.

E così Chuck si posiziona al centro dell’incrocio e guarda serenamente in camera, come a dirci:

E adesso cosa facciamo?

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1917 Avventura Azione Dramma storico Drammatico Film Film di guerra i miei film preferiti Racconto di formazione

1917 – La guerra tragica

1917 (2019) di Sam Mendes è uno dei più ambiziosi film di guerra dello scorso decennio, anche solo per l’utilizzo totale del piano sequenza.

A fronte di un budget non poco importante – 90 milioni di dollari – è stato un grande successo commerciale: 384 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla 1917?

1917, Fronte Occidentale. I due giovani soldati Tom Blake e William Schofield vengono incaricati di fare da messaggeri per una comunicazione fondamentale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere 1917?

Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes

Assolutamente sì.

1917 è un’opera di altissimo valore artistico, sia per l’utilizzo sapiente del piano sequenza – con diversi trucchi scenici per renderlo effettivamente possibile – sia per la grande sperimentazione sul lato della fotografia e della resa scenica.

Di fatto Sam Mendes riprende una trama tipica non tanto dei film di guerra, ma della narrativa bellica stessa – specificatamente quella statunitense – degli eroi per caso, riportandola però su un livello molto più terreno e realistico.

Insomma, da non perdere.

Il risveglio

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
Io non so ben ridir com'i' v'intrai / tant' era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai (Inf. I, 10-12)

L’incipit di 1917 ci racconta già tutto del protagonista.

Will rimane per diversi minuti in primo piano, apparentemente addormentato, in realtà scegliendo consapevolmente di ignorare quello che gli succede intorno, preferendo invece sonnecchiare qualche momento in più.

Intanto, alle sue spalle, il compagno Blake si leva immediatamente, immediatamente è un soldato pronto all’azione, ed è anche il personaggio che incoraggia il protagonista a tirarsi in piedi e a cominciare la narrazione.

George MacKay e Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes

Così anche il dialogo seguente è rivelatorio.

Blake legge felicemente la sua lettera, dimostra un importante legame con la realtà oltre al fronte – anche per la presenza del fratello – mentre Will si dimostra piuttosto distaccato, e si rianima solo quando comincia a mangiare il suo panino.

Il panino – come poi il vino scambiato per la medaglia – rappresenta lo stato iniziale del protagonista: Will ha scelto di abbandonare la sua vita precedente, di non ritornare a casa e di vivere sul momento, pensando solo alle necessità immediate.

Per questo insiste così tanto nel non voler partire per la missione – cercando di distogliere il compagno da quell’idea in più occasione – non riuscendo a sentire il medesimo slancio nel voler portare a termine la missione.

Il limbo

George MacKay e Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
Allora si mosse, io li tenni dietro (Inf. I, 36)

La sezione della Terra di nessuno è incredibilmente ingannevole.

In più momenti il film cerca di convincerci che Will sia il personaggio destinato a morire – quando si ferisce la mano nel filo spinato, quando rimane vittima della bomba… – e forse anche quello che in qualche maniera se lo merita di più.

Infatti, come Blake è sicuro e impegnato nella sua missione, mosso soprattutto dal desiderio di riabbracciare il fratello, al contrario Will è amareggiato e disilluso, con l’apice drammatico rappresentato dal suo racconto sul perché si è liberato della medaglia e sul perché non vuole tornare a casa.

George MacKay e Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes

Lo stesso paesaggio è illusorio.

I due personaggi si muovono in uno spazio dove tutto sembra ormai già successo, dove la tragedia si è già consumata, tanto che le vittime ormai fanno parte del paesaggio stesso, nel ruolo di grotteschi punti di riferimento.

Questo inganno prosegue fino alla fine della sezione – l’arrivo alla fattoria – raccontando un mondo apparentemente immobile, ma in realtà incredibilmente attivo e reattivo nei confronti dei viaggiatori, pronto ad intrappolarli

E infatti…

Fervore

George MacKay e Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
ma Virgilio n'avea lasciati scemi di sé, Virgilio dolcissimo patre, Virgilio a cui per mia salute die'mi (Pur. 49-51)

Con la morte di Blake, Will acquisisce nuove consapevolezze.

Avendo scelto ormai da tempo di chiudere il suo cuore a qualunque sentimento, davanti alla morte di un innocente, davanti all’impossibilità di salvarlo – nonostante la possibilità fosse a portata di mano – il protagonista si risveglia.

Per quanto già nella sequenza successiva sembri ingoiato dalla scena, rimanendo una presenza silenziosa durante i dialoghi dei soldati sul camioncino, in realtà al primo intoppo della missione si riscopre incredibilmente attivo e coinvolto.

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes

La morte di Blake rappresenta insomma per Will un risveglio di coscienza, la riacquisizione di un senso di impegno e di importanza, anche se non della guerra, ma, piuttosto, della vita umana: come il compagno è ingiustamente morto, così la vita di molti soldati è nelle sue mani.

Il distacco dai discorsi propagandistici è esplicitamente raccontato dal breve scambio fra i giovani sul camioncino: soldati che non parlano né di gloria né di nemici, ma bensì esprimono pensieri molto più pratici, splendidamente ingenui.

Fra tutti, mi ha colpito profondamente il discorso di uno dei soldati riguardo ai tedeschi:

Why they just don’t bloody give up? Don’t they wanna go home?

Perché cavolo non si arrendono poi? Non li aspettano a casa?

La Genna

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
e caddi come l'uom cui sonno piglia (Inf. III, 136)

Come in qualche modo gli aveva predetto il suo superiore – Giù nella Geenna (l’inferno) o su al trono nel cielo più rapido viaggia chi viaggia da soloWill si trova da solo nel primo effettivo fronte

…o il primo effettivo inferno.

E se la luce poteva aiutarlo a muoversi in un panorama meno angosciante, uno sfortunato incontro con il nemico lo porta a cadere svenuto per diverse ore, ritrovarsi infine sveglio in un panorama che vive di una totale dualità.

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
Quell'è 'l più basso loco e' l più oscuro, è 'l più lontan dal ciel che tutto gira (Inf. IX, 28-29)

Tenebra e fuoco.

Comincia così una corsa disperata fra l’oscurità e la fiamma, riuscendo solo in parte a portare a termine il suo nuovo proposito, ereditato da Blake: salvare più vite possibili lungo il suo cammino.

A poco serve la lieta sosta con la ragazza, con la quale si spoglia di tutti i suoi averi, perché il tocco improvviso delle campane gli ricorda che il suo viaggio non è finito: ci sono ancora nemici da uccidere, pallottole da evitare, tragedie da sventare…

La quiete

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
Tratto m'avea il fiume infin la gola, e tirandosi me dietro sen giva sovresso l'acqua lieve come scola (Purg. XXXI, 94-96)

L’inizio dell’atto conclusivo di 1917 ha più significati.

La fuga nel fiume sembra inizialmente portarlo ad un inferno ancora peggiore, trovandosi totalmente travolto dai flutti, sospinto verso una cascata, inghiottito dall’acqua che sembra volerlo seppellire…

…per poi riemergere, dolcemente accarezzato dalle prime luci del mattino, ormai distrutto dal viaggio, ma trovandosi circondato da un simbolo che gli ricorda indirettamente Blake e la sua missione: i petali di ciliegio.

E una melodia dolce correva per l'aere luminoso (Purg. XXIX, 22-23)

In questa apparente calma Will si trascina lentamente fuori dal fiume e attraverso il boschetto, guidato dal dolce canto dei soldati in lontananza, come raccolti in preghiera, a cui si mischia ormai provato dal viaggio.

Di nuovo Will è uno spettatore silenzioso, che si risveglia improvvisamente quando i personaggi intorno a lui gli fanno intendere che è arrivato alla fine del viaggio, ma che ancora deve affrontare l’ostacolo più arduo: riuscire a farsi credere.

Agli occhi dei soldati e soprattutto degli ufficiali infatti il protagonista non è altro che un ragazzino impaurito che farfuglia cose senza senso, mentre si vede sfuggire dalle mani centinaia di vite che non ha potuto salvare…

La corsa

È a questo punto che Will dimostra veramente di essere cambiato.

Se all’inizio della pellicola era un soldato cinico e ignavo, che non voleva neanche lasciare la sicurezza della sua trincea, ora è una forza irresistibile, pronto persino a buttarsi in mezzo alla battaglia pur di portare a termine la sua missione.

Ma la sua apparente vittoria non è che l’anticamera di una lenta ma fondamentale realizzazione: sia nel dare la notizia della tragedia scampata che della morte di Blake, Will trova nei suoi interlocutori una profonda impotenza, un’insoddisfazione, persino un malcelato nervosismo.

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
se non che la mia mente fu percossa da un fulgore (Par. XXXIII, 140-141)

Probabilmente le sue azioni saranno premiate con una fondamentale spilla da portare al petto, ma il vero guadagno di Will è l’amara realizzazione che questo era solo un altro giorno al fronte.

La guerra non è finita oggi: oggi ha solo salvato un pugno di innocenti che domani probabilmente moriranno comunque, in questa spirale di dolore e violenza che è ancora lontana dall’esaurirsi.

Ma almeno ora il protagonista ha il coraggio di guardare le foto della sua famiglia, di ricominciare a pensare ad una realtà altra oltre a quella del fronte, un paradiso forse, a cui guardare in questo attimo di quiete…

…prima del prossimo massacro.

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Avventura Azione Cult rivisti oggi Dramma romantico Drammatico Film Unconventional Christmas

Die Hard – Il gioco delle maschere

Die Hard (1988) di John McTiernan – in Italia noto anche come Trappola di cristallo – è uno dei più grandi cult del cinema action, nonché il film che lanciò la carriera di Bruce Willis.

A fronte di un budget di circa 30 milioni, fu un grande successo commerciale: 140 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Die Hard?

John McClane è un poliziotto di New York che approda a Los Angeles per passare le vacanze con la famiglia. Ma qualcosa di inaspettato sta per metterlo alla prova…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Die Hard?

Bruce Willis in una scena di Die Hard (1988) di John McTiernan

Assolutamente sì.

Die Hard è un action movie incredibile, che è riuscito ad incantare persino una non amante del genere come me.

Infatti, questa pellicola adrenalinica non ha paura di sporcarsi le mani, di portare in scena sequenze cariche di tensione e di salvataggi all’ultimo secondo, impreziosite da una costruzione dei caratteri dei personaggi davvero notevole.

Insomma, da non perdere.

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Avventura Cinema per ragazzi Commedia Commedia nera Cult rivisti oggi Dramma familiare Drammatico Fantastico Film Grottesco Horror Humor Nero Unconventional Christmas

Gremlins – La commedia dei cattivi sentimenti

Gremlins (1984) è uno dei maggiori cult del cinema per ragazzi Anni Ottanta, per la direzione di Joe Dante e la fantastica sceneggiatura di Chris Columbus.

A fronte di un budget molto ridotto – appena 11 milioni di dollari, circa 32 oggi – fu un enorme successo commerciale, con 213 milioni di incasso (circa 621 oggi).

Di cosa parla Gremlins?

Lo stravagante inventore Rand visita una piccola bottega delle stranezze a Chinatown, dove trova un animaletto molto particolare, un mogwai

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gremlins?

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Assolutamente sì.

Gremlins è un horror per ragazzi di grande valore, che gode di una scrittura veramente ottima e puntuale, che introduce gradualmente gli eventi con un raro equilibrio fra l’orrore e il grottesco, riuscendo al contempo ad ammorbidire i toni per renderlo adatto al target.

Oltre a questo, il character design dei gremlins è incredibile e così anche la loro messinscena, che riesce a farli passare non come dei meri pupazzoni, ma come delle creature vive ed incredibilmente espressive.

Insomma, non ve lo potete perdere.

La minaccia sotterranea

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Per quanto il primo atto sembri raccontare una storia piacevole ed accogliente, diversi elementi in scena mostrano tutt’altro.

I personaggi sono totalmente immersi in questo sogno del nuovo animaletto domestico – il cui character design ricorda l’unione fra un coniglio, un orsetto e un pipistrello – che sembra totalmente innocuo, una piacevole aggiunta al quadro familiare.

Questa sensazione di apparente tranquillità rende i personaggi umani del tutto sbadati e poco attenti alla cura dello stesso, agendo più volte in maniera molto ingenua, tanto da essere loro stessi i fautori dell’incubo che verrà.

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Ma ci sono diversi indizi di quello che sta per succedere.

L’elemento più palese è l’inserimento di diverse scene del classico della fantascienza L’invasione degli ultracorpi (1956), che parla proprio di un’invasione segreta di alieni che si moltiplicano e si sostituiscono gli umani.

Ma l’indizio più sottile, ma assolutamente perfetto, è il siparietto comico in cui Rand sta testando la sua nuova invenzione: inizialmente le carte escono ordinatamente e sono controllate…ma poi la situazione gli sfugge di mano, e cominciano a moltiplicarsi fin troppo velocemente…

…proprio quando il figlio sta per venirgli a raccontare dei gremlins che si stanno riproducendo.

Introdurre il mostro

La maestria di Gremlins è anche il saper raccontare coi giusti tempi il villain della storia.

Anzitutto, i nuovi arrivati si dimostrano fin da subito ben diversi dal loro genitore – Gizmo – molto più irruenti e dispettosi – come dimostra, fra gli altri, il brutto scherzo nei confronti del cane, Barney.

E per questo il punto di svolta è così rivelatorio.

Infatti, quando Billy offre ai gremlins le cosce di pollo, questi ci banchettano felicemente, mentre Gizmo, come se fosse consapevole della situazione, le rifiuta…

Billy in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

La trasformazione dei gremlins è, fra l’altro, una bellissima citazione al suddetto L’invasione degli ultracorpi, ma anche ad Alien (1979): oltre ai gusci molto simili alle uova dello xenomorfo, anche il comportamento degli umani è simile.

Infatti, come nel cult di Ridley Scott, i personaggi umani sono anche fin troppo entusiasti di questa nuova situazione – particolarmente il professor Hanson – fino ad arrivare all’inquietante sottofondo della proiezione scientifica, che apre le porte alla trasformazione…

Così, come nei migliori film del genere, il mostro è tenuto fuori dalla scena per molto tempo, ma la sua presenza è costante: dall’assassinio del professore fino all’improvviso attacco ai danni di Billy.

Infine, la rivelazione effettiva avviene nella cucina, in cui la madre del protagonista, quasi come una novella Ripley, è la prima ad affrontare e riuscire in parte a sconfiggere questi orribili mostri.

E anche qui il film riesce a stupire.

Un film per bambini?

Ciuffo Bianco in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

L’atto centrale, quanto quello conclusivo, godono di una rara maestria di scrittura.

In questo caso si mostra ancora più evidentemente la doppia natura del film, che riesce a mantenersi adatto per il target, pur mettendo in scena una violenza veramente sorprendente, a partire dai modi in cui la madre di Billy elimina i mostriciattoli…

Più volti al lato comico sono invece i vari siparietti degli scherzi dei gremlins e il loro comportamento incredibilmente caotico: dall’assalto al bar con Kate, in cui sbevazzano e fumano – e persino la importunano! – fino alla mia scena preferita: il coro di Natale.

Ciuffo Bianco in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

I gremlins si rivelano insomma per quello che sono: mostriciattoli dispettosi, financo particolarmente spietati – tanto da distruggere una casa – ma, al contempo, anche la perfetta evoluzione di Gizmo.

Infatti, i suoi figli ne riprendono i caratteri, ma li mutano in maniera mostruosa: dalle orecchie da coniglio a quelle di un pipistrello, dai tratti dolci del viso e gli occhioni liquidi agli occhi rossi ed ai lineamenti serpentini…

Una deformazione particolarmente sottolineata quando gli stessi vengono messi a confronto con i nani durante la visione di Biancaneve e i sette nani (1937), di cui i gremlins imitano perfino le canzoni…

Ciuffo Bianco in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

E questa dicotomia fra l’essere dei futuri giocattoli per bambini al riprendere le fattezze dei più famosi villain dei classici della fantascienza li accompagna fino alla fine, soprattutto nella sequenza del negozio per bambini…

Così anche nel finale: se la morte di Ciuffo Bianco richiama involontariamente l’iconica scena di Terminator (1984), la chiusura del film cerca di ammorbidire i toni, raccontandosi come la conclusione di una favola di Natale, ma con troppi elementi horror per davvero poterla considerare tale…

E a questo proposito…

Un Natale diverso

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Un aspetto che davvero sorprende di Gremlins è quanto poco sia associabile ad un film di Natale.

Nonostante il clima festivo sia presente fin dall’inizio, è disturbato da moltissimi elementi che raccontano un Natale davvero diverso, quasi malinconico: dalla cattiveria gratuita della Signora Deagle alla triste storia della morte del padre di Kate.

Una scelta che può sembrare banale, ma che in realtà è un modo intelligente per equilibrare i toni della pellicola, senza voler mostrare una disparità troppo grande fra l’orrore dei gremlins e l’atmosfera delle feste.

Peculiare in particolare la mancanza di una ricongiunzione finale dei personaggi, ma che non stupisce se si pensa al film di cui Chris Columbus si occuperà una decina di anni dopo: Mamma ho perso l’aereo (1990), per molti versi l’apoteosi della commedia dei cattivi sentimenti.

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Avventura Dramma storico Drammatico Film Film di guerra L'altro lato del fronte

Vittime di guerra – L’incubo sommerso

Vittime di guerra (1989) è uno dei più interessanti film bellici del secolo scorso, per la regia di Brian De Palma, che poté dirigere due attori incredibili come Sean Penn e soprattutto Michael J. Fox, che dimostrò di saper fare anche molto altro oltre che Ritorno al futuro…

A fronte di un budget piuttosto contenuto per il tipo di produzione – appena 22 milioni di dollari, circa 54 oggi – fu comunque un pesante flop commerciale: 18 milioni di incasso (circa 44 oggi).

E i motivi sono piuttosto evidenti.

Di cosa parla Vittime di guerra?

Vietnam, 1966. Dopo avergli negato il ritiro in un bordello, Meserve ordina alla sua squadra di rapire una ragazza vietnamita per divertirsi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Vittime di guerra?

Michael J. Fox in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

Assolutamente sì.

Ma.

Vittime di guerra è uno di quei rari casi in cui un prodotto statunitense a tema bellico non si perde in una esaltazione degli eroi del fronte occidentale, ma sceglie di mostrare una realtà molto più amara e lontana dalla classica propaganda.

Tuttavia, se La sottile linea rossa (1998) è già di per sé un film piuttosto impegnativo emotivamente, la pellicola di De Palma può risultare una visione realmente devastante, visto il tipo di tematica trattata…

Ma ne vale assolutamente la pena.

Pedine

Michael J. Fox in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

La guerra è disumanizzante.

I soldati sono calati in un contesto fortemente gerarchico, in molti modi spersonalizzati e ridotti a mere pedine, tanto che l’importanza della loro morte è del tutto ininfluente nel grande schema delle cose – anzi rappresenta sostanzialmente la quotidianità.

Ma, del tutto consapevoli di quanto sia opprimente una vita vissuta schiacciati sotto al peso di una morte imminente e di una disciplina stringente, sono gli stessi superiori che perdonano le peggiori oscenità dei loro soldati e cercano anzi di trovare uno sfogo a queste mine vaganti.

Ma se vengono privati anche di questo sfogo…

Il valore?

Sean Penn in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

Lo stupro nel film ha molti significati, ma nessuno strettamente sessuale.

In primo luogo, lo stupro è una ribellione: vedendosi negato anche quel poco di libertà, di sfogo, Meserve si rivolta contro il sistema e organizza la sua rivincita – come un bambino che non può avere il giocattolo desiderato, e quindi lo ruba.

Ma la ribellione non basta.

Michael J. Fox e Sean Penn in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

Non basta rapire una donna e dire di volerla violentare, se poi non si è capaci di farlo.

In questo senso l’atteggiamento ambiguo del personaggio ne rivela le due facce: da una parte un atteggiamento più umano, comprensibile, che lo porta persino a cercare sulle prime di curare ed accudire la sua preda.

Dall’altra, lo scoppio della violenza è paragonabile ad un bambino che vuole vedere quanto in alto può saltare prima di essere punito: una reazione selvaggia, senza freni, che serve solamente a dimostrare che Tony può violentare quella donna, è capace di farlo.

Concetto che si va ben ad inserire nella bidimensionalità della mentalità militare.

La bidimensionalità

Sean Penn in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

La guerra è bidimensionale.

In un mondo in cui se non vuoi essere pedina, se non vuoi essere un perdente, devi essere un eroe, devi dimostrare di sapere fare la guerra, non ci sono vie di mezzo: americano o vietcong, amico o nemico, vero uomo o frocetto…

Per questo lo stupro è, di fatto, una prova.

È una prova anzitutto per Meserve, verso sé stesso e verso gli altri, ed è una prova a cui deve sottoporre tutti i suoi compagni, per capire se sono uomini di valore o solo destinati ad una cassa da morto

Michael J. Fox in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

Allo stesso modo, la donna non è più una donna, ma uno strumento, una puttana, da utilizzare e da buttare via all’occorrenza, per dimostrare di essere capaci di percorrere fino in fondo quella strada verso la dimostrazione della propria virilità.

Una virilità incredibilmente violenta, come racconta molto bene la posizione di potere di Clark – con le gambe divaricate – con cui afferma di averle dato diversi colpi – col coltello e col pene – e per come lo stesso Meserve definisce il fallo un’arma.

Proprio per questo ogni volta il sergente sceglie di lasciare per ultimo Clark – nel turno della violenza – o di escluderlo dall’uccisione della donna: Meserve sa già quanto quell’uomo sia la perfetta rappresentazione della virilità violenta, che non ha bisogno di essere dimostrata ulteriormente.

Sean Penn in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

E così, anche la guerra è una prova.

Nelle sottili dinamiche della Guerra Fredda, un conflitto fatto più di sotterfugi e di mosse politiche che di vera forza fisica, una prova armata era fondamentale per riaffermare il dominio militare degli Stati Uniti – dovunque questo si potesse applicare.

E così il grosso fallo degli States affondò sul Vietnam.

Il risveglio

Michael J. Fox in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

Fra tutti, Eriksson è il personaggio più simbolico.

Se i suoi compagni raccontano la ferocia della guerra e di crimini spesso sommersi, il giovane soldato rappresenta una sorta di risveglio – o un auspicato risveglio – degli Stati Uniti, un ripensamento delle sue colpe.

In diverse occasioni Eriksson cerca di salvare o aiutare la donna, ma viene impedito dal peso della colpa dei suoi compagni: quando cerca di spogliarla per pulirle le ferite o di portarla via dall’accampamento, ogni volta la giovane si ribella.

Michael J. Fox in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

Non basta infatti solo una buona azione, non basta l’intenzione di riparare una colpa, per impedire che questa scintilla venga ingoiata nell’abisso della terribile reputazione e dell‘infamia che ha ormai macchiato una nazione.

E, anche quando effettivamente la giovane si fida di lui, lo stesso Eriksson è frenato dalla sua morale, che gli impedisce di diventare effettivamente un vergognoso disertore, di puntare il fucile verso i suoi compagni, nonostante questi siano degli stupratori e degli assassini.

Con poche righe di sceneggiatura De Palma riesce a raccontare l’animo contrastato e autodistruttivo di una nazione, che, nonostante sia consapevole delle sue follie anacronistiche – fra tutti, il possesso delle armi – è così ubriaca di una certa mentalità che le è veramente impossibile disfarsene.

Ma forse un risveglio è possibile.

Il regista gioca doppiamente con l’elemento onirico: Eriksson si sveglia improvvisamente da quel sogno, da quella realtà opprimente e definitiva, per rendersi conto che – forse – un’altra realtà è possibile.

Una realtà in cui la giovane vietnamita non è mai stata rapita né violentata, ma vive serenamente la sua vita senza paura di essere aggredita o privata della sua casa, dove anzi suggerisce all’ex-soldato (?) che la tragedia bellica era solo un incubo.

Ma allora qual è veramente il sogno: la guerra o un mondo senza la stessa?

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Avventura Azione Back to...Zemeckis! Commedia Drammatico Film

All’inseguimento della pietra verde – Un classico inizio

All’inseguimento della pietra verde (1984) è uno dei primi film di Robert Zemeckis, nonché il primo titolo con cui riuscì ad ottenere un successo commerciale, appena prima del fenomeno di Ritorno al futuro (1985).

Infatti, a fronte di budget abbastanza contenuto – appena 10 milioni di dollari, circa 30 oggi – incassò 115 milioni in tutto il mondo (circa 340 oggi)

Di cosa parla All’inseguimento della pietra verde?

Joan Wilder è una scrittrice di romanzi rosa di grande successo, che si ritrova coinvolta in un’avventura che sembra uscita da uno dei suoi libri.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere All’inseguimento della pietra verde?

Danny De Vito in una scena di All'inseguimento della pietra verde (1984) di Robert Zemeckis

In generale, sì.

All’inseguimento della pietra verde è un titolo forse più acerbo all’interno della brillante carriera di Robert Zemeckis: pur giocando con il genere avventuroso e cercando di offrirgli un taglio più realistico, spesso la pellicola ricade negli stereotipi più classici di questo tipo di film.

Tuttavia, questo elemento può risultare in una piacevole visione di un prodotto che, se preso con il piglio giusto, può risultare incredibilmente intrattenitivo e piacevole da guardare, forte anche di una coppia di attori di grande valore.

Insomma, vale una visione.

Un’inguaribile sognatrice

L’incipit del film ha più significati.

All’inseguimento della pietra verde si apre con una scena che appare fin da subito artificiosa, con una dramma spinto all’inverosimile per dare modo di strappare più di una lacrima allo spettatore.

Oltretutto, i personaggi in scena appaiono, anche scenicamente parlando – la persistente ombra sul viso della protagonista – dei placeholder per la scrittrice stessa, talmente coinvolta nella storia che racconta da sognare di farne parte.

Mi ha stupito in particolare il forte sottofondo erotico della scena, con anche la macchina da presa che indugia molto spesso sulle forme della protagonista, elemento che rimarrà costante per tutto il resto della pellicola anche nelle interazioni fra Jack e Joan.

Forse in maniera anche fin troppo avanguardistica, si potrebbe leggere l’avventura della protagonista non tanto come un modo semplicemente per trovare quell’amore che fino a quel momento era limitato alla finzione, ma forse proprio per conquistare una soddisfazione sessuale…

Tipico?

Michael Douglas e Kathleen Turner in una scena di All'inseguimento della pietra verde (1984) di Robert Zemeckis

Il rapporto fra Joan e Jack comincia come il più classico enemy to lovers.

Il protagonista maschile sembra fin da subito volersi solamente approfittare di questa donna così apparentemente smarrita ed indifesa, tramando anche alle sue spalle per ottenere il tanto desiderato tesoro.

Ma in realtà il suo ruolo è fortemente depotenziato.

Michael Douglas e Kathleen Turner in una scena di All'inseguimento della pietra verde (1984) di Robert Zemeckis

Sicuramente Jack ha il suo piccolo arco narrativo e viene in qualche modo smascherato da Ralph…

…ma in realtà Joan è spesso diversi passi avanti a lui.

Infatti, la protagonista gode di ampi spazi di autonomia, in cui riesce spesso a salvare sé stessa prima ancora che la sua controparte maschile riesca anche solo a raggiungerla – particolarmente nel finale – riuscendo a sfruttare la sua astuzia per battere nemici ben più minacciosi e imponenti di lei.

E di fatto la sua vittoria è il portare nella realtà le sue stesse storie, e così diventare una donna attiva e altrettanto vincente come le sue protagoniste.

Cosa poteva essere…

Kathleen Turner in una scena di All'inseguimento della pietra verde (1984) di Robert Zemeckis

In chiusura, parliamo di cosa questo film sarebbe potuto essere.

Se questo film fosse stato girato più avanti negli anni, dopo magari aver dimostrato la sua brillantezza di scrittura e regia in Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988), forse Zemeckis avrebbe potuto portare in scena un film più arguto, magari giocando di più sulla parodia o sul contrasto fra realtà e finzione letteraria.

E sarebbe stato un valore: All’inseguimento della pietra verde è uno dei pochi prodotti in cui il regista porta in scena un personaggio femminile effettivamente tridimensionale, a differenza dei successivi – soprattutto nella trilogia di Ritorno al futuro – dove le figure femminili sono molto meno importanti ed approfondite…