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Il villaggio dei dannati – La prole mostruosa

Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter, conosciuto anche come John Carpenter’s Village of the Damned, è il remake dell’omonimo film del 1960.

Nonostante il finale fosse piuttosto aperto, il film fu un tale fiasco al botteghinoappena 9,4 milioni di dollari di incasso a fronte di un budget di 22 milioni – che non se ne sentì più parlare…

Di cosa parla Il villaggio dei dannati?

In una tranquilla cittadina della California un improvviso blackout fa svenire tutti gli abitanti della città. Subito dopo, molte donne si ritrovano improvvisamente incinte…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il villaggio dei dannati?

Lindsey Haun in una scena di Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter

Dipende.

Il villaggio dei dannati purtroppo non si può annoverare fra le migliori opere del maestro dell’horror americano, in particolare per via di una sceneggiatura estremamente debole e difettosa – e, infatti, non opera di Carpenter – pur a fronte di un primo atto salvato da una regia ed un montaggio ben pensati.

Uno di quei film da vedere senza farsi aspettative, ma magari rimanendo intrattenuti dall’assurdità delle svolte narrative e dall’incubo degli effetti speciali – ingiustificabili davanti ad un The Thing (1982) di pochi anni prima.

Insomma, abbastanza dimenticabile, ma non tutto da buttare.

Un buon inizio

Il primo atto de Il villaggio dei dannati è il meglio riuscito.

La tranquillità della fiera cittadina viene stravolta da un blackout improvviso, senza che ci sia alcun tipo di preparazione in merito, riuscendo effettivamente a prendere contropiede lo spettatore, con anche una regia piuttosto indovinata.

Altrettanto azzeccato è il montaggio successivo, in cui si susseguono diverse scene con dialoghi spezzati, in cui le donne del paese scoprono della loro improvvisa gravidanza, con alternanza di gioia e di profonda angoscia, sopratutto da parte del pensieroso Dottor Alan.

Lo scambio fra il suo personaggio e Jill fa da prologo ad un’inquietudine che serpeggia costante anche nei momenti subito successivi, a fronte di una scena anche troppo realistica in cui il governo prende i cittadini per il portafoglio, riuscendo a renderli protagonisti del suo piccolo esperimento scientifico.

Così, al netto degli effetti speciali tremendi, la prima vittima di questi terribili bambini è al centro di una scena complessivamente ben raccontata, in cui il terrificante potere dei neonati nel controllare la volontà degli adulti viene mostrato in tutta la sua drammaticità.

Ma i problemi cominciano dopo.

Una terrificante ingenuità

Kirstie Alley in una scena di Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter

Per ovvie necessità di sceneggiatura, i bambini demoniaci non potevano rimanere neonati…

…ma è assurdo come gli adulti si comportino con loro.

Sarebbe bastata una linea di sceneggiatura per raccontare la crescita vertiginosamente veloce di questi infanti, così da superare il pesante problema della poca credibilità del secondo atto: se i bambini sono cresciuti naturalmente, dovrebbero ormai essere passati quantomeno dieci anni…

…e così non è verosimile che gli adulti – non invecchiati neanche di un minuto – sembrino raggiungere la consapevolezza della pericolosità di questi personaggi solamente a questo punto, come se prima il pericolo non fosse visibile.

Lindsey Haun in una scena di Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter

L’unica parte che effettivamente funziona di questo atto centrale è lo scambio fra i bambini e la Dottoressa Susan – il personaggio più magnetico della pellicola – e il terribile incidente oculistico, che mostra come queste creature siano davvero vendicative e senza pietà.

Al contempo, Carpenter ebbe la fortuna di lavorare con dei bambini piuttosto abili nel reggere la parte, particolarmente la brillante Lindsey Haun, che interpreta la terribile Mara – in un certo senso il villain principale della pellicola.

Poi, il delirio.

Repetita iuvant?

Lindsey Haun in una scena di Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter

L’atto finale presenta due problemi principali.

Anzitutto, la terrificante ripetitività delle scene: a fronte dei primi incidenti – i due con protagonista Barbara e l’accecamento – i successivi attacchi dei bambini risultano incredibilmente monotoni sia per la messinscena che per le dinamiche.

Sembra, insomma, di vedere per diverse volte la stessa scena.

E, ancora una volta, i personaggi – ad eccezione del Dr. Alan – sembrano solamente carne da macello, totalmente ignari dei poteri dei bambini e così incapaci di combatterli o anche solo di evitarli per non morire tutti nella stessa stupida maniera.

Lindsey Haun in una scena di Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter

Proprio su questa linea, i personaggi principali sono riportati in scena e fatti morire quasi a casaccio, e senza che la loro storia abbia un particolare significato – nello specifico, l’inutile dipartita del Reverendo George.

Particolarmente sprecata la morte della Dottoressa Susan, la cui scoperta della vera natura delle creature cade quasi nel dimenticatoio, all’interno dello scontro finale fra il Dr. Alan e i bambini che sembra più puntare sulla tensione che sull’essere effettivamente interessante.

E per fortuna il finale aperto non ha mai avuto un seguito…

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Back to the future Part II – Un terribile futuro

Back to the future Part II (1989) di Robert Zemeckis è il sequel del fortunato prodotto omonimo uscito qualche anno prima, e che confermò il successo del progetto.

Pur a fronte di un budget duplicato – 40 milioni di dollari, circa 100 oggi – fu un grande successo al botteghino, con 332 milioni di incasso (circa 820 oggi).

Di cosa parla Back to the future Part II?

Dopo la rocambolesca avventura nel passato, la coppia di protagonisti intraprende un viaggio nel futuro per risolvere i problemi familiari di Marty…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Back to the future Part II?

Christopher Lloyd in una scena di Back to the future Part II (1989) di Robert Zemeckis

Assolutamente sì.

Il secondo capitolo della saga è per certi versi anche più avvincente del primo, con un ritmo serrato e travolgente soprattutto nei momenti cardine della trama, scegliendo, a differenza del precedente, di seguire maggiormente la strada dell’avventura fantascientifica in senso stretto.

Back to the future Part II è insomma una corsa continua, con un’estetica futuristica diventata ormai iconica, e che poteva solo esistere in quella visione forse più semplice del futuro che si aveva alla fine degli Anni Ottanta…

Insomma, da vedere.

L’aggancio diretto

Michael J. Fox e Christopher Lloyd in una scena di Back to the future Part II (1989) di Robert Zemeckis

L’incipit di Back to the future Part II si ricollega direttamente con il precedente.

E per un motivo molto pratico.

Anzitutto, essendo ormai passati quattro anni, il film vuole riconquistare sia il pubblico di appassionati sia quello dei casual watchers, riportandoli all’epica conclusione del primo capitolo, evitando così di travolgerli con una storia potrebbero non ricordarsi alla perfezione.

Michael J. Fox in una scena di Back to the future Part II (1989) di Robert Zemeckis

Ma la fretta sta tutta nell’incipit.

Il primo assaggio di questo mondo futuristico sono i nuovi vestiti di Marty – con un furbissimo product placement – che ci svelano un mondo dove tutto è più semplice, più automatizzato, più imprevedibile – dalle scarpe che si allacciano da sole agli skateboard volanti.

Ma lo sconvolgimento avviene quando Marty entra in un luogo noto.

Il falso passato

Michael J. Fox in una scena di Back to the future Part II (1989) di Robert Zemeckis

Con l’entrata nel bar nostalgico Anni Ottanta – una previsione incredibile dell’effettiva ossessione dei futuri Anni Dieci per quella decade – Marty si ritrova in un luogo noto e al contempo incomprensibile.

Nonostante infatti la musichetta che richiama le atmosfere del passato, ogni oggetto dentro al locale è snaturato: non c’è più un cameriere, ma una televisione insistente da cui ordinare una Pepsi che però non è più la solita Pepsi – per poi provare a giocare un videogioco che appare troppo fuori dal tempo per i ragazzini del futuro.

Michael J. Fox in una scena di Back to the future Part II (1989) di Robert Zemeckis

Per fortuna Back to the future Part II non ricade nel pericolo di essere ridondante nel riproporre la medesima dinamica del precedente film: Marty deve sempre salvare qualcuno dalle grinfie di Biff – non il padre, ma suo figlio – secondo una dinamica di scambio già nota.

Tuttavia, la sequenza è intrigante proprio per la grande capacità attoriale di Michael J. Fox, che riesce perfettamente a portare in scena il Marty degli Anni Ottanta e a distinguerlo dal futuro figlio, molto più insicuro e fuori posto, nonostante i due si differenziano solamente per il taglio di capelli.

Così lo stesso inseguimento ha un forte sapore di déjà-vu – per ammissione dello stesso Biff – ma è comunque piacevolissimo ed indimenticabile proprio per la presenza dello skateboard volante, elemento che tornerà utile anche nella conclusione della pellicola.

Il pericolo in agguato

Una scelta piuttosto intelligente del è il ribaltare la dinamica del presente da salvare.

Se infatti il divieto di cambiare il passato a favore del futuro era stato mandato completamente a gambe all’aria già nella prima pellicola, nulla vieta al villain di seguire le orme dei protagonisti, ma per un proprio guadagno personale.

Così, dopo aver assistito impotente al suo sconsolante futuro, Marty ritorna nel 1985 con la prospettiva di non viaggiare mai più nel tempo – con simpatici foreshadowing del terzo capitolo – ma notando non pochi elementi fuori posto nel suo presente…

Molto funzionale in questo senso riutilizzare la dinamica della famiglia impaurita che scaccia un Marty confuso da quella che dovrebbe essere la sua casa, e che va alla scoperta di un quartiere ormai devastato da una criminalità dilagante.

Questo spaccato del nuovo presente è funzionale a dare maggior valore alla missione dei protagonisti: cambiare il passato non è semplicemente un’esigenza egoistica di costruirlo su misura per le proprie esigenze, ma serve ad evitare un mondo che è a svantaggio di tutti, ad eccezione di Biff.

L’angosciante quadro familiare è introdotto dal museo dedicato all’eroe americano, così da rendere la spiegazione più digeribile e meno didascalica, seguita dall’introduzione di una Lorraine distrutta dall’alcol e dai debiti, del tutto in balia del suo oppressore, che racconta a Marty il triste destino del padre.

Tornare indietro

Michael J. Fox in una scena di Back to the future Part II (1989) di Robert Zemeckis

Se nel primo film il viaggio nel passato era totalmente casuale, questa volta è invece programmato con uno specifico obbiettivo.

Per fortuna Back to the future Part II riesce tutto sommato a non impelagarsi nella sua stessa narrazione, rendendo l’avventura di Marty tendenzialmente indipendente dal suo passato, andando ad inseguire un Biff che per la maggior parte del primo film era rimasto fuori scena.

E tanto più avvincente è l’inseguimento apparentemente impossibile dell’almanacco sportivo, che ha un percorso tutto tranne che lineare, anzi piuttosto caotico, pieno di imprevisti e colpi di scena, fra cui l’indimenticabile rivista pornografica Oh la là!

Michael J. Fox e in una scena di Back to the future Part II (1989) di Robert Zemeckis

E così ancora più appassionante la parte finale dell’inseguimento di Biff, che sembra davvero impossibile fino all’ultimo, ma che si risolve con la seconda umiliazione del villain, ma anche un finale apparentemente tragico per Doc…

…salvato all’ultimo da un messaggio imprevisto proveniente dal passato, che è solo il prologo – così come era stato nel primo capitolo – per il sequel, il cui trailer rappresenta la chiusura rassicurante della pellicola, che anticipa già il ricongiungimento fra Doc e Marty e le loro nuove – ed imperdibili – avventure.

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Killers of the flower moon – La strage silenziosa

Killers of the flower moon (2023) è l’ultima fatica di Martin Scorsese, autore arrivato a ormai più di cinquant’anni di carriera, ma ancora capace di sorprendere.

Il film è stato un enorme insuccesso commerciale: a fronte di un budget di ben 200 milioni di dollari, ne ha incassati appena 156 in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Killers of the flower moon (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Migliore regista

Migliore attrice protagonista a Lily Gladstone Miglior attore non protagonista a Robert De Niro
Miglior fotografia
Miglior montaggio
Migliori costumi
Migliore scenografia
Migliore colonna sonora
Miglior canzone

Di cosa parla Killers of the flower moon?

Anni Venti, Oklahoma. I membri della Nazione Osage scoprono un ricco giacimento di petrolio che li renderà ricchi. Ma non sono gli unici a metterci gli occhi sopra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Killers of the flower moon?

Lily Gladstone e Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Sì, ma…

Killers of the flower moon non è un film che si potrebbe definire scorrevole – né vuole esserlo: Scorsese torna al cinema con un film impegnato e pregno di significato, difficilmente apprezzabile se non ci si lascia travolgere dalla narrativa del film.

In un certo senso il regista statunitense scommette con lo spettatore, proponendogli un tipo di prodotto a cui non è abituato, con ritmi lenti e cadenzati, che vanno di pari passo con una regia molto curata ed una storia che necessita di un certo tipo di andamento per essere raccontata…

Siete pronti ad accettare la sua scommessa?

La baraonda, la calma

Dopo un breve prologo che racconta i sentimenti contrastanti degli Osage – l’euforia della ricchezza scoperta e la mestizia per il loro futuro incerto – l’arrivo di Ernest in scena mostra in poche sequenze la natura del mondo in cui è approdato.

Una realtà caotica, in cui domina una violenza senza significato, in cui due popoli si sono mischiati e sembrano in totale sintonia, almeno all’apparenza…

Poi, improvvisamente, la calma.

Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Il trasferimento nella più pacifica residenza di William Hale ci illude di essere sfuggiti alla baraonda, e così il pacato colloquio fra il patriarca e il protagonista: lo scambio appare con il più classico dei dialoghi fra il nonno e il nipote, che aggiorna il suo vecchio sull’andamento della sua vita.

Sulle prime ci lasciamo ingannare dalle parole di Bill, dal suo raccontarsi come amico degli indiani, del tutto fuori dalle dinamiche di guadagno e di potere che coinvolgono gli altri bianchi della città, invece unicamente interessato all’idea che il nipote si sistemi con una bella ragazza locale.

Ma la realtà è ben diversa.

La via obbligata

Lily Gladstone e Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

L’amore fra Mollie e Ernest sulle prime sembra genuino.

Il giovane uomo corteggia la donna che appare – anche comprensibilmente – molto restia a dargli confidenza, pienamente consapevole di come i bianchi stiano eliminando il suo popolo nelle retrovie, uno dietro l’altro…

Tuttavia, dal momento che la sua famiglia al tempo non è stata ancora toccata, infine Mollie si decide a sposare l’uomo.

Lily Gladstone in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Ma ci troviamo sulla soglia della tragedia.

In questo senso, da notare come Zio Bill si rivolge alla prima vittima dell’ancora non svelato piano di eliminazione sistematica.

La donna appare sofferente, provata, e l’uomo la sovrasta con tutta la sua statura e in maniera estremamente opprimente, rincuorandola su come potrà prendersi cura di lei e darle tutte le medicine di cui ha bisogno per farla stare meglio, quando è lui stesso ad essere il mandante della sua angosciante dipartita.

Una tragedia giustificata

Rovert De Niro in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Nel secondo atto, Bill rivela finalmente sua natura.

Il suo personaggio è indubbiamente il più significativo per il concetto fondamentale del film: al contrario di quei selvaggi violenti autori della strage di Tulsa, il caro zio è invece una figura accogliente, che voleva solamente fare in modo che le due famiglie si unissero pacificamente.

Robert De Niro e Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

…rivelando in realtà una sorta di razzismo benevolo: per quanto Bill possa aiutarli, gli indiani rimangono comunque una razza inferiore, che viene facilmente stroncata da diverse malattie – anzitutto il diabete – per il naturale svolgersi degli eventi.

E allora è meglio salvare quello che si può salvare…

Una convinzione che il suo personaggio mantiene fino all’ultimo…

Il non colpevole.

Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Ma Ernest è anche peggiore.

L’uomo si mostra fin da subito come un personaggio piuttosto ingenuo, la preda perfetta per le maligne bugie di Bill, pronto a farsi sottomettere e punire come un bambino a sculacciate, per non aver saputo tenere una mano ferma nel controllare la sua famiglia.

Ed infatti la sua mano è sempre incerta quando comincia a somministrare quella miracolosa medicina alla moglie, soprattutto quando deve sottoporle il siero letale, talmente combattuto con sé stesso da berne pure un bicchiere, come se questo potesse liberarlo dai suoi peccati…

Per questo, ad indagine avviata, Ernest diventa un burattino nelle mani delle due parti, convincendosi infine a mordere la mano del suo padrone, vedendo in questo gesto una possibilità per potersi redimere dalle proprie colpe, di potersi ricongiungersi pacificamente con la moglie e la sua famiglia.

L’ultimo degli Osage

Robert De Niro e Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Quando sposa Ernest, Mollie si fida ciecamente.

Non a caso davanti alle continue morti della sua famiglia, fino all’ultimo si fida del marito, si fida a lasciare solamente a lui la gestione delle sue medicine, e fino all’ultimo non ha il minimo dubbio che i colpevoli siano da ricercare altrove, tanto che, ormai distrutta dal veleno, mentre viene portata via, chiede dove si trovi Ernest…

E così, dopo essersi ripresa nella mente e nel corpo, sceglie di dare al marito la possibilità di ricominciare, raccontargli prima un sogno in cui congiuntamente si lasciano alle spalle le colpe, ricominciando così a camminare insieme, per poi metterlo davanti alla domanda fondamentale:

Cosa c’era veramente in quella medicina?

Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Ma Ernest è incapace di prendersi le sue responsabilità, ormai sentendosi rassicurato nell’idea di aver aiutato la giustizia e di aver trasferito i suoi peccati sul capro espiatorio di turno, rimanendo così indenne dalle condanne, soprattutto agli occhi della moglie.

Invece così Mollie capisce che non potrà più fidarsi del marito.

Ma il suo non è un finale positivo.

Fuori scena scopriamo che la donna è morta comunque piuttosto giovane, distrutta da una malattia che i bianchi salvatori non hanno saputo curare, dopo essere stata al centro di una tragedia che una giustizia tardiva e approssimativa non è stata capace di salvare dalla dimenticanza di una storia scritta da vincitori.

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Back to the future – Il cambiamento positivo

Back to the future (1985) non solo è fra i titoli più apprezzati della filmografia di Robert Zemeckis, ma è soprattutto uno dei più grandi cult di fantascienza della storia del cinema.

Non a caso, al tempo divenne un fenomeno culturale: a fronte di budget medio – 19 milioni di dollari, circa 54 oggi – e incassò 383 milioni di dollari in tutto il mondo (circa un miliardo ad oggi).

Di cosa parla Back to the future?

Marty McFly è un adolescente che viene coinvolto in una particolarissima avventura con il suo amico, lo scienziato pazzo Doc Brown…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Back to the future?

Michael J. Fox in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Assolutamente sì.

Back to the future è un cult non per caso: un film con una storia semplice, ma orchestrata perfettamente in tutte le sue parti, con una scrittura e una regia ben calibrate per raccontare le differenze fra le diverse epoche storiche e gli inevitabili parallelismi.

Uno di quei film che, anche a decenni di distanza, lascia facilmente un buon sapore in bocca per il suo ottimo equilibrio fra il dramma e una piacevole comicità, oltre a due protagonisti assolutamente iconici.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Il primo inizio

A sorpresa, il dramma familiare in Back to the future è importante quanto il viaggio nel tempo.

L’incipit serve infatti ad inquadrare la famiglia di Marty e il suo carattere, con un utilizzo di rara intelligenza delle didascalie: tramite le parole dei personaggi e le dinamiche in scena, scopriamo anzitutto come il protagonista si senta un emarginato incompreso, dalla scuola e dai suoi parenti.

Così la sua famiglia rappresenta la classica situazione della middle class americana, con l’aggravante di uno zio galeotto e di un padre totalmente sottomesso al suo bullo storico, Biff, e per questo incapace di farsi veramente strada in una vita di successo.

Così ampio spazio è concesso anche alla madre di Marty, che appare fin da subito piuttosto bacchettona e puritana, tanto che il protagonista le nasconde consapevolmente il suo progetto della gita al lago con la fidanzata.

La fantascienza di sottofondo

Christopher Lloyd in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Il dramma familiare si alterna ottimamente con l’elemento fantascientifico.

Lo stesso è introdotto fin dall’inizio, con un Doc che però rimane fuori scena fino alla fine del primo atto, ma che conosciamo già perfettamente dal dialogo al telefono con Marty: un intraprendente scienziato, autore di invenzioni piuttosto bislacche, legato da un forte rapporto col protagonista.

Così quando entra in scena rappresenta in tutto e per tutto il modello di inventore pazzo, che però non cade mai nel ridicolo grazie alla recitazione appassionata e ormai iconica di Christopher Lloyd – che ritornerà a lavorare con Zemeckis anche in Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988).

Christopher Lloyd e Michael J. Fox in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Così tutti gli elementi del viaggio del tempo vengono raccontati con precisione e creando anche una piccola tensione iniziale, quando il mistero non è ancora svelato, in modo da far identificare il totalmente l’ignaro Marty con lo spettatore.

Infine, quando l’avventura sta ormai per partire, il protagonista sembra già star per uscire di scena, in maniera talmente credibile che allo spettatore verrebbe anche da chiedersi a cosa è servita tutta la sua introduzione…

…ma proprio per questo l’atto centrale funziona così bene.

Un atto consapevole

Michael J. Fox in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Tutti gli elementi della parte centrale sono gestiti con particolare consapevolezza.

Appena Marty arriva nel 1955, già ci risuonano nella mente le parole di Doc, in una frase che sul momento sembrava inutilmente nostalgica, ma che invece è fondamentale per l’identificazione dello spettatore: qui intorno prima era tutta campagna.

Allo stesso modo la reazione della famiglia che entra per la prima volta in contatto con il protagonista sembra puramente una gag, ma risulterà invece determinante successivamente, quando il protagonista dovrà convincere il padre ad invitare al ballo scolastico la sua futura moglie.

E, al contempo, la dinamica della scena racconta il sentimento di Marty per tutta la sua permanenza nel passato: lo straniamento.

Allo stesso modo, Back to the future convince particolarmente nel raccontare le incomprensioni di un ragazzo del 1985 in un contesto così anomalo.

A partire dal fatto che viene continuamente scambiato per un marinaio per il suo giubbotto smanicato – tipico della moda degli Anni Ottanta – fino ai vari riferimenti storici – l’elezione futura di Ronald Raegan e gli eventi intorno alla famiglia Kennedy – tutti elementi che contestualizzano perfettamente il panorama di riferimento.

Così, per avvicinare ancora di più il protagonista al padre, particolarmente brillante la scena del loro incontro, in cui si muovono allo stesso modo e si girano contemporaneamente verso Biff quando il bullo chiama il padre di Marty per cognome.

Il teen drama âge

Lea Thompson e Michael J. Fox in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

La parte centrale di Back to the future è dominata dal teen drama.

La pellicola riprende un topos abbastanza tipico, in cui un personaggio cerca di far smuovere un suo compagno un po’ nerd così che riesca a conquistare la ragazza di turno e a diventare più sicuro di sé.

In questo caso ovviamente la situazione è molto più interessante ed avvincente, in quanto non c’è in ballo solamente un rapporto amoroso, ma piuttosto la sopravvivenza stessa del protagonista, e, più in generale, la maturazione del padre.

Lea Thompson e Crispin Glover  in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Infatti, tutti i personaggi compiono un percorso di maturazione.

Anzitutto, il protagonista diventa ben più consapevole di sé stesso e delle proprie potenzialità, riuscendo a superare il suo limite dell’essere mingherlino, tramite l’intraprendenza e l’inventiva, e così tenendo testa ad un bullo minaccioso come Biff.

Ma la maturazione principale, sopratutto a posteriori, è quella del padre, che smette di essere un totale perdente che si fa mettere i piedi in testa, per diventare invece un uomo consapevole e di successo, che riesce a combattere contro le sue paure.

Lorraine McFly

Ma la storia più interessante è quella della madre.

Back to the future riesce ben ad inquadrare la situazione femminile negli Anni Cinquanta: Lorraine vive alternativamente nel sogno della crocerossina e della principessa da salvare, all’interno di un mondo maschile violento e ostile.

Non a caso, anche se non è detto esplicitamente, la madre di Marty è stata sostanzialmente salvata da un tentato stupro da parte di Biff, e così, anche durante il ballo, prima di essere ripresa da George, è un pacco che viene passato di mano in mano.

Tuttavia, anche il suo personaggio ha il suo margine di maturazione: se all’inizio del film la donna era aspramente bigotta, al contrario nella situazione finale scopriamo un personaggio che è riuscito a trarre il meglio dalla sua esperienza adolescenziale, mantenendo una mente aperta e sapendosi prendere cura di sé.

Una nuova occasione

Christopher Lloyd e Michael J. Fox in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Parallelamente alla parentesi adolescenziale, la trama fantascientifica è indubbiamente la più iconica.

Il rincontro con Doc pone al suo personaggio un dilemma morale fondamentale, che è in realtà tipico dei racconti del viaggio del tempo: l’importanza di non cambiare il passato, consapevoli dei risultati potenzialmente disastrosi che potrebbe portare al presente.

Per questo, nonostante i vari tentativi di Marty, lo scienziato si ribella all’idea di essere salvato dal protagonista.

Christopher Lloyd e Michael J. Fox in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Invece, davanti ad un finale che rischiava di essere assai drammatico, Back to the future sceglie una via diversa.

Infatti, capiamo che il presente deve essere cambiato, perché ne va della sopravvivenza dei personaggi stessi, e, più in generale, della loro maturazione, compresa quella di Doc: l’uomo diventa meno rigido sulle dinamiche del viaggio del tempo e ne accetta le piacevoli conseguenze.

E, anche di più, il suo personaggio da questa esperienza riesce anche a migliorare la sua invenzione, rendendola meno dipendente da un materiale così difficilmente reperibile – il plutonio – e non più una semplice macchina, con tutti i limiti del caso, ma un mezzo che non ha bisogno di strade:

Roads? Where we’re going, we don’t need roads.

Strade? Dove andiamo non ci servono strade.
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Avventura Azione Comico Drammatico Essi vivono Fantascienza Film Satira Sociale

Essi vivono – Quel fantastico capitalismo

Essi vivono (1988) è uno dei titoli più apprezzati della filmografia di John Carpenter, che, come per Grosso guaio a Chinatown (1986), divenne un cult solo nel tempo.

Infatti, a fronte di un budget comunque piuttosto contenuto – 4 milioni di dollari, circa 10 ad oggi – ebbe un riscontro scarso al botteghino, con appena 13 milioni di incasso (circa 34 oggi).

Di cosa parla Essi vivono?

John Nada è un giovane disoccupato che si trasferisce a Los Angeles in cerca di fortuna. Ma un incontro speciale gli farà cambiare la sua prospettiva sul mondo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Essi vivono?

Roddy Piper in una scena di Essi vivono (1988) di John Carpenter

Assolutamente sì.

Essi vivono è fra le opere più interessanti di Carpenter, che raccoglie lo spunto tematico di Romero – citato esplicitamente nella pellicola – in Dawn of the dead (1978) e lo ripropone in un prodotto fantascientifico che critica apertamente il capitalismo occidentale.

Una scelta particolarmente brillante e messa in scena con sagacia ed originalità, uno di quei film che ti cambia radicalmente la prospettiva sul mondo, proprio come succede al protagonista della pellicola stessa…

Il sogno

Roddy Piper in una scena di Essi vivono (1988) di John Carpenter

Il protagonista parte totalmente immerso nel sogno americano.

Sicuro di poter trovare facilmente un’alternativa lavorativa, soprattutto in una metropoli come Los Angeles, si dirige con sicurezza al centro dell’impiego, trovandosi però senza nessuna prospettiva, ridotto ad elemosinare un lavoro in un cantiere.

Ma, anche davanti alla prospettiva di un’occupazione, John è comunque con le spalle scoperte, aspettando un primo stipendio che non arriverà prima di qualche giorno, ritrovandosi nel frattempo senza una casa e, soprattutto, senza i soldi per pagarla…

Roddy Piper in una scena di Essi vivono (1988) di John Carpenter

Anche se in maniera più sottile, già in questa prima parte Carpenter affronta un problema fondamentale del modello capitalista: l’illusione che tutti possano trovare lavoro e fare fortuna, ignorando le diverse barriere all’ingresso e le condizioni lavorative che portano inevitabilmente alla povertà e alla mancanza di sicurezza economica.

Ma se non ci sia aiuta fra disperati…

Il sospetto

Roddy Piper in una scena di Essi vivono (1988) di John Carpenter

Appena entra nella baraccopoli, il protagonista passa diverse scene ad osservare quello che lo circonda.

Come la maggior parte dei personaggi, inizialmente è del tutto assuefatto dalla comunicazione televisiva, quasi disturbato quando questa viene interrotta per mostrare scampoli di messaggi che appaiono sulle prime come scandalistici e complottisti.

Roddy Piper in una scena di Essi vivono (1988) di John Carpenter

Per una curiosità quasi maligna, John cerca di penetrare i segreti di questa apparente setta di fanatici, proprio prima che quella fragile quanto fondamentale comunità venga spazzata via da un raid improvviso della polizia.

Il prologo perfetto per la realizzazione definitiva del protagonista, che si trova ancora davanti ad uno degli effetti più distruttivi del capitalismo statunitense: pur in presenza di un ascensore sociale bloccato, se sei povero sei già per questo colpevole, e per questo vai punito.

Il risveglio

L’atto centrale di Essi vivono è la parte più iconica e quasi parossistica.

Con addosso gli occhiali magici, John comincia a vedere il mondo per quello che davvero è, ovvero dominato da messaggi subliminali che portano in un’unica direzione: consumare senza freni, essere succubi del denaro, obbedire e non possedere un pensiero proprio.

Un mondo in bianco e nero, dove degli orribili alieni si sono infiltrati nella società umana per distruggerla dall’interno.

Una visione decisamente fantasiosa della realtà sociale, che però riesce a centrare perfettamente il punto: il modello capitalista non è solo una questione economica, ma piuttosto una realtà sociale in cui siamo totalmente immersi…

influenzati da input sociali che ci inducono a spendere e a credere di essere per questo felici, nascondendo tutto il resto sotto al tappeto.

La ribellione

Una scena di Essi vivono (1988) di John Carpenter

Dopo un acceso confronto con Frank, entrambi si uniscono alla resistenza.

E l’intrusione fra le fila degli oppressori racconta una verità ancora più reale: l’élite sociale è perfettamente disposta a sottomettersi al potere degli alieni, pur di poterci guadagnare qualcosa…

…e anzi esplicitamente nascondendosi dietro all’idea di essere immersi in un mondo che non può essere cambiato, proprio come la classe dirigente odierna ignora consapevolmente tutti i problemi sociali del capitalismo, perché troppo interessata al proprio tornaconto.

Roddy Piper in una scena di Essi vivono (1988) di John Carpenter

Per questo, il finale è tanto più interessante.

Infatti, il protagonista non sceglie di uccidere gli alieni – azione del tutto inutile – ma piuttosto di far cadere quella facciata ingannevole e mostrare agli umani la vera natura della società in cui vivono, così che possano loro stessi in prima persona attivarsi per cambiarla per il meglio.

Un messaggio che, a quasi trent’anni di distanza, è ancora assolutamente attuale.

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La città verrà distrutta all’alba – L’incubo americano

La città verrà distrutta all’alba (1973), traduzione piuttosto fantasiosa del titolo originale The Crazies, è una delle pellicole più apprezzate della filmografia di George Romero.

Con un budget veramente ridotto – appena 275 mila dollari, circa 1,7 milioni oggi – ebbe un riscontro altrettanto misero, anche per via della distribuzione limitata: appena 143 mila dollari di incasso (meno di un milione ad oggi).

Di cosa parla La città verrà distrutta all’alba?

Nella piccola Evans City alcuni cittadini appiccano incendi dolosi senza vere motivazioni, come se fossero impazziti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La città verrà distrutta all’alba?

In generale, sì.

Per quanto non sia del tutto opera di Romero – in questo caso solamente nella veste di regista – La città verrà distrutta all’alba è un film assolutamente nelle sue corde, che riflette su dinamiche sociali in maniera piuttosto angosciante e rivelatoria – e non tanto per la violenza in scena…

Una pellicola sicuramente impreziosita dalla sua ottima regia, che riesce a rendere con una tecnica puntuale ed efficace soprattutto i momenti omicidi più efferati, pur all’interno di un prodotto non propriamente horror.

Insomma, da vedere.

Uno per tutti

L’inizio è già di per sé indicativo.

Due fratelli giocano ad inseguirsi e a spaventarsi l’un l’altro, finché un’ombra affilata si staglia alle spalle della bambina, un intruso, che porta i due a ricercare la protezione dei genitori, unico punto di riferimento…

…ma subito il mondo è rovesciato: la madre non sta dormendo, ma è immersa nel sonno della morte, e il colpevole non è altro che il padre, che ha perso totalmente il controllo e sta cercando di distruggere il nido familiare con un’incontenibile furia.

Il vero motivo?

Una scena di La città verrà distrutta all'alba (1973) di George Romero

Nel primo atto della pellicola scopriamo a poco a poco la verità dietro la vicenda.

Prima un vaccino fuori controllo, poi un’arma batteriologica – piuttosto reale nel contesto della Guerra Fredda – che porta ad una dilagante pazzia ed isteria, che fa perdere totalmente il contatto con la realtà.

E quello che succede è l’incubo americano.

Lynn Lowry in una scena di La città verrà distrutta all'alba (1973) di George Romero

Il governo mette in campo le sue forze e fa ricadere una violenza spropositata sui cittadini, anche se questi non si dimostrano sulle prime ribelli e violenti, considerandoli una minaccia per il solo possesso di armi da fuoco…

Ne consegue così un’escalation di violenza, in cui non si cerca più di tenere la situazione sotto controllo, ma piuttosto di tenere delle bestie a bada, come animali in un recinto, ormai totalmente incontrollabili…

Un punto di non ritorno

Una scena di La città verrà distrutta all'alba (1973) di George Romero

Nelle retrovie, mentre i cittadini si ribellano e la violenza dilaga, Dr. Watts cerca di trovare una soluzione.

Il personaggio insiste con una certa veemenza per risolvere la vicenda, ma è una soluzione talmente fragile che è contenuta solo nella sua mente, solo in quelle insignificanti provette che si fracassano a terra nell’indifferenza generale.

Ma il picco drammatico è la morte di Judy: come per il padre impazzito all’inizio del film, David ritrova improvvisamente un contatto col mondo reale, col mondo di prima, con un personaggio che non ha alcuna paura di lui, che non ha dimenticato la sua vera identità…

Will McMillan in una scena di La città verrà distrutta all'alba (1973) di George Romero

E così infine si arrende, getta le armi, comprende la drammaticità della situazione senza ritorno in cui si ritrova, e la conseguente morte di ogni speranza – il bambino che doveva nascere – e l’alba di un mondo brutale, in cui un virus invisibile è stata solo la miccia per far esplodere una furia in realtà da sempre presente…

E tanto più angosciante è il dialogo finale fra il Colonnello Peckem e il suo superiore, che prospetta il dilagare della violenza omicida e senza controllo in un mondo che si alterna fra la legge marziale e l’anarchia pura, in cui si accetta quasi con un sorriso la morte della civiltà

…che è più vicina di quanto sembri.

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Grosso guaio a Chinatown – Il trash sotto controllo

Grosso guaio a Chinatown (1986) è una delle opere minori della filmografia di John Carpenter, che ottenne successo di pubblico solo negli anni successivi alla sua uscita in sala.

Il riscontro al botteghino fu infatti disastroso: a fronte di un budget stimato di 25 milioni, ne incassò appena 11 in tutto il mondo.

Di cosa parla Grosso guaio a Chinatown?

Jack Burton accompagna l’amico all’aeroporto per accogliere la sua fidanzata, finendo coinvolto in una vicenda di mafia e magia davvero sconvolgente…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Grosso guaio a Chinatown?

Kurt Rusell, Dennis Dun e Kim Cattrall in una scena di Grosso guaio a Chinatown (1986) di John Carpenter

In generale, sì.

Anche se non è una delle opere più brillanti di Carpenter, Grosso guaio a Chinatown è un film che si fa ricordare.

Con una comicità semplice ma efficace, una trama che va dritta al punto ed utilizza topoi narrativi anche piuttosto scontati, ne risulta una visione piacevole e rilassata, che riesce a bilanciare l’elemento magico senza scadere nel trash più becero.

Insomma, vale una visione.

Un eroe nuovo

Kurt Rusell in una scena di Grosso guaio a Chinatown (1986) di John Carpenter

Alla terza collaborazione con Carpenter, Kurt Russell si riscopre eroe comico.

E funziona.

Per quanto iconici siano i suoi precedenti personaggi della filmografia carpenteriana – Snake Plissken e MacReady – in Grosso guaio a Chinatown l’attore dimostra di saper tenere ottimamente sulle spalle sia il ruolo da protagonista sia la linea comica della pellicola.

E, a differenza dei suoi precedenti ruoli ben più drammatici, in questo caso Jack Burton è un eroe molto più terreno, senza particolari doti, che si improvvisa salvatore della situazione, con non pochi inciampi – anche comici – lungo la strada.

La solita storia?

Grosso guaio a Chinatown racconta una storia molto tipica.

Come Una nuova speranza (1977) dieci anni prima, ancora una volta si sceglie il tropo vincente della principessa da salvare, avendo in mente un target di pubblico principalmente maschile, ma offrendo anche qualche spazio di autonomia ai due personaggi femminili.

Kim Cattrall in una scena di Grosso guaio a Chinatown (1986) di John Carpenter

Al contempo però si cerca anche di arricchire la storia con una mitologia propria, riuscendo anche a scampare il problema della poca chiarezza narrativa con delle abili didascalie messe in bocca ai personaggi, le quali, nel contesto di un film già molto sopra le righe, sorprendentemente non appaiono forzate.

Ne deriva così una trama ben ritmata, dove non ci si ferma un attimo, con diverse scene action, anche stemperate da una buona dose di comicità, e con un utilizzo dell’elemento magico piuttosto consapevole.

E a questo proposito…

Una mano capace

James Hong in una scena di Grosso guaio a Chinatown (1986) di John Carpenter

Grosso guaio a Chinatown è un film che rischiava moltissimo di essere un prodotto trash.

Oltre ai toni al limite dell’assurdo e del cartoonesco, i poteri degli antagonisti sembrano usciti da Street Fighter, e sono resi con tutti i limiti degli effetti visivi digitali dell’epoca. E questo senza contare i costumi dei mostri che sono forse ancora meno credibili…

Tuttavia, Carpenter è un autore capace di lavorare con poco.

Kurt Rusell e Dennis Dun in una scena di Grosso guaio a Chinatown (1986) di John Carpenter

Per questo all’interno della pellicola punta principalmente su quegli effetti che, nel loro piccolo, riescono a funzionare – i fulmini e i lampi dagli occhi – e che risultano complessivamente credibili agli occhi dello spettatore, con davvero poche sbavature in questo senso.

Al contrario, si cerca di limitare il più possibile il minutaggio delle creature – i due mostri – e degli effetti – il corpo che si gonfia a dismisura – che invece non riesco a funzionare con altrettanta efficacia, ma che così non sembrano altro che piccoli inciampi all’interno di una gestione complessivamente consapevole.

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The Thing – Il nemico è fra noi.

The Thing (1982) è una delle opere più note della filmografia di John Carpenter, nonché il secondo capitolo della sua proficua collaborazione con Kurt Russell dopo 1997: Fuga da New York (1981).

A fronte di un budget stimato di quindici milioni di dollari – circa 55 oggi – non ebbe un grande riscontro al botteghinoappena 19 milioni negli Stati Uniti – anche per la grande concorrenza di film come E.T. usciti nello stesso periodo.

Di cosa parla The Thing?

Un gruppo ricercatori statunitensi assiste attonito alla caccia di un elicottero contro un cane apparentemente indifeso. Ma l’orrore è dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Thing?

Kurt Russell in una scena di The Thing (1982), di John Carpenter

Assolutamente sì.

The Thing è un classico della filmografia di Carpenter, una delle migliori prove come regista, oltre ad essere un incredibile prodotto nella resa visiva, con un reparto di effettistica che ha fatto la storia del cinema per la sua creatività ed iconicità.

Inoltre, come il precedente Alien (1979), The Thing fu un altro ottimo esempio di come fantascienza e orrore potessero portare ad un connubio vincente se messe nelle mani del giusto autore, con una tensione palpabile ad ogni scena…

Un’ombra

Kurt Russell in una scena di The Thing (1982), di John Carpenter

L’orrore di The Thing viene da lontano.

I protagonisti e lo spettatore si trovano ugualmente attoniti davanti alla tentata uccisione di quel cane così apparentemente innocuo, e così davanti all’aggressività ingiustificata del norvegese – la cui incomprensibilità della lingua porterà alla sua stessa morte.

Questa dissonanza fra l’amabilità dell’animale e la violenza che gli viene rivolta è un primo indizio della vera natura di questa figura, che si muove liberamente nella base per fin troppo tempo, in particolare nella scena in cui entra nella stanza di Clark, di cui si vede solo l’ombra…

E quando infine viene rinchiuso, assistiamo alla prima esplosione di violenza, in cui tutta la crudezza e l’orrore del mostro vengono rivelati in un essere con un aspetto indefinito, composto da carne viva che si plasma in un puzzle incomprensibile…

Al sicuro?

La progressiva scoperta della vera natura del nemico si accompagna ad un’apparente sicurezza.

I personaggi si trovano davanti ad un orrore che si è già formato, ad una tragedia che si è già svolta, e che rappresenta uno dei migliori esempi di fantascienza negativa del periodo, insieme al già citato Alien – di cui condivide anche alcune dinamiche del primo atto.

Ma l’annientamento apparente della creatura e lo studio della stessa offrono un breve momento di pace e sicurezza…

…prima dell’inizio del vero orrore: scoprire che la creatura è molto più viva di quanto sembri, pronta ad attaccare, e la portata del pericolo per l’umanità stessa è la miccia per un’esplosione di violenza che percorrerà tutto il resto della pellicola.

Gatto e topo

Da questo momento in poi è una caccia al gatto e al topo.

La tensione è scandita da un’inquietudine più sotterranea, per cui il pericolo è sempre dietro l’angolo, per cui quel volto amico può essere solo una maschera che cela una realtà mostruosa, pronta a rivelarsi in qualsiasi momento, e senza preavviso…

Infatti, tutti i momenti in cui i personaggi cercano di gestire lucidamente la situazione non sono che i prologhi di scoppi di violenza incontrollabile: così l’esame del sangue che svela il traditore, così il tentativo di rianimare Norris, il cui petto si apre in una bocca mostruosa…

E, in ultimo, la soluzione è solo una.

Una sola strada

Kurt Russell in una scena di The Thing (1982), di John Carpenter

Nel finale, sia il nemico che i protagonisti possono solo uscire di scena.

Il mostro si rende conto che la lotta non può avere né vincitori né vinti, che non è possibile salvarsi davanti ad un gruppo di antagonisti così scatenati e che non si fermano davanti a nulla, e che non gli permetteranno mai di uscire vivo da questa situazione…

…ed infatti gli stessi capiscono che salvarsi è diventato di fatto impossibile, e che l’unica via è immolarsi per il salvataggio degli altri, dell’umanità tutta, quindi di utilizzare tutte le armi a disposizione, anche le più distruttive, per mettere fine alla terribile minaccia.

Di particolare eleganza il finale, in cui gli unici due superstiti si spartiscono una bottiglia di alcol, ormai del tutto provati dalla battaglia, ridendo con un’ironia amara che maschera l’angosciosa consapevolezza di star morendo senza aver la certezza della vittoria.

Perché The Thing

The Thing rappresenta una tendenza piuttosto ingegnosa della fantascienza e dell’horror del periodo:

Non dare un nome agli antagonisti.

Nello specifico la creatura di Carpenter si incasella fra l’alieno senza nome di Alien e l’iconico villain di Stephen King, It: come il diabolico pagliaccio è chiamato semplicemente con un pronome neutro, così il mostro di The Thing è chiamato appunto thing, cosa

In tutti e tre i casi infatti i protagonisti positivi sono degli eroi comuni – e per questo molto vicini allo spettatore – che si ritrovano a combattere contro qualcosa di indefinito ed indefinibile

…e che, con questi non-nomi, raccontano l’immediatezza dell’identificazione del nemico: qualcosa a cui non sanno dare un nome.

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Season of the Witch – Evasione

Season of the Witch (1973), rilasciato più volte e con diverse edizioni e titoli – Jack’s wife e poi Hungry wives – è una delle opere minori e meno conosciute di George Romero.

Con meno di un milione di dollari di budget, ebbe un riscontro al botteghino sconosciuto.

Di cosa parla Season of the Witch?

Joan è una casalinga sola ed annoiata, che vive nell’ombra del marito assente, ma che avrà un’occasione per riscattarsi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Season of the Witch?

Jan White in una scena di Season of the witch (1974) di George Romero

In generale sì.

Anche se è un’opera minore della filmografia di Romero, già qui si trova l’impostazione alla base del successivo Dawn of the dead (1978): utilizzare l’elemento horror per raccontare una tematica sociale, con anche un crudo realismo, nonostante la presenza dell’elemento fantastico.

Una pellicola indubbiamente complessa, quasi surreale, in cui la lettura simbolica è centrale, mentre l’elemento più strettamente narrativo risulta più secondario e quasi del tutto funzionale al significato complessivo del film.

Insomma, da riscoprire.

Incasellamento

Jan White in una scena di Season of the witch (1974) di George Romero

Il sogno iniziale definisce perfettamente il senso di angoscia della protagonista.

Portata al guinzaglio dal marito – letteralmente e metaforicamente – Joan vede la sua vita passargli davanti, definita da una serie di elementi – la figlia ribelle, le amiche con cui sparlare – che sembrano tutti cuciti su misura per la casalinga perfetta.

Una casalinga che però è sempre di più abbandonata a sé stessa, che ha perso i punti di riferimento che definivano il suo mondo come madre e moglie devota – il marito assente e la figlia ormai cresciuta ed indipendente.

Tuttavia, c’è una via di fuga.

Allo specchio

Jan White in una scena di Season of the witch (1974) di George Romero

Fin dall’inizio Joan ha l’alternativa davanti agli occhi.

Ricercando continuamente la sua identità perduta nel suo riflesso, la protagonista vi trova invece un’altra donna: una figura molto più invecchiata, austera, che le ricambia lo sguardo magnetico, tentandola verso una via alternativa.

Ovvero, quella della stregoneria.

Come per gli zombie in Dawn of the Dead, anche in questo caso l’elemento fantastico è del tutto simbolico: essere una strega non significa tanto compiere delle magie, ma piuttosto essere capace di evadere la quotidianità opprimente, e trovare un proprio soddisfacimento personale.

E gli stimoli sono fin troppo evidenti.

Evadere e invidiare

Il percorso di evoluzione di Joan passa per alcuni momenti fondamentali.

Anzitutto, la scena in cui salva Shirley, che esprime ad alta voce le angosce della protagonista stessa: aver ormai superato l’età della giovinezza e della bellezza, ed essere ormai un puro accessorio del marito – che l’aspetta in casa come un’ombra opprimente controluce…

Jan White in una scena di Season of the witch (1974) di George Romero

Poi, il momento in cui Joan entra in casa e sente l’amplesso fra la figlia e Gregg: percepito inizialmente come insopportabile, lentamente diventa lo spunto per la riscoperta la propria sessualità, nonostante il senso di vergogna che le fa provare Nikki quando la scopre e decide per questo di abbandonarla.

A questo segue il momento più umiliante per la protagonista, in cui le viene attribuita la colpa della fuga della figlia – anche se indirettamente – portando il marito a metterle le mani addosso in maniera violenta, a facendola sentire ancora più cagna di quanto si sentiva nei suoi sogni…

Il vero nemico

Jan White in una scena di Season of the witch (1974) di George Romero

Il terzo atto è un connubio fra sesso e violenza.

Anzitutto Joan utilizza i suoi neo acquisiti poteri stregoneschi per procacciarsi un amante, e non a caso sceglie Gregg, che ricollega indirettamente alla felice ed indipendente giovinezza della figlia, capace di non legarsi sentimentalmente ad un uomo per avere del piacere sessuale.

Al contempo, il sogno ricorrente del terzo atto rappresenta la sua vergogna.

Jan White in una scena di Season of the witch (1974) di George Romero

la figura diabolica che la perseguita, che cerca di penetrare nella casa e di farle violenza – tipico simbolo del senso di colpa femminile nel godimento della sessualità – è imperscrutabile e impedisce alla protagonista di capire chi è il vero nemico.

Lo svelamento avviene quando Joan uccide per sbaglio il marito, che scambia – o forse riconosce – come un intruso che la vuole aggredire, riuscendo così a liberarsi dal vero autore della sua angoscia, diventando così una donna libera e consapevole.

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Dawn of the Dead – I veri mostri

Dawn of the Dead (1978) di George Romero – in Italia uscito con il titolo di Zombi, ma spesso noto con nome di L’alba dei morti viventi – è probabilmente lo zombie movie più famoso della storia del cinema.

Purtroppo con la traduzione italiana si perse il senso di progressione della trilogia di Romero, cominciata nel 1968 con The Night of the Dead e continuata nel 1985 con The Day of the Dead.

Un prodotto che ebbe numerosi sequel e remake – in particolare quello di Zack Snyder del 2004 col titolo omonimo – parodie – lo splendido Shaun of the Dead (2004) di Edward Wright – nonché numerose citazioni e omaggi – non ultima quella di South Park in Illogistico (9×22).

Di cosa parla Dawn of the dead?

Dopo lo scoppio di una misteriosa pandemia che fa rinascere i morti, uno sparuto gruppo di sopravvissuti si rifugia in un centro commerciale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dawn of the dead?

Assolutamente sì.

Dawn of the Dead non è solamente un classico del genere horror, ma soprattutto un unicum per gli zombie movie.

Infatti, sotto l’apparenza di survival movie, si cela una ben più aspra critica agli Stati Uniti degli Anni Settanta e, più in generale, al consumismo e al capitalismo occidentale imperante.

Oltre a questo, la pellicola si distingue per un apparato tecnico davvero superbo, in particolare per un’effettitistica che si può annoverare fra le migliori di quegli anni, insieme ad Alien (1979) ed a La Cosa (1982).

Insomma, un film imperdibile, che fa riflettere ancora oggi.

Un assaggio

Ken Foree in una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

Dawn of the dead, essendo un sequel, parte subito di corsa.

La pandemia è già iniziata, il pericolo è alle porte, e questo primo breve atto consente allo spettatore di avere un assaggio dell’orrore e della violenza così crudelmente materiale della pellicola, che non manca di mostrarci fiumi di sangue e membra strappate a morsi.

Questa mancanza di un’introduzione all’orrore è in realtà incredibilmente funzionale al messaggio del film, basato proprio sull’assenza di un’effettiva distinzione fra il prima e il dopo, fra gli zombie assetati di carne umana e gli umani stessi…

La fame

Se banalmente sembra che gli zombie vogliano, nella più classica delle tradizioni del genere, mangiare i cervelli e le carni dei sopravvissuti, in realtà lo scambio fra i protagonisti sul perché i non morti si dirigono in un centro commerciale è rivelatorio della loro vera fame:

They don’t know why, they just remember. Remember that they want to be in here.

Non sanno perché, ricordano solamente che vogliono essere qui.

Difatti il centro commerciale era una novità negli anni dell’uscita della pellicola…

…ed è il tipo di spazio che è definito come non-luogo: una realtà artificiosa, che mima le atmosfere di una piccola città – la piazza, i palazzi, i ristoranti – ma che in realtà è solo un meccanismo pensato per far alimentare la voracità consumistica dei suoi avventori.

Una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

Di fatto il cliente quando entra in questi luoghi non ha bisogno di uscirne, non vuole di fatto farlo, perché vi trova tutto quello di cui ha bisogno, bombardato costantemente da nuovi stimoli a spendere, ad acquisire nuovi oggetti senza che questi siano di fatto necessari…

Per questo è ancora più indicativa la definizione che viene data dei non morti:

These creatures are nothing but pure, motorized instinct.

Queste creature non sono altro che puro istinto motorizzato.

Quindi gli zombie non sono altro che gli statunitensi stessi, del tutto lobotomizzati e incapaci di pensare razionalmente, schiavi di un desiderio consumistico insaziabile, che, persino da morti, li porta ad invadere questo luogo…

I veri mostri

Ken Foree in una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

Se gli zombie sono dei personaggi quasi comici, financo grotteschi, per il loro modo di comportarsi e la musica che spesso accompagna le loro scene, il vero focus del film sono i protagonisti umani.

È come se, provocatoriamente, Romero ci chiedesse: i non morti e i sopravvissuti sono tanto diversi?

Anche se apparentemente sembra di sì, in realtà i protagonisti scelgono il centro commerciale come luogo in cui rifugiarsi non perché sia la scelta migliore in quel momento, ma perché irrazionalmente attratti dalla quantità di beni a disposizione, anche se questi non sono minimamente utili alla loro sopravvivenza.

Scott H. Reiniger in una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

E per questo si mettono costantemente in pericolo, divertendosi come dei bambini a scorrazzare per i corridoi e gli infiniti negozi del centro, al punto da ricreare in un certo senso i loro spazi quotidiani – una casa perfettamente arredata – ma che, proprio come il centro commerciale, sono del tutto fittizi e artificiosi.

Un ulteriore spunto riflessivo sulla contemporaneità è suggerito dal terrificante contrasto fra le scene gioiose, quasi comiche, dei protagonisti che uccidono gli zombie ed esplorano gli spazi, e la crudeltà delle uccisioni, sbudellamenti, abbuffate che portano la maggior parte dei personaggi alla morte.

Con questo contrasto Romero racconta degli Stati Uniti affogati nel sogno capitalista e consumista, che si nutre di questo ideale totalmente illusorio, beandosi di una realtà alternativa e dimenticandosi gli orrori di cui è circondata – nel film gli zombie, nella realtà la guerra, la criminalità, il degrado sociale…

L’ossessione del possesso

Ken Foree in una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

La drammaticità dell’ossessione per il possesso e il consumismo viene ancora più svelata nell’atto conclusivo.

I protagonisti vengono attaccati e devono difendersi, ma la lotta da nessuna delle due parti è per la sopravvivenza, ma piuttosto per, ancora una volta, una smania di possesso, che porta a delle scene veramente disturbanti…

…come i bikers che strappano gli anelli dalle mani degli zombie, l’ilarità quando si impossessano di soldi che ormai non hanno alcun valore e, soprattutto, la frase pronunciata da Stephen mentre punta il fucile contro gli intrusi:

It’s ours, we took it.

È nostro, lo abbiamo conquistato.

I protagonisti quindi sono incapaci di pensare lucidamente, del tutto dipendenti da questo mondo scintillante e pieno di false promesse, tanto che Peter dice esplicitamente di non volersene andare, e sceglie solo infine di seguire Fren, le cui parole riecheggiano dolorose per tutto il terzo atto:

What have we done to ourselves.

A che cosa ci siamo ridotti.