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The Darjeeling Limited – Una famiglia a pezzi

The Darjeeling Limited (2007) è uno dei titoli un po’ meno noti della filmografia di Wes Anderson: forse non la sua opera più memorabile, ma comunque impreziosita dalla sua peculiare tecnica e cura registica, oltre ad un’ottima scelta di casting.

Con un budget abbastanza contenuto – 17,5 milioni di dollari – non ottenne grande successo al botteghino: appena 35 milioni in tutto il mondo.

DI cosa parla The Darjeeling Limited?

Francis, Peter e Jack sono tre rampolli figli di una ricca famiglia, che intraprendono un viaggio per ricostruire i rapporti familiari ormai spezzati…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Darjeeling Limited?

Adrien Brody in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

In generale, sì.

Anche se, come detto, non è il titolo più di pregio della filmografia di Wes Anderson, è comunque una pellicola molto piacevole, che ricorda molto da vicino una delle sue prime opere, The Royal Tenenbaums (2001), di cui condivide la tematica principale.

Un film con una durata contenuta e con una storia molto semplice, ma portata in scena con la nota maestria di Anderson nel riuscire a viaggiare fra la commedia e il dramma, con un particolare focus sull’immancabile elemento della morte.

Insomma, non un titolo imperdibile, ma sicuramente essenziale per conoscere a fondo questo fantastico autore.

Uniti per forza

Adrien Brody, Owen Wilson e Jason Schwartzman in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

Nel suo primo atto, The Darjeeling Limited riesce a raccontare in maniera precisa e sottile il rapporto fra i tre fratelli.

Francis è l’entusiasta, che vuole a tutti i costi rimettere insieme questi rapporti familiari ormai spezzati, proprio a causa – ma non solo – della morte del padre e dell’ennesimo abbandono della madre.

Ma prende la via totalmente sbagliata.

Anche in aperta ironia verso la visione occidentale dell’utilizzare l’India come meta per recuperare la propria spiritualità perduta, il piano di Francis si rivela estremamente fragile, quasi infantile nella sua esecuzione, con il picco rappresentato dal furto dei passaporti dei fratelli…

Ritornare ai simboli

Adrien Brody, Owen Wilson e Jason Schwartzman in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

La visione infantile si perpetua anche per altri elementi.

Anzitutto con il comportamento di Peter, che cerca di appropriarsi, come dei feticci, degli oggetti del padre perduto, insistendo nella puerile idea di essere il suo preferito, come cercando di ottenere, anche da morto, l’affetto forse mai ricevuto.

Non solamente gli occhiali, ma anche la tanto desiderata cintura, che continua a passare di mano in mano, e, soprattutto, le valigie, il simbolo più forte di tutta la storia, rappresentante l’ingombrante bagaglio emotivo che i protagonisti devono portarsi dietro.

Anche se sono evidentemente dei bagagli troppo pesanti…

Il risveglio della morte

Quando il terzetto viene cacciato dal treno, simbolicamente perde del tutto una guida, un percorso prestabilito, e decide di abbandonare il viaggio.

La mancanza di una via sicura è simboleggiata già dalla scena in cui il treno, che dovrebbe essere il mezzo di trasporto più sicuro del suo percorso, sbaglia strada e per molto tempo non sa dove andare.

Ma, proprio quando sembra tutto perduto, la famiglia si riunisce nella morte.

Adrien Brody, Owen Wilson e Jason Schwartzman in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

La morte del ragazzino è infatti fondamentale per la risoluzione del trauma: trovandosi nel mezzo di una drammatica situazione familiare, pur essendone inevitabilmente una parte fondamentale, i tre decidono inizialmente di allontanarsene.

Ma, con l’improvvisa e inaspettata inclusione in questa sconosciuta famiglia, distrutta ma unita nel lutto, i tre rivivono l’analogo momento funereo che avrebbe dovuto rimettere insieme il gruppo familiare, ma che non ha fatto altro che confermarne la totale divisione.

Una divisione che si riflette anche nel comportamento degli stessi fratelli nelle loro rispettive relazioni: nessuno di loro riesce a tenere insieme queste neonate famiglie, neanche nei momenti che dovrebbero renderle più unite – come la nascita di un figlio.

Affrontare i traumi

Adrien Brody, Owen Wilson e Jason Schwartzman in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

Il terzo atto si definisce in tre momenti fondamentali.

Il primo è la scelta di Louis di mettersi definitivamente a nudo davanti ai propri fratelli, mostrando le ferite e le cicatrici che rappresentano in maniera simbolica, nonché assai cruda, il deterioramento del loro rapporto.

Infatti, il momento in cui l’uomo si lascia mettere nuove bende dai suoi fratelli, arrivando anche ad ammettere di essersi fatto del male solamente per attirare l’attenzione – e riunire la famiglia – è il motore che porta i protagonisti al confronto fondamentale.

Ovvero, l’incontro con la madre.

Come ci aspettavamo una madre fredda e distante, scopriamo invece una donna estremamente affettuosa con i propri figli, che li tratta anzi come se fossero ancora dei bambini – in particolare nella scena della buonanotte.

Tuttavia, riuscendo a superare il proprio stato infantile e trovando la forza per affrontare la genitrice, i tre fratelli si trovano davanti alla dura quanto schietta verità, raccontata dalla madre stessa: un affetto intenso, ma momentaneo, che può scomparire da un momento all’altro.

E, infatti, il giorno dopo Patrica esce nuovamente dalle loro vite.

Ma in questo modo i tre riescono a non essere più dipendenti dal suo affetto.

The Darjeeling Limited finale

Adrien Brody in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

Ma il momento fondamentale è la liberazione dall’ossessione paterna.

Proprio mentre stanno per risalire sul treno – quindi metaforicamente pronti a continuare la loro vita – i protagonisti decidono di abbandonare per sempre questo bagaglio emotivo così pesante che si sono portati dietro per tutta la vita – e per tutto il viaggio.

E così, dire finalmente addio al padre.

E, proprio per piccoli elementi, ritroviamo i fratelli finalmente riuniti: si interessano finalmente alla storia di Jack – e indirettamente lo comprendono – e lasciano i propri passaporti in mano a Francis, così che sia libero di riorganizzare il viaggio, e, di conseguenza, di consolidare i nuovi legami.

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Aliens – Il sequel muscolare

Aliens (1986) di James Cameron si impegna nel difficile compito di portare un seguito ad Alien (1979), uno dei più grandi cult della fantascienza, riuscendo tuttavia a creare un sequel a tratti ancora più iconico dell’originale, pur con un taglio narrativo ed estetico assai diverso.

Con un budget leggermente superiore al precedente – 18 milioni di dollari, circa 160 oggi – fu ancora una volta un enorme successo commerciale, con un incasso di 130 milioni di dollari (senza considerare le varie re-release negli anni) – circa 346 oggi.

Di cosa parla Aliens?

Dopo mezzo secolo di viaggio nell’ipersonno, Ripley si risveglia in un mondo cambiato e inconsapevole della minaccia degli xenomorfi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Aliens?

Sigourney Weaver e Carrie Henn in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Assolutamente sì.

Aliens è davvero il sequel più indovinato per Alien, anche per la scelta di renderlo molto più digeribile e meno complesso rispetto al capostipite, abbondando con l’azione e le esplosioni, ed inserendo anche una comicità sostanzialmente assente nel precedente.

Insomma, forse artisticamente meno elegante rispetto all’opera di Ridley Scott, nondimeno un’ottima prova per James Cameron, già forte del successo di Terminator (1984), da cui eredita non pochi elementi registici.

Insomma, se amate già Cameron, amerete questa pellicola.

Se al contrario preferivate la complessità di Scott…

L’aggancio perfetto

Sigourney Weaver in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

L’incipit di Aliens è l’aggancio perfetto.

James Cameron era indubbiamente il regista più calzante per creare un sequel che sapesse intercettare il sempre più nutrito fandom del primo capitolo, riuscendo a cogliere gli umori e le aspettative del pubblico.

Il primo colpo di genio è stato spostare la storia diversi anni avanti rispetto al primo – così da non doverne essere troppo dipendente – e, soprattutto, rendere lo spettatore complice della protagonista: come nel primo, nessuno crede a Ripley, ma sia noi che lei sappiamo verso quale pericolo si stanno dirigendo i personaggi.

Allo stesso modo, Cameron è stato molto abile nel riuscire a riprendere l’iconicità della scena del parto, applicandola però a Ripley, andando al contempo a riportare in scena – all’inizio, ma anche nel resto della pellicola – il concetto di maternità mostruosa proprio di Alien, pur in chiave più semplice.

Una nuova atmosfera

Il cambiamento di tono della pellicola l’ho trovato esilarante su più livelli.

Anzitutto, perché Cameron ha avuto la libertà di costruire i personaggi secondari – anzi, secondarissimi – con un background – quello militare – in cui riesce a muoversi con molta scioltezza e familiarità, come dimostrerà anche e soprattutto in Avatar (2009).

Un cambio di passo che, anche se abbandona il concetto dell’eroe comune proprio del precedente film, gli permette anche di alleggerire i toni dal punto di vista drammatico, con dinamiche e battute molto più semplici, ma, al contempo, più godibili.

L’unico problema di questo cambio di passo è come – anche comprensibilmente – si scelga di far diventare Ripley l’assoluta protagonista, rendendo così il film di fatto mancante nella caratterizzazione dei secondari, che diventano in breve tempo semplice carne da macello per gli alieni.

La tensione

Uno degli elementi più vincenti della pellicola è la costruzione della tensione.

Si parte fin dall’inizio con Ripley – e, indirettamente, lo spettatore – che cerca di convincere tutti gli altri dell’esistenza dello xenomorfo, per poi essere coinvolta in una missione di salvataggio di una situazione di cui solo noi e la protagonista conosciamo la gravità.

Gli xenomorfi restano in realtà fuori scena per buona parte del primo e secondo atto, ma sono una presenza invisibile costante: proprio nei silenzi, nei dettagli, nel mutismo di Newt che si percepisce come il pericolo sia proprio dietro l’angolo…

Il picco drammatico è il ritrovamento degli abitanti della colonia, ormai posseduti, nella mente e nel corpo, dalla ancora sconosciuta Madre che porta avanti la sua gestazione proprio grazie a loro, con un breve quanto agghiacciante dialogo con uno dei prigionieri…

Ancora a pezzi

Lo xenomorfo in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Per la gestione degli xenomorfi, Cameron riprende le mosse da Scott, ma sceglie poi anche una via profondamente diversa.

Gli alieni vengono infatti mostrati sempre in contesti in cui quasi spariscono nel buio della scena, con degli angoscianti primi piani – anche ripetuti – sui loro volti, quasi delle soggettive delle vittime prima che vengano brutalmente divorate.

Quindi si sceglie ancora una volta di mostrare il nemico a pezzi, in maniera funzionale a renderlo una presenza costante e sfuggente, sottolineata anche da un ottimo utilizzo del finto documentario, tramite i messaggi estremamente confusi che vengono trasmessi dalle forze sul campo all’astronave.

Tuttavia, al contempo Cameron sceglie di distruggere l’icona dello xenomorfo, i cui rappresentanti vengono sconfitti molto più facilmente rispetto al primo capitolo, smembrati, bruciati, addirittura schiacciati come degli insetti…

…ma per un buon motivo.

La banalità funzionale

Queen Xenomorph e Carrie Henn in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Sul finale, Cameron inserisce un ultimo elemento fondamentale.

Ripley si pone una giusta domanda, che lo spettatore potenzialmente poteva essersi posto persino in Alien: se ci sono tutte queste uova, chi le sta deponendo?

L’abilità di scrittura in questo caso è nell’inserire questo quesito, e non dare subito una risposta, facendo avvenire l’incontro con la Madre quasi per caso, con un espediente piuttosto semplice ma funzionale: Newt viene rapita.

E così la terribile figura della gestante viene rivelata al pubblico in tutta la sua monumentalità e nel suo aspetto mostruoso, come una macchina che crea dei nemici pericolosissimi per l’uomo, mostrandosi lei stessa come un avversario ancora più micidiale…

Déjà-vu

Sigourney Weaver e Queen Xenomorph in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Il finale di Aliens raccoglie tutta quella tensione quasi sopita per il resto del film.

Nonostante gli xenomorfi sembrino assai minacciosi, lo sono soprattutto perché sono in gruppo, ma in realtà appunto si rivelano per certi versi molto meno pericolosi rispetto al precedente capitolo, dal momento che sono sconfitti più e più volte.

La Madre è invece il nemico finale, e, a differenza dei figli, viene mostrata per la maggior parte del tempo nella sua immensa monumentalità, costruendo la tensione proprio sull’idea che sia un essere gigantesco e apparentemente impossibile da sconfiggere.

Queen Xenomorph in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Tuttavia, il finale è proprio la parte che mi ha meno convinto.

Anche se mi rendo perfettamente conto che sarebbe stato veramente complesso trovare un nuovo modo per annientare un nemico così terrificante e potente, ho trovavo poco indovinata la scelta di far coincidere la sua dipartita con quella del nemico del primo film.

Allo stesso modo mi è ancora meno piaciuta l’idea di utilizzare il medesimo colpo di scena dello xenomorfo apparentemente sconfitto che si nasconde sulla nave.

Infatti, oltre ad essere incredibilmente prevedibile avendo visto Alien, lo è ancora di più nella scena apparentemente tranquilla di Ripley che dialoga con Bishop, che sembra proprio chiamare il plot twist che arriva un momento dopo…

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Tre manifesti a Ebbing, Missouri – Una favola violenta

Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) è uno dei titoli più apprezzati di Martin McDonagh, con cui conquistò l’Academy sia per la sua sempre ottima scrittura della storia e dei personaggi, sia per il suo incredibile cast.

Con un budget abbastanza contenuto – fra i 12 e i 15 milioni di dollari – incassò piuttosto bene: 160 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Tre manifesti a Ebbing, Missouri?

Mildred è una donna indurita dalla vita, che ha appena perso la figlia, e che cerca ancora di farsi giustizia, a modo suo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Tre manifesti a Ebbing, Missouri?

Frances McDormand e Woody Harrelson in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

Assolutamente sì.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri è un film che riesce a colpirmi e a coinvolgermi ad ogni visione, proprio per la capacità di McDonagh nel bilanciare perfettamente – anzi, in questo caso anche in maniera pure più eleganteun profondo elemento drammatico con una comicità da bar.

Un film intenso, con attori straordinari che portano in scena personaggi assolutamente imperfetti, quasi negativi, ma che, proprio nella loro debolezza e cattiveria, risultano estremamente tridimensionali ed interessanti.

Mostrare i muscoli

Frances McDormand e Sam Rockwell in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

Fin da subito la pellicola racconta come Ebbing sia una cittadina violenza.

Infatti, i manifesti di Mildred, donna rigida e indomabile, sono la miccia che porta all’esplosione di una brutalità che in realtà era già presente nel corpo di polizia stesso, dominato dal razzismo e dalla violenza tipici dell’arida provincia statunitense.

Nonostante in un primo momento il diretto interessato – lo sceriffo Willoughby – cerchi di riportare la donna sui suoi passi, Mildred ribadisce la sua testardaggine, affermando sfacciatamente di aver anzi voluto sfruttare la situazione personale dell’uomo per i suoi fini.

Frances McDormand in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

In questo modo non si fa altro che creare una faida interna alla città, una sorta di lotta fra gang, in cui i diversi personaggi si schierano contro o a favore della decisione di Mildred, con esplosioni di violenza piuttosto esplicita, come il grottesco incontro col dentista.

Tuttavia, il punto di arrivo di questa situazione è la consapevolezza.

In principio la consapevolezza dello sceriffo, quando cerca di minacciare ed intimidire Mildred, ma finendo per rinsavire per colpa di un innocuo colpo di tosse, che gli ricorda che le sue ore sono contate e che è ora di concludere la sua esistenza in maniera dignitosa.

Le origini della rabbia

Parallelamente, scopriamo le origini del dramma di Mildred.

McDonagh sceglie consapevolmente di non raccontare un personaggio distintamente positivo, una madre addolorata che non riesce a venire a patti con la tragica scomparsa della figlia, ma, piuttosto, una donna che si sente in colpa per la morte della stessa.

Sottolineando come, purtroppo, ha anche ragione di esserlo.

Infatti, in poche, ottime inquadrature viene raccontata la difficile situazione familiare della protagonista, in costante antagonismo con Angela, al punto da arrivare sostanzialmente a spingerla – pur involontariamente – nelle braccia del suo assassino e stupratore.

Tuttavia, la rabbia di Mildred non è scaturita solo nel non riuscire a fare giustizia a sua figlia, neanche da morta, ma anche dal fatto di essere già da prima una donna inascoltata, proprio per la violenza domestica che ha subito, ma a cui nessuno ha creduto, nemmeno sua figlia.

Una situazione volutamente molto ambigua: la protagonista passa dall’essere sbattuta violentemente al muro dall’ex marito, al cercare un momentaneo conforto con lo stesso, per poi cacciarlo nuovamente di casa.

Allo stesso modo il figlio, fino a quel momento irrimediabilmente in disaccordo con la madre, non esita neanche un momento nel difenderla dalla violenza del padre.

L’eredità violenta

Woody Harrelson e Sam Rockwell in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

Con la sua morte, Bill Willoughby è il personaggio risolutore della vicenda.

Come anticipato, lo sceriffo raggiunge infine la consapevolezza della sua prossima dipartita, e capisce di avere la possibilità di risolvere questa lotta intestina, anzitutto offrendo il suo indiretto sostegno alla lotta di Mildred, pagando per un altro mese i tanto odiati manifesti.

Ma è soprattutto tramite le lettere che risolve la situazione.

Inizialmente sembra che la battaglia si sia solo inasprita, nella cieca rabbia di Dixon e di Mildred: se l’ex poliziotto prima aggredisce il povero Red, per poi dare fuoco ai manifesti, a sua volta la donna appicca un incendio nella stazione di polizia.

Sam Rockwell in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

Ma, proprio mentre è inconsapevolmente immerso dalle fiamme, Dixon raggiunge la sua consapevolezza grazie alla lettera del defunto amico.

Lo sceriffo infatti gli spiega come abbia tutte le qualità per essere un buon poliziotto, ma che non riesca ad esserlo perché manca di un elemento fondamentale: l’amore – o, meglio, l’effettivo coinvolgimento nei casi trattati, in particolare quello di Angela.

E allora Dixon fa l’inaspettato.

Affronta le fiamme e sceglie di rischiare la propria vita pur di salvare i documenti del caso della figlia di Mildred, che aveva pigramente lasciato a marcire sulla propria scrivania per tanto tempo.

E questo atto è anche il primo momento di consapevolezza di Mildred.

Qualcosa è cambiato

Il cambiamento di Mildred avviene grazie alla cena con James.

Ancora sicura della sua posizione, la donna accetta freddamente le derisioni infantili dell’ex-marito, e non sembra per nulla pentita per come tratta il suo compagno di cena. Finché è lo stesso James a sbottare e a metterla davanti alla realtà del suo insostenibile comportamento.

E questo cambia tutto.

Se la Mildred di un tempo avrebbe reagito violentemente al comportamento di Charlie, questa volta, pur avvicinandosi minacciosa al suo tavolo, sceglie invece di mettere definitivamente l’uomo al suo posto, accettando in un certo senso la sua nuova relazione.

Sam Rockwell in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

Parallelamente Dixon viene premiato per la sua scelta di prendere in mano il caso di Angela, trovando l’occasione per dimostrare il suo valore.

Se in passato l’ex-poliziotto avrebbe semplicemente ignorato le battute origliate al bar, questa volta sceglie invece di mettersi in prima linea, iniziando una rissa che sa già che perderà, pur di riuscire ad acquisire il DNA che potrebbe essere il punto di svolta per il caso.

In questo modo passa da essere nemico ad alleato di Mildred, che gli è riconoscente anche solamente per avergli dato un giorno di speranza.

Frances McDormand in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

E di nuovo vengono messi alla prova.

Dixon propone alla protagonista, in maniera neanche troppo sibillina, di utilizzare quell’uomo, quel sicuro stupratore, come capro espiatorio per la morte di Angela, portando avanti una giustizia privata in risposta all’incapacità della polizia di intervenire.

Tuttavia, finalmente questi due problematici personaggi si rendono conto di non voler più seguire quella strada, ma piuttosto di scegliere un percorso verso l’accettazione del lutto e del buono che, tutto sommato, lo stesso ha portato.

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Barbie – Un film necessario

Barbie (2023) di Greta Gerwig è uno dei film più chiacchierati dell’anno, che a tratti ha entusiasmato, a tratti ha totalmente indignato il pubblico, viste le tematiche molto controverse che ha portato in scena.

Un film che più che un film è stato un evento cinematografico come non se ne vedevano da Spider-Man No Way Home (2021), con 1,4 miliardi di dollari di incasso – a fronte di un budget di appena 145 milioni di dollari – diventando il maggior incasso del 2023.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Barbie (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Migliore sceneggiatura non originale
Miglior attore non protagonista a Ryan Gosling
Migliore attrice non protagonista a America Ferrera
Miglior scenografia
Migliori costumi
Migliore canzone What Was I Made For?
Migliore canzone I’m Just Ken

Di cosa parla Barbie?

In Barbieland le varie Barbie vivono in armonia nelle loro case da sogno, con delle esistenze sempre più perfette ogni giorno. Ma qualcosa è cambiato per la nostra protagonista…

Vi lascio qui il trailer, ma vi sconsiglio di guardarlo: come tutta la campagna marketing di questo film, è incredibilmente ingannevole, in quanto asciuga la pellicola di tutti i suoi significati, facendola apparire solo come una commedia leggera.

A voi la scelta:

Vale la pena di vedere Barbie?

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Assolutamente sì.

Barbie è uno dei film più interessanti del 2023, un’operazione molto intrigante e ben pensata per lanciare messaggi che, pur nella loro estrema semplicità, sono assolutamente fondamentali per comprendere la società odierna.

Oltre a questo, dal punto di vista totalmente intrattenitivo, è un film delizioso, nutrito di un’ottima ironia, spesso anche volutamente metanarrativa, sia sul mondo di Barbie, le sue dinamiche e la sua storia, sia per le interazioni della protagonista con il Mondo Reale.

Insomma, guardatelo e fatevi una vostra opinione.

Un mondo perfetto?

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Uno degli elementi più geniali di Barbie è la rappresentazione di Barbieland.

Si sarebbe potuta scegliere una blanda messinscena del mondo di Barbie come semplicemente una realtà più colorata e da sogno, ma sostanzialmente verosimile. E invece Barbieland è esattamente un giocattolo a grandezza naturale.

Tutto è di plastica, tutto è finto: dalle bottiglie non escono liquidi, il cibo è già pronto, le onde sono di plastica e non esistono le scale, ma solo gli scivoli e le mani invisibili dei bambini che muovono le bambole.

L’incrinatura di questa perfezione arriva quando appaiono i Ken in scena.

Margot Robbie, Ryan Gosling e Simon Liu in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

In questo senso il film lavora su due livelli: storico-sociale e metanarrativo.

Infatti, Ken come giocattolo nasce proprio come accessorio di Barbie, la vera protagonista della storia, tanto che molte delle bambine che ci hanno giocato si ricorderanno come il compagno maschile apparisse del tutto superfluo, facilmente sostituibile da altri generici personaggi maschili.

Dal punto di vista invece storico-sociale, i Ken sono sostanzialmente il corrispettivo delle donne nel Mondo Reale – ovviamente in maniera molto semplificata, e anche con riferimento ad epoche molto meno felici della nostra storia, senza quindi voler fare un parallelismo così netto.

I Ken vivono sostanzialmente in funzione delle Barbie che comandano il mondo, non hanno una propria casa – quindi una propria indipendenza economica – non hanno nessun merito e nessun riconoscimento dalle stesse, e appaiono anche piuttosto superficiali e sciocchi – proprio perché non hanno i mezzi e il background necessario per essere altrimenti.

Insomma, vivono oppressi in un matriarcato.

L’intrusione del tragico

Kate McKinnon in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

L’intrusione del tragico nella vita di Barbie è dovuta alla sua stretta correlazione con la bambina che gioca con lei.

Proprio per il fatto che Barbie, per sua natura, permette alle bambine di essere quello che vogliono, le stesse riversano nel gioco anche i loro sentimenti. Nel caso di Gloria, le insoddisfazioni e le paure di una bambina ormai cresciuta, che vive nell’ombra del modello irraggiungibile di Barbie.

In questo senso, anche vista la proposta della protagonista umana sul finale, la pellicola denuncia le pressioni sociali della donna contemporanea, spesso frustrata da modelli irraggiungibili – reali o ideali – che le impediscono di vivere ed essere felice anche nella sua ordinarietà.

Anche in questo caso si parla di un discorso molto semplicistico e volutamente accessibile, ma che racconta come il femminile a livello sociale non abbia ancora trovato la sua dimensione mediana, ma di come sia continuamente spinto a riconoscersi in modelli predefiniti – madre, donna in carriera, puttana – senza la possibilità di una via di mezzo.

L’oggettificazione

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

L’arrivo della protagonista nel Mondo Reale è una delle parti più riuscite del film.

La forza di questa sequenza è che non si parla mai esplicitamente di cat calling o oggettificazione – anzi, è la parte meno didascalica del film – ma si sceglie piuttosto di raccontare le sensazioni che prova una donna all’interno di un mondo ancora dominato dal punto di vista maschile.

Il corpo della donna, volente o nolente, è sempre un oggetto di discussione.

Nonostante Barbie scelga degli outfit normalissimi – anche se datati nonostante non voglia essere un oggetto sessuale, lo diventa comunque: continue allusioni, battute dirette, anche con la volontà di far sentire in colpa la vittima della situazione per non accettare dei complimenti.

Una realtà che purtroppo è incredibilmente reale e che porta spesso le donne a non sentirsi libere di vestirsi come meglio credono…

Alla scoperta di patriarcato

Ryan Gosling in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Il percorso di Ken richiede tutto un discorso a parte.

Ken, come detto, parte da una situazione di totale svantaggio ed esclusione sociale, vivendo appunto totalmente in funzione di Barbie – e delle donne in genere.

Appena approda nel Mondo Reale capisce che esiste una realtà dove, tutto sommato, non viene discriminato, ma anzi accettato e glorificato, in cui trova anche una coesione sociale con gli altri uomini, non divisi dalle invidie per le attenzioni di Barbie come in Barbieland.

Ovviamente anche in questo caso è una visione semplicistica e funzionale alla storia, nonché apertamente comica.

Ryan Gosling, Ncuti Gatwa e Kingsley Ben-Adir in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Il risultato è, tuttavia, quello di sostituire un mondo ingiusto con un’altra realtà ancora ingiusta, ma in senso contrario: non sono più le donne a dominare il mondo, ma gli uomini, con le figure femminili che diventano del tutto ancillari e, di fatto, totalmente accessorie.

Tuttavia, appare evidente come lo stesso patriarcato danneggi gli uomini stessi: ubriacati in questo sogno di potenza, oltre a non rispettare le donne, sono così sicuri di sé stessi da apparire di fatto ridicoli e, soprattutto, facilmente manipolabili.

Oltretutto, l’odio intestino che sembrava essere risolto con l’avvento del patriarcato, in realtà è ancora più radicato, in una competizione per l’invidia e il possesso delle loro compagne che sfocia in una vera e propria guerra.

Il femminismo intergenerazionale

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Uno dei discorsi più interessanti di Barbie è il femminismo intergenerazionale.

La figura di Barbie, modello per la generazione precedente – Millennials e Gen X – viene del tutto rigettata dalla Gen Z, rappresentata da Sasha, che vede in questa icona molto controversa più gli elementi negativi che positivi.

Effettivamente Barbie è di per sé una figura contrastante: nata – come ci spiega l’inizio del film – anche con l’obbiettivo di dare alle bambine una prospettiva diversa sulla loro vita e il loro futuro, al contempo ha rappresentato negli anni un modello irraggiungibile di perfezione femminile.

America Ferrera in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Per questo Sasha la respinge in toto.

Tuttavia, la ragazzina col tempo si ricrede e infine accetta il modello che ha definito la crescita e la consapevolezza della madre – e quindi della generazione precedente – arrivando, su un altro piano, ad accettare le conquiste di un femminismo forse più datato, più controverso, ma assolutamente essenziale per le conquiste presenti e future.

E, anzi, come abbiamo visto sopra, proprio questa esperienza spingerà sia Barbie che Gloria a riscrivere in un certo senso l’icona della Mattel in qualcosa di più inclusivo.

Le strade si dividono

Ryan Gosling in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Il finale di Barbie è uno degli elementi più controversi del film.

La parte apparentemente più problematica è quella di Ken: con una lunga – e già iconica – canzone, il protagonista maschile esprime i suoi sentimenti e racconta di come si senta sempre il numero due, sempre messo da parte, vivendo in una costante insoddisfazione.

Per questo Barbie viene in suo aiuto con una riflessione che serve ad entrambi: la scelta di evadere i modelli, i simboli che sembravano definirli – sia nel patriarcato che nel matriarcato – ed intraprendere invece un percorso che li porti alla scoperta di una propria identità.

Insomma, come Ken ha un risveglio di coscienza grazie alle parole di Barbie – che ammette anche i suoi errori nell’averlo dato per scontato – allo stesso modo le Barbie, che erano state manipolate per accettare la semplicità del patriarcato, proprio come le donne di ieri, diventano consapevoli dell’ingiustizia della nuova realtà e decidono di ribellarsi.

E qui arriviamo al punto più discusso del film.

Nonostante non abbiano fatto lo stesso percorso di Barbie, anche le altre donne di Barbieland sono più consapevoli, e capiscono che non possono tornare in toto ad una realtà matriarcale ed esclusiva come quella in cui vivevano precedentemente.

Tuttavia, davanti alle richieste dei Ken di acquisire finalmente un ruolo di potere fondamentale, la Presidentessa sceglie invece di dargli un piccolo ruolo amministrativo – quello che potremmo definire ministero senza portafoglio.

Al che segue la seguente battuta della voce fuori campo:

Well, the Kens have to start somewhere, and one day the Kens will have as much power and influence in Barbieland as women have in the Real World.

I Ken devono pur cominciare da qualche parte, e un giorno avranno tanto potere ed influenza in Barbieland di quanto ne hanno le donne nel Mondo Reale.

Barbie finale spiegazione

La battuta è volutamente ironica e cattiva, e vuole raccontare quanto il problema delle discriminazioni e dell’inclusione sociale non si risolve per magia o con i buoni sentimenti, ma che serve un lavoro duro, continuativo e difficile, anche solo per arrivare ad un briciolo di parità sociale.

E, secondo me, è la scelta perfetta.

Sia perché non porta in scena una risoluzione ideale, nonché totalmente irrealistica e poco consapevole, sia perché non si sbilancia nella glorificazione femminile – in un film già molto sbilanciato in quel senso: in situazione analoga a quella del patriarcato, le donne avrebbero altrettanta difficoltà cedere i propri diritti e il proprio potere quanto gli uomini di oggi.

Un concetto che vuole ancora una volta dimostrare come non sia un problema od una colpa da addossare agli uomini in quanto uomini – come purtroppo certe correnti femministe si ostinano a sostenere – ma piuttosto un problema sistemico e sociale che va risolto dalle fondamenta.

La scelta di Barbie

Ryan Gosling e Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

La scelta finale di Barbie è forse la parte ancora meno compresa della pellicola.

Dopo aver vissuto nel Mondo Reale, con le sue difficoltà e incomprensioni, Barbie man mano durante la pellicola si libera sempre di più di quegli elementi e simboli che la definivano nell’apparentemente perfetto matriarcato in cui viveva – e che non voleva cambiare.

Una scelta sempre più consapevole di cercare la propria identità altrove rispetto al modello di Barbie Stereotipata – e quindi vuota – a cui si era rifatta per tutta la vita, scegliendo di vivere in un mondo molto più difficile ad antagonistico, ma che le offre anche molte alternative.

Ed è ancora più indovinato il finale in cui la novella Barbara sceglie come primo passo di farsi visitare dalla ginecologa, ad indicare come non sia immediatamente fatta assorbire dal modello capitalista per cui il valore di una persona passa dal suo lavoro.

Piuttosto la protagonista sceglie di scoprirsi in questo nuovo corpo, diventando finalmente più consapevole e serena per lo stesso.

Barbie 2023 citazioni

Barbie è un film pieno di citazioni ad altre pellicole.

Ecco le più interessanti.

Quella più evidente è ovviamente 2001: Odissea nello Spazio (1968) nell’iconico incipit, che è stato usato come teaser trailer per il film stesso:

Quando Barbie sceglie il suo outfit all’inizio del film, è un evidente omaggio al teen movie Clueless (1995) – in Italia noto come Ragazze a Beverly Hills – nella famosissima scena in cui la protagonista si prepara per andare a scuola:

La scena danzante nella mega party di Barbie alla fine della sua giornata è un riferimento visivo alla fantastica scena in discoteca in La febbre del sabato sera (1977):

All’inizio del film si cita anche Matrix (1999): invece che fra la pillola blu o la pillola rossa, Barbie deve scegliere fra la Birkenstock e Scarpa col tacco:

Nella scena in cui Barbie torna a Barbieland e vede i Ken giocare a pallavolo, si cita la scena analoga in Top Gun (1986):

Infine, l’ormai iconica scena di ballo della canzone I’m just Ken è un mix di riferimenti a Singin’ in the rain (1952) e Grease (1978):

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Alien Avventura Azione Cult rivisti oggi Drammatico Fantascienza Film Frammenti di sci-fi Futuristico Horror Recult

Alien – La maternità mostruosa

Alien (1979) di Ridley Scott è uno dei film di fantascienza più iconici del suo genere (e non solo), con diversi sequel, prequel e spin-off usciti nel corso degli anni.

Con appena 11 milioni di budget – circa 48 milioni oggi – ebbe un successo incredibile: 184 milioni in tutto il mondo, circa 806 milioni oggi.

Di cosa parla Alien?

20122, Spazio. L’astronave di trasporto Nostromo sta compiendo il viaggio di ritorno verso la Terra, ma un messaggio misterioso bloccherà l’equipaggio su un pianeta sconosciuto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Alien?

Assolutamente sì.

Alien è un cult non per caso: nonostante non sia un film particolarmente avvincente – ha dei ritmi assai lenti, soprattutto durante il primo atto – è una meraviglia dal punto di vista dell’innovazione, dell’utilizzo degli effettivi visivi e della regia.

Rappresenta, come il poco antecedente Terrore dallo spazio profondo (1978), un esempio di fantascienza estremamente negativa, in questo caso nettamente orrorifica fin dalla prima inquadratura, riuscendo ad incutere nello spettatore un senso di costante angoscia e paura…

Il vuoto cosmico

L’inizio di Alien è estremamente rivelatorio.

La lunga e lenta sequenza iniziale mostra un’aeronave vuota, immersa nelle tenebre, in cui le poche luci provengono dalle fredde e mute macchine, che sembrano agire nell’ombra, alle spalle degli stessi umani che dovrebbero controllarle…

Particolarmente interessante è l’inquadratura che si sofferma sul casco da astronauta, in cui si riflette freddamente la schermata del computer – o, meglio, di Madre: una macchina che sta elaborando le informazioni in un linguaggio incomprensibile all’uomo, nella lingua delle macchine…

Un’apertura fin da subito angosciante, ancora di più per il contrasto con la sequenza successiva…

I bambini

La scena seguente è una delle poche con un’illuminazione chiara e confortante.

Incontriamo per la prima volta i protagonisti della storia, addormentati, con un abbigliamento che, più che adulti, li fa sembrare dei neonati in fasce, immersi proprio in questo morbido bianco e in una musica stranamente rilassante…

Il tema della maternità ingannevole è presente già nel contrasto fra questa scena e la precedente, e così anche nel modo in cui i personaggi umani si rivelano sempre più dipendenti da Madre: addormentati nel suo ventre, in una sorta di bozzoli, ignari della trama che è stata messa in moto alle loro spalle.

L’apparente delicatezza e familiarità della situazione è ribadita anche dalla scena immediatamente successiva, in cui i personaggi, ancora vestiti di bianco, si riuniscono per la colazione, in una sequenza scarsamente illuminata da una luce fredda, bianca e artificiale.

E, proprio come se fossero nella casa natale, Ash dice a Dallas:

Mother wants to talk to you.

Madre ti vuole parlare.

E non è un caso che proprio Ash inviti il suo compagno umano a recarsi dal computer centrale, con cui ha comunicato in realtà per tutto il tempo, giocando un ruolo centrale nell’avviare il piano, partendo proprio da questo invito apparentemente innocuo.

Le prede

Dallas in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

L’esplorazione del mondo alieno è la sequenza più iconica della pellicola.

In questo caso è la prima volta che Alien assume delle tinte nettamente orrorifiche, con i personaggi che si muovono in un luogo inghiottito da tenebre apparentemente impenetrabili, su cui tentano disperatamente e inutilmente di fare luce.

Invece riescono a rivelare solo qualcosa di incomprensibile.

La scena è ancora più suggestiva se si pensa alla tecnica utilizzata: l’intera sequenza è raccontata tramite l’utilizzo della camera a mano, che mima la trasmissione diretta ed incostante degli esploratori alla nave.

Uovo di Alien in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

Particolarmente angosciante è la scoperta dell’iconica cabina di pilotaggio: enorme, incomprensibile, guidata da un essere enorme, ma ormai defunto.

E se un gigante come quello è stato sconfitto…

Ancora più indovinata è la scena della scoperta delle uova, in cui Scott alterna soggettive di Dallas – a volte ancora con la camera a mano – ad inquadrature più ampie che mostrano lo svolgersi del dramma, del personaggio che da esploratore si trasforma in preda.

La voce fuori dal coro

Sigourney Weaver in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

Nonostante Alien sia un film fondamentalmente corale, dal secondo atto in poi una voce si staglia in netto contrasto con tutti gli altri.

Quella di Ripley, la vera protagonista, la final girl ante litteram.

Il suo personaggio è infatti l’unico che cerca attivamente di contrastare le decisioni di Ash, mostrandosi come la più ragionevole del gruppo, pur avendo molte difficoltà ad imporre la propria autorità, contrastata dai ben più irriverenti e testardi personaggi maschili.

Sigourney Weaver, Ian Holm e Yaphet Kotto in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

In questo senso, Alien rappresenta un cambiamento epocale: nella maggior parte dei film di fantascienza precedenti e successivi, il personaggio femminile – se presente – è messo ai margini della scena, è poco attivo, nonché spesso ridotto ad interesse amoroso o a spalla del protagonista maschile.

Invece per tutta la pellicola Ripley è la voce della ragione, l’unica che veramente cerca di imporsi per trovare una soluzione che non comporti la morte dei suoi compagni e l’unica, infine, veramente capace di utilizzare la propria intelligenza per sconfiggere il mostro.

Il parto

Il parto mostruoso è la rivelazione finale.

Dopo essere riusciti a mettere le mani sull’intruso, in un apparente clima di vittoria, il gruppo torna a ricomporre una scena familiare, parallela a quella della colazione iniziale, dove sembra che vada tutto bene.

Invece, con un sapiente crescendo di tensione, la scena svela tutto il suo orrore e la sua drammaticità: il petto di Dallas esplode per far nascere il mostro, in un parto pieno di sangue, morte e orrore.

Così si rivela già anticipatamente la vera natura di Madre e di tutta la situazione: la ciurma non sono i suoi bambini, ma sono delle cavie, delle prede messe a disposizione dello xenomorfo per il guadagno della compagnia.

Uno slasher?

Sigourney Weaver in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

Nonostante Alien sia un cult della fantascienza, contiene alcuni elementi propri dello slasher, sottogenere horror che stava prendendo piede proprio in quegli anni.

Oltre all’emergere della final girl – Ripley – nel terzo atto i personaggi si comportano proprio come i protagonisti di un film horror adolescenziale: scelgono di non fuggire al pericolo, ma di affrontare direttamente il mostro, in maniera sempre più vana e disperata.

E così cominciano a morire uno dopo l’altro, in sequenze semplicemente perfette per la tensione e la messinscena, dove spesso gli unici suoni sono il loro ansimare, il gocciolio dell’acqua, l’eco dei loro passi…

In particolare, Scott fa un uso molto intelligente della fotografia, nascondendo il più possibile il mostro, rivelandolo principalmente per i dettagli più agghiaccianti: una minaccia sfuggente, ma costante.

Sigourney Weaver e xenomorfo in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

E la tensione rimane palpabile fino all’ultimo momento, con anche un colpo di scena ottimamente congegnato: lo spettatore tira un sospiro di sollievo insieme a Ripley quando vede la nave scoppiare – e lo xenomorfo insieme ad essa…

…ma è di nuovo assalito dall’orrore e dall’angoscia quando scopre che il mostro era riuscito a nascondersi.

Ma è proprio in questo momento che Ripley si dimostra la vera eroina della storia, riuscendo a ingannare e infine a sconfiggere il nemico, pur mostrandosi in tutta la sua insicurezza e paura, in cui lo spettatore può facilmente rispecchiarsi…

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Avventura Comico Commedia nera Drammatico Film Martin McDonagh

In Bruges – Spogliare il genere

In Bruges (2008) è una delle prime opere di Martin McDonagh, e anche fra quelle più apprezzate della sua produzione.

Con un budget piuttosto risicato – appena 15 milioni di dollari – incassò abbastanza bene: circa 34 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla In Bruges?

Ray e Ken sono due mercenari che, dopo il loro omicidio, devono nascondersi nella città di Bruges, in Belgio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere In Bruges?

In generale, sì.

Per quanto apprezzi molto questo film, non mi sento di consigliarvelo spassionatamente: è un mix micidiale fra il dramma più sanguinoso e spinto, e una comicità nerissima.

Tuttavia se, come me, avete apprezzato Gli spiriti dell’isola (2022), sarete ancora una volta piacevolmente sorpresi dall’arguzia di questo regista nel sorprendere lo spettatore, ora con una risata angosciante, ora con una ripresa rivoltante.

Insomma, arrivateci preparati.

Un inizio sbagliato

Brendan Gleeson in una scena di In Bruges (2008) di Martin McDonagh

L’inizio di In Bruges per un attimo sembra l’incipit di un giallo hard boiled

…ma subito si rivela per quello che è.

Oltre all’introduzione della voce narrativa assolutamente fuori luogo, viene mostrata una situazione che, se non ci fossero di mezzo due killer ed un omicidio, sembrerebbe propria di una commedia enemy to lovers tipica di quegli anni.

Infatti, i due protagonisti sono totalmente contrapposti per carattere e atteggiamento, riuscendo a sostenere la presenza l’uno dell’altro solo per dovere, con un incalzare piuttosto insistente per portare in scena anche il terzo uomo, Harry.

L’introduzione del dramma

Colin Farell in una scena di In Bruges (2008) di Martin McDonagh

Dopo un primo atto quasi totalmente umoristico, l’introduzione del dramma è sconvolgente.

Sia la scoperta della dinamica del primo omicidio di Ray, con una vittima innocente di mezzo, sia l’ordine piuttosto veemente di Harry, penetrano la comicità della pellicola e la rendono improvvisamente molto più angosciante, con un’alternanza sconvolgente fra picchi più profondamente drammatici e momenti apertamente comici.

Brendan Gleeson in una scena di In Bruges (2008) di Martin McDonagh

Seguiamo Ken mentre, silenziosamente, accetta l’ordine di Harry, da cui scopriamo essere legato da un retroscena ben più importante della vita del suo compagno di delitti, fino ad avvicinarsi al momento dell’uccisione…

…improvvisamente interrotto da una scena quasi comica, in cui scopriamo che già di per sé Ray non riesce a continuare a vivere con il peso del suo delitto sulle palle.

E allora viene temporaneamente congedato di scena.

Picchi

Ralph Fiennes in una scena di In Bruges (2008) di Martin McDonagh

Il terzo atto viene scatenato dalla telefonata di Ken, che porta finalmente in scena Harry, fino a quel momento presenza invisibile della storia.

Anche con Harry si costruisce un importante contrasto: appartenente un killer spietato e legato ai concetti di onore e responsabilità, ma al contempo anche un family man che rassicura amorevolmente i suoi cari sul fatto che tornerà presto a casa.

Tutta la parte finale è definita sempre di più dal contrasto fra comico e drammatico: dal discorso struggente di Ken, al momento di commedia quasi slapstick di Harry che gli spara alla gamba, fino all’annientamento del protagonista quando cerca di fermare il suo capo dall’uccidere il suo giovane amico.

Brendan Gleeson in una scena di In Bruges (2008) di Martin McDonagh

A partire dalla morte di Ken, la regia gioca con il metanarrativo e il grottesco: una rapida inquadratura mostra il suo corpo distrutto mentre parla con l’amico, cercando inutilmente di salvarlo, ma le sue ultime parole rivelano come gli stessi personaggi siano consapevoli delle dinamiche della storia:

I’m gonna die now, I think.

Credo che ora morirò.

Allo stesso modo la situazione di stallo fra Ray e Harry, che dovrebbe essere estremamente drammatica e altisonante, in realtà si rivela un rocambolesco accordo fra le parti, con l’inevitabile morte del primo…

Brendan Gleeson in una scena di In Bruges (2008) di Martin McDonagh

…ma non è finita.

Dopo aver sparato altri colpi per finire il protagonista, involontariamente Harry colpisce anche Jimmy, che, così vestito, sembra un bambino.

E non servono a niente le parole di Ray per dissuaderlo dal suicidio, lasciando in bocca allo spettatore un piccolo sorriso per il paradosso drammatico e grottesco della scena…

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Avventura Cinema in viaggio Commedia Drammatico Film Racconto di formazione Road movie

A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar – Un equilibrio peculiare

A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron è uno dei più importanti film del cinema queer, al tempo veramente rivoluzionario per il pubblico mainstream.

Nonostante negli anni abbia acquisito un’importante notorietà, all’uscita fu un flop: con un budget di 30 milioni di dollari, incassò appena 47 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar?

Vida Boheme e Noxeema Jackson sono due famose drag queen di New York che intraprendono un viaggio in auto alla volta di Los Angeles, con un ospite inaspettato…

Vi lascio il trailer per farti un’idea:

Vale la pena di vedere A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar?

Patrick Swayze, Wesley Snipes e John Leguizamo in una scena di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron

Assolutamente sì.

A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar è un film fantastico, che riesce a raccontare con particolare delicatezza temi per nulla semplici, anzi particolarmente drammatici, ma senza mai sfociare nel dramma più smaccato.

Particolarmente brillante la recitazione dei tre attori protagonisti: pur non essendo drag queen, si sono immedesimati perfettamente nella parte, senza mai risultare fuori luogo, anzi.

L’inaspettato

Patrick Swayze in una scena di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron

La particolarità di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar è già nel casting.

Scegliere un attore come Wesley Snipes, futuro interprete di Blade nella saga omonima, e soprattutto Patrick Swayze, la star del cult Dirty Dancing (1987), un divo che era il sogno di un’intera generazione di ragazzine, per interpretare delle drag queen non è una scelta casuale.

E infatti l’incipit gioca proprio su questo apparente contrasto: Patrick Swayze entra in scena in tutta la sua possanza dopo essersi fatto la doccia canticchiando It’s a man’s world, e si trasforma nel suo personaggio.

Un contrasto apparentemente incolmabile, che è invece smentito dalla bravura dell’attore, il quale, insieme a Wesley Snipes, porta in scena una drag queen elegantissima, sublime: insomma, una vera diva d’altri tempi.

Il primo atto d’amicizia

Patrick Swayze in una scena di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron

Ma Vida non è solamente una fantastica drag queen, ma è anche un personaggio guidato da importanti ideali.

Il motore della storia è proprio la scelta di aiutare un collega alle prime armi, un ragazzino ispanico che non conosce niente del mondo, e che, come vedremo, si mette continuamente in pericolo, in qualche modo anche svendendosi.

Un’occasione anche per raccontare in maniera molto esplicita la differenza fra transessuali, travestiti e le drag queen, in un momento quasi didascalico, in realtà fondamentale per gli intenti del film: avvicinare un pubblico inesperto del mondo queer a concetti importantissimi.

E, al contempo, si vanno anche a smentire stereotipi piuttosto crudeli per il mondo drag, che ne svalutano il valore, proprio scegliendo di non far mai uscire Vida dal suo personaggio, perché rappresenta proprio l’espressione della sua vera identità.

La violenza edulcorata

Patrick Swayze in una scena di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron

Per rappresentare gli elementi anche più drammatici della vicenda, A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar sceglie una via di mezzo.

Ed è una via di mezzo ben pensata, che non toglie importanza a momenti veramente drammatici – come il ritorno di Vida alla sua casa natale – e violenti – come la relazione tossica fra Virgil e Carol.

In particolare, è interessante la scena della tentata violenza con il poliziotto, che ovviamente fa il verso a Thelma & Louise (1991), ma con un esito felice: essendo piuttosto ben piazzata, Vida riesce a difendersi e il poliziotto non muore, ma viene ridicolizzato.

Allo stesso modo, quando la protagonista sceglie di intervenire per proteggere la sua nuova amica, non si mostra esplicitamente la violenza della scena, se non per la sua parte conclusiva, che ha un taglio quasi comico.

Infatti, il taglio del film è quanto più positivo possibile.

Nemici e alleati

La pellicola vuole parlare il meno possibile di nemici, ma quanto più di alleati – o possibili tali.

Il weekend in quello sperduto paesino è un’occasione per le tre protagoniste di riuscire a rendere le donne locali più sicure di sé stesse, e gli uomini meno insicuri e distrutti dalla loro stessa mascolinità tossica e violenta.

E il percorso è quanto più naturale e positivo, con una storia emozionante e commovente, in cui un gruppo di donne riesce finalmente a valorizzarsi – ma, soprattutto, a sentirsi veramente libere e felici di poterlo fare.

Patrick Swayze in una scena di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron

Ed è una rappresentazione tanto più vincente in quanto mostra una realtà maschile molto variegata: gli uomini effettivamente negativi sono solo due – Virgil e il poliziotto – ed entrambi vengono messi al loro posto, senza però spingere troppo l’acceleratore sulla loro punizione.

Anzi, il momento di messa in fuga di Dollard racconta come tutti gli abitanti del paese abbiano accettato le protagoniste per quello che sono, sia perché li hanno aiutati, sia perché in questo modo hanno scoperto una parte di sé lontana dagli stereotipi di genere da cui erano definiti.

Ancora più interessante il fatto che i ragazzini non hanno una reazione violenta nei confronti delle drag queen, ma anzi accolgono la lezione – pur brutale – di Noxeema così da migliorarsi e diventare loro alleati.

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Terrore dallo spazio profondo – L’invasione silenziosa

Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman, remake di L’invasione degli ultracorpi (1956), è considerato uno dei migliori film di fantascienza mai realizzati.

A fronte di un budget molto contenuto – 3,5 milioni di dollari, circa 16 oggi – incassò piuttosto bene: 28 milioni di dollari (solo negli Stati Uniti), corrispondenti a circa 122 milioni oggi.

Di cosa parla Terrore dallo spazio profondo?

In un angolo remoto dello spazio, una misteriosa entità discende sulla Terra, camuffandosi fra gli umani…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Terrore dallo spazio profondo?

Leonard Nimoy, Donald Sutherland e Jeff Goldblum in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

Assolutamente sì.

Confrontandolo con Incontro ravvicinati del terzo tipo (1977), Terrore dallo spazio profondo rappresenta l’altra faccia del genere: una fantascienza che innova il tema dell’invasione aliena, con un taglio molto più orrorifico e pessimistico, per certi tratti quasi un thriller.

Ma la bellezza del prodotto è rappresentata anche dalla sua incredibile regia, con diverse inquadrature di grandissima raffinatezza e artisticità, e una scelta della messinscena e della colonna sonora sempre precisa ed efficace.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Un inizio a metà

Brooke Adams in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

L’inizio di Terrore dallo spazio profondo offre solo le informazioni essenziali per poter mettere lo spettatore sullo stesso piano dei personaggi.

Inizialmente infatti sappiamo solo che qualcosa di misterioso, senza faccia e senza forma, è piovuto sulla terra nell’aspetto più innocuo possibile: un fiorellino che chiunque di noi avrebbe voglia di raccogliere e conservare in casa.

E così seguiamo brevemente l’ampio gruppo di personaggi e la loro profonda emotività, mentre l’invasione rimane sotterranea e invisibile, riconoscibile solamente per i piccoli particolari, per un primo atto con una tensione perfetta.

Un presentimento

Prima della scoperta – dello spettatore e dei personaggi – dell’effettivo piano degli alieni, il film vive di atmosfere e presentimenti.

Si comincia a percepire che qualcosa è cambiato, che tutto quello che sembra normale, in realtà è profondamente mutato, anche se in maniera quasi impercettibile, con un sublime dialogo fra Elizabeth e Matthew.

Today everything seemed the same, but it wasn’t.

Oggi tutto sembrava uguale, ma non lo era.

Un dialogo, fra l’altro, accompagnato da sequenze che, nella loro semplicità e precisione, rendono perfettamente il senso di angoscia della protagonista, e ci permettono di immergerci nei suoi dolorosi presentimenti oscuri, culminati con un sanguinoso incidente mostrato in tutta la sua brutalità.

Un racconto a cui non solo crediamo, ma in cui possiamo totalmente ritrovarci: un ambiente familiare, definito da elementi riconoscibili, può mutarsi in una realtà irriconoscibile, minacciosa, quando anche solo pochi sguardi sbagliati cambiano tutto…

Invisibile e inarrestabile

Donald Sutherland in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

Per gli ultimi due atti Terrore dallo spazio profondo alterna l’angoscia psicologica e al terrore visivo.

L’invasione invisibile è prima di tutto un orrore psicologico, che fa cadere i personaggi nella completa paranoia, davanti alla facilità con cui gli alieni distruggono i corpi umani e li sostituiscono con delle copie perfette.

Inoltre, si introduce un sottile dubbio nella mente dei personaggi e dello spettatore: la specie umana è quella che davvero dovrebbe vivere sulla Terra, visto quanto è dilaniata dalle emozioni che portano gli esseri umani a distruggersi fra di loro?

Al contempo l’orrore visivo è garantito da un uso veramente ottimale degli effetti visivi materiali, che raccontano la rinascita del corpo scegliendo appositamente elementi che provocano disgusto e sconvolgimento, mostrando esseri volutamente contraddittori.

Feti con forma adulta, uomini che nascono da bozzoli…

La chiusura

Brooke Adams in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

La chiusura di Terrore dallo spazio profondo è magistrale.

Gli elementi del finale vengono introdotti a poco a poco, anzitutto con il tentativo dei protagonisti di ingannare gli alieni, ma essendo continuamente messi alla prova dalla loro profonda debolezza umana, che li rende del tutto schiavi delle emozioni.

Ancora più agghiacciante è la morte e rinascita di Elizabeth, il cui corpo si sfalda fra le braccia di Matthew, per poi mostrarsi di nuovo in una forma quasi primordiale, nuda e senza vergogna, saggia e riflessiva, del tutto in contrasto con il personaggio che era stato finora.

Donald Sutherland in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

Il culmine è l’iconico finale, in cui Nancy crede ancora di poter trovare nell’irreprensibile Matthew, l’ultimo uomo in vita, un alleato. E invece, grazie all’incredibile espressività di Donald Sutherland, la donna diviene agonizzante, sommersa dal terribile verso di allarme dell’alieno…

…e, al contempo, dalla consapevolezza della fine dell’umanità.

Terrore dallo spazio profondo regia

Ammetto che, prima di vedere Terrore dallo spazio profondo non conoscevo l’opera di Kaufman – noto anche per altri titoli, come Uomini veri (1983) e L’insostenibile leggerezza dell’essere (1988).

Ma in questa pellicola l’ho trovata una regia così elegante ed indovinata che ci tenevo a scrivere un paio di righe per sottolineare gli aspetti che mi hanno colpito di più.

Anzitutto, la profondità dello sguardo.

In non pochi momenti Kaufman sceglie una messinscena con inquadrature molto profonde, sia per creare dei significati visivi, sia per dare maggiore respiro alla scena.

Nel primo caso, vediamo ad esempio nella scena in cui Jack si stende, e in secondo piano scorgiamo il mutante, creando una simmetria visiva che racconta come il personaggio si stia per trasformare:

Per il secondo caso è emblematica è la scena in cui Matthew cerca di chiamare Elizabeth, e, dopo diversi primi piani e particolari, l’occhio della cinepresa si allarga per mostrarci anche quello che succede intorno al personaggio:

Un altro aspetto che ho molto apprezzato della regia è l’uso mai banale delle ombre sul volto dei personaggi, creando delle inquadrature quasi artistiche, che ne sottolineano di volta in volta l’atmosfera tetra e angosciante:

Infine, mi ha fatto impazzire la raffinatezza con cui la regia sporca l’inquadratura con evidenti elementi di disturbo, che si rivelano in realtà ingredienti imprescindibili per delle inquadrature magnifiche:

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70s classics Avventura Azione Comico Drammatico Fantascienza Film Frammenti di sci-fi Recult Steven Spielberg

Incontri ravvicinati del terzo tipo – La fantascienza positiva

Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) è un classico della fantascienza Anni Settanta (e non solo), nato dalla mente di uno dei più grandi maestri dei cult vivente, Steven Spielberg, al tempo forte del recente successo di Lo squalo (1975).

Con un budget di appena 20 milioni di dollari – circa 100 oggi – ebbe un successo stratosferico, con un incasso di 300 milioni di dollari – circa un miliardo e mezzo oggi.

Di cosa parla Incontri ravvicinati del terzo tipo?

Durante un turno di lavoro notturno, Roy Neary viene coinvolto in un inseguimento di quattro UFO da parte della polizia, vivendo così un incontro ravvicinato...

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Incontri ravvicinati del terzo tipo?

Richard Dreyfuss in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

Incontri ravvicinati del terzo tipo è veramente un titolo imperdibile se siete appassionati di fantascienza, soprattutto a quel tipo di fantascienza pensata per un pubblico più giovane.

Fra l’altro una pellicola che mostra tutta l’intelligenza di Spielberg anche come sceneggiatore, capace di creare scene dal taglio orrorifico diventate immediatamente iconiche – e citate in Stranger Things – e passare organicamente a momenti di pura comicità.

Insomma, cosa state aspettando?

Gli eroi per caso

Richard Dreyfuss in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

Incontri ravvicinati del terzo tipo si basa su un modello narrativo molto semplice, ma che io adoro dei film di fantascienza.

L’eroe incompreso.

Il protagonista principale è Roy, che fin da subito è raccontato come personaggio fondamentalmente non preso sul serio dalla sua famiglia, testardo, quasi infantile, contrapposto alla più autoritaria figura femminile.

A lui viene affidata un’importante sequenza comica, che crea un climax fondamentale per cucire in maniera ancora più importante la relazione con lo spettatore: del tutto vittima degli impulsi psichici a cui è stato sottoposto, in un momento di apparente follia cerca di ricreare materialmente il messaggio degli alieni.

E proprio per questo viene abbandonato.

Richard Dreyfuss e Melinda Dillon in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

Questo modello è trasmesso anche ad altri due personaggi: il piccolo Barry e sua madre, Jillian.

In questo caso il personaggio femminile è un po’ sacrificato, vincolato praticamente solo al ruolo materno. Ma non c’è da stupirsi: eravamo ancora agli albori della fantascienza moderna, in cui il genere era principalmente pensato per un pubblico maschile, molto lontano dell’innovazione di Alien (1979) e dalle eroine di Cameron.

Tuttavia, il contrasto fra Jillian e suo figlio ha un risultato irresistibile.

Punti di vista

Cary Guffey in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

La scena più iconica della pellicola è indubbiamente l’attacco alla casa di Barry e il suo rapimento.

Una scena diretta con grande maestria e un uso delle luci veramente indovinato, che fanno da sfondo perfetto per l’orrore e le grida di Jillian, che vede improvvisamente la casa animarsi e urlare, come posseduta dai fantasmi.

Al contrario il bambino, che aveva già vissuto felicemente il primo contatto, è del tutto affascinato da questo divertente gioco di luci, e per questo si lascia rapire dalla bellezza di questo nuovo amico da scoprire.

Ed è, di fatto, l’unico a capire il vero significato del messaggio degli alieni.

La fantascienza positiva

Cary Guffey e Melinda Dillon in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

La peculiarità di Incontri ravvicinati del terzo tipo è il suo approccio molto positivo alla fantascienza.

Come per Una nuova speranza – uscito lo stesso anno – Spielberg predilige una visione molto più vicina ad un target più giovane, diversamente dal taglio più drammatico e violento che sarà invece tipico del genere nel decennio successivo.

In particolare, la positività dell’incontro fra alieni e umani è racchiusa nel personaggio di Berry.

Cary Guffey e Melinda Dillon in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

Il bambino vive tutto come un sogno, ed è evidente il parallelismo del montaggio fra i piccoli alieni che si vedono alla fine – interpretati effettivamente da delle ragazzine – e il volto del giovane personaggio umano: non sono poi così diversi.

Allo stesso modo il contatto con gli extraterrestri è un finalizzato al legame, e non al conflitto: tramite un linguaggio universale – la musica – questi pacifici alieni cercano di insegnare agli umani come poter comunicare e poter unire le due specie.

Tanto che nel finale il protagonista è accolto sulla nave, pronto ad essere ambasciatore dell’umanità…

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Avventura Commedia nera Damien Chazelle Drammatico Film

Whiplash – La musica nel sangue

Whiplash (2014) di Damien Chazelle è il suo secondo lavoro come regista, ma anche la sua prima esperienza come autore non indipendente, prima di arrivare al grande successo di La La Land (2016).

Con un budget assai contenuto – appena 3,3 milioni di dollari – fu un ottimo successo al botteghino: quasi 49 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Whiplash?

Andrew Neiman sogna di diventare il miglior batterista della sua generazione, ma la strada per la gloria è molto più insidiosa di quanto potesse pensare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Whiplash?

Assolutamente sì.

Whiplash è una pellicola realizzata veramente con poco, retta sulle spalle di un attore di bravura immensa come J. K. Simmons, il cui ruolo gli è stato sostanzialmente cucito addosso, grazie anche alla sua presenza scenica inarrivabile.

La scelta delle inquadrature e del doppiaggio è sublime, e riesce perfettamente ad immergere lo spettatore all’interno dei vari momenti e suoni di un’orchestra, con un’ottima dinamicità e riprese mai banali.

Insomma, un esercizio di stile veramente imperdibile.

Il sogno (im)possibile

Nella primissima scena vediamo il provino di Neiman, del tutto fallimentare.

Anzi, quasi umiliante.

E che ci racconta molto del suo carattere.

Nonostante il ragazzo sia già all’interno di una – a suo dire – delle più importanti scuole di musica del mondo, non è abbastanza: il vero obiettivo è diventare al pari delle leggende della batteria.

E l’unica via è ottenere l’apprezzamento di Fletcher.

Nonostante un primo fallimento, Nielsen si sente finalmente baciato dalla fortuna quando il terribile direttore gli permette di entrare nella sua band.

In questo momento di euforia, si lascia ingannare dalle rassicurazioni di quel lupo travestito da agnello, abbassando le difese, per poi essere travolto – come tutti – dalla vera sfida: sopportare l’umiliazione, l’aggressione anche (e soprattutto) personale, la corsa impossibile per raggiungere il giusto tempo.

E allora il protagonista comincia veramente a perdere coscienza di quello che gli sta intorno, a sfidare e a sfidarsi per superare i propri limiti per raggiungere l’eccellenza. Ma neanche questo basta: servono ancora ore e ore di provini, di sangue sputato per poter ottenere la parte.

Gloria mundi

La gloria è passeggera.

Ancora una volta Nielsen ricade nell’errore di essere troppo sicuro di sé stesso, di pensare di avere la parte in tasca, di essere indiscutibilmente il migliore di tutti. Ma, allo stesso modo, basta un errore, un taxi perso, delle bacchette dimenticate per far andare tutto a rotoli.

E così, in questa lotta disperata per essere ancora il primo della classe, per dimostrare davvero di avere la potenza di una leggenda nel sangue, Nielsen è disposto persino a trascinarsi via da un incidente automobilistico, arrivare zuppo di sangue sul palco…

…e fallire miseramente.

La vera prova

Nel terzo atto è ora di voltare pagina.

Nielsen getta via – letteralmente – il suo sogno, e decide invece di dedicarsi ad altro, di trovarsi un lavoretto, di cercare di riallacciare i rapporti con Nicole – anche se inutilmente. Ma il destino è ancora una volta in agguato.

E ancora una volta il protagonista si fa gabbare dall’apparente disponibilità di Fletcher, che lo tratta come se fosse il suo alunno prediletto, come se tutto questo fosse solo successo per spianargli la strada verso la leggenda.

Ma la vera prova è quella più inaspettata.

Fletcher aveva abilmente costruito un teatrino con l’unico fine di umiliare Nielsen, per pura vendetta. Ma, inaspettatamente, il ragazzo gli dimostra di aver imparato veramente la sua lezione.

E infatti questa volta non basta un’umiliazione per farlo desistere, ma è anzi la stessa il motore che porta il protagonista a diventare il cuore della banda, e a sfociare in un disperato, quanto perfetto, assolo.

E così, finalmente, trovare negli occhi del maestro quell’apprezzamento tanto ricercato.

Fletcher Whiplash

Whiplash ci mette davanti ad un importante dilemma morale.

I metodi poco ortodossi, anzi micidiali di Fletcher hanno portato tanti ad abbandonare il proprio sogno, addirittura un suo alunno alla depressione ed al suicidio, nonostante avesse tutte le carte in regola per entrare nella leggenda.

E il maestro ci racconta in realtà per filo e per segno il suo metodo educativo per riuscire veramente a tirare fuori dai suoi studenti il loro meglio, per riuscire a scovare la prossima promessa del jazz.

E, proprio per Nielsen, ci mette davanti ad un importante what if…

Se Fletcher non avesse fatto passare l’inferno al protagonista, se non l’avesse messo continuamente davanti alle sfide, all’umiliazione, e non l’avesse anche involontariamente portato a mettersi davvero alla prova, sarebbe veramente diventato un bravo batterista?

O sarebbe rimasto solo un mediocre musicista?