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1997: Fuga da New York – L’eroe anarchico

1997: Fuga da New York (1981) è una delle opere più note della filmografia di Carpenter, nonché l’inizio del sodalizio artistico con Kurt Russell, proseguito poi con The Thing (1982)

Con un budget veramente miserevole – appena 6 milioni di dollari, circa 22 oggi – fu un discreto successo al botteghino, con un incasso di 25 milioni (circa 93 oggi).

Di cosa parla 1997: Fuga da New York?

1997, New York. Ormai da dieci anni l’isola di Manhattan è diventata una prigione da cui è impossibile scappare, autogestita dai prigionieri stessi. E se qualcuno di importante ci finisse dentro…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere 1997: Fuga da New York?

Kurt Russel in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

Assolutamente sì.

1997: Fuga da New York è un classico della filmografia carpenteriana, in cui il cineasta statunitense predilige una fantascienza urbana e dark, ma che non manca neanche di tinte orrorifiche tipiche della sua filmografia, soprattutto nel suo precedente cult Halloween (1978).

A fronte di un budget veramente ridotto, Carpenter fu in grado di produrre un cult che sarà ricordato nei decenni a venire, grazie alle sue incredibili capacità di messinscena e di uso della fotografia.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Carne da macello

Kurt Russel in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

Snake Plissken – Iena in italiano – è un eroe imperscrutabile.

Inizialmente membro di spicco dell’apparato militare statunitense, questo misterioso personaggio ha deciso di punto in bianco di mordere la stessa mano che gli dava da mangiare, diventando un pericoloso criminale.

L’efficacia del protagonista deriva anche dall’ottima performance di Kurt Russell, che lavora totalmente di recitazione corporea, muovendosi con decisione all’interno degli spazi del film e godendo di una presenza scenica che da sola racconta il personaggio.

Snake è infatti un criminale senza scrupoli, che può essere riutilizzato come carne da macello nella missione suicida per salvare il Presidente, tanto più che, in caso di fallimento, si avrà una scusa per portarlo definitivamente fuori scena.

Chi vince, insomma, è sempre quell’opprimente governo

Atmosfere

Kurt Russel in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

Con 1997: Fuga da New York Carpenter ha utilizzato il poco che aveva per caricare la scena di atmosfere quasi orrorifiche.

Per la prima parte del film infatti gli spazi sono terribilmente vuoti, e, proprio per questo, fanno molta più paura: le minacce si muovono come spettri, ombre che scivolano sui palazzi in rovina, che strisciano fuori dai tombini, pronti a saltarti addosso…

Così, sfruttando le diverse location notturne, la regia riesce a raccontare un piccolo mondo che mostra i danni dell’anarchia che lo domina, sfruttando le diverse luci diegetiche per offrire al suo protagonista anche una maggiore drammaticità scenica.

Un viaggio impossibile

Kurt Russel in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

Infatti, Snake si immerge in un mondo totalmente sconosciuto.

Il protagonista non conosce né le dinamiche né le regole di questo luogo estremamente sinistro, e per questo si muove alla cieca, riuscendo subito e solo apparentemente a concludere la missione per come era stata inizialmente concepita.

Ma l’unica guida a disposizione è stata distrutta.

Kurt Russel e Harry Dean Stanton in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

E così Snake deve risalire la scala gerarchica per arrivare fino al Duca, dovendo passare per i suoi sottoposti – Caddie e poi Brain – che cercano a loro volta di assicurarsi la favolosa carta dell’Esci gratis di prigione.

Ma se nella sua scalata Snake sembrava imbattibile, riuscendo a farsi strada nella folla inferocita e derubando il Duca di una delle sue macchine, non può fare a meno di soccombere sotto i colpi degli scagnozzi dello stesso.

Così si trova finalmente davanti al temibile signore della guerra di New York, di cui diventa sostanzialmente il giullare, coinvolto in una lotta all’ultimo sangue per il personale ludibrio del Duca e della sua corte.

Dall’alto del mio muro

Isaac Hayes e Harry Dean Stanton in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

La lotta per il salvataggio del presidente rappresenta la classica dinamica in cui i personaggi secondari cadono come mosche, così che il protagonista risulti come unico vincitore.

Ma c’è di più.

La sequenza è un’occasione anche per mostrare il vero carattere dei personaggi, anche i più secondari come Maggie, che sono pronti persino a sacrificare la propria vita per dei principi imprescindibili – l’onore e la vendetta – capaci per questi anche di lottare a mani nude…

…a differenza del Presidente degli Stati Uniti, che da solo rappresenta la mediocrità della classe dirigente, incapace di gestire il picco di criminalità, trattando i carcerati come bestie da abbandonare a sé stesse, da mettere l’una contro l’altra…

E per questo Snake lo mette alla prova.

Ribellione

Kurt Russel in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

Come lo spettatore, anche il protagonista arriva al finale con la consapevolezza della vera natura del Presidente e di tutto il suo entourage.

Ma Snake offre all’uomo un’ultima possibilità di redenzione, chiedendogli il conto per tutte le vite sacrificate per salvare la sua persona, o anche solo un senso di umana comprensione e perdono.

Ma il Presidente, lo stesso che non è stato capace di affrontare il Duca ad armi pari, crivellandolo di colpi dalla posizione sicura del muro di cinta, mette da parte con noncuranza questo pensiero, considerando anzi la morte di quegli individui come dovuta.

Per questo Snake, ormai liberatosi dalle catene, sceglie di rivoltarsi tacitamente contro il Governo, anzi arrivando ad umiliarlo, scambiando le importanti informazioni militari della cassetta con una musica da sala d’attesa…

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Misterioso omicidio a Manhattan – Un matrimonio a pezzi

Misterioso omicidio a Manhattan (1993) è uno dei film più noti della filmografia di Woody Allen, in cui riprese il suo sodalizio con Diane Keaton.

Con un budget di circa 13 milioni di dollari – circa 28 oggi – fu un flop colossale, incassando anche meno delle spese di produzione stesse.

Di cosa parla Misterioso omicidio a Manhattan?

Larry e Carol sono una tranquilla coppia sposata di New York, che si trova coinvolta in un caso piuttosto misterioso…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Misterioso omicidio a Manhattan?

Woody Allen e Anjelica Huston in una scena di Misterioso omicidio a Manhattan (1993) di Woody Allen

Assolutamente sì.

Misterioso omicidio a Manhattan è sostanzialmente il seguito morale di Manhattan (1979) e Io e Annie (1977), oltre ad una sorta di riscrittura del classico di Hitchcock La finestra sul cortile (1954).

Con una regia piuttosto appassionata e sperimentale, Allen maschera dietro ad una trama mistery dal forte sapore comico un ripensamento sulla sua situazione relazionale…

…riuscendo al contempo ad essere avvincente ed imperdibile.

Un peculiare equilibrio

Woody Allen e Diane Keaton in una scena di Misterioso omicidio a Manhattan (1993) di Woody Allen

Fin dal suo primo atto, Misterioso omicidio a Manhattan porta in scena un peculiare equilibrio di tematiche apparente inconciliabili.

Viene mostrato anzitutto il difficile rapporto matrimoniale fra Carol e Larry, che sembra per molti versi proprio arrivato agli sgoccioli, per la differenza di interessi e tendenze dei due, e che verrà messo alla prova proprio dal caso in cui verranno coinvolti.

Woody Allen e Diane Keaton in una scena di Misterioso omicidio a Manhattan (1993) di Woody Allen

Dopo un siparietto comico apparentemente fine a sé stesso nella casa dei vicini, i due protagonisti fanno ritorno dall’opera parlando del più e del meno, mentre sulla porta a vetri del loro condominio si riflettono le sirene della polizia…

…e così il secondo elemento tematico si intrufola silenzioso in scena.

Quindi nei suoi primissimo momenti della pellicola Allen dimostra di saper ben bilanciare l’elemento mistery e il racconto del rapporto matrimoniale in crisi, forte anche del fantastico talento comico e dell’ottima presenza scenica di Diane Keaton.

Due strade diverse

Diane Keaton in una scena di Misterioso omicidio a Manhattan (1993) di Woody Allen

Il racconto della relazione dei protagonisti è fondamentale per comprendere l’effettivo tema di fondo del film.

Mentre Carol si fa immediatamente coinvolgere dal mistero, sicura che Mr. House abbia qualcosa da nascondere, andando persino ad infiltrarsi a casa sua, Larry la riprende costantemente, cercando di convincerla a lasciar perdere, e non credendo per nulla alle sue parole.

In questo modo indirettamente Allen racconta la sua crisi relazionale: proprio alla vigilia delle riprese del film, la relazione più che decennale con Mia Farrow – che infatti era presente nei precedenti Radio Days (1987) e Hannah e le sue sorelle (1986) – era giunta al termine.

E non è certamente un caso che la parte di Carol fosse inizialmente destinata alla sua ex-compagna…

L’ombra del tradimento

Woody Allen e Diane Keaton in una scena di Misterioso omicidio a Manhattan (1993) di Woody Allen

Come in gran parte della filmografia di Allen, anche in questa pellicola è presente il tema del tradimento.

Infatti, sia Carol che Larry intraprendono – anche se mai fino in fondo – delle relazioni con persone esterne al matrimonio, dimostrando chiaramente un certo interesse sentimentale e sessuale, anche se in modo diverso.

Se Carol trova il compagno di indagini in Ted, mentre Larry le è ancora ostile, il marito si lascia catturare dal fascino di Marcia, una donna magnetica e misteriosa, di cui infatti Carol è immediatamente gelosa.

Ma, sorprendentemente, il secondo atto è costruttivo.

Ricostruire

Woody Allen, Diane Keaton, Anjelica Huston e Alan Alda in una scena di Misterioso omicidio a Manhattan (1993) di Woody Allen

Con dinamiche molto simili al più volte citato Una finestra sul cortile, nel secondo atto finalmente Larry crede ai sospetti della moglie.

Questo cambio di passo per il suo personaggio è una scelta estremamente funzionale, in quanto permette a Diane Keaton di brillare ancora di più al suo fianco come talento comico, grazie all’ottima chimica che lega i due interpreti anche nella vita reale.

Woody Allen, Diane Keaton, Anjelica Huston in una scena di Misterioso omicidio a Manhattan (1993) di Woody Allen

La sezione centrale è infatti il momento che ho più preferito del film, in cui la regia sperimenta moltissimo con l’uso delle luci – e del buio – con una dinamica avvincente ma che comunque non si dimentica del lato più strettamente umoristico, risultando ancora più irresistibile.

Nello specifico particolarmente azzeccato il parallelismo della scena in cui Larry spinge la moglie ad andare ad incontrare Ted e Marcia per discutere il caso in piena notte, mentre all’inizio del film aveva respinto la medesima idea quando Carol gliela aveva proposta…

Il gioco delle coppie

Jerry Adler in una scena di Misterioso omicidio a Manhattan (1993) di Woody Allen

Dopo un rocambolesco tentativo di incastrare Mr. House tramite la sua stessa amante, il finale è scandito dal tema dei doppi.

Se infatti Hitchcock in Una finestra sul cortile per lo scontro dell’omicida col protagonista sperimentava con le soggettive e con i giochi di luce, nel finale di Misterioso omicidio a Manhattan Allen si imbarca in un’ambiziosa regia che ha come protagonista gli specchi.

E con una doppia funzione.

Se da una parte l’utilizzo degli specchi crea confusione sia nei personaggi che nello spettatore, per la difficoltà di distinguere la realtà dalla sua copia, allo stesso modo questo gioco di riflessi è simbolicamente rappresentativo del caso stesso, definito dalla presenza di doppi e di apparenze ingannevoli…

I due finali

Woody Allen e Diane Keaton in una scena di Misterioso omicidio a Manhattan (1993) di Woody Allen

Misterioso omicidio a Manhattan presenta due finali.

Il primo è lo scioglimento della vicenda e in particolare del mistero, in cui ne vengono spiegate le dinamiche, pur con una narrazione fin troppo elaborata e complessa per un film di questo tipo, che funzionerà invece meglio nella successiva commedia mistery Scoop (2006).

Per certi versi più interessante è l’epilogo legato alla relazione fra i protagonisti: a differenza di molte altre pellicole di Allen, in questo caso il tradimento non si compie e il finale non è amaro, ma anzi estremamente speranzoso e positivo.

Nel ricongiungimento dei protagonisti si può intravedere un Woody Allen forse ancora speranzoso di una possibile riappacificazione con Mia Farrow, e al contempo rincuorato dell’aver potuto lavorare in coppia con la sua compagna storica, che rimane ancora oggi un importante affetto della sua vita…

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Tropic Thunder – La vera storia della finzione

Tropic Thunder (2008) è, insieme a Zoolander (2001), il progetto più ambizioso della carriera registica ed attoriale di Ben Stiller.

Con un budget abbastanza importante – 92 milioni di dollari – non fu un grande successo al botteghino – appena 195 milioni – ma divenne col tempo un cult imprescindibile.

Di cosa parla Tropic Thunder?

Cinque attori che non potrebbero essere più diversi prendono parte ad uno sgangherato film di guerra, che diventa più reale di quanto si aspettassero…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Tropic Thunder?

Assolutamente sì.

Come detto, Tropic Thunder è uno dei progetti più incredibili di Ben Stiller, che ritorna dietro alla macchina da presa dopo l’ottimo Zoolander, da cui eredita anche alcune delle sue tematiche fondamentali, traslandole nella realtà cinematografica.

Un piccolo cult con un cast incredibile, fra cui spicca l’indimenticabile prova attoriale di Robert Downey Jr., che quasi ruba la scena all’altrettanto iconico personaggio di Ben Stiller, per un’accoppiata davvero esplosiva.

Insomma, non ve lo potete perdere.

È iniziato il film?

Il percorso metanarrativo iniziale di Tropic Thunder è magistrale.

Oltre a riuscire a confondere lo spettatore, che non è sicuro se il film è effettivamente iniziato o se stanno trasmettendo le pubblicità prima della proiezione – e il dubbio rimane quasi fino alla fine – la sequenza di apertura è uno spaccato perfetto del cinema dei primi Anni Duemila.

Il primo titolo è forse quello più rappresentativo: Scorcher 6, che parodizza le saghe infinite e senza senso di film action – alla Fast & Furious, per intenderci – che continuano ad essere prodotti unicamente per far cassa.

Il secondo film è un classico della comicità esilarante di quel periodo, che unisce le tre tendenze peggiori del genere: l’obesità comica, le divertentissime scoregge e l’utilizzo di un solo attore per diversi personaggi – idea che aveva già stancato dai tempi di Back to the future – Part II (1989).

Un film talmente eccessivo che forse era anche un modo con cui Jack Black voleva lavarsi la coscienza dal terrificante Amore a prima svista (2001) …

Chiude il terzetto Satan’s Alley, con protagonista l’attore premio Oscar Kirk Lazarus, al centro di un drammone storico che sembra anticipare L’ultimo dei templari (2011), arricchito con un elemento gettonatissimo per creare un film davvero scandaloso per l’epoca: l’omosessualità.

Se volete rivederli, eccovi serviti:

Sul viale del tramonto

Tugg Speedman è un attore che sembra già arrivato al capolinea.

Legato a doppio filo a film commerciali di grande successo, ma che ormai hanno stancato, ha cercato di rilanciarsi con un prodotto diverso e con cui pensava di riconquistare il pubblico, ma che è risultato invece un tremendo flop.

Ma neanche con Tropic Thunder, un kolossal di guerra di grande successo, le sorti sembrano a suo favore: come tanti colleghi prima di lui, anche Speedman è un attore capriccioso che non riesce a portare a casa la scena, anche per l’ostilità con Lazarus, con cui non ha alcuna chimica.

Pur parodistico, il suo arco evolutivo è quello più significativo: dopo l’iniziale incapacità di entrare nel personaggio, il protagonista si ritrova a vivere davvero in prima persona le avventure del film, riuscendo ad entrare nella parte più di quanto l’odiato collega sia mai riuscito a fare.

Dopo un primo momento in cui Speedman vive nel totale paradosso della situazione – in una capanna improvvisata, in una foresta insidiosa, ma con in mano il suo iPod – viene definitivamente riportato nel personaggio di Simple Jack e costretto a riportare in scena l’intero film.

E così una maschera di cui voleva liberarsi per sempre, diventa invece una via di fuga, nell’illusione di aver trovato un pubblico che finalmente lo apprezza, come testimonia l’irresistibile scambio con Lazarus sul finale:

You tell the world what happened here!
What happened here?
I don’t know, but you need to tell them!

Devi raccontare cosa è successo qui!
E cosa è successo qui?
Non lo so, ma devi raccontarglielo!

…con un precipitoso ritorno alla realtà, quando la tribù lo insegue per ucciderlo e il figlio adottivo lo accoltella.

Ed è veramente esilarante il fatto che la vittoria per il suo personaggio è l’ottenimento dell’Oscar, ovvero di quel riconoscimento per cui quell’industria senza scrupoli, pronta fino ad un attimo prima a metterlo da parte, lo riaccoglie fra le sue braccia…

Essere il personaggio

Kirk Lazarus è possibilmente il personaggio più iconico della pellicola.

Robert Downey Jr. interpreta una parodia vivente di quegli attori che, pur essendo anche interpreti molto validi, vengono esageratamente celebrati per la loro capacità di immedesimarsi nella parte, tanto da non uscirne mai

…almeno non fino ai contenuti speciali del DVD!

La parodia si accompagna alla più aspra satira, con Alpa Chino che lo critica aspramente non tanto per aver fatto una black face, ma piuttosto per aver portato in scena una versione veramente parodistica, quasi offensiva, di un uomo afroamericano…

…e, parallelamente, condannando anche le produzioni di Hollywood per l’avere fra le mani una parte perfetta da affidare – per una volta! – ad un attore nero, ma scegliere comunque un interprete bianco.

Ed è incredibilmente interessante il parallelismo fra il suo percorso e quello di Speedman: quando Lazarus ritrova il collega e cerca di riportarlo alla realtà, è lo stesso Tugg a farlo sprofondare in una crisi d’identità…

…e, nel farlo, Speedman stesso indossa un trucco evidente, che definisce il suo personaggio – una white face, in un perfetto parallelismo.

Un crollo emotivo particolarmente devastante, in cui Lazarus si strappa di faccia la maschera – anzi le maschere! – che ha portato per tutto quel tempo, ma che paradossalmente era molto più credibile della sua vera faccia.

In questo senso, gli occhi di un azzurro artificioso e i capelli cotonati sono tutto un programma.

Ma in questi due estremi – la mancanza di identità e il calarsi troppo nel personaggio – i due riescono infine a ritrovarsi in una via di mezzo, ovvero riuscire a interpretare con passione e trasporto una scena che appare finalmente così reale…

Il lato peggiore di Hollywood

Oltre ad essere un personaggio assolutamente esilarante, Grossman – nomen, omen – rappresenta il lato più marcio di Hollywood.

Ad un livello più superficiale, il personaggio di Tom Cruise è una figura tirannica ed estremamente violenta, che tratta i suoi sottomessi senza alcuna pietà, anzi umiliandoli e minacciandoli costantemente.

Ma il suo vero volto è rivelato nella contrattazione con i trafficanti.

In quell’indimenticabile non trattiamo con i terroristi, Grossman racconta la facciata dietro cui l’industria si nasconde, raccontandosi come una realtà con una morale di ferro, per poi dimostrarsi più e più volte cinica e guidata solo dal desiderio di arricchirsi.

Nello specifico, lo spietato produttore propone a Rick Peck di scambiare la vita di Speedman con un elicottero e con un’importante somma di denaro, puntualizzando come ormai il suo cliente sia una causa persa, per cui non vale la pena di combattere.

In questa visione, gli attori – al pari dei modelli di Zoolander – sono delle figure usa-e-getta, da riempire di soldi ed attenzioni quando sono effettivamente delle macchine-fabbrica-soldi, ma del tutto sacrificabili quando ormai non attirano più l’interesse del pubblico…

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Harry a pezzi – La decostruzione

Harry a pezzi (1997) è uno dei titoli più noti e apprezzati della filmografia di Woody Allen.

A fronte di un budget abbastanza sostanzioso per un film di Woody Allen – 20 milioni di dollari, circa 40 oggi – fu un pesante flop commerciale, incassando la metà delle spese di produzione.

Di cosa parla Harry a pezzi?

Harry è un rimontato scrittore di romanzi, che ha però la brutta abitudine di raccontare troppo di sé stesso e di chi gli sta intorno…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Harry a pezzi?

Woody Allen in una scena di Harry a pezzi (1997) di Woody Allen

Assolutamente sì.

Se in Radio Days (1987) Allen ripercorreva e riscriveva momenti fondamentali della sua infanzia, in Harry a pezzi decostruisce il suo presente come autore e uomo.

Ne risulta un racconto profondamente metanarrativo, in cui Allen sembra mettersi più di ogni altra sua opera totalmente a nudo, con le sue debolezze e le sue ossessioni.

Una riflessione di fine secolo che vale la pena di recuperare.

Partire dalla finzione…

Un’inquadratura insistente di pochi minuti ci mostra una donna che scende furiosamente da un taxi.

Ma subito la scena muta.

Un quadretto di quotidianità piuttosto comune – una grigliata all’aperto – si trasforma ben presto nello sfondo di una storia di passione e tradimento, con tinte quasi grottesche, che raggiungono il loro picco con l’apparente scoperta del misfatto…

…che in realtà si rivela solo l’occasione per proporre una raffica di battute piuttosto sagaci a sfondo sessuale – anche di difficile traduzione – che chiudono il cerchio di questa commedia dell’assurdo.

…e arrivare alla realtà

Ma la spiegazione della scena è forse anche più surreale.

Vengono riportati in scena i protagonisti, ma con una veste del tutto nuova, ma ben più terrena: la vicenda era molto meno divertente, anzi ben più drammatica, e il romanzo ne è stato solo il punto di arrivo.

In particolare, i contorni del dramma sono meglio definitivi più avanti nel film, in cui viene rivelata (e confermata) la totale incapacità del protagonista di rimanere fedele in una relazione…

…con una Lucy estasiata all’idea di essere scelta come la prossima compagna di Harry, ma che si trova invece a dover inghiottire un boccone amaro.

Rubare l’identità

Tobey McGuaire in una scena di Harry a pezzi (1997) di Woody Allen

Ma il cuore della vicenda è rivelato dai due episodi successivi.

Anzitutto, dal racconto del passato, quando ancora Allen era un ragazzino incastrato in un matrimonio senza futuro, ricercando la compagnia di qualunque donna tranne che la propria moglie.

Ma il momento fondamentale è l’incontro con la morte.

Essendosi lasciato convincere a intrattenersi con una prostituta e prendendo in prestito la casa di un suo amico, Harry si ritrova a confrontarsi con la prima identità rubata, di cui deve pagare tutte le conseguenze.

Allo stesso modo, l’apparente gag puramente comica dell’uomo fuori fuoco, verso il finale si rivela in realtà una rappresentazione visiva di come il protagonista si sente nei suoi numerosi attacchi di panico.

Giù la maschera!

Woody Allen in una scena di Harry a pezzi (1997) di Woody Allen

Durante la pellicola Harry ripercorre più volte momenti del suo passato, spesso traslandoli in scenette fittizie e molto idealizzate.

Si scopre così un personaggio intrappolato in un labirinto di relazioni – amorose e non – che sembrano trovare un senso solamente nella finzione, in cui personaggi ed eventi si mescolano, diventando per certi versi anche caricaturali.

I primi scricchiolii di questo castello di carte sono gli incontri con alcuni dei personaggi, delle maschere dietro cui Harry si è nascosto negli anni, che si rivelano ben più sagge e consapevoli della loro controparte reale.

Ed è solo il primo passo perché il protagonista decida definitivamente di abbandonare questi numerosi travestimenti, mettendosi in prima persona al centro della storia per raccontare una scena fantastica e reale insieme.

Impossibile scappare

Tobey McGuaire in una scena di Harry a pezzi (1997) di Woody Allen

Così l’incontro col diavolo e la discesa negli inferi non è altro che una rappresentazione della frustrazione di Harry nell’aver perso una delle sue amanti preferite nelle braccia di un uomo che considera tanto spregevole da rappresentarlo come il diavolo tentatore.

Ma questo apparente passo indietro, a fronte anche di una situazione molto reale da cui è impossibile sfuggire – il rapimento del figlio – si conclude solo apparentemente in un suo effettivo ripensamento del suo continuo rifugiarsi nella fantasia.

Nel finale troviamo la figura di Harry che si sovrappone più che mai a quella di Woody Allen, del tutto consapevole di utilizzare i suoi film – o romanzi che siano – per raccontare i suoi dubbi e le sue storie turbolente…

…ma, al contempo, altrettanto consapevole di non poterne fare assolutamente a meno.

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2023 Animazione Avventura Commedia Disney Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantastico Film Nuove Uscite Film Oscar 2024 Pixar

Elemental – L’insostenibile leggerezza dell’inesperienza

Elemental (2023) di Peter Sohn è uno dei film Pixar più sfortunati degli ultimi anni, che ha avuto una sorte particolarissima al box office.

Partendo da un budget piuttosto elevato – ma medio per un prodotto Pixar – di 200 milioni di dollari, per via di un marketing scandalosamente superficiale è stato il peggior esordio per la casa di produzione, ma ha recuperato grazie al passaparola, arrivando ad incassare 484 milioni in tutto il mondo.

Comunque un flop, ma un flop molto meno grave di quanto si prospettava.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Elemental (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film d’animazione

Di cosa parla Elemental?

Bernie e Cinder Lumen sono una coppia di immigrati ad Element City, una città poco accogliente per la loro razza, ma in cui riescono a ricreare la loro comunità, sicuri di poter lasciare la loro eredità alla figlia, Ember…

Vi lascio il trailer, ma vi sconsiglio di guardarlo in quanto davvero poco rappresentativo del film:

Vale la pena di vedere Elemental?

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

In generale, sì.

Per quanto non sia uno dei migliori prodotti della Pixar – anche per la poca esperienza da sceneggiatore e regista di Peter Sohn – è un film piacevole, e che anzi si impegna a raccontare in maniera piuttosto interessante il tema dell’immigrazione e dell’integrazione sociale.

Purtroppo, il film soffre di una debolezza complessiva della scrittura, che sembra voler raccontare solo pochi concetti fondamentali, ma incapace di portarli in scena con una storia davvero convincente e ben strutturata.

Comunque, vale una visione.

La barriera all’ingresso

Ember e i genitori in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

L’inizio del film è anche la parte più interessante e incisiva.

I genitori di Ember arrivano in una città in cui vivono tutti i problemi che gravano sulle spalle degli stranieri che cercano di integrarsi in una nuova realtà sociale: la barriera linguistica – i loro nomi vengono adattati – le porte sbattute in faccia, una città non adatta alla loro sopravvivenza.

In particolare quest’ultimo aspetto è affrontato sotto diversi punti di vista: sia la ghettizzazione delle comunità immigrate, che la comunità è incapace di integrare, sia per il conseguente odio indiscriminato dei reietti verso l’ostica Elemental City.

Ember e il padre in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Così i due sono riusciti a costruire un punto di riferimento per il resto degli immigrati del fuoco che non trovano un posto altrove, ma che anzi costruiscono la loro città – o ghetto, più giustamente – intorno proprio al Focolare.

Al contempo il padre è costantemente inacidito contro il popolo dell’acqua, che considera nemico a prescindere, nonostante i diversi tentativi della figlia di fargli comprendere che una persona non rappresenta tutta la sua comunità.

E questo è proprio il cuore della sua evoluzione.

Creazione e distruzione

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Ember, proprio per via dell’educazione del padre, è un personaggio incredibilmente chiuso in sé stesso, che ha un solo obiettivo nella vita – prendere possesso del negozio e così far felice il genitore – e per questo rifugge ogni contatto con l’esterno della sua comunità, non uscendo mai da Fire City.

Ma al contempo la protagonista è evidentemente molto fuori luogo nella stessa, incarnando l’aspetto più distruttivo del fuoco, e non riuscendo a vedere oltre lo stesso.

In realtà Ember ha molto più da offrire

Durante la pellicola riscopre il lato positivo del suo elemento, ovvero quello creativo: se fino a quel momento aveva usato il suo potere solamente per rimediare agli errori – le tubature, la diga rotta – con la cena con la famiglia di Wade si affaccia finalmente agli orizzonti di possibilità che le sue capacità le offrono.

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Lo stesso incontro le permette di comprendere la limitatezza del suo pensiero fino a quel momento, aprendosi finalmente all’idea che due comunità diverse possono riuscire a convivere, pur con i giusti compromessi.

Persino con un elemento così opposto come l’acqua.

Persino l’incontro apparentemente disastroso fra Wade e Barnie, si rivela invece una possibilità di unione: un piatto così tanto caldo – con un gioco di parole sul doppio significato di hot, che significa anche piccante – può essere addolcito con un po’ d’acqua, rendendolo più digeribile anche al di fuori del popolo del fuoco.

Favola e realtà

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Ma se le tematiche e la simbologia di Elemental sono complessivamente riuscite, al contrario la resa narrativa non è particolarmente vincente.

Elemental vuole sostanzialmente raccontare il comporsi e ricomporsi di due rapporti: quello di Ember con il padre e con il nuovo interesse amoroso, Wade. Il primo è quello che ho trovato complessivamente più azzeccato, soprattutto godendo di un minutaggio piuttosto importante.

Non a caso, è anche il rapporto più importante della pellicola, che viene suggellato nel finale, il momento di vero confronto, quando Ember richiede quell’approvazione paterna per lei fondamentale, che il padre non aveva trovato al tempo nella sua famiglia.

Un momento toccante e centrale nella narrazione, a fronte di un primo ricongiungimento fra i due personaggi non adeguatamente incisivo.

Wade e Ember Elemental

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Al contrario, il rapporto con Wade non mi ha convinto fino in fondo.

Il film si propone di seguire strade piuttosto consolidate, con una sorta di enemy to lovers molto simile al ben più efficace Rapunzel (2010), che però sembra reggersi unicamente sui momenti fondamentali del loro rapporto, che mancano però di una costruzione sufficientemente robusta.

Sarebbe stato molto più interessante instaurare anche un piccolo mistero sulla diga – alla Zootropolis (2016), per intenderci – la cui risoluzione portava anche allo sbocciare dell’amore fra i protagonisti.

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Al contrario, la questione della diga è un elemento molto più debole di quanto mi aspettassi, quasi un meccanismo della trama, e allo stesso modo il regalo di Wade ad Ember – la visita del Garden Central Station – non ha abbastanza mordente.

Ancora meno mi è piaciuto il taglio favolistico, quasi tragico, che è stato affibbiato al loro rapporto: al di là della costruzione non del tutto convincente, l’ho trovata una scelta narrativa che risulta piuttosto stridente e fuori luogo in un film che si propone di essere per molti tratti estremamente verosimile.

Ma non è tutto da buttare.

Elemental animazione

L’animazione di Elemental è impeccabile.

Non è un caso che Peter Sohn – qui regista e co-sceneggiatore – lavori da più di vent’anni come animatore per innumerevoli prodotti Pixar (e non) e che sia riuscito ancora una volta a portare una tecnica e un character design davvero ineccepibili.

Era così semplice scadere nel banale per dei personaggi rappresentativi degli elementi naturali, e invece il film riesce a portare in scena delle figure infuocate e acquatiche vive e credibili.

Non a caso le fiamme del corpo di Ember e degli altri del Popolo del Fuoco continuano a muoversi e definiscono altri tratti del loro viso, in particolare il naso, così la rappresentazione dell’Acqua è molto variegata, giocando su diversi elementi, fra cui le onde del mare.

Ma il fiore all’occhiello è indubbiamente l’incontro fra fuoco e acqua, che porta Wade inizialmente a bollire e Ember a spegnersi, ma che poi cambia proprio la chimica dei due elementi, rendendoli compatibili.

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Dodgeball – Apologia dell’uomo medio

Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber, in Italia noto anche come Palle al balzo, è un classico della commedia Anni Duemila.

Al tempo fu anche un grande successo commerciale: con un budget di appena 20 milioni, ne incassò quasi 170 in tutto il mondo.

Di cosa parla Dodgeball?

Peter Lafleur è proprietario di una piccola palestra vicina alla bancarotta. Ma c’è ancora una speranza per salvarla…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dodgeball?

Ben Stiller e Vince Vaughn in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

Assolutamente sì.

Oltre ad essere un classico dell’inizio del Nuovo Millennio, Dodgeball è in generale una pellicola piacevole ed accessibile, che gioca molto con gli stereotipi del genere di riferimento, facendosi portatore di messaggi non scontati.

Infatti, in un’epoca in cui vivevamo immersi in una grassofobia paragonabile ad un’isteria di massa, questa piccola commedia prese una posizione intelligente e non scontata sull’argomento.

Insomma, avete tutti i buoni motivi per recuperarvela.

Uomini comuni…

Vince Vaughn in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

Peter è un uomo come tanti.

Dodgeball sceglie intelligentemente di non rendere il suo protagonista uno stereotipo, ma di tratteggiare un personaggio anche abbastanza tridimensionale: un leader con un gran cuore, ma con anche una variegata vita sessuale.

Peter è talmente nella norma che sembra che Vince Vaughn stia interpretando sé stesso, mancando anche di un mordente comico che mostrerà in altre commedie più scollacciate come Due single a nozze (2005).

Così anche tutti i personaggi che compongono la sua squadra sono raccontati secondo la stessa linea: figure piuttosto comuni con problemi altrettanto comuni, come la conquista della ragazza di turno o il riuscire ad arrivare a fine mese.

Non a caso la loro palestra si chiama Average Joe, che significa letteralmente Joe Medio.

…e un villain esagerato

Ben Stiller in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

I picchi di follia del film sono tutti sulle spalle di White Goodman.

In Dodgeball Ben Stiller porta in scena sostanzialmente il gemello cattivo del suo personaggio in Zoolander (2001): entrambi sono incredibilmente sopra le righe e hanno una visione del mondo limitata alla realtà opprimente in cui vivono.

Ma, a livello più sottile, White è un personaggio quasi tragico, che odia sé stesso e che trasmette questo sentimento anche ai suoi sottoposti, stressando all’inverosimile il suo corpo per cercare di raggiungere – e ribadire – un certo status.

Ben Stiller in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

Ma il suo ego è talmente fragile che basta una battuta per metterlo fuori gioco, basta una sconfitta insignificante per portarlo all’autodistruzione, a fare del male a sé stesso ed essere incapace di vivere al di fuori dei due estremi: l’obesità impossibile e il bodybuilding isterico.

E questo è tanto più indicativo considerando il suo rapporto incredibilmente tossico con il cibo, soprattutto quello che fa ingrassare, di cui si priva in maniera quasi violenta, ma che rimpiange al punto da utilizzarlo per masturbarsi – con un’evidente citazione alla scena iconica di American Pie (1999).

Contro la diet culture

Vince Vaughn in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

Soprattutto nel suo finale, Dodgeball si impegna a portare un messaggio positivo per nulla scontato per l’epoca.

Del tutto negativa è la rappresentazione della Globe Gym, un tempio del fitness che è lo specchio del suo stesso fondatore, basato su una concezione dell’essere in forma non solo esagerata, ma proprio dannosa e legata solo all’idea della bellezza e dello status sociale.

Lo si nota in particolare nello spot di White Goodman che apre la pellicola, che spiega come la grassezza e la bruttezza siano delle malattie genetiche, e che, di fatto, è solo colpa nostra se non ci odiamo abbastanza da fare qualcosa al riguardo.

Questa narrazione è del tutto ribaltata, tramite un parallelismo piuttosto funzionale, dallo spot della Average Joe sul finale, che rassicura sul fatto che andiamo bene così, ma che se vogliamo perdere qualche chilo e essere più in salute, possiamo venire alla sua palestra.

Evoluzione e involuzione del femminile

Ben Stiller e Christine Taylor in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

Il racconto del femminile in Dodgeball merita un discorso a parte.

Di per sé Kate è una donna molto piacente, e che anche per questo vive delle situazioni drammaticamente comuni per le donne di oggi e di ieri: essere costantemente sminuita, considerata solo un pezzo di carne e mai presa seriamente per la sua posizione professionale.

Ma è anche un personaggio combattivo, che non si lascia vincere dalle squallide avances né di Peter – che mette subito al suo posto dicendo di essere specializzata in casi di molestie – né soprattutto di White – a cui risponde proprio con la violenza fisica dopo aver ricevuto attenzioni non richieste.

Christine Taylor in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

Più in generale, Kate si rifiuta di essere ridotta a trofeo per i personaggi maschili, come esplicitato dalla minaccia di White

Your gym, your life and your gal are gonna be mine.

La tua palestra, la tua vita e la tua donna saranno miei.

scegliendo infatti di far parte della squadra di Average Joe non per le richieste di Peter, ma perché vuole vendicarsi del torto imperdonabile – e su più livelli – di White.

Ma non è finita qui.

La commedia scorretta

Dodgeball è indubbiamente una commedia scorretta.

E questo si traduce anche in scelte di ironia e rappresentazione che non toccano i picchi ben più problematici di altri prodotti del periodo – come l’assai criticato Amore a prima svista (2001) – ma, al contempo, che a volte risultano quasi contraddittorie.

Infatti, se da una parte troviamo una sessualizzazione del personaggio femminile principale solo nella sua prima apparizione – quando si vedono prima le gambe che lei – al contempo in più punti sembra che la regia voglia compiacere lo sguardo maschile, mettendo le classiche donnine ipersessualizzate in scena.

Vince Vaugh in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

Al contempo si respinge lo stereotipo della ragazza considerata streotipicamente più mascolina – e quindi lesbica – perché capace in un ambito maschile, non riducendola a trofeo per la vittoria del protagonista sul finale, ma facendole rivendicare la sua sessualità senza vergogna.

Così il personaggio di Fran, la più classica rappresentazione della donna bruttissima, diventa l’interesse amoroso di Owen, ribaltando agilmente lo stereotipo, come poi si farà anche nell’ottimo She’s the man (2006).

E, per chiudere, troviamo la battuta proprio più scorretta dell’intera pellicola, quella legata al personaggio della ragazzina trans che, per via degli steroidi che assume per la transizione, provoca la squalifica della sua squadra e viene per questo bullizzata.

Insomma, Dodgeball è un incontro fra tendenze veramente molto diverse.

La conquista graduale

Chuck Norris in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

Il mio rapporto con Dodgeball è veramente peculiare.

Se infatti film come Zoolander e Bad Teacher (2010) riescono a conquistarmi fin dalla prima inquadratura, Dodgeball mi cattura scena dopo scena, battuta scorretta dopo battuta scorretta, sorpresa dopo sorpresa.

La storia è infatti piuttosto semplice e tipica – fra l’altro con una scansione anomala dei tre atti, con l’ultima parte che si mangia gran parte della sezione centrale – sulle prime parte quasi in sordina e senza mostrare subito le sue carte.

Ma quando comincia a costruire una narrazione con snodi di trama non scontati e sempre piuttosto spassosi, un villain incredibilmente iconico e uno scontro finale perfettamente orchestrato – quasi un duello western – non posso che innamorarmi.

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Zoolander – Demenziale, ma non troppo

Zoolander (2001) è uno dei cult più particolari dell’inizio degli Anni Duemila, in cui Ben Stiller si mise in gioco come attore, regista e sceneggiatore.

Nonostante il riscontro al botteghino poco entusiasmante – appena 60 milioni di dollari a fronte di un budget di 28 milioni – divenne col tempo un film di culto, tanto da portare ad un sequel nel 2016.

Di cosa parla Zoolander?

Derek Zoolander è il modello del momento, ma la sua fama verrà scalzata in maniera inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Zoolander?

Owen Wilson in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Assolutamente sì.

Anche se la comicità nonsense non è nelle vostre corde, non potete veramente perdervi questa piccola perla dell’assurdo che, in un impeto di genialità, Ben Stiller riuscì a portare in scena nel lontano 2001 – nutrendo il futuro cast di Dodgeball (2004), fra l’altro.

Zoolander è uno dei cult più interessanti dei primi Anni Duemila, che colpisce sia per la sagacia con cui tratta tematiche ancora attualissime, sia per come riesce a non scadere mai nel banale, sorprendendo ad ogni scena.

Passato e presente

Ben Stiller in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Una delle tematiche principali di Zoolander è ancora drammaticamente attuale, anche a più di vent’anni di distanza.

L’obbiettivo dei villain è infatti quello di assassinare il neoeletto presidente della Malaysia, per le sue assurde ambiziose di mettere fine allo sfruttamento del lavoro minorile – molto conveniente per l’industria della moda.

Un tema molto caldo ancora oggi per la straziante tematica della fast fashion, non solo per l’impatto ambientale, ma proprio per il poco rasserenante panorama dello sfruttamento lavorativo, volto ad ottenere molti prodotti in poco tempo e a prezzi stracciati.

Ed è davvero incredibile trovare un tema del genere affrontato con tanta sagacia in un film come Zoolander.

Un adorabile idiota

Ben Stiller e Owen Wilson in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Zoolander e Hansel sono due adorabili idioti.

Ho apprezzato particolarmente la scelta di renderli tali fino in fondo, senza cioè ricondurli al ben più infelice e rincuorante stereotipo dell’uomo bamboccione, un bambino troppo cresciuto che ha ancora bisogno di una balia – di solito, il personaggio femminile di turno.

I due protagonisti sono invece semplicemente del tutto limitati al loro piccolo mondo, fatto di invidie e di una competizione galoppante, una realtà che li venera e li celebra a fasi alterne, ma rimanendo incapaci in ogni altro ambito dell’esistenza.

Si genera così un umorismo che personalmente trovo esilarante, basato su delle incomprensioni così stupide da risultare surreali, financo grottesche – in particolare con l’assurda morte dei fratelli del protagonista mentre giocavano con la benzina.

I divi usa-e-getta

Ben Stiller in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Un’altra tematica non scontata è la concezione dei modelli come divi usa-e-getta.

Già la rivalità fra Zoolander e Hansel è indicativa: per sua stessa ammissione, il protagonista si sente minacciato dalla figura del concorrente proprio perché sembra poter mettere a rischio lo status tanto fortuitamente guadagnato.

E, se consideriamo che i due non hanno che pochi anni di differenza, appare evidente come la popolarità nel mondo della moda sia una condizione estremamente passeggera, legata ad un successo momentaneo e, soprattutto, al mito della giovinezza eterna.

Questo concetto è particolarmente evidenziato dal personaggio di J.P. Prewitt, il mitico manista, che però ho dovuto mantenere la sua mano in uno stato di ibernazione eterna proprio per evitare che invecchiasse e che, di conseguenza, perdesse di valore.

E il racconto di come generazioni di modelli siano state pedine in mano a sanguinari imprenditori senza scrupoli, che li utilizzavano per eliminare ogni tipo di ostacolo al guadagno, sottolinea ancora una volta la fragilità di questi idoli, che possono essere creati e sacrificati ad libitum.

Infatti, non mancherà mai qualcuno che potrà prenderne il posto.

Un femminile anomalo

Christine Taylor in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Il personaggio di Matilda mi ha particolarmente sorpreso.

Una protagonista femminile che diventa motore dell’azione, nonché personaggio estremamente attivo, in questo caso assumendo proprio il ruolo della figura ragionevole e, di fatto, risolutrice della vicenda.

Nondimeno Matilda non viene tratteggiata come una donna fredda che deve essere fatta sciogliere dal protagonista. Piuuttosto, i due si aiutano reciprocamente: Matilda impedisce che Zoolander diventi un assassino, e quest’ultimo le fa riscoprire il piacere sessuale.

Christine Taylor in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

E al contempo Matilda diventa anche la voce – pur in maniera molto semplicistica – dei danni che involontariamente il mondo della moda arreca soprattutto alle giovanissime, facendole vivere nell’ombra di modelli di bellezza irraggiungibili.

Ed è drammaticamente ironica la risata che i due protagonisti si fanno sulla sua bulimia, derubricandola ad una condotta del tutto normale per la loro professione…

Lo sguardo che uccide

Ben Stiller in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

La storia del Magnum è tutto un programma.

Proposto inizialmente come il biglietto da visita del protagonista, il suo sguardo corrucciato è una costante della recitazione di Ben Stiller, che non esce mai dal personaggio, riuscendo ad essere assolutamente credibile in ogni scena.

In questo senso, ottima l’idea di affidare al villain il ruolo di dare la voce ad un pensiero probabilmente già proprio dello spettatore: i meravigliosi sguardi di Zoolander in realtà non sono nulla di che, oltre ad essere tutti identici.

E invece Zoolander ci sorprende con un’espressione che cambia le sorti del mondo, dimostrando come uno sguardo abbastanza affilato possa mettere al tappeto persino uno shuriken.

Un colpo di scena che è anche motivo del successo di questa pellicola.

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Matilda – La lotta inizia da piccole

Matilda (1996) di Danny DeVito è la più famosa trasposizione dell’opera omonima di Roald Dahl – uscita in Italia con l’infelice titolo di Matilda 6 mitica (che mi rifiuto di utilizzare in questa sede).

A fronte di un budget medio – 36 milioni di dollari, circa 70 milioni oggi – fu un pesante flop commerciale – solo 33 milioni di incasso, circa 64 oggi – diventando un piccolo cult solamente successivamente.

Di cosa parla Matilda?

Matilda è una bambina geniale, capace di leggere perfettamente già a quattro anni. E che paradosso che una persona del genere sia nata in una famiglia così ignorante…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Matilda?

Sara Magdalin in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Dipende.

Matilda è un film a cui sono molto legata perché è stata una delle mie visioni preferite dell’infanzia, ma, a differenza di altri prodotti dello stesso genere – come Genitori in trappola (1998) – è una pellicola pensata principalmente per un pubblico di giovanissimi.

Il romanzo originale al confronto ha uno sguardo molto più maturo e adulto – come tipico della narrativa di Dahl. Ma nondimeno, se amate il romanzo di ispirazione, potrete ritrovare in questa pellicola una trasposizione complessivamente fedele e con una regia piuttosto piacevole.

Al contempo, è un film che guardato con un occhio più critico offre molti spunti di riflessione, che lo spettatore sia un bambino o un adulto.

Per questa recensione ho preso spunto dall’ottimo contributo ad opera di Heroica.it (che potete trovare qui) ed ho utilizzato tendenzialmente la traduzione ad opera della Salani (2004) per i nomi dei personaggi.

Nascere soli

La scelta di ambientare la storia negli Stati Uniti permette di dare tutto un altro sapore all’incipit.

Mentre infatti il romanzo non approfondisce la nascita di Matilda, l’accenno allo spreco di soldi per far venire al mondo la protagonista è del tutto comprensibile nel contesto statunitense, in cui un parto può venire a costare anche diverse decine di migliaia di dollari.

E così da quando è nata Matilda non è solo rifiutata, ma proprio dimenticata, anzitutto in macchina.

Ma Matilda non è una bambina qualunque: proprio nella sua incomprensione del mondo sia adulto che infantile, rifiuta di essere una semplice bambina, perché la sua mente geniale la spinge ad andare ben oltre.

Il potere della conoscenza

La scelta di Matilda di andare in biblioteca è estremamente simbolica.

Pur essendo nata in una realtà così culturalmente arida, proprio grazie al disinteresse dei genitori nei suoi confronti, non eredita nulla dalla sua famiglia, ma sceglie invece di alimentare la sua mente curiosa proprio al di fuori della stessa.

La scelta di uscire dal perimetro stabilito racconta, anche indirettamente, una prospettiva incredibilmente femminista di sottrarsi agli schemi sociali convenzionali e al controllo della figura maschile – in questo caso il padre, che la disprezza anche in quanto femmina.

Fra l’altro, proprio come nel romanzo, anche il film non spinge troppo sul versante della bambina prodigio.

Si sceglie invece il taglio più realistico: Matilda è comunque una bimba che non ha ancora affrontato né la scuola né la vita adulta, e per questo non riesce a comprendere fino in fondo le tematiche proposte dalle opere dei grandi autori del passato.

Ma non per questo si arrende.

Imparare a combattere

Mara Wilson in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Dopo essersi riuscita a ritagliare un piccolo angolo in cui dare sfogo alla sua genialità, Matilda comincia a non accettare più l’ostilità dei suoi genitori verso di lei, e anzi sono gli stessi ad insegnarle involontariamente il diritto alla punizione.

Questo aspetto è molto più ammorbidito rispetto al libro: nel romanzo le piccole vendette di Matilda erano sistematiche ad ogni sgarbo del padre e della famiglia in generale – in particolare, uno dei dispetti del romanzo, ai danni di tutti i suoi parenti, è omesso nella pellicola.

Nel film invece l’unico target è il padre, principale personaggio da punire: il Signor Dalverme non è solamente un piccolo uomo disonesto e pieno di sé, ma è proprio la figura che più di tutte limita Matilda e cerca di ricondurla all’idea di femmina stupida e sottomessa – l’unica che può accettare.

Mara Wilson e Danny DeVito in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Particolarmente iconico lo scontro nell’officina, in cui il padre sminuisce la protagonista ricordandole che è piccola e stupida, mentre lui è grande e intelligente, e ha tutto il potere e l’autorità dalla sua.

Proprio questo spinge Matilda a vendicarsi, dimostrando – nella totale inconsapevolezza del padre – di essere molto più scaltra di quanto lui credesse, mettendolo nel sacco non una, ma per ben due volte – prima col cappello, e poi con la tinta per capelli.

Ed è esilarante se si pensa che il padre non sospetta mai di lei, proprio perché la crede così stupida.

L’altro nemico

Pam Ferris in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Quando Matilda finalmente si affaccia al mondo adulti al di fuori della sua sfera familiare, viene a contatto con due modelli femminili fondamentalmente opposti.

Il primo è la Signorina Trinciabue, che racconta fondamentalmente un modello di estrema anti-femminilità, anzi un rifiuto della stessa, andando invece a rifugiarsi in un più violento e sicuro modello maschile.

Pam Ferris in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Ma anche più che rifiutare il femminile, Agata ne respinge la sua rappresentazione più debole: l’infanzia. Per questo Matilda è inevitabilmente la sua nemesi: una bambina che non dimostra debolezza ma, anzi, grande intraprendenza.

In generale, proprio come il Signor Dalverme, la Signorina Trinciabue sottovalutata i bambini, mettendoli continuamente alla prova con ostacoli apparentemente insormontabili, al fine di schiacciarli sotto al suo totale dominio.

Ma proprio per questo viene sconfitta più volte.

Alla riscossa!

Anzitutto da Bruno Mangiapatate.

Nel romanzo lo stesso riusciva senza alcuna fatica a mangiare l’enorme dolce della preside, mentre nel film si sceglie di puntare sull’idea che l’unione fa la forza, permettendo così al personaggio di concludere la prova grazie al sostegno dei suoi compagni.

Successivamente, anche Violetta riesce a ridicolizzarla: come nel libro la bambina organizzava il piano con cura e su ispirazione delle gesta di Matilda, nel film invece improvvisa totalmente.

In ogni caso, il risultato è lo stesso: riuscire a mostrare quella debolezza che Agata aveva sempre cercato accuratamente di celare.

Oltre all’anti-femminilità, la pellicola – a differenza del romanzo – si impegna a raccontare ancora questo personaggio come di fatto anti-umano, bestiale, proprio per sottolineare come si tratti di fatto di un mostro da sconfiggere.

La femminilità anomala

Embeth Davidtz in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Il personaggio della Signorina Dolcemiele è ancora più interessante.

Come Agata rappresenta l’anti-femminile, Betta invece ne incarna totalmente i valori, almeno quelli esteriori: una donna minuta, delicata, che parla poco e che non osa opporsi direttamente alla tirannia della preside, fungendo da figura materna secondaria per Matilda.

In realtà, il suo personaggio ricopre la funzione di insegnante nel senso più ampio del termine, essendo l’unica figura della storia – insieme alla Signora Felpa – a riconoscere, anzi ad incoraggiare le potenzialità della protagonista.

Embeth Davidtz e Mara Wilson in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Ed è proprio quando deve mettersi alla prova in questo senso, che Betta dimostra il suo potenziale.

Pur trovandosi davanti ad una figura sostanzialmente analoga a quella della Signorina Trinciabue, Betta non accetta di arrendersi davanti al pessimo comportamento del Signor Dalverme, che anzi disprezza e attacca direttamente in più momenti del loro incontro.

E, così come non aveva rinunciato al suo progetto davanti al diniego di Agata, allo stesso modo non si lascia sminuire dal superficiale ragionamento della Signora Dalverme, che la disprezza per aver scelto i libri invece che la bellezza.

Il potenziale inespresso

Embeth Davidtz e Mara Wilson in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Ma l’effettiva potenzialità di Betta risiede nel suo passato.

Come la protagonista di un dramma ottocentesco, la Signorina Dolcemiele nonostante fosse – fisicamente e simbolicamente – schiacciata dalla figura di Agata, riesce a trovare una sua via di fuga, pur dovendo accettare tutte le ristrettezze che quella libertà porta con sé.

Nel libro si racconta più specificatamente della paura del suo personaggio verso la zia, di come fosse anche economicamente dipendente da lei, dovendo per questo vivere con non più di una sterlina alla settimana.

Ma Betta è ancora oppressa dal terrore di Agata, e non riesce a liberarsi completamente.

A questo punto interviene Matilda.

Il passaggio di testimone

Mara Wilson in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

La protagonista eredita dalla maestra la sua forza nel ribellarsi, ma non la paura verso Agata, scegliendo di portare la sua rivalsa fino in fondo, ed esercitandosi nello sviluppo dei poteri proprio per questo fine – nel libro proprio specificamente ed unicamente per quello.

Interessante quanto funzionale l’aggiunta del film per cui Matilda si impegna per recuperare la bambola della Signorina Dolcemiele – e, simbolicamente, l’infanzia che è stata ingiustamente strappata alla sua maestra.

Ma la sua vera vittoria è riuscire a mettere Agata letteralmente al tappeto, facendo proprio leva sulla sua debolezza – l’essere molto superstiziosa – e dando così lo slancio anche ai suoi compagni per ribellarsi totalmente verso il mostro che li aveva compromesso l’infanzia.

Mara Wilson in una scena di Matilda (1996) di Danny DeVito

Questa aggiunta rispetto al libro – in cui semplicemente la Signorina Trinciabue scappava dopo lo scherzo di Matilda – mi ha convinto a metà: per quanto interessante distribuire la rivalsa su tutti i bambini, in questo modo si rende meno personale la vittoria di Matilda.

Allo stesso modo ho trovato molto più interessante la scelta del romanzo di limitare il potere della protagonista – un potere stancante e che terminava alla fine del libro – mentre il film ha scelto di renderlo più digeribile e legato ad una realtà fantastica e divertente.

Ma sono dettagli per un prodotto complessivamente molto rispettoso della sua fonte.

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School of Rock – Imparare a ribellarsi

School of Rock (2003) di Richard Linklater è un piccolo cult dei primi Anni Duemila, nonché uno dei ruoli più iconici di Jack Black, in quel periodo fra le star comiche più quotate.

Con un budget medio – 35 milioni di dollari – incassò complessivamente molto bene: 131 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla School of Rock?

Dewey Finn è un musicista squattrinato e appena cacciato dalla sua stessa band. Ma troverà un modo inusuale per tornare sulla cresta dell’onda…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere School of Rock?

Jack Black in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

In generale, sì.

Devo ammettere che da spettatrice ormai cresciuta, nonostante sia un film piacevolissimo, ho trovato School of Rock leggermente più debole rispetto al suo alter ego di qualche anno successivo, ovvero Bad Teacher (2010) – molto più consapevole e sfacciato.

Ma, proprio per questo, la pellicola con protagonista Jack Black è decisamente più accessibile, sopratutto per il pubblico di giovanissimi a cui è principalmente rivolta, offrendo anche degli spunti di riflessione – e, di fatto, pedagogici – non scontati.

Insomma, in generale lo consiglio.

Un protagonista miserabile

Jack Black e Joan Cusack in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

L’inizio del 2000 era terreno fertile per i protagonisti negativi.

Una maggiore complessità e tridimensionalità dei personaggi, protagonisti molto più grigi che presero piede sopratutto a partire da Shrek (2001), e i cui effetti si videro anche in School of Rock: Dewey Finn è un illuso, uno squattrinato che vive solamente di sogni.

L’apice della sua negatività è raggiunto immediatamente, quando sfila di mano un’ottima proposta lavorativa al coinquilino, con una crescente gravità: non solo si tratta di gestire dei bambini, ma sopratutto di farlo all’interno di una prestigiosa – e costosa! – scuola privata.

Francamente il suo personaggio sulla carta non è niente di particolarmente interessante, ma la sua mordente iconicità è garantita da Jack Black, grazie alla sua travolgente comicità e espressività, recentemente riconfermata anche in Super Mario Bros. – Il film (2023).

Un’occasione…di guadagno?

Jack Black e Rebecca Julia Brown in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

Il piano di Dewey è di fatto maligno, ma non è portato avanti proprio con le peggiori intenzioni.

Se infatti il principale motivo appare quello di ricreare una band che può controllare come gli pare e piace, in realtà in un certo senso il protagonista si prende a cuore la missione di educare questi bambini alla buona musica rock

…e, sul lungo periodo, di insegnare loro anche molto altro.

Infatti, nonostante sostanzialmente Dewey li privi di nozioni fondamentali per la loro educazione primaria, col tempo e quasi involontariamente offre ai suoi alunni degli insegnamenti molto più importanti: saper pensare fuori dagli schemi, essere creativi e coltivare le proprie passioni.

Infatti, tramite questa esperienza i bambini scoprono qualcosa di nuovo su sé stessi, godendo anche un inedito rispetto da parte di un adulto: fino a quel momento erano abituati a genitori e ad insegnanti con un atteggiamento molto più stringente e tirannico.

In particolare due personaggi – Zack e Tomika – diventano più sicuri di loro stessi, trovandosi anche ad essere valorizzati e premiati da un insegnante per qualcosa di non strettamente collegato alla scuola, ma al loro innegabile talento musicale.

Ma non è neanche l’insegnamento più importante.

Ribelli e consapevoli

Jack Black, Rebecca Julia Brown e Joey Gaydos Jr. in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

Il principale insegnamento di Dewey per i suoi alunni è il saper essere ribelli e non farsi sottomettere dall’autorità.

Infatti, sul finale riescono a portare a termine la loro missione in sostanziale autonomia, avendo dimostrato già in precedenza di essere molto più intelligenti e capaci di quanto gli altri adulti credessero – in particolare quando devono simulare una lezione in corso.

Oltre a questo, gli alunni si dimostrano anche più maturi del loro insegnante, capendo l’importanza di aver lavorato a qualcosa di creativo e di originale, senza necessariamente ricercare il riconoscimento da parte degli altri – quindi anche senza vincere la Battaglia delle Band.

Mike White e Sarah Silverman in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

Al contempo è una lezione utile anche per gli adulti.

Infatti, sia Ned che Rosalie riescono a ribellarsi.

Fin dall’inizio Ned è sostanzialmente sottomesso alla compagna, che lo spinge ad essere un adulto sempre più chiuso e insicuro, totalmente incapace di inseguire i propri sogni, o anche solamente di vivere serenamente i propri hobby.

Allo stesso modo la preside Rosalie è sostanzialmente terrorizzata dalla sua posizione e dagli altri adulti, incapace di relazionarsi in maniera serena né con loro, né con gli alunni stessi.

Ma grazie a Dewey riesce a ribellarsi dalla sua posizione, accettando persino le avances di un ragazzo così particolare come Spider.

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Pitch Perfect Saga – Perdersi per strada

La saga di Pitch Perfect (2012 – 2017) è stato un piccolo fenomeno cinematografico della seconda metà degli Anni Dieci, che raccolse l’eredità di Glee, lanciò Anna Kendrick presso il grande pubblico, ma si perse anche drammaticamente lungo la strada.

Nonostante tutti i film abbiano portato dei buoni incassi, i risultati al botteghino sono stati alterni: un buon successo per il primo capitolo, raddoppiato per il secondo, per poi perdere una buona fetta di pubblico con il terzo capitolo.

Di cosa parla Pitch Perfect?

La trilogia di Pitch Perfect segue principalmente la protagonista, Beca, che si unisce al gruppo di canto a cappella delle Bellas, al contempo inseguendo il suo sogno di diventare una produttrice musicale…

Vi lascio il trailer del primo film per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Pitch Perfect?

Anna Kendrick, Brittany Snow e Anna Camp in una scena di Pitch Perfect (2012)

Dipende.

Il primo capitolo della trilogia è un mio personale confort movie: una commedia musicale piacevole, con un semplice quanto funzionale arco evolutivo della protagonista e dei personaggi secondari, e con delle performance musicali di alto livello.

Soprattutto se vi piaceva (o vi piace ancora) Glee, probabilmente lo amerete.

Purtroppo, non posso dire lo stesso degli altri due film.

Con la trilogia di Pitch Perfect ho visto dei prodotti creati principalmente per cavalcare il successo del brand, ma senza che ci fosse un’idea forte alla base dei sequel, andando anzi spesso a ripetere lo stesso schema narrativo, con una certa pigrizia di scrittura, arrivando infine deviare totalmente dalla strada principale.

Insomma, se fossi in voi, mi fermerei al primo film.

Pitch Perfect (2012)

Il primo capitolo della trilogia di Pitch Perfect è quello più robusto dei tre, pur non mancando di alcuni inciampi lungo la strada.

Ma partiamo dalle cose positive.

Una protagonista anomala

Anna Kendrick in una scena di Pitch Perfect (2012)

Il successo di questa pellicola, come in altri casi analoghi, è la scelta di una protagonista inusuale.

Beca non è anomala di per sé come protagonista, ma lo è nello specifico per il genere di riferimento: in un’epoca in cui Glee rappresentava praticamente la personalità di molti adolescenti, il modello di protagonista era la ragazza timida, un po’ nerd, ma con una voce magnifica.

Beca non è niente di tutto ciò.

Anna Kendrick e Rebel Wilson in una scena di Pitch Perfect (2012)

Non ha una voce particolarmente magnifica, è una persona molto chiusa in sé stessa e che tende ad allontanare gli altri – per sua stessa ammissione – testarda come un mulo, e che vorrebbe solamente seguire la strada che si è già prefissata.

La sua maturazione, per questo, avviene su due livelli.

Il primo è quello relazionale, nel senso più strettamente affettivo: tramite Jesse – che ha quasi il ruolo da pixie girl – si rende conto della sua tendenza incredibilmente tossica di farsi terra bruciata intorno, anche in maniera piuttosto cattiva e aggressiva.

Anna Kendrick e Skylar Astin in una scena di Pitch Perfect (2012)

Più banalmente, tramite le Bellas, Beca impara a lavorare in gruppo, ad introdurre le sue idee migliorative in maniera effettivamente collaborativa, quindi non testarda e aggressiva, come aveva fatto fino a quel momento.

Ma le Bellas rappresentano molto di più.

Una nuova femminilità

All’inizio del film, conosciamo fin da subito la superbia e l’acidità che contraddistingueva le vecchie Bellas.

Il gruppo rappresentava un modello femminile ormai datato, composto da donne bianche, con dei fisici perfetti e vestite con abiti formali, ma al contempo con un aspetto assai piacente, sessualizzato quanto bastava perché non risultasse eccessivo.

Aubrey eredita questa vena dittatoriale, forzando costantemente le altre ragazze a aderire a questo modello femminile, che si trasmette anche nelle canzoni poco al passo con i tempi e portatrici di concetti ormai superati.

La bellezza del finale sta non soltanto nell’ottimo numero musicale, ma anche nella libertà riconquistata delle Bellas nel raccontarsi in maniera autentica e personale all’interno del gruppo, pur mantenendone i simboli identitari.

Non la solita musica

Anna Kendrick in una scena di Pitch Perfect (2012)

Dal punto di vista musicale, Pitch Perfect mostra il suo lato migliore.

Anzitutto per le performance durante le gare, prima con le esibizioni dei Treblemakers e poi lo spettacolo finale delle Bellas, con dei mix up particolarmente coinvolgenti ed ottimamente coreografati.

Ma i momenti più iconici e che mi sono rimasti veramente impressi sono la scena dell’audizione e la sequenza del Rip-off, soprattutto grazie all’ottimo montaggio e alla fantastica regia, che li rende dei momenti veramente indimenticabili.

In particolare, ho apprezzato la cura che è stata messa nell’esibizione finale delle Bellas, momento che doveva distinguersi per qualità sia dalle loro precedenti performance, sia anche dall’ottima prova dei Treblemakers.

Un’inclusione fallace

Rebel Wilson in una scena di Pitch Perfect (2012)

Come Pitch Perfect riesce a raccontare in maniera interessante e variegata la femminilità, fallisce dal punto di vista inclusivo.

Anzitutto per Fat Amy.

Il film si crede particolarmente spiritoso ed originale per questa trovata, che in realtà racconta una mal celata grassofobia, o, per meglio dire, una grande pigrizia narrativa che per l’ennesima volta rende il personaggio grasso la spalla comica della protagonista.

Questo elemento, insieme al vomito incontrollabile di Aubrey, rappresenta la pesante eredità che Pitch Perfect trae dalla più classica delle commedie del decennio precedente, in cui era tipico trovare i suddetti elementi.

Ma se Fat Amy è anche perdonabile, dal momento che comunque è un personaggio brillante e uno dei migliori del film, il punto più basso è la rappresentazione di Cyntia-Rose.

Se da una parte può essere anche positivo il fatto che il suo personaggio non nasconda la sua omosessualità, meno piacevole è quanto non solo si insista nel volerla ricondurre al classico e stanco stereotipo della lesbica mascolina, ma si spinge fortemente l’acceleratore nelle molestie comiche del personaggio contro Stacie.

Mentre guardavo Cynthia con gli occhi affondati nei seni della compagna mi sembrava di essere tornata ai tempi di Camera Cafè, ma quando insistentemente la ragazza cerca di fare la respirazione bocca a bocca a Amy…

…e soprattutto quando salta addosso a Stacie nel finale – e la stessa usa il fischietto antistupro – ho visto l’immensità dell’ignoranza che questo film rappresenta.

Purtroppo, un’ignoranza molto inconsapevole…

Pitch Perfect 2 (2015)

Con il Pitch Perfect 2 (2015) la sceneggiatura rimane in mano a Kay Cannon, ma la regia passa a Elizabeth Banks, che già dallo scorso capitolo interpretava Gail McKadden, la commentatrice delle gare di canto.

E non è proprio una buona notizia…

It’s 2015, baby!

Le Bellas in una scena di Pitch Perfect 2 (2015)

Pitch Perfect 2 segna un cambio di passo travolgente.

Lasciatosi alle spalle l’era di Glee ormai in chiusura, le Bellas approdano alla scintillante conclusione degli Anni Dieci, sembrando alternativamente delle modelle di un post di Instagram e le backup dancers del videoclip Bang Bang, che da solo rappresenta perfettamente l’estetica di questi anni.

Così dalle luci più morbide e tridimensionali del primo capitolo, si passa ad un universo fatto di colori carichi e caramellosi, accompagnato da una regia molto più fredda e anche ben poco ispirata, alla lunga quasi nauseante…

E Beca racconta perfettamente questo cambiamento.

Una Beca nuova di zecca

Anna Kendrick in una scena di Pitch Perfect 2 (2015)

Vuoi per il cambio di regia, vuoi per il maggiore potere contrattuale della stella nascente Anna Kendrick, Beca è totalmente cambiata.

Ci dimentichiamo ben presto della ragazza molto chiusa, un po’ emo, che respingeva tutti, e troviamo invece una team leader con un look fortemente diverso, che la fa sembrare proprio lo stereotipo della ragazza popolare di quegli anni.

Per fortuna che la regia non si dimentica del passato del personaggio, che mantiene una certa insicurezza nei confronti delle nuove sfide, rientrando in un topos narrativo più alla Il diavolo veste Prada (2006), ma che si risolve senza troppi drammi e riscoprendo l’importanza del gioco di squadra.

L’usato sicuro?

Anna Kendrick in una scena di Pitch Perfect 2 (2015)

Pitch Perfect 2 ricade nel più classico errore di un sequel di un prodotto di successo: portare in scena sostanzialmente la medesima storia, ma rimescolando un po’ le carte.

Ma se Cameron era riuscito in questo compito con particolare maestria con Aliens (1986) – proprio per fare un paragone volutamente improprio – non si può dire lo stesso di Kay Cannon con il sequel della sua stessa creazione, che ricalca la stessa storia, ma con molto meno mordente.

Si comincia sempre con l’incidente scatenante che mette a dura prova le Bellas, portandole a doversi mettere in gioco più che mai con un nemico ben più potente e temibile di quanto non fossero i Treblemakers.

Rebel Wilson in una scena di Pitch Perfect 2 (2015)

Già qui entrambi gli elementi mi hanno francamente piuttosto infastidita: sia per, ancora una volta, il malcelato fat shaming nei confronti di Amy – il pubblico avrebbe avuto la stessa reazione con un corpo più canonicamente bello? – sia per la rappresentazione dei DSM.

Come non mi ha entusiasmato la banale e stereotipata rappresentazione di Cynthia-Rose, ancora meno mi è piaciuta la banalità con cui sono stati caratterizzati i leader del gruppo rivale, ovvero basandosi sulla classica ironia dei tedeschi come minacciosi e con un fare quasi militaresco.

Insomma, si poteva fare molto di meglio.

E lo stesso discorso vale per la rappresentazione di Flo, personaggio a cui, insieme ai due commentatori, il film affida l’elemento del black humor, risultando personalmente più fastidioso e fuori luogo che effettivamente piacevole.

Non c’è spazio per tutti

Hailee Steinfeld in una scena di Pitch Perfect 2 (2015)

Uno dei problemi maggiori di Pitch Perfect 2 è il sovraffollamento della scena.

La sceneggiatura sembra avere per le mani un numero esagerato di personaggi che appare incapace di gestire, portando molti dei secondari fondamentali del precedente capitolo a scomparire sostanzialmente di scena.

È il caso di Stacie – che col nuovo look sulle prime non avevo neanche riconosciuto – ma soprattutto di Jesse, personaggio così fondamentale nel precedente film, in questo nuovo capitolo ridotto ad un minutaggio insignificante, diventando poco più che un figurante.

Anna Kendrick in una scena di Pitch Perfect 2 (2015)

Si cerca di dare più spazio a Bumper e Amy, e così alla nuova leva delle Bellas, Emily, ma sinceramente né le loro storie d’amore né i loro personaggi in generale mi hanno detto molto più rispetto al precedente film, anzi in non pochi momenti mi sembravano degli elementi funzionali solo ad allungare il minutaggio.

Ma non è neanche la cosa che mi ha fatto più male.

A cappella?

Le Bellas in una scena di Pitch Perfect 2 (2015)

Le esibizioni di Pitch Perfect per la maggior parte non mi sono piaciute.

Mi sono sembrate molto più attente agli effetti speciali e al valore di certi momenti nella storia, più che a portare in scena delle sequenze veramente creative e interessanti, che raccontassero il grande lavoro delle protagoniste per portare la migliore performance possibile.

Anche se lo spettacolo finale dovrebbe essere il punto di arrivo del loro percorso, l’ho trovato veramente poco coinvolgente e molto meno artisticamente interessante rispetto all’analogo momento del primo capitolo.

E sicuramente la regia piatta non ha aiutato…

Pitch Perfect 3 (2017)

Pitch Perfect 3 è riuscito in qualcosa che non mi sarei mai aspettata da questa saga: mi ha profondamente annoiato.

E il cambio di regia ha aiutato meno di quello che credessi…

Un dramma ridondante

Arrivati a questo punto della saga, continuare a mettere le protagoniste all’interno di un ulteriore dramma l’ho trovato piuttosto ridondante, tanto più quando il minutaggio non basta per approfondire neanche la metà dei problemi effettivamente proposti.   

Ma la situazione peggiore è indubbiamente quella di Beca: nonostante sia riuscita ad intraprendere un’interessante carriera nel mondo della produzione, si dimostra incredibilmente immatura – sempre per necessità di trama – nell’incapacità di accettare i compromessi e le difficoltà del suo stesso lavoro.

Sarebbe stato molto più credibile se fosse stato inserito un racconto più articolato di un ambiente di lavoro tossico da cui la protagonista voleva effettivamente fuggire per trovare qualcosa di meglio…

…ma chi ne ha il tempo in soli 90 minuti di film.

Uscire di scena

Uno dei pochi pregi di questo film è la sua capacità di rendersi conto del sovraffollamento dei personaggi in scena, e fare così una buona scrematura iniziale.

Ma non basta.

Anche se i personaggi maschili sono immediatamente congedati – Jesse è lontano tremila chilometri e Bumper è stato semplicemente scaricato da Amy – ancora una volta la pellicola vuole raccontare troppe storie e dare spazio a troppi personaggi.

Così non abbiamo nessun approfondimento del nuovo amore di Chloe, del contrasto col padre di Aubrey, per non parlare dell’assoluta inutilità della nuova relazione di Lilly: storyline totalmente comandate, che dovevano esserci per fare minutaggio, ma che non si ha avuto né il tempo né l’interesse a trattare adeguatamente.

Il conflitto a tutti i costi

Uno dei pilastri della narrazione di Pitch Perfect (e di qualunque film analogo) è il racconto della maturazione delle protagoniste per arrivare allo spettacolo finale.

In Pitch Perfect 3, nonostante ci si provi moltissimo, il conflitto non esiste.

Nell’improvvisato Rip-off all’inizio le protagoniste vengono di fatto umiliate e superate da delle interpretazioni molto più vincenti dei loro concorrenti, andando a suggerire una potenziale difficoltà del gruppo per riuscire ad emergere.

Il problema è che le loro performance sono fin da subito apprezzate, quindi manca di fatto una costruzione della tensione e del dubbio che le Bellas possano non essere scelte da DJ Khaled: sono già evidentemente le più meritevoli.

Il colpo di scena è rappresentato dalla scelta di Beca come solista per aprire il concerto, con un brevissimo conflitto che porta alla più scontatala risoluzione: le Bellas sostengono la protagonista per la sua scelta e finiscono per cantare con lei.

Un momento che dovrebbe essere incredibilmente emozionante, ma che non mi ha emozionato per nulla…

Parliamo (troppo) di Amy

Forse anche per una certa consapevolezza della mancanza della tensione in scena, la pellicola concede tantissimo spazio alla storia di Amy.

Lasciando da parte l’imbarazzo che ho provato per la maggior parte delle sue battute, ho trovato in generale la sua storia, che dovrebbe essere la parte fondamentale del film, incredibilmente noiosa e prevedibile.

Ma in particolare l’ho trovata una storyline dal sapore spy totalmente fuori luogo nel contesto di Pitch Perfect, la cui risoluzione, fra l’altro, era già stata raccontata con un flash forward all’inizio del film.

Insomma, una conclusione di saga che ho trovato molto insapore.