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Genitori in trappola – Un gustoso equilibrio

Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers, remake di Il cowboy con il velo da sposa (1961), è un irresistibile incontro fra una rom-com e una commedia per ragazzi.

Con un budget veramente contenuto – appena 15 milioni di dollari (circa 28 oggi) – fu un ottimo successo commerciale: quasi 100 milioni in tutto il mondo – circa 172 oggi.

Di cosa parla Genitori in trappola?

Annie e Hallie sono appena arrivate al campo estivo, e scopriranno di essere più simili di quanto pensano…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Genitori in trappola?

Lindsay Lohan in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Assolutamente sì.

In questo caso sono veramente molto di parte perché Genitori in trappola è uno dei film della mia infanzia, che guardo ancora oggi con grande piacere.

Tuttavia, è indubbio che si tratti di una pellicola molto trasversale, che può conquistare un pubblico più o meno giovane, vista la varietà di situazioni e personaggi che animano la scena.

Fra l’altro con una divisione molto precisa dei tre atti della storia, alternando stili e generi diversi: dall’avventura per ragazzi, alla commedia degli equivoci, al più struggente dramma romantico.

L’importanza del volto

Natasha Richardson e Dennis Quaid in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Fin da subito la regia di Genitori in trappola gioca sulla dinamica dell’identità celata e rivelata.

Tutta la sequenza iniziale racconta una breve ma intensa storia romantica, i cui protagonisti ci rimangono sconosciuti fino alla fine del primo atto, con un susseguirsi di particolari che rivelano i contorni dell’antefatto.

Lindsay Lohan in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Anche se non viene esplicitata la presenza di un figlio – anzi, di due gemelle! – l’ellissi temporale di 11 anni e 9 mesi ci fa già sospettare qualcosa…

Quando poi vediamo entrare in scena le due protagoniste, cominciamo ad unire i puntini e diventiamo di fatto complici della regia, che si diverte a giocare con gli equivoci che tengono le due ragazzine divise per diverse sequenze.

Alle origini della commedia

Lindsay Lohan in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Un grande merito di questa pellicola è di essere riuscita ad anticipare due grandi capisaldi della commedia del successivo millennio, riuscendo a gestirli con grande equilibrio.

Anzitutto, l’utilizzo dei personaggi tipizzati.

La commedia dei primi Anni Duemila straborderà di questo contrasto fra la cultura inglese e quella statunitense, dinamica che troviamo già in nuce in Genitori in trappola, che però ha il merito di saperla contestualizzare adeguatamente.

Lindsay Lohan in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Infatti, come Hallie è la classica californiana chiacchierona e un po’ guascona, con un carattere del tutto comprensibile visto il tipo di ambiente in cui è cresciuta, allo stesso modo Annie, figlia di una stilista elegante e raffinata, non può che essere una ragazzina a modo.

Un altro elemento imprescindibile della commedia del decennio successivo sarà l’inserimento di situazioni comiche al limite del grottesco, anche apertamente disgustose.

È questo il caso dei vari scherzi che le due gemelle si fanno fra di loro, con il picco rappresentato dal terribile risveglio di Annie, con delle trovate che ricordano molto da vicino le micidiali trappole di Mamma ho perso l’aereo (1990).

Senti chi parla ora!

Lindsay Lohan in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Da grande appassionata di film per ragazzi, un elemento secondo me immancabile del genere è l’assoluta superiorità dei bambini verso gli adulti.

Infatti, è un aspetto che riesce veramente ad incarnare il sogno infantile della supremazia verso un mondo adulto spesso incomprensibile, e che altrettanto frequentemente mette un freno a sogni ed a progetti, soprattutto quelli più scalmanati.

In questo caso, proprio grazie alla loro ritrovata amicizia, le due sorelle mettono in atto un piano incredibilmente audace, riuscendo a dare il via a quegli eventi che potranno finalmente riunire la loro famiglia, laddove i genitori ne erano stati incapaci.

I volti giusti

Lindsay Lohan e Natasha Richardson in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Il casting di Genitori in trappola non è per nulla casuale.

Anche in questo caso la pellicola rischiava pericolosamente di ricadere in facili stereotipi sulla giovane donna arrivista e il giusto interesse amoroso che è invece una donna diversa da tutte le altre.

Al contrario, il film sceglie di mettere sullo stesso piano Nick e Liz: anche se apparentemente sono due persone molto diverse, in realtà sono accomunate dall’incarnare il sogno tutto americano del self-made man – e woman, in questo caso.

Infatti, entrambi hanno seguito le loro passioni e si sono costruiti una vita soddisfacente e di successo nei loro rispettivi campi.

Lindsay Lohan e Elaine Hendrix in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Ma non finisce qui.

Lo spettatore può empatizzare facilmente con questi personaggi sia per i loro volti semplici, puliti, i loro sorrisi aperti e sinceri, sia per il loro modo di vestirsi – equilibrato e accessibile anche quando sono molto eleganti – e di porsi – accogliente e persino comico in non pochi momenti.

Meredith è invece tutto il contrario: appare fin da subito come una presenza artificiosa, fuori luogo, una facciata costruita con un sorriso smagliante, ma che, al contrario di Liz, è forzato e velenoso…

Una strada solitaria

Per quanto le due protagoniste si sforzino nel far rimettere insieme i loro genitori, è una strada che i due devono percorrere da soli.

In primo luogo, è Nick che deve rendersi conto del valore di quello che sta perdendo, proprio quando è messo davanti ad una scelta apparentemente difficile – scegliere fra le figlie e la futura moglie – posta da un’esasperata Meredith che mostra finalmente il suo vero volto.

Ma anche con l’uscita di scena della donna di troppo, la storia di Nick e Liz è un continuo rincorrersi, una costante paura di riprendere le fila di una storia che era stata abbandonata così bruscamente, in maniera così apparentemente irrimediabile…

Ma è col piacevolissimo colpo di scena finale che questa strana e rinnovata famiglia ritrova finalmente la sua unione.

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The Blues Brothers – L’arte di cavarsela

The Blues Brothers (1980) di John Landis è uno dei più grandi cult degli Anni Ottanta, un misto fra road movie, commedia nera e musical, sempre al limite fra il surreale e il camp più spinto.

Con un budget di 27,5 milioni di dollari – circa 100 oggi – incassò piuttosto bene: 115 milioni in tutto il mondo (circa 425 oggi).

Di cosa parla The Blues Brothers?

Elwood accoglie Jake, il fratello appena uscito di prigione, con cui si imbarca in un’improbabile quanto fondamentale missione per conto di Dio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Blues Brothers?

La suora in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Assolutamente sì.

The Blues Brothers, insieme a Prendi i soldi e scappa (1969), è fra i titoli che mi hanno formato al cinema, quindi sono molto di parte. Tuttavia, posso dire con serenità che, se questa pellicola è un cult, non è un caso.

Questo incontro così irriverente fra la commedia più improbabile e il disaster movie, con inseguimenti in auto che violano ogni legge della fisica – e non solo – e con performance musicali di alcuni dei più grandi artisti del tempo, sono tutti elementi che rendono questo film una visione davvero imperdibile.

Insomma, cosa state aspettando?

Un uomo di nulla

La lunga sequenza iniziale ci presenta immediatamente Jake senza mostrandocelo in volto.

Ma non serve.

Quando il protagonista riacquista i suoi averi nell’iconica scena dell’inventario, in pochi minuti abbiamo un quadro completo della sua personalità: un uomo legato strettamente a pochi elementi distintivi (il completo e gli occhiali neri), una vita sessuale piuttosto disordinata (i due preservativi) e con pochissimi soldi in tasca (appena 23 dollari e 50).

E il fatto che firmi con decisione con una semplice X, oltre ad essere un momento irresistibilmente comico, racconta perfettamente il totale menefreghismo del suo personaggio.

Ritrovare la via

La suora in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Nonostante i due fratelli sembrino l’uno la copia dell’altro, in realtà mostrano tendenze opposte.

Come Jake vorrebbe ritornare alla sua vecchia vita, Elwood cerca di farlo reintegrare all’interno di un panorama assai mutato: la Blues Mobile è stata venduta – per un microfono! – la banda si è sciolta ed è ora di tornare alle proprie radici.

La sequenza della suora è una delle più iconiche dell’intero film, dove Landis comincia ad inserire degli elementi quasi fantastici, raccontando una donna così tanto devota a Dio che ne assume anche l’onnipotenza.

Dan Aykroyd e John Belushi in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Già in questa irresistibile sequenza i due cominciano a capire che qualcosa deve cambiare: è ora di ritrovare la propria spiritualità.

Ma, invece che con delle dovute preghiere, l’epifania arriva da Dio stesso, che illumina Jake nella chiesa Triple Rock e gli fa capire che il suo destino è rimettere insieme la banda e salvare l’orfanotrofio.

Ma è una missione ben più difficile da quello che sembri.

Siamo in missione per conto di Dio!

Dan Aykroyd e John Belushi in The Blues Brothers (1980) di John Landis

L’ironia di fondo di The Blues Brothers risiede nel travolgente contrasto fra la missione per conto di Dio e i metodi con cui la stessa viene portata avanti.

Paradossalmente l’illuminazione divina è utilizzata ben poco come motivazione per convincere gli altri membri della banda a tornare a suonare insieme, mentre il metodo più gettonato è l’esplicito ricatto, in particolare nell’esilarante scena del ristorante.

Ma al contempo i due fratelli rappresentano un sogno lontano e apparentemente irraggiungibile, del rimettere insieme una squinternata jazz band e così godere di una vita veramente piena e soddisfacente, pur vissuta alla giornata.

Queste motivazioni sono utilizzate sia per convincere i membri di Murph and Magic Tones, ridotti a cantare canzoncine popolari in squallidi locali, sia, soprattutto, per persuadere Murphy, che ha ormai abbandonato la sua carriera musicale per gestire la tavola calda con la moglie.

Il numero musicale di Aretha Franklin è un unicum all’interno della pellicola, perché rappresenta il momento più strettamente da musical: a differenza degli altri numeri musicali, che sono effettivamente degli spettacoli in cui i personaggi sanno di cantare, in questo caso la donna sta facendo la ramanzina al marito, ma cantando.

Vivere alla giornata

Dan Aykroyd e John Belushi in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Pur rimettendo insieme la banda, trovare un incarico è tutto tranne che semplice.

Infatti, il primo lavoro è totalmente improvvisato e basato su un incredibile colpo di fortuna: trovandosi per caso vicino ad un locale che effettivamente aspettava una banda di musicisti – in ritardo – i Blues Brothers riescono a rubargli il lavoro.

Questa sequenza racconta la grande capacità di adattarsi e di cavarsela dei protagonisti: pur con una falsa partenza, la band riesce a convincere un pubblico molto ostile, suonando pezzi che soddisfino anche i loro palati così lontani dalla musica jazz e blues.

Ma ovviamente questa piccola vittoria si rivela in realtà un’inevitabile sconfitta, dovuta proprio all’ingenuità dei due protagonisti, che sono ancora costretti a filarsela, facendosi nuovi nemici lungo la strada…

Il punto di svolta

Il punto di svolta per i Blues Brothers avviene, come sempre, grazie al ricatto.

Riuscendo a mettere alle strette Maury Sline e ad ottenere lo spettacolo nella migliore sala del Palace Hotel, i due riescono a creare grande curiosità intorno al loro show, con un marketing piuttosto insistente e sfrontato, ma, in definitiva, vincente.

Ma la schiera di nemici che si è affollata lungo la strada crea non pochi ostacoli alla coppia, che comunque riesce a salvarsi ancora una volta con diversi e abili sotterfugi, mentre Curtis prepara il pubblico al loro grande debutto.

Ma è di nuovo ora di scappare.

Il vero nemico

Carrie Fisher in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Il vero villain di The Blues Brothers è la misteriosa donna che tenta continuamente di attentare alla loro vita.

La bellezza del personaggio di Carrie Fisher, al tempo già iconica per Una nuova speranza (1977), sta proprio nel contrasto fra la sua spietatezza, che la porta a distruggere palazzi e far saltare in aria cabine telefoniche, e la totale indifferenza delle vittime dei suoi attacchi.

In questo modo Landis crea un irresistibile interesse per il suo personaggio e per la sua misteriosa storia, che raggiunge il suo picco nell’indimenticabile confronto con Jake nel tunnel, in cui John Belushi regala la migliore interpretazione di tutta la pellicola.

Ma è solo uno dei tanti ostacoli.

I nemici lungo la strada

Personalmente non sono una grande amante degli inseguimenti in auto, anzi spesso finisco per annoiarmi.

Ma le fughe dei Blues Brothers sono forse la mia parte preferita del film.

Già all’inizio l’iconica scena del centro commerciale, in cui i due travolgono con assoluta tranquillità e piacere negozi, oggetti e persone, ma anche i diversi momenti successivi che punteggiano il secondo atto, con incidenti e distruzioni sempre più improbabili.

L’escalation della violenza e dell’intervento di forze di polizia sempre più massicce va di pari passo con l’incredibile capacità dei due fratelli di salvarsi da ogni situazione, arrivando al punto di far fare un salto carpiato alla loro macchina e così sconfiggere i Nazisti dell’Illinois, ritornando in carreggiata totalmente illesi.

The Blues Brothers inseguimento

Dan Aykroyd e John Belushi in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Tuttavia, non manca una certa amarezza.

All’interno di questa apparente invincibilità dal forte sapore comico, proprio davanti al Richard J. Daley Center di Chicago, i Blues Brothers vedono l’inizio della loro sconfitta: la macchina si distrugge davanti a loro sguardi ammutoliti.

Ma la protezione di Dio gli permette di arrivare illesi fino al 102° piano, riuscendo a consegnare i soldi per salvare l’orfanotrofio. Tuttavia, ormai la grazia divina è finita: neanche il tempo di prendere la ricevuta, e i due sono in manette con centinaia di armi puntate addosso.

Il finale è comunque positivo: persino in prigione, i Blues Brothers riescono a rianimare le folle e a tenere insieme la banda.

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Rango – Storia di un eroe a caso

Rango (2011) di Gore Verbinski è un lungometraggio animato che rappresenta un incontro fra il western classico e thriller politico, con un pizzico di surrealismo e un buon impianto metanarrativo.

Anche se sulla carta fu un flop – appena 245 milioni di incasso contro 135 milioni di budget – la Paramount lo considerò un ottimo punto di partenza per fondare il proprio reparto di animazione.

Di cosa parla Rango?

Rango è un camaleonte pieno di sogni, che vive nella ristrettezza del suo terrario, ma che verrà catapultato in una fantastica avventura…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Rango?

Rango in Rango (2011) di Gore Verbinski

Assolutamente sì.

È veramente difficile spiegare Rango a chi non l’ha mai visto: ad una visione più superficiale, potrebbe apparire come una semplicissima avventura per ragazzi dal sapore western, ma ci sono diversi aspetti della pellicola che portano in un’altra direzione…

Senza andare troppo nello specifico, se vorrete intraprendere questa visione, vi consiglio di fare attenzione agli elementi visivi che vengono ripetuti in più momenti durante la pelliclla, specificatamente all’inizio e alla fine.

Potreste rimanere sorpresi…

Senza nome

Rango in Rango (2011) di Gore Verbinski

Rango è un eroe senza nome.

Un camaleonte che non sa di esserlo – e infatti nessuno degli altri personaggi lo definirà mai tale – incapace di integrarsi, incapace di utilizzare i suoi poteri naturali per cambiare aspetto, ma comunque deciso a vivere l’avventura che lo definisca come eroe.

Gli elementi del suo terrario sono dei placeholder piuttosto deboli, che rappresentano gli elementi fondamentali dell’avventura, particolarmente dell’avventura western: la bella da salvare, il nemico da sconfiggere, il personaggio maschile impossibilitato a proteggere la comunità.

E poi lui, l’eroe della storia.

Disillusione

Rango in Rango (2011) di Gore Verbinski

Per la maggior parte del film, Rango combatte contro sé stesso.

Per quanto agli inizi si senta totalmente coinvolto dalla storia che lui stesso ha creato, allo stesso modo è completamente consapevole, anzi esplicitamente disilluso dalla totale artificiosità della situazione, definita da pochi, fragilissimi simboli.

Ma è sempre Rango che, appena è gettato nella feroce realtà del deserto, sulle prime sembra totalmente incapace ad integrarsi e a sopravvivere, ma riesce infine, con qualche piccola arguzia, a salvarsi dal falco, e così ad arrivare a Polvere.

Rango in Rango (2011) di Gore Verbinski

In questa aspra cittadina di frontiera, Rango si rende conto di poter essere chi vuole, e prende il suo nome da eroe totalmente per caso, da una scritta su un bottiglia. Ed è la sua capacità di interpretare un personaggio profondamente teatrale che convince tutti gli altri della sua sceneggiata.

Ma nel momento in cui è messo alla prova, in cui deve dimostrare effettivamente di essere un eroe, perde in realtà tutto il suo coraggio e riesce assai debolmente a nascondersi dietro alla facciata che lui stesso si è creato.

Ma è la storia stessa che sembra venirgli incontro, regalandogli una serie di colpi di fortuna che riescono effettivamente a rendere credibile la sua maschera.

Un’arida realtà

Rango in Rango (2011) di Gore Verbinski

La vicenda politica è la parte più adulta della pellicola.

Piuttosto indovinata l’idea di legare l’elemento di forza del potere politico a qualcosa di così fondamentale per la sopravvivenza – anche se, in realtà, basterebbe sostituire l’acqua con i soldi o il petrolio per dare alla vicenda tutto un altro sapore.

Di fatto il vero nemico della storia non è Jake Sonagli, ma il sindaco, che all’esterno appare come un benefattore della comunità – offrendo ad ogni cittadino un obolo di acqua – ma che nell’ombra agisce con una vera e propria speculazione edilizia.

Rango in Rango (2011) di Gore Verbinski

Come il più feroce degli imprenditori e strozzini moderni, prende il controllo dell’economia della città e la prosciuga del suo valore, così da poterne prendere possesso e usare quegli spazi per costruire una realtà edilizia ben più vantaggiosa.

Questo elemento è in aperto contrasto con le atmosfere western, ma, storicamente parlando, Rango si pone nel momento che segnò la fine del sogno del Far West, delle città di frontiera e dei cowboy, per lasciare spazio alla più avanguardistica realtà urbana.

Ma il western ha ancora qualcosa da dire.

Una pesante eredità

Jake Sonagli in Rango (2011) di Gore Verbinski

Nella parte centrale e, soprattutto, nel finale, l’avventura western cerca di farsi disperatamente largo in una situazione dove sembra ormai fuori posto.

In primo luogo, tramite la tumultuosa cavalcata per acciuffare i ladri della banca e ritornare come eroi, una lunga sequenza che è forse la parte più specificatamente western della pellicola, e anche la più digeribile per un pubblico infantile.

Ma la stessa si conclude con un brusco ritorno alla realtà, quando si scopre che l’acqua in realtà non era stata veramente rubata: il deposito era già stato prosciugato dal sindaco.

Per quanto Rango cerchi di fare luce su una storia ben più complessa e meno facilmente riconducibile alla classica avventura western che tanto sognava, quest’ultima lo respinge e cerca di buttarlo fuori di scena.

Ed il motore dell’azione è proprio Jake Sonagli.

Questo nemico monumentale, oltre ad essere uno dei villain più terrificanti dell’animazione dello scorso decennio, rappresenta sia il nemico ultimo da combattere per l’eroe, sia la monumentalità del sogno del Far West, che il sindaco vorrebbe spazzare via.

E proprio Jake Sonagli che spoglia Rango della sua neonata identità, gli impedisce di essere l’eroe che aveva sempre sognato – e a cui tutti avevano creduto.

Il meta-sogno

Clint Eastwood in Rango (2011) di Gore Verbinski

L’incontro con Lo spirito del West è la sequenza rivelatoria.

Rango, dopo essere finalmente riuscito a superare la prova finale dell’eroe, quella che aveva sempre temuto, incontra finalmente l’entità che rappresenta il West, nello specifico il genere western.

Ma è molto diversa da quella che si sarebbe aspettato.

Lo spirito del West è di fatto l’altra faccia di Jake Sonagli, un simbolo spogliato del suo sogno: non troviamo infatti un Clint Eastwood nei panni del suo iconico Uomo senza nome, ma piuttosto l’autore che indossa le vesti del suo personaggio, ma che è diventato qualcos’altro.

Lo Spirito del West è infatti l’Eastwood uomo, il regista e l’autore che ha collezionato diversi premi e che può godersi la ricchezza conquistata a bordo di un moderno golf card, ma che comunque non ha mai abbandonato il sogno del Far West.

No man can walk out of his own story.

Nessuno può tirarsi fuori dalla propria storia.

Questa frase emblematica insegna a Rango come possa vivere anche come eroe dei due mondi: il mondo del sogno, del Far West ormai morente, e l’eroe invece più urbano, contemporaneo, che svela le macchinazioni politiche del sindaco e che, infine, salva la comunità.

E al contempo racconta come il protagonista non debba inseguire l’icona di un eroe di parole e simboli, ma piuttosto dimostrare il suo valore tramite azioni veramente risolutive, che lo definiranno effettivamente come il salvatore della città.

Riprendersi il finale

Il finale di Rango è prevedibile quanto inaspettato.

L’elemento inaspettato è rappresentato dall’improbabile alleanza fra Rango e Jake Sonagli, da cui infine il protagonista riceve l’approvazione – e quindi la validazione – come eroe, e che porta il bandito a rivoltarsi verso il vero nemico, il personaggio che vuole distruggere il sogno: il sindaco.

La conclusione prevedibile è il salvataggio della città, in maniera piuttosto rocambolesca, quasi eccessiva, che porta sostanzialmente ad un cambio del paesaggio: il deserto diventa una piacevole spiaggia.

E così, con un discorso esplicitamente metanarrativo, Rango si congeda dalla scena come eroe che deve lasciarsi alle spalle la comunità che ha salvato per cavalcare verso l’orizzonte, verso nuove avventure che consolidino la sua posizione.

Anche se…

Rango finale significato

Il finale di Rango si presta ad una lettura molto più onirica.

Ma non solo il finale: una primissima definizione del personaggio si vede quando, fra i vari salti fra le macchine, il protagonista finisce sul parabrezza di un personaggio molto peculiare, che non è altro che Johnny Depp in Paura e delirio a Las Vegas (1998)

E, proprio a livello metanarrativo, Rango nelle sue prime vesti indossa una camicia molto simile a quella del protagonista della suddetta pellicola, oltre ad essere doppiato proprio da Johnny Depp.

Questo confronto così diretto apre la possibilità ad una ulteriore lettura: e se tutta la storia di Rango non fosse altro che un sogno dello stesso protagonista?

Johnny Depp in Rango (2011) di Gore Verbinski

Secondo questa idea, la trama politica potrebbe derivare da una visione più semplicistica dei discorsi sentiti da Rango dalla bocca dei suoi padroni, la cavalcata sarebbe nient’altro che la messinscena delle visioni dal finestrino mentre in macchina si dirigono verso Las Vegas, che è fra l’altro il luogo rivelatorio dell’intrigo del sindaco.

Una visione confermata dal finale, dove i personaggi si muovono in ambiente che è evidentemente il terrario, sia per lo sfondo con le nuvolette, sia per la presenza degli elementi che definivano lo spazio all’inizio del film.

La palma di plastica, il manichino, il pesce…

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Il velo dipinto – La strada più dura

Il velo dipinto (2006) di John Curran è un dramma storico-romantico con protagonisti Edward Norton e Naomi Watts, remake dell’omonima pellicola del 1934.

Pur con un budget piuttosto contenuto – circa 19 milioni di dollari – fu un pesante flop al botteghino, incassando appena 26 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Il velo dipinto?

Londra, 1925. Kitty è una giovane donna non ancora sposata, che si impegna in un matrimonio di cui non è per nulla convinta, e che la porterà a conseguenze inaspettate…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il velo dipinto?

Assolutamente sì.

Il velo dipinto è un film porto nel cuore, per tanti motivi, a partire dall’ottima costruzione del rapporto fra i protagonisti, impreziosita dalla performance di due fantastici attori, e al contempo resa incredibilmente tridimensionale grazie al taglio fortemente crudo e realistico.

Così l’ambiente in cui si muovono i protagonisti è portato in scena con particolare cura e precisione, grazie anche ad una fotografia molto indovinata, nonché una produzione molto consapevole, che ricade il meno possibile negli errori tipici dei drammi storici di produzione statunitense.

Insomma, ve lo consiglio molto.

Arrivare alla rottura

La costruzione del primo atto è magistrale.

La situazione presente si rivela via via nella sua drammaticità e crudezza, con una Kitty sfiancata dal viaggio a cui il marito l’ha costretta, mentre lo stesso si dimostra del tutto indifferente nei suoi confronti, anzi piuttosto vendicativo.

Si alternano quindi le visioni del passato, con un taglio crudelmente realistico: come Walter è convintissimo della sua scelta, Kitty, nonostante cerchi di trovare degli spazi di indipendenza, accetta il matrimonio per non essere schiacciata dalle pressioni sociali che la porterebbero ad essere una sfortunata zitella.

E così rivelazione dei contorni della situazione di arrivo è accompagnata dal puntuale racconto del degrado della situazione nel passato, in cui entrambi i protagonisti sono le vittime: Kitty è la moglie insoddisfatta che cerca l’amore in un uomo che in realtà ha molto poco rispetto di lei.

Al contempo Walter è il marito tradito, ma tradito soprattutto nei sentimenti e nella fiducia, che mette in moto una vendetta che appare più come una autodistruzione, buttandosi a capofitto in un’impresa mortale e distruttiva, con la speranza di annientare sé stesso e la tanto odiata moglie.

La prigione

Lo svolgimento della parte centrale è drammatico per entrambe le parti.

Per quanto incattivito e intestardito, Walter viene più volte preso contropiede dalla tragica situazione con cui si trova a dover combattere, fra il dramma umano di povertà e malattia, e la barriera culturale e linguistica apparentemente insormontabile.

L’asprezza della situazione si rivela proprio nel momento in cui il protagonista comanda di chiudere il pozzo, molto tiepidamente spalleggiato da Colonnello Yu, che dovrebbe essere il suo middleman, ma che lo tratta con grande freddezza e distacco.

Ma il vero dramma è quello di Kitty.

Imprigionata in un paese straniero, impossibilitata a comunicare, osteggiata da tutte le parti, anche in maniera sottilmente maligna dall’apparentemente ospitale Waddington, proprio quando cerca di ristabilire quel flebile contatto con l’unico ricordo ancora integro della sua vecchia vita: Charlie.

In questo senso la protagonista affronta in maniera diversa il conflitto con il marito: prima con atteggiamento passivo-aggressivo, poi, esasperata dalla noia e dalla disperazione, scontrandosi apertamente con Walter, e cercando di ultimo di superare il suo muro di freddezza.

Ma punto di svolta arriva da dove meno se lo poteva aspettare.

Riscoprirsi

Lo snodo narrativo – e spaziale – fondamentale è rappresentato dall’orfanotrofio.

In primo luogo per Kitty, che riscopre una faccia del marito che finora aveva ingenuamente ignorato: il suo lato più umano, morbido, che lo porta a sacrificarsi – letteralmente – per il bene di una comunità, e non solamente per una propria vendetta personale.

Allo stesso modo Walter riscopre la moglie in una luce inaspettata: credendola solo una ragazzina viziata ed egoista, è totalmente sconvolto nel vedere come Kitty come si presti, pur con tutte le difficoltà, a mettersi in gioco per qualcun altro.

In questo senso il lavoro di Kitty all’orfanotrofio è tutto tranne che idilliaco, anzi segue le stesse strade di Walter: incapacità di comunicare, un impegno molto più duro ed impegnativo di quanto si aspettasse, diversi ostacoli lungo la strada.

Ma il momento di effettiva svolta è il salvataggio di Kitty, in una splendida sequenza in cui la donna fugge da una morte sicura per mano dei ribelli, salvata da due uomini che aveva sempre sottovalutato: non solo il marito, ma anche il povero soldato che la fa da guardia del corpo.

La punizione costruttiva

Il terzo atto è costruttivo e punitivo insieme.

Dopo il ricongiungimento fisico, la coppia riesce a ritrovare una riunificazione sul piano emotivo, e anche a raggiungere un’importante consapevolezza: con una certa amarezza, entrambi si rendono conto di aver cercato nell’altro qualcosa che non era semplicemente possibile.

Così Walter riesce effettivamente a portare del bene nella comunità e a farsi accettare grazie alla costruzione dell’acquedotto, che diventa anche argomento di conversazione con Kitty, con la quale si apre anche per un lato della sua vita a cui pensava che la moglie fosse assolutamente indifferente.

Il picco del rincontro emotivo è la scoperta della gravidanza: come Kitty aveva evidentemente paura di un ulteriore allontanamento del marito appena riconquistato, in realtà Walter sceglie consapevolmente di lasciarsi alle spalle gli sbagli di entrambi, e di accettare le scuse della moglie.

Ma è troppo tardi per salvarsi.

Particolarmente straziante tutta la sequenza dedicata alla sua malattia e morte, in cui Kitty si impegna fino all’ultimo nella sua riconfermata fedeltà, portando anche il marito a prendersi le sue colpe per la drammatica situazione in cui ha trascinato entrambi.

L’accettazione del martirio di Walter ha una gestazione molto lenta per Kitty, scandita sulle note agrodolci di À la claire fontaine, che suggellano l’amarezza dell’addio al compagno.

La maturazione di Kitty si vede anche nelle ultime battute del film: nonostante non sia più impegnata sentimentalmente, sceglie consapevolmente di non ricadere nuovamente nella rete di Charlie, e di non diventare ancora una volta una miserabile amante usa e getta…

Il velo dipinto white savior

Con questa recente visione, mi sono resa conto di quanto fosse facile per questa pellicola scadere nel white saviourism, ovvero quella tendenza tutta occidentale di diventare i salvatori di paesi più svantaggiati unicamente per una glorificazione personale.

Tuttavia, penso che Il velo dipinto se la cavi piuttosto bene da questo punto di vista.

Nonostante sia evidentemente un film occidentale pensato per un pubblico occidentale, nonostante i personaggi britannici non vengano mai dipinti come colonizzatori, non godono di una rappresentazione del tutto idealizzata.

In primo luogo, Walter non salva di fatto nulla: non risolve la situazione, aiuta dove può e porta a compimento un piccolo progetto che riesce a venire a capo solo di una parte del problema – per un ostacolo che, fra l’altro, aveva creato lui stesso.

Allo stesso modo il lavoro delle missionarie e la presenza britannica in Cina sono messi in discussione esplicitamente almeno in due punti, pur non sbilanciandosi eccessivamente in senso negativo.

Ma la scelta che più ho apprezzato a livello produttivo è stato il casting, che ha coinvolto figuranti e comparse effettivamente cinesi, un attore internazionale come Anthony Wong e, soprattutto, che ha scelto consapevolmente di non semplificare il problema della barriera linguistica, come invece tipico di altre produzioni analoghe.

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Avventura Cinema in viaggio Comico Dramma familiare Drammatico Film Racconto di formazione Road movie Wes Anderson

The Darjeeling Limited – Una famiglia a pezzi

The Darjeeling Limited (2007) è uno dei titoli un po’ meno noti della filmografia di Wes Anderson: forse non la sua opera più memorabile, ma comunque impreziosita dalla sua peculiare tecnica e cura registica, oltre ad un’ottima scelta di casting.

Con un budget abbastanza contenuto – 17,5 milioni di dollari – non ottenne grande successo al botteghino: appena 35 milioni in tutto il mondo.

DI cosa parla The Darjeeling Limited?

Francis, Peter e Jack sono tre rampolli figli di una ricca famiglia, che intraprendono un viaggio per ricostruire i rapporti familiari ormai spezzati…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Darjeeling Limited?

Adrien Brody in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

In generale, sì.

Anche se, come detto, non è il titolo più di pregio della filmografia di Wes Anderson, è comunque una pellicola molto piacevole, che ricorda molto da vicino una delle sue prime opere, The Royal Tenenbaums (2001), di cui condivide la tematica principale.

Un film con una durata contenuta e con una storia molto semplice, ma portata in scena con la nota maestria di Anderson nel riuscire a viaggiare fra la commedia e il dramma, con un particolare focus sull’immancabile elemento della morte.

Insomma, non un titolo imperdibile, ma sicuramente essenziale per conoscere a fondo questo fantastico autore.

Uniti per forza

Adrien Brody, Owen Wilson e Jason Schwartzman in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

Nel suo primo atto, The Darjeeling Limited riesce a raccontare in maniera precisa e sottile il rapporto fra i tre fratelli.

Francis è l’entusiasta, che vuole a tutti i costi rimettere insieme questi rapporti familiari ormai spezzati, proprio a causa – ma non solo – della morte del padre e dell’ennesimo abbandono della madre.

Ma prende la via totalmente sbagliata.

Anche in aperta ironia verso la visione occidentale dell’utilizzare l’India come meta per recuperare la propria spiritualità perduta, il piano di Francis si rivela estremamente fragile, quasi infantile nella sua esecuzione, con il picco rappresentato dal furto dei passaporti dei fratelli…

Ritornare ai simboli

Adrien Brody, Owen Wilson e Jason Schwartzman in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

La visione infantile si perpetua anche per altri elementi.

Anzitutto con il comportamento di Peter, che cerca di appropriarsi, come dei feticci, degli oggetti del padre perduto, insistendo nella puerile idea di essere il suo preferito, come cercando di ottenere, anche da morto, l’affetto forse mai ricevuto.

Non solamente gli occhiali, ma anche la tanto desiderata cintura, che continua a passare di mano in mano, e, soprattutto, le valigie, il simbolo più forte di tutta la storia, rappresentante l’ingombrante bagaglio emotivo che i protagonisti devono portarsi dietro.

Anche se sono evidentemente dei bagagli troppo pesanti…

Il risveglio della morte

Quando il terzetto viene cacciato dal treno, simbolicamente perde del tutto una guida, un percorso prestabilito, e decide di abbandonare il viaggio.

La mancanza di una via sicura è simboleggiata già dalla scena in cui il treno, che dovrebbe essere il mezzo di trasporto più sicuro del suo percorso, sbaglia strada e per molto tempo non sa dove andare.

Ma, proprio quando sembra tutto perduto, la famiglia si riunisce nella morte.

Adrien Brody, Owen Wilson e Jason Schwartzman in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

La morte del ragazzino è infatti fondamentale per la risoluzione del trauma: trovandosi nel mezzo di una drammatica situazione familiare, pur essendone inevitabilmente una parte fondamentale, i tre decidono inizialmente di allontanarsene.

Ma, con l’improvvisa e inaspettata inclusione in questa sconosciuta famiglia, distrutta ma unita nel lutto, i tre rivivono l’analogo momento funereo che avrebbe dovuto rimettere insieme il gruppo familiare, ma che non ha fatto altro che confermarne la totale divisione.

Una divisione che si riflette anche nel comportamento degli stessi fratelli nelle loro rispettive relazioni: nessuno di loro riesce a tenere insieme queste neonate famiglie, neanche nei momenti che dovrebbero renderle più unite – come la nascita di un figlio.

Affrontare i traumi

Adrien Brody, Owen Wilson e Jason Schwartzman in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

Il terzo atto si definisce in tre momenti fondamentali.

Il primo è la scelta di Louis di mettersi definitivamente a nudo davanti ai propri fratelli, mostrando le ferite e le cicatrici che rappresentano in maniera simbolica, nonché assai cruda, il deterioramento del loro rapporto.

Infatti, il momento in cui l’uomo si lascia mettere nuove bende dai suoi fratelli, arrivando anche ad ammettere di essersi fatto del male solamente per attirare l’attenzione – e riunire la famiglia – è il motore che porta i protagonisti al confronto fondamentale.

Ovvero, l’incontro con la madre.

Come ci aspettavamo una madre fredda e distante, scopriamo invece una donna estremamente affettuosa con i propri figli, che li tratta anzi come se fossero ancora dei bambini – in particolare nella scena della buonanotte.

Tuttavia, riuscendo a superare il proprio stato infantile e trovando la forza per affrontare la genitrice, i tre fratelli si trovano davanti alla dura quanto schietta verità, raccontata dalla madre stessa: un affetto intenso, ma momentaneo, che può scomparire da un momento all’altro.

E, infatti, il giorno dopo Patrica esce nuovamente dalle loro vite.

Ma in questo modo i tre riescono a non essere più dipendenti dal suo affetto.

The Darjeeling Limited finale

Adrien Brody in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

Ma il momento fondamentale è la liberazione dall’ossessione paterna.

Proprio mentre stanno per risalire sul treno – quindi metaforicamente pronti a continuare la loro vita – i protagonisti decidono di abbandonare per sempre questo bagaglio emotivo così pesante che si sono portati dietro per tutta la vita – e per tutto il viaggio.

E così, dire finalmente addio al padre.

E, proprio per piccoli elementi, ritroviamo i fratelli finalmente riuniti: si interessano finalmente alla storia di Jack – e indirettamente lo comprendono – e lasciano i propri passaporti in mano a Francis, così che sia libero di riorganizzare il viaggio, e, di conseguenza, di consolidare i nuovi legami.

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Aliens – Il sequel muscolare

Aliens (1986) di James Cameron si impegna nel difficile compito di portare un seguito ad Alien (1979), uno dei più grandi cult della fantascienza, riuscendo tuttavia a creare un sequel a tratti ancora più iconico dell’originale, pur con un taglio narrativo ed estetico assai diverso.

Con un budget leggermente superiore al precedente – 18 milioni di dollari, circa 160 oggi – fu ancora una volta un enorme successo commerciale, con un incasso di 130 milioni di dollari (senza considerare le varie re-release negli anni) – circa 346 oggi.

Di cosa parla Aliens?

Dopo mezzo secolo di viaggio nell’ipersonno, Ripley si risveglia in un mondo cambiato e inconsapevole della minaccia degli xenomorfi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Aliens?

Sigourney Weaver e Carrie Henn in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Assolutamente sì.

Aliens è davvero il sequel più indovinato per Alien, anche per la scelta di renderlo molto più digeribile e meno complesso rispetto al capostipite, abbondando con l’azione e le esplosioni, ed inserendo anche una comicità sostanzialmente assente nel precedente.

Insomma, forse artisticamente meno elegante rispetto all’opera di Ridley Scott, nondimeno un’ottima prova per James Cameron, già forte del successo di Terminator (1984), da cui eredita non pochi elementi registici.

Insomma, se amate già Cameron, amerete questa pellicola.

Se al contrario preferivate la complessità di Scott…

L’aggancio perfetto

Sigourney Weaver in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

L’incipit di Aliens è l’aggancio perfetto.

James Cameron era indubbiamente il regista più calzante per creare un sequel che sapesse intercettare il sempre più nutrito fandom del primo capitolo, riuscendo a cogliere gli umori e le aspettative del pubblico.

Il primo colpo di genio è stato spostare la storia diversi anni avanti rispetto al primo – così da non doverne essere troppo dipendente – e, soprattutto, rendere lo spettatore complice della protagonista: come nel primo, nessuno crede a Ripley, ma sia noi che lei sappiamo verso quale pericolo si stanno dirigendo i personaggi.

Allo stesso modo, Cameron è stato molto abile nel riuscire a riprendere l’iconicità della scena del parto, applicandola però a Ripley, andando al contempo a riportare in scena – all’inizio, ma anche nel resto della pellicola – il concetto di maternità mostruosa proprio di Alien, pur in chiave più semplice.

Una nuova atmosfera

Il cambiamento di tono della pellicola l’ho trovato esilarante su più livelli.

Anzitutto, perché Cameron ha avuto la libertà di costruire i personaggi secondari – anzi, secondarissimi – con un background – quello militare – in cui riesce a muoversi con molta scioltezza e familiarità, come dimostrerà anche e soprattutto in Avatar (2009).

Un cambio di passo che, anche se abbandona il concetto dell’eroe comune proprio del precedente film, gli permette anche di alleggerire i toni dal punto di vista drammatico, con dinamiche e battute molto più semplici, ma, al contempo, più godibili.

L’unico problema di questo cambio di passo è come – anche comprensibilmente – si scelga di far diventare Ripley l’assoluta protagonista, rendendo così il film di fatto mancante nella caratterizzazione dei secondari, che diventano in breve tempo semplice carne da macello per gli alieni.

La tensione

Uno degli elementi più vincenti della pellicola è la costruzione della tensione.

Si parte fin dall’inizio con Ripley – e, indirettamente, lo spettatore – che cerca di convincere tutti gli altri dell’esistenza dello xenomorfo, per poi essere coinvolta in una missione di salvataggio di una situazione di cui solo noi e la protagonista conosciamo la gravità.

Gli xenomorfi restano in realtà fuori scena per buona parte del primo e secondo atto, ma sono una presenza invisibile costante: proprio nei silenzi, nei dettagli, nel mutismo di Newt che si percepisce come il pericolo sia proprio dietro l’angolo…

Il picco drammatico è il ritrovamento degli abitanti della colonia, ormai posseduti, nella mente e nel corpo, dalla ancora sconosciuta Madre che porta avanti la sua gestazione proprio grazie a loro, con un breve quanto agghiacciante dialogo con uno dei prigionieri…

Ancora a pezzi

Lo xenomorfo in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Per la gestione degli xenomorfi, Cameron riprende le mosse da Scott, ma sceglie poi anche una via profondamente diversa.

Gli alieni vengono infatti mostrati sempre in contesti in cui quasi spariscono nel buio della scena, con degli angoscianti primi piani – anche ripetuti – sui loro volti, quasi delle soggettive delle vittime prima che vengano brutalmente divorate.

Quindi si sceglie ancora una volta di mostrare il nemico a pezzi, in maniera funzionale a renderlo una presenza costante e sfuggente, sottolineata anche da un ottimo utilizzo del finto documentario, tramite i messaggi estremamente confusi che vengono trasmessi dalle forze sul campo all’astronave.

Tuttavia, al contempo Cameron sceglie di distruggere l’icona dello xenomorfo, i cui rappresentanti vengono sconfitti molto più facilmente rispetto al primo capitolo, smembrati, bruciati, addirittura schiacciati come degli insetti…

…ma per un buon motivo.

La banalità funzionale

Queen Xenomorph e Carrie Henn in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Sul finale, Cameron inserisce un ultimo elemento fondamentale.

Ripley si pone una giusta domanda, che lo spettatore potenzialmente poteva essersi posto persino in Alien: se ci sono tutte queste uova, chi le sta deponendo?

L’abilità di scrittura in questo caso è nell’inserire questo quesito, e non dare subito una risposta, facendo avvenire l’incontro con la Madre quasi per caso, con un espediente piuttosto semplice ma funzionale: Newt viene rapita.

E così la terribile figura della gestante viene rivelata al pubblico in tutta la sua monumentalità e nel suo aspetto mostruoso, come una macchina che crea dei nemici pericolosissimi per l’uomo, mostrandosi lei stessa come un avversario ancora più micidiale…

Déjà-vu

Sigourney Weaver e Queen Xenomorph in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Il finale di Aliens raccoglie tutta quella tensione quasi sopita per il resto del film.

Nonostante gli xenomorfi sembrino assai minacciosi, lo sono soprattutto perché sono in gruppo, ma in realtà appunto si rivelano per certi versi molto meno pericolosi rispetto al precedente capitolo, dal momento che sono sconfitti più e più volte.

La Madre è invece il nemico finale, e, a differenza dei figli, viene mostrata per la maggior parte del tempo nella sua immensa monumentalità, costruendo la tensione proprio sull’idea che sia un essere gigantesco e apparentemente impossibile da sconfiggere.

Queen Xenomorph in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Tuttavia, il finale è proprio la parte che mi ha meno convinto.

Anche se mi rendo perfettamente conto che sarebbe stato veramente complesso trovare un nuovo modo per annientare un nemico così terrificante e potente, ho trovavo poco indovinata la scelta di far coincidere la sua dipartita con quella del nemico del primo film.

Allo stesso modo mi è ancora meno piaciuta l’idea di utilizzare il medesimo colpo di scena dello xenomorfo apparentemente sconfitto che si nasconde sulla nave.

Infatti, oltre ad essere incredibilmente prevedibile avendo visto Alien, lo è ancora di più nella scena apparentemente tranquilla di Ripley che dialoga con Bishop, che sembra proprio chiamare il plot twist che arriva un momento dopo…

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Tre manifesti a Ebbing, Missouri – Una favola violenta

Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) è uno dei titoli più apprezzati di Martin McDonagh, con cui conquistò l’Academy sia per la sua sempre ottima scrittura della storia e dei personaggi, sia per il suo incredibile cast.

Con un budget abbastanza contenuto – fra i 12 e i 15 milioni di dollari – incassò piuttosto bene: 160 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Tre manifesti a Ebbing, Missouri?

Mildred è una donna indurita dalla vita, che ha appena perso la figlia, e che cerca ancora di farsi giustizia, a modo suo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Tre manifesti a Ebbing, Missouri?

Frances McDormand e Woody Harrelson in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

Assolutamente sì.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri è un film che riesce a colpirmi e a coinvolgermi ad ogni visione, proprio per la capacità di McDonagh nel bilanciare perfettamente – anzi, in questo caso anche in maniera pure più eleganteun profondo elemento drammatico con una comicità da bar.

Un film intenso, con attori straordinari che portano in scena personaggi assolutamente imperfetti, quasi negativi, ma che, proprio nella loro debolezza e cattiveria, risultano estremamente tridimensionali ed interessanti.

Mostrare i muscoli

Frances McDormand e Sam Rockwell in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

Fin da subito la pellicola racconta come Ebbing sia una cittadina violenza.

Infatti, i manifesti di Mildred, donna rigida e indomabile, sono la miccia che porta all’esplosione di una brutalità che in realtà era già presente nel corpo di polizia stesso, dominato dal razzismo e dalla violenza tipici dell’arida provincia statunitense.

Nonostante in un primo momento il diretto interessato – lo sceriffo Willoughby – cerchi di riportare la donna sui suoi passi, Mildred ribadisce la sua testardaggine, affermando sfacciatamente di aver anzi voluto sfruttare la situazione personale dell’uomo per i suoi fini.

Frances McDormand in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

In questo modo non si fa altro che creare una faida interna alla città, una sorta di lotta fra gang, in cui i diversi personaggi si schierano contro o a favore della decisione di Mildred, con esplosioni di violenza piuttosto esplicita, come il grottesco incontro col dentista.

Tuttavia, il punto di arrivo di questa situazione è la consapevolezza.

In principio la consapevolezza dello sceriffo, quando cerca di minacciare ed intimidire Mildred, ma finendo per rinsavire per colpa di un innocuo colpo di tosse, che gli ricorda che le sue ore sono contate e che è ora di concludere la sua esistenza in maniera dignitosa.

Le origini della rabbia

Parallelamente, scopriamo le origini del dramma di Mildred.

McDonagh sceglie consapevolmente di non raccontare un personaggio distintamente positivo, una madre addolorata che non riesce a venire a patti con la tragica scomparsa della figlia, ma, piuttosto, una donna che si sente in colpa per la morte della stessa.

Sottolineando come, purtroppo, ha anche ragione di esserlo.

Infatti, in poche, ottime inquadrature viene raccontata la difficile situazione familiare della protagonista, in costante antagonismo con Angela, al punto da arrivare sostanzialmente a spingerla – pur involontariamente – nelle braccia del suo assassino e stupratore.

Tuttavia, la rabbia di Mildred non è scaturita solo nel non riuscire a fare giustizia a sua figlia, neanche da morta, ma anche dal fatto di essere già da prima una donna inascoltata, proprio per la violenza domestica che ha subito, ma a cui nessuno ha creduto, nemmeno sua figlia.

Una situazione volutamente molto ambigua: la protagonista passa dall’essere sbattuta violentemente al muro dall’ex marito, al cercare un momentaneo conforto con lo stesso, per poi cacciarlo nuovamente di casa.

Allo stesso modo il figlio, fino a quel momento irrimediabilmente in disaccordo con la madre, non esita neanche un momento nel difenderla dalla violenza del padre.

L’eredità violenta

Woody Harrelson e Sam Rockwell in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

Con la sua morte, Bill Willoughby è il personaggio risolutore della vicenda.

Come anticipato, lo sceriffo raggiunge infine la consapevolezza della sua prossima dipartita, e capisce di avere la possibilità di risolvere questa lotta intestina, anzitutto offrendo il suo indiretto sostegno alla lotta di Mildred, pagando per un altro mese i tanto odiati manifesti.

Ma è soprattutto tramite le lettere che risolve la situazione.

Inizialmente sembra che la battaglia si sia solo inasprita, nella cieca rabbia di Dixon e di Mildred: se l’ex poliziotto prima aggredisce il povero Red, per poi dare fuoco ai manifesti, a sua volta la donna appicca un incendio nella stazione di polizia.

Sam Rockwell in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

Ma, proprio mentre è inconsapevolmente immerso dalle fiamme, Dixon raggiunge la sua consapevolezza grazie alla lettera del defunto amico.

Lo sceriffo infatti gli spiega come abbia tutte le qualità per essere un buon poliziotto, ma che non riesca ad esserlo perché manca di un elemento fondamentale: l’amore – o, meglio, l’effettivo coinvolgimento nei casi trattati, in particolare quello di Angela.

E allora Dixon fa l’inaspettato.

Affronta le fiamme e sceglie di rischiare la propria vita pur di salvare i documenti del caso della figlia di Mildred, che aveva pigramente lasciato a marcire sulla propria scrivania per tanto tempo.

E questo atto è anche il primo momento di consapevolezza di Mildred.

Qualcosa è cambiato

Il cambiamento di Mildred avviene grazie alla cena con James.

Ancora sicura della sua posizione, la donna accetta freddamente le derisioni infantili dell’ex-marito, e non sembra per nulla pentita per come tratta il suo compagno di cena. Finché è lo stesso James a sbottare e a metterla davanti alla realtà del suo insostenibile comportamento.

E questo cambia tutto.

Se la Mildred di un tempo avrebbe reagito violentemente al comportamento di Charlie, questa volta, pur avvicinandosi minacciosa al suo tavolo, sceglie invece di mettere definitivamente l’uomo al suo posto, accettando in un certo senso la sua nuova relazione.

Sam Rockwell in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

Parallelamente Dixon viene premiato per la sua scelta di prendere in mano il caso di Angela, trovando l’occasione per dimostrare il suo valore.

Se in passato l’ex-poliziotto avrebbe semplicemente ignorato le battute origliate al bar, questa volta sceglie invece di mettersi in prima linea, iniziando una rissa che sa già che perderà, pur di riuscire ad acquisire il DNA che potrebbe essere il punto di svolta per il caso.

In questo modo passa da essere nemico ad alleato di Mildred, che gli è riconoscente anche solamente per avergli dato un giorno di speranza.

Frances McDormand in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

E di nuovo vengono messi alla prova.

Dixon propone alla protagonista, in maniera neanche troppo sibillina, di utilizzare quell’uomo, quel sicuro stupratore, come capro espiatorio per la morte di Angela, portando avanti una giustizia privata in risposta all’incapacità della polizia di intervenire.

Tuttavia, finalmente questi due problematici personaggi si rendono conto di non voler più seguire quella strada, ma piuttosto di scegliere un percorso verso l’accettazione del lutto e del buono che, tutto sommato, lo stesso ha portato.

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Barbie – Un film necessario

Barbie (2023) di Greta Gerwig è uno dei film più chiacchierati dell’anno, che a tratti ha entusiasmato, a tratti ha totalmente indignato il pubblico, viste le tematiche molto controverse che ha portato in scena.

Un film che più che un film è stato un evento cinematografico come non se ne vedevano da Spider-Man No Way Home (2021), con 1,4 miliardi di dollari di incasso – a fronte di un budget di appena 145 milioni di dollari – diventando il maggior incasso del 2023.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Barbie (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Migliore sceneggiatura non originale
Miglior attore non protagonista a Ryan Gosling
Migliore attrice non protagonista a America Ferrera
Miglior scenografia
Migliori costumi
Migliore canzone What Was I Made For?
Migliore canzone I’m Just Ken

Di cosa parla Barbie?

In Barbieland le varie Barbie vivono in armonia nelle loro case da sogno, con delle esistenze sempre più perfette ogni giorno. Ma qualcosa è cambiato per la nostra protagonista…

Vi lascio qui il trailer, ma vi sconsiglio di guardarlo: come tutta la campagna marketing di questo film, è incredibilmente ingannevole, in quanto asciuga la pellicola di tutti i suoi significati, facendola apparire solo come una commedia leggera.

A voi la scelta:

Vale la pena di vedere Barbie?

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Assolutamente sì.

Barbie è uno dei film più interessanti del 2023, un’operazione molto intrigante e ben pensata per lanciare messaggi che, pur nella loro estrema semplicità, sono assolutamente fondamentali per comprendere la società odierna.

Oltre a questo, dal punto di vista totalmente intrattenitivo, è un film delizioso, nutrito di un’ottima ironia, spesso anche volutamente metanarrativa, sia sul mondo di Barbie, le sue dinamiche e la sua storia, sia per le interazioni della protagonista con il Mondo Reale.

Insomma, guardatelo e fatevi una vostra opinione.

Un mondo perfetto?

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Uno degli elementi più geniali di Barbie è la rappresentazione di Barbieland.

Si sarebbe potuta scegliere una blanda messinscena del mondo di Barbie come semplicemente una realtà più colorata e da sogno, ma sostanzialmente verosimile. E invece Barbieland è esattamente un giocattolo a grandezza naturale.

Tutto è di plastica, tutto è finto: dalle bottiglie non escono liquidi, il cibo è già pronto, le onde sono di plastica e non esistono le scale, ma solo gli scivoli e le mani invisibili dei bambini che muovono le bambole.

L’incrinatura di questa perfezione arriva quando appaiono i Ken in scena.

Margot Robbie, Ryan Gosling e Simon Liu in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

In questo senso il film lavora su due livelli: storico-sociale e metanarrativo.

Infatti, Ken come giocattolo nasce proprio come accessorio di Barbie, la vera protagonista della storia, tanto che molte delle bambine che ci hanno giocato si ricorderanno come il compagno maschile apparisse del tutto superfluo, facilmente sostituibile da altri generici personaggi maschili.

Dal punto di vista invece storico-sociale, i Ken sono sostanzialmente il corrispettivo delle donne nel Mondo Reale – ovviamente in maniera molto semplificata, e anche con riferimento ad epoche molto meno felici della nostra storia, senza quindi voler fare un parallelismo così netto.

I Ken vivono sostanzialmente in funzione delle Barbie che comandano il mondo, non hanno una propria casa – quindi una propria indipendenza economica – non hanno nessun merito e nessun riconoscimento dalle stesse, e appaiono anche piuttosto superficiali e sciocchi – proprio perché non hanno i mezzi e il background necessario per essere altrimenti.

Insomma, vivono oppressi in un matriarcato.

L’intrusione del tragico

Kate McKinnon in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

L’intrusione del tragico nella vita di Barbie è dovuta alla sua stretta correlazione con la bambina che gioca con lei.

Proprio per il fatto che Barbie, per sua natura, permette alle bambine di essere quello che vogliono, le stesse riversano nel gioco anche i loro sentimenti. Nel caso di Gloria, le insoddisfazioni e le paure di una bambina ormai cresciuta, che vive nell’ombra del modello irraggiungibile di Barbie.

In questo senso, anche vista la proposta della protagonista umana sul finale, la pellicola denuncia le pressioni sociali della donna contemporanea, spesso frustrata da modelli irraggiungibili – reali o ideali – che le impediscono di vivere ed essere felice anche nella sua ordinarietà.

Anche in questo caso si parla di un discorso molto semplicistico e volutamente accessibile, ma che racconta come il femminile a livello sociale non abbia ancora trovato la sua dimensione mediana, ma di come sia continuamente spinto a riconoscersi in modelli predefiniti – madre, donna in carriera, puttana – senza la possibilità di una via di mezzo.

L’oggettificazione

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

L’arrivo della protagonista nel Mondo Reale è una delle parti più riuscite del film.

La forza di questa sequenza è che non si parla mai esplicitamente di cat calling o oggettificazione – anzi, è la parte meno didascalica del film – ma si sceglie piuttosto di raccontare le sensazioni che prova una donna all’interno di un mondo ancora dominato dal punto di vista maschile.

Il corpo della donna, volente o nolente, è sempre un oggetto di discussione.

Nonostante Barbie scelga degli outfit normalissimi – anche se datati nonostante non voglia essere un oggetto sessuale, lo diventa comunque: continue allusioni, battute dirette, anche con la volontà di far sentire in colpa la vittima della situazione per non accettare dei complimenti.

Una realtà che purtroppo è incredibilmente reale e che porta spesso le donne a non sentirsi libere di vestirsi come meglio credono…

Alla scoperta di patriarcato

Ryan Gosling in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Il percorso di Ken richiede tutto un discorso a parte.

Ken, come detto, parte da una situazione di totale svantaggio ed esclusione sociale, vivendo appunto totalmente in funzione di Barbie – e delle donne in genere.

Appena approda nel Mondo Reale capisce che esiste una realtà dove, tutto sommato, non viene discriminato, ma anzi accettato e glorificato, in cui trova anche una coesione sociale con gli altri uomini, non divisi dalle invidie per le attenzioni di Barbie come in Barbieland.

Ovviamente anche in questo caso è una visione semplicistica e funzionale alla storia, nonché apertamente comica.

Ryan Gosling, Ncuti Gatwa e Kingsley Ben-Adir in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Il risultato è, tuttavia, quello di sostituire un mondo ingiusto con un’altra realtà ancora ingiusta, ma in senso contrario: non sono più le donne a dominare il mondo, ma gli uomini, con le figure femminili che diventano del tutto ancillari e, di fatto, totalmente accessorie.

Tuttavia, appare evidente come lo stesso patriarcato danneggi gli uomini stessi: ubriacati in questo sogno di potenza, oltre a non rispettare le donne, sono così sicuri di sé stessi da apparire di fatto ridicoli e, soprattutto, facilmente manipolabili.

Oltretutto, l’odio intestino che sembrava essere risolto con l’avvento del patriarcato, in realtà è ancora più radicato, in una competizione per l’invidia e il possesso delle loro compagne che sfocia in una vera e propria guerra.

Il femminismo intergenerazionale

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Uno dei discorsi più interessanti di Barbie è il femminismo intergenerazionale.

La figura di Barbie, modello per la generazione precedente – Millennials e Gen X – viene del tutto rigettata dalla Gen Z, rappresentata da Sasha, che vede in questa icona molto controversa più gli elementi negativi che positivi.

Effettivamente Barbie è di per sé una figura contrastante: nata – come ci spiega l’inizio del film – anche con l’obbiettivo di dare alle bambine una prospettiva diversa sulla loro vita e il loro futuro, al contempo ha rappresentato negli anni un modello irraggiungibile di perfezione femminile.

America Ferrera in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Per questo Sasha la respinge in toto.

Tuttavia, la ragazzina col tempo si ricrede e infine accetta il modello che ha definito la crescita e la consapevolezza della madre – e quindi della generazione precedente – arrivando, su un altro piano, ad accettare le conquiste di un femminismo forse più datato, più controverso, ma assolutamente essenziale per le conquiste presenti e future.

E, anzi, come abbiamo visto sopra, proprio questa esperienza spingerà sia Barbie che Gloria a riscrivere in un certo senso l’icona della Mattel in qualcosa di più inclusivo.

Le strade si dividono

Ryan Gosling in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Il finale di Barbie è uno degli elementi più controversi del film.

La parte apparentemente più problematica è quella di Ken: con una lunga – e già iconica – canzone, il protagonista maschile esprime i suoi sentimenti e racconta di come si senta sempre il numero due, sempre messo da parte, vivendo in una costante insoddisfazione.

Per questo Barbie viene in suo aiuto con una riflessione che serve ad entrambi: la scelta di evadere i modelli, i simboli che sembravano definirli – sia nel patriarcato che nel matriarcato – ed intraprendere invece un percorso che li porti alla scoperta di una propria identità.

Insomma, come Ken ha un risveglio di coscienza grazie alle parole di Barbie – che ammette anche i suoi errori nell’averlo dato per scontato – allo stesso modo le Barbie, che erano state manipolate per accettare la semplicità del patriarcato, proprio come le donne di ieri, diventano consapevoli dell’ingiustizia della nuova realtà e decidono di ribellarsi.

E qui arriviamo al punto più discusso del film.

Nonostante non abbiano fatto lo stesso percorso di Barbie, anche le altre donne di Barbieland sono più consapevoli, e capiscono che non possono tornare in toto ad una realtà matriarcale ed esclusiva come quella in cui vivevano precedentemente.

Tuttavia, davanti alle richieste dei Ken di acquisire finalmente un ruolo di potere fondamentale, la Presidentessa sceglie invece di dargli un piccolo ruolo amministrativo – quello che potremmo definire ministero senza portafoglio.

Al che segue la seguente battuta della voce fuori campo:

Well, the Kens have to start somewhere, and one day the Kens will have as much power and influence in Barbieland as women have in the Real World.

I Ken devono pur cominciare da qualche parte, e un giorno avranno tanto potere ed influenza in Barbieland di quanto ne hanno le donne nel Mondo Reale.

Barbie finale spiegazione

La battuta è volutamente ironica e cattiva, e vuole raccontare quanto il problema delle discriminazioni e dell’inclusione sociale non si risolve per magia o con i buoni sentimenti, ma che serve un lavoro duro, continuativo e difficile, anche solo per arrivare ad un briciolo di parità sociale.

E, secondo me, è la scelta perfetta.

Sia perché non porta in scena una risoluzione ideale, nonché totalmente irrealistica e poco consapevole, sia perché non si sbilancia nella glorificazione femminile – in un film già molto sbilanciato in quel senso: in situazione analoga a quella del patriarcato, le donne avrebbero altrettanta difficoltà cedere i propri diritti e il proprio potere quanto gli uomini di oggi.

Un concetto che vuole ancora una volta dimostrare come non sia un problema od una colpa da addossare agli uomini in quanto uomini – come purtroppo certe correnti femministe si ostinano a sostenere – ma piuttosto un problema sistemico e sociale che va risolto dalle fondamenta.

La scelta di Barbie

Ryan Gosling e Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

La scelta finale di Barbie è forse la parte ancora meno compresa della pellicola.

Dopo aver vissuto nel Mondo Reale, con le sue difficoltà e incomprensioni, Barbie man mano durante la pellicola si libera sempre di più di quegli elementi e simboli che la definivano nell’apparentemente perfetto matriarcato in cui viveva – e che non voleva cambiare.

Una scelta sempre più consapevole di cercare la propria identità altrove rispetto al modello di Barbie Stereotipata – e quindi vuota – a cui si era rifatta per tutta la vita, scegliendo di vivere in un mondo molto più difficile ad antagonistico, ma che le offre anche molte alternative.

Ed è ancora più indovinato il finale in cui la novella Barbara sceglie come primo passo di farsi visitare dalla ginecologa, ad indicare come non sia immediatamente fatta assorbire dal modello capitalista per cui il valore di una persona passa dal suo lavoro.

Piuttosto la protagonista sceglie di scoprirsi in questo nuovo corpo, diventando finalmente più consapevole e serena per lo stesso.

Barbie 2023 citazioni

Barbie è un film pieno di citazioni ad altre pellicole.

Ecco le più interessanti.

Quella più evidente è ovviamente 2001: Odissea nello Spazio (1968) nell’iconico incipit, che è stato usato come teaser trailer per il film stesso:

Quando Barbie sceglie il suo outfit all’inizio del film, è un evidente omaggio al teen movie Clueless (1995) – in Italia noto come Ragazze a Beverly Hills – nella famosissima scena in cui la protagonista si prepara per andare a scuola:

La scena danzante nella mega party di Barbie alla fine della sua giornata è un riferimento visivo alla fantastica scena in discoteca in La febbre del sabato sera (1977):

All’inizio del film si cita anche Matrix (1999): invece che fra la pillola blu o la pillola rossa, Barbie deve scegliere fra la Birkenstock e Scarpa col tacco:

Nella scena in cui Barbie torna a Barbieland e vede i Ken giocare a pallavolo, si cita la scena analoga in Top Gun (1986):

Infine, l’ormai iconica scena di ballo della canzone I’m just Ken è un mix di riferimenti a Singin’ in the rain (1952) e Grease (1978):

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Alien Avventura Azione Cult rivisti oggi Drammatico Fantascienza Film Frammenti di sci-fi Futuristico Horror Recult

Alien – La maternità mostruosa

Alien (1979) di Ridley Scott è uno dei film di fantascienza più iconici del suo genere (e non solo), con diversi sequel, prequel e spin-off usciti nel corso degli anni.

Con appena 11 milioni di budget – circa 48 milioni oggi – ebbe un successo incredibile: 184 milioni in tutto il mondo, circa 806 milioni oggi.

Di cosa parla Alien?

20122, Spazio. L’astronave di trasporto Nostromo sta compiendo il viaggio di ritorno verso la Terra, ma un messaggio misterioso bloccherà l’equipaggio su un pianeta sconosciuto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Alien?

Assolutamente sì.

Alien è un cult non per caso: nonostante non sia un film particolarmente avvincente – ha dei ritmi assai lenti, soprattutto durante il primo atto – è una meraviglia dal punto di vista dell’innovazione, dell’utilizzo degli effettivi visivi e della regia.

Rappresenta, come il poco antecedente Terrore dallo spazio profondo (1978), un esempio di fantascienza estremamente negativa, in questo caso nettamente orrorifica fin dalla prima inquadratura, riuscendo ad incutere nello spettatore un senso di costante angoscia e paura…

Il vuoto cosmico

L’inizio di Alien è estremamente rivelatorio.

La lunga e lenta sequenza iniziale mostra un’aeronave vuota, immersa nelle tenebre, in cui le poche luci provengono dalle fredde e mute macchine, che sembrano agire nell’ombra, alle spalle degli stessi umani che dovrebbero controllarle…

Particolarmente interessante è l’inquadratura che si sofferma sul casco da astronauta, in cui si riflette freddamente la schermata del computer – o, meglio, di Madre: una macchina che sta elaborando le informazioni in un linguaggio incomprensibile all’uomo, nella lingua delle macchine…

Un’apertura fin da subito angosciante, ancora di più per il contrasto con la sequenza successiva…

I bambini

La scena seguente è una delle poche con un’illuminazione chiara e confortante.

Incontriamo per la prima volta i protagonisti della storia, addormentati, con un abbigliamento che, più che adulti, li fa sembrare dei neonati in fasce, immersi proprio in questo morbido bianco e in una musica stranamente rilassante…

Il tema della maternità ingannevole è presente già nel contrasto fra questa scena e la precedente, e così anche nel modo in cui i personaggi umani si rivelano sempre più dipendenti da Madre: addormentati nel suo ventre, in una sorta di bozzoli, ignari della trama che è stata messa in moto alle loro spalle.

L’apparente delicatezza e familiarità della situazione è ribadita anche dalla scena immediatamente successiva, in cui i personaggi, ancora vestiti di bianco, si riuniscono per la colazione, in una sequenza scarsamente illuminata da una luce fredda, bianca e artificiale.

E, proprio come se fossero nella casa natale, Ash dice a Dallas:

Mother wants to talk to you.

Madre ti vuole parlare.

E non è un caso che proprio Ash inviti il suo compagno umano a recarsi dal computer centrale, con cui ha comunicato in realtà per tutto il tempo, giocando un ruolo centrale nell’avviare il piano, partendo proprio da questo invito apparentemente innocuo.

Le prede

Dallas in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

L’esplorazione del mondo alieno è la sequenza più iconica della pellicola.

In questo caso è la prima volta che Alien assume delle tinte nettamente orrorifiche, con i personaggi che si muovono in un luogo inghiottito da tenebre apparentemente impenetrabili, su cui tentano disperatamente e inutilmente di fare luce.

Invece riescono a rivelare solo qualcosa di incomprensibile.

La scena è ancora più suggestiva se si pensa alla tecnica utilizzata: l’intera sequenza è raccontata tramite l’utilizzo della camera a mano, che mima la trasmissione diretta ed incostante degli esploratori alla nave.

Uovo di Alien in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

Particolarmente angosciante è la scoperta dell’iconica cabina di pilotaggio: enorme, incomprensibile, guidata da un essere enorme, ma ormai defunto.

E se un gigante come quello è stato sconfitto…

Ancora più indovinata è la scena della scoperta delle uova, in cui Scott alterna soggettive di Dallas – a volte ancora con la camera a mano – ad inquadrature più ampie che mostrano lo svolgersi del dramma, del personaggio che da esploratore si trasforma in preda.

La voce fuori dal coro

Sigourney Weaver in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

Nonostante Alien sia un film fondamentalmente corale, dal secondo atto in poi una voce si staglia in netto contrasto con tutti gli altri.

Quella di Ripley, la vera protagonista, la final girl ante litteram.

Il suo personaggio è infatti l’unico che cerca attivamente di contrastare le decisioni di Ash, mostrandosi come la più ragionevole del gruppo, pur avendo molte difficoltà ad imporre la propria autorità, contrastata dai ben più irriverenti e testardi personaggi maschili.

Sigourney Weaver, Ian Holm e Yaphet Kotto in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

In questo senso, Alien rappresenta un cambiamento epocale: nella maggior parte dei film di fantascienza precedenti e successivi, il personaggio femminile – se presente – è messo ai margini della scena, è poco attivo, nonché spesso ridotto ad interesse amoroso o a spalla del protagonista maschile.

Invece per tutta la pellicola Ripley è la voce della ragione, l’unica che veramente cerca di imporsi per trovare una soluzione che non comporti la morte dei suoi compagni e l’unica, infine, veramente capace di utilizzare la propria intelligenza per sconfiggere il mostro.

Il parto

Il parto mostruoso è la rivelazione finale.

Dopo essere riusciti a mettere le mani sull’intruso, in un apparente clima di vittoria, il gruppo torna a ricomporre una scena familiare, parallela a quella della colazione iniziale, dove sembra che vada tutto bene.

Invece, con un sapiente crescendo di tensione, la scena svela tutto il suo orrore e la sua drammaticità: il petto di Dallas esplode per far nascere il mostro, in un parto pieno di sangue, morte e orrore.

Così si rivela già anticipatamente la vera natura di Madre e di tutta la situazione: la ciurma non sono i suoi bambini, ma sono delle cavie, delle prede messe a disposizione dello xenomorfo per il guadagno della compagnia.

Uno slasher?

Sigourney Weaver in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

Nonostante Alien sia un cult della fantascienza, contiene alcuni elementi propri dello slasher, sottogenere horror che stava prendendo piede proprio in quegli anni.

Oltre all’emergere della final girl – Ripley – nel terzo atto i personaggi si comportano proprio come i protagonisti di un film horror adolescenziale: scelgono di non fuggire al pericolo, ma di affrontare direttamente il mostro, in maniera sempre più vana e disperata.

E così cominciano a morire uno dopo l’altro, in sequenze semplicemente perfette per la tensione e la messinscena, dove spesso gli unici suoni sono il loro ansimare, il gocciolio dell’acqua, l’eco dei loro passi…

In particolare, Scott fa un uso molto intelligente della fotografia, nascondendo il più possibile il mostro, rivelandolo principalmente per i dettagli più agghiaccianti: una minaccia sfuggente, ma costante.

Sigourney Weaver e xenomorfo in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

E la tensione rimane palpabile fino all’ultimo momento, con anche un colpo di scena ottimamente congegnato: lo spettatore tira un sospiro di sollievo insieme a Ripley quando vede la nave scoppiare – e lo xenomorfo insieme ad essa…

…ma è di nuovo assalito dall’orrore e dall’angoscia quando scopre che il mostro era riuscito a nascondersi.

Ma è proprio in questo momento che Ripley si dimostra la vera eroina della storia, riuscendo a ingannare e infine a sconfiggere il nemico, pur mostrandosi in tutta la sua insicurezza e paura, in cui lo spettatore può facilmente rispecchiarsi…

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Avventura Comico Commedia nera Drammatico Film Martin McDonagh

In Bruges – Spogliare il genere

In Bruges (2008) è una delle prime opere di Martin McDonagh, e anche fra quelle più apprezzate della sua produzione.

Con un budget piuttosto risicato – appena 15 milioni di dollari – incassò abbastanza bene: circa 34 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla In Bruges?

Ray e Ken sono due mercenari che, dopo il loro omicidio, devono nascondersi nella città di Bruges, in Belgio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere In Bruges?

In generale, sì.

Per quanto apprezzi molto questo film, non mi sento di consigliarvelo spassionatamente: è un mix micidiale fra il dramma più sanguinoso e spinto, e una comicità nerissima.

Tuttavia se, come me, avete apprezzato Gli spiriti dell’isola (2022), sarete ancora una volta piacevolmente sorpresi dall’arguzia di questo regista nel sorprendere lo spettatore, ora con una risata angosciante, ora con una ripresa rivoltante.

Insomma, arrivateci preparati.

Un inizio sbagliato

Brendan Gleeson in una scena di In Bruges (2008) di Martin McDonagh

L’inizio di In Bruges per un attimo sembra l’incipit di un giallo hard boiled

…ma subito si rivela per quello che è.

Oltre all’introduzione della voce narrativa assolutamente fuori luogo, viene mostrata una situazione che, se non ci fossero di mezzo due killer ed un omicidio, sembrerebbe propria di una commedia enemy to lovers tipica di quegli anni.

Infatti, i due protagonisti sono totalmente contrapposti per carattere e atteggiamento, riuscendo a sostenere la presenza l’uno dell’altro solo per dovere, con un incalzare piuttosto insistente per portare in scena anche il terzo uomo, Harry.

L’introduzione del dramma

Colin Farell in una scena di In Bruges (2008) di Martin McDonagh

Dopo un primo atto quasi totalmente umoristico, l’introduzione del dramma è sconvolgente.

Sia la scoperta della dinamica del primo omicidio di Ray, con una vittima innocente di mezzo, sia l’ordine piuttosto veemente di Harry, penetrano la comicità della pellicola e la rendono improvvisamente molto più angosciante, con un’alternanza sconvolgente fra picchi più profondamente drammatici e momenti apertamente comici.

Brendan Gleeson in una scena di In Bruges (2008) di Martin McDonagh

Seguiamo Ken mentre, silenziosamente, accetta l’ordine di Harry, da cui scopriamo essere legato da un retroscena ben più importante della vita del suo compagno di delitti, fino ad avvicinarsi al momento dell’uccisione…

…improvvisamente interrotto da una scena quasi comica, in cui scopriamo che già di per sé Ray non riesce a continuare a vivere con il peso del suo delitto sulle palle.

E allora viene temporaneamente congedato di scena.

Picchi

Ralph Fiennes in una scena di In Bruges (2008) di Martin McDonagh

Il terzo atto viene scatenato dalla telefonata di Ken, che porta finalmente in scena Harry, fino a quel momento presenza invisibile della storia.

Anche con Harry si costruisce un importante contrasto: appartenente un killer spietato e legato ai concetti di onore e responsabilità, ma al contempo anche un family man che rassicura amorevolmente i suoi cari sul fatto che tornerà presto a casa.

Tutta la parte finale è definita sempre di più dal contrasto fra comico e drammatico: dal discorso struggente di Ken, al momento di commedia quasi slapstick di Harry che gli spara alla gamba, fino all’annientamento del protagonista quando cerca di fermare il suo capo dall’uccidere il suo giovane amico.

Brendan Gleeson in una scena di In Bruges (2008) di Martin McDonagh

A partire dalla morte di Ken, la regia gioca con il metanarrativo e il grottesco: una rapida inquadratura mostra il suo corpo distrutto mentre parla con l’amico, cercando inutilmente di salvarlo, ma le sue ultime parole rivelano come gli stessi personaggi siano consapevoli delle dinamiche della storia:

I’m gonna die now, I think.

Credo che ora morirò.

Allo stesso modo la situazione di stallo fra Ray e Harry, che dovrebbe essere estremamente drammatica e altisonante, in realtà si rivela un rocambolesco accordo fra le parti, con l’inevitabile morte del primo…

Brendan Gleeson in una scena di In Bruges (2008) di Martin McDonagh

…ma non è finita.

Dopo aver sparato altri colpi per finire il protagonista, involontariamente Harry colpisce anche Jimmy, che, così vestito, sembra un bambino.

E non servono a niente le parole di Ray per dissuaderlo dal suicidio, lasciando in bocca allo spettatore un piccolo sorriso per il paradosso drammatico e grottesco della scena…