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War for the Planet of the Apes – La fine del viaggio

War for the Planet of the Apes (2017) di Matt Reeves è l’ultimo (per ora) capitolo della saga reboot de Il pianeta delle scimmie.

Nonostante il riscontro commerciale fu buono, subì una battuta di arresto rispetto al precedente: con un budget di circa 150 milioni, incassò quasi 500 milioni.

Di cosa parla War for the Planet of the Apes?

Dopo il tradimento di Koba, la guerra è iniziata e Cesare dovrà prendere delle importanti decisioni…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere War for the Planet of the Apes?

Cesare (Andy Serkis) in una scena di War for the Planet of the Apes (2017) di Matt Reeves

Assolutamente sì.

War for the Planet of the Apes è un ottimo punto di arrivo per la storia di Cesare, scegliendo un nuovo taglio narrativo: il viaggio.

L’aspetto registico e interpretativo rimane sempre altissimo, con Matt Reeves e Andy Serkis che ancora una volta sono elementi imprescindibili per portare in scena un blockbuster di altissimo livello.

Un capitolo ancora più cupo e sofferto, che non vi potete perdere.

La ricerca della pace

Cesare (Andy Serkis) in una scena di War for the Planet of the Apes (2017) di Matt Reeves

Cesare manca dalla scena per buona parte dell’incipit.

Immergendoci in atmosfere alla Apocalypse Now (1979), scopriamo questa guerra autodistruttiva e insensata, in cui gli uomini sfidano la potenza delle scimmie, rimanendo inevitabilmente sopraffatti…

E dopo una lunga sequenza, Cesare riappare nella monumentalità interpretativa di Andy Serkis, che si dimostra come l’unico che cerca veramente la pace fra le forze in gioco, nel tentativo di preservare la sua tribù…

Ma ogni tentativo è inutile quando ci si trova davanti ad un nemico imperscrutabile come il Colonnello, che non si vuole fermare, il cui motore dell’azione è un principio che non si può sradicare…

Rimanere umani

Con l’uccisione della sua famiglia, Cesare rischia di ricadere nello stesso errore di Koba.

Ormai costretto ad imbracciare armi umane, ad essere molto più umano nei comportamenti di quanto avrebbe mai voluto, sceglie la via più immediata ed istintiva: la vendetta.

Ed è una vendetta necessaria.

Ma al contempo riesce a non cadere del tutto nell’errore di Koba, a non disprezzare tutta la razza umana per l’azione di un singolo. E questo proprio grazie all’incontro con la bambina, la cui presenza inizialmente lo disturba, ma che si rivelerà necessaria…

Nova è infatti una creatura docile e pura, anzi una creatura da proteggere, che fa parte di quella schiera di deboli e oppressi che Cesare si era proposto di salvare…

Un parallelismo doloroso

Bad Ape in una scena di War for the Planet of the Apes (2017) di Matt Reeves

Per quanto non venga detto esplicitamente, è evidente che il campo di concentramento faccia riferimento ad una pagina molto buia del Novecento…

Le scimmie, le bestie, vengono schiavizzate per portare avanti il folle piano del Colonnello, rinchiuse in recinti senza copertura, in balia dei cambiamenti del clima, senza protezione, nutriti alla peggio come maiali.

Non manca nondimeno anche una metafora cristologica nella figura del Cesare crocifisso, che si prende sulle spalle tutti i dolori del suo popolo e ne diventa il Salvatore, resistendo di fronte ad ogni forma di ingiustizia.

Eppure, proprio Cesare è considerato sacrilego…

Nascondersi

Il Colonnello rappresenta il volto più estremo dell’umanità.

Incapace di mettersi davvero davanti alle sue colpe, derubrica il suo fallimento, il suo disastro ad una punizione divina posta sopra al suo capo come sfida ultima dell’umanità per la sua salvezza.

Secondo questa concezione, l’uomo è l’unica specie che ha il diritto di vivere sulla Terra, e per questo deve essere indubbiamente destinato a salvarla, per evitare che diventi il pianeta delle scimmie.

Tuttavia, il Colonnello non si rende conto che il suo stesso tentativo di salvezza si tradurrà solo in ulteriore guerra, in ulteriore distruzione, che porterà ancora una volta l’umanità ad essere distruttrice di sé stessa.

The War for the Plane of apes Il finale

Il finale è il vero momento di riscatto di Cesare.

Arrivato al letto di morte del suo nemico mortale, è messo davanti ad una scelta: proseguire fino in fondo con la sua vendetta, oppure defilarsi per sempre da questo conflitto, non volendone essere partecipe in alcun modo.

E Cesare sceglie la seconda.

Sceglie di non essere neanche per un momento l’esecutore della distruzione dell’umanità, anche se in quel momento è stata ricercata, di non cadere così in basso nel distruggere il nemico, quando lo stesso ci riesce benissimo da solo…

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Psycho – Il potere dello sguardo

Psycho (1960) è il capolavoro della filmografia di Hitchcock, un film talmente iconico che influenzò inevitabilmente il genere di riferimento – l’horror – in maniera inaspettata…

Eppure al tempo, soprattutto dopo l’accoglienza tiepida di Vertigo (1958), la Universal era ben poco propensa ad investire in un altro film troppo serio, tanto che la pellicola venne finanziata dallo stesso Hitchcock, con un budget abbastanza limitato: appena 806 mila dollari – circa 8 milioni oggi.

E, inaspettatamente, fu il più grande successo commerciale del regista: ben 50 milioni di dollari di incasso – circa 500 milioni oggi – permettendo ad Hitchcock di diventare il terzo azionista della Universal.

Di cosa parla Psycho?

Marion Crane è una modesta impiegata, invischiata in una relazione che non sembra darle vere soddisfazioni. Tutto cambia quando si trova fra le mani una cospicua somma di denaro…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Psycho?

Janet Leigh in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Ovviamente, sì.

Anche se devo ammettere che non è il mio titolo preferito di Hitchcock – prediligo comunque La finestra sul cortile (1954) – è la dimostrazione di come anche il film più povero possa regalare un’esperienza indimenticabile se nelle mani del giusto regista.

Non a caso Psycho è indubbiamente il picco artistico più consistente della filmografia del regista britannico, dove sperimenta in maniera davvero audace, al limite dello scioccante, evitando molte delle autocensure che aveva evidentemente applicato nei precedenti film…

Insomma, una pellicola imprescindibile.

Uno sguardo penetrante

Janet Leigh e John Gavin in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Dopo gli avvincenti titoli di testa, che già ci immergono nelle atmosfere disturbanti della pellicola, lo sguardo dello spettatore penetra immediatamente la scena.

Ed è già voyeuristico.

Veniamo infatti introdotti ad una sequenza davvero scioccante per i canoni dell’epoca: una coppia che dialoga in uno squallido motel dopo un evidente incontro sessuale, entrambi più nudi di quanto fossero mai stati prima di questo momento i personaggi di Hitchcock.

Tuttavia, la scena ha un sapore fortemente malinconico.

Janet Leigh e John Gavin in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

La coppia è evidentemente insoddisfatta, non potendo altro che vivere questi momenti rubati, senza poter raggiungere la tanto agognata – soprattutto da Marion – accettazione sociale: il matrimonio.

Infatti, nonostante l’evidente erotismo della scena, la protagonista si riveste molto più in fretta rispetto al suo compagno, e cerca insistentemente di ricondurre la loro relazione ad una maggiore rispettabilità sociale: il pranzo con la sorella.

Ma è solo un breve sollievo:

Il matrimonio, almeno per ora, non s’ha da fare.

Un crimine di passione

Janet Leigh in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Perché Marion ruba i soldi?

Nonostante la scena iniziale, nonostante il suo sguardo penetrante, Marion viene subito ricondotta ad un modello di donna rispettabile. Rispettabile quanto infelice, come ci racconta il dolore psicosomatico – l’emicrania – causata proprio dallo stress della sua situazione, la sua trappola.

Quindi, una donna da cui non ci si aspetterebbe un’azione simile.

E infatti la scelta di compiere il furto sembra immediata, senza una vera e propria logica: grazie ad una finezza di montaggio, Marion sembra uscire dall’ufficio ed entrare immediatamente nella stanza dove sta preparando la sua fuga.

E, nonostante qualche sguardo che indugia sulla busta dei soldi, il piano viene comunque messo in atto.

Quindi la motivazione è del tutto impulsiva, una scelta improvvisa per trovare il modo di sfuggire dalla sua trappola, che si può sbloccare appunto solo tramite i soldi, visti i numerosi debiti accumulati da Sam.

Tuttavia, da quel momento in poi le azioni di Marion diventano sempre più imprevedibili, sempre più puramente dettate dalla fretta, dall’irrazionalità, da questo slancio per sfuggire – e più in fretta possibile.

E non si può tornare indietro…

L’accompagnamento al patibolo

La figura del poliziotto è più interessante di quanto si possa pensare.

Soprattutto nella sua apparente illogicità.

L’agente è ancora una volta una figura estremamente voyeuristica – nel suo spiare dentro la macchina di Marion e guardarla dormire, violando uno spazio in un certo senso analogo a quello della scena d’apertura.

Ma è anche un personaggio particolarmente minaccioso.

Da notare in particolare l’anomalia nella rappresentazione del loro dialogo: Hitchcock evade il classico campo-controcampo, con solo Marion che guarda effettivamente fuori campo, mentre il poliziotto è rappresentato da una soggettiva anche piuttosto aggressiva di Marion, in particolare con un primissimo piano.

Janet Leigh e il poliziotto in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Così lo sguardo della protagonista cerca di fuggire, mentre il poliziotto la costringe ad essere punita.

Infatti, se il consiglio dell’uomo di dormire in un motel – come poi accadrà – potrebbe sembrare ironico a posteriori, in realtà è proprio indicativo del ruolo di questo personaggio: controllare che Marion non torni indietro, ma che vada dritta verso il patibolo.

Non a caso, il poliziotto resta immobile fino all’ultimo dall’altro lato della strada, osservando la donna che cambia maldestramente l’auto, agendo come spinta propulsiva alla sua fuga, ma senza cercare ulteriormente di parlarle.

E così Marion viene inghiottita dall’oscurità, mentre all’orizzonte i pali della luce sembrano delle croci…

Passaggio di consegne

Janet Leigh e Anthony Perkins in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Fino a questo momento, lo sguardo era una prerogativa di Marion.

Invece, all’arrivo all’hotel, Marion comincia impacciatamente a firmare il registro, con una soggettiva che sembra unicamente sua. Invece, quando la macchina da presa stacca, notiamo che anche Norman stava osservando il registro mentre la donna firmava.

Al contempo, Marion non si rende conto del pericolo, non si rende conto dell’indecisione dell’uomo nello scegliere la chiave della camera, andando infine a optare per la stanza N.1, proprio dopo aver notato la sua incertezza…

La più classica omosessualità

Janet Leigh e Anthony Perkins in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

L’atteggiamento di Norman è comunque impacciato, molto timido, facendolo sembrare apparentemente innocuo.

La voce della Madre, invece, è rivelatoria della sua violenza.

La maternità mostrata è una maternità castrante, che rappresenta la visione molto ingenua e semplicistica che sia aveva ancora negli Anni Sessanta dell’omosessualità, derivata anche dalla visione freudiana.

L’omosessualità, secondo la vulgata, era derivata dall’incapacità di superare il rapporto con la madre, una sorta di Complesso di Edipo mancante del confronto con la figura paterna, che porta infine il bambino cresciuto a voler diventare la madre stessa.

Il tutto si concretizza nella frustrazione sessuale e nella misoginia.

Norman spia Marion mentre si cambia – fra l’altro spostando un quadro rappresentante una vicenda biblica estremamente erotica, Susanna e i Vecchioni.

Ma evidentemente questa visione non suscita nell’uomo quelle sensazioni che la madre, la società e lui stesso si aspettano da lui.

Infatti, se consideriamo la Madre come una voce della coscienza per Norman, le sue parole di disprezzo nei confronti di Marion rappresentano in realtà quello che la genitrice – e quindi Norman – vorrebbe che succedesse, ovvero che l’uomo avesse piacere ad intrattenersi con lei.

E da qui nasce la volontà omicida.

La doppia punizione

Janet Leigh in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

La morte di Marion è scioccante per più motivi.

Anzitutto, va contro tutte le regole dello star system dell’epoca, ovvero quella di mantenere in scena la diva fino alle battute finali del film. Ma, anche più importante, non scaturisce dalle azioni della protagonista, ma dai complessi dell’antagonista.

Infatti, l’iconica scena della doccia mima quell’incontro sessuale che non si può consumare e, al contempo elimina, distrugge quel corpo che fa scaturire la vergogna sociale di Norman.

Janet Leigh in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Su un altro livello, è la prima parte della punizione di Marion.

Nonostante la protagonista si sia evidentemente pentita delle sue azioni e abbia tutta l’intenzione di rimediare, ormai è troppo tardi: è diventata un personaggio troppo problematico, una donna troppo fuori dagli schemi per non essere punita.

E tanto più il suo corpo viene raccontato come sporco, un rifiuto: sia per l’audace parallelismo fra il vortice dello scarico della doccia che si dissolve sul suo occhio, sia per la posizione ingombrante del suo cadavere, sia, soprattutto, per la scena successiva.

Una lunga sequenza che racconta la considerazione del personaggio di Marion – per la società e per Norman – ovvero come qualcosa da eliminare, qualcosa che ha lasciato macchie, sporcizia: va tutto pulito.

Un ossessivo Mac Guffin

Janet Leigh in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

I soldi sono l’ossessione di Psycho.

Il loro arrivo viene raccontato fin dalla prima scena, e, dalla loro apparizione nella sequenza successiva, sono sempre presenti, anche se scompaiono materialmente. E la macchina da presa indugia a più riprese su questo elemento, anche facendosi beffe dello spettatore.

Perché, alla fine, è solo un Mac Guffin.

I soldi fanno solamente partire la vicenda, ma non sono di fatto importanti come lo spettatore pensa e come i personaggi stessi credono: non sono il motivo effettivo per cui Marion muore, né appunto oggetto del desiderio di Norman.

E, infatti, nonostante la macchina da presa inquadri in maniera molto eloquente il giornale mentre Norman sta pulendo, lo stesso viene afferrato solo all’ultimo e gettato come un rifiuto qualunque nel bagagliaio della macchina…

Lo scioglimento del mistero

Vera Miles in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Lo sguardo è ancora protagonista nella seconda parte.

Nonostante infatti i protagonisti della vicenda siano molto più castigati – in particolare Lila, il totale opposto della sorella – il motore della vicenda è il desiderio di guardare, di penetrare la casa di Norman.

E, soprattutto, di vedere il volto di Norma Bates.

Questa ossessione è insistita per tutto il terzo atto, arrivando fino al climax finale, quando ancora una volta lo sguardo del volto ci è negato: la signora Bates è di spalle. E allora sta a Lila mostrare la verità, diventando una screaming queen ante-litteram…

E, ovviamente il film si chiude con l’inquietante sguardo di Norman direttamente in camera, direttamente nei nostri occhi…

Psycho slasher

Dal successo di Psycho nacquero moltissimi emuli, sia con le opere direttamente collegate – come i tre sequel e il remake shot-by-shot omonimo di Brian De Palma nel 1999 – sia con quelle più indirettamente derivative – come il cult American Psycho (2000).

Ma, soprattutto, Psycho è considerato il progenitore del genere slasher.

Questo sottogenere horror ha inizio canonicamente con Halloween (1979), e con gli altri classici degli Anni Settanta – Ottanta, come Non aprite quella porta (1974) e Venerdì 13 (1980), per poi essere parodiato da Scream (1996) negli Anni Novanta.

E la derivazione da Psycho si riscontra in particolare in tre elementi: il killer, l’ambientazione e la Final Girl.

L’antagonista dell’horror non è più il mostro, ma una persona – solitamente un uomo – che ha una storia familiare e personale complessa alle spalle, proprio come Norman.

Tuttavia, dal mostro di Hitchcock non eredita né l’apparente docilità di Anthony Perkins né la componente sessuale, avvicinandosi anzi più alla figura del mostro classico: un personaggio deformato o col volto nascosto, un reietto sociale, una persona che non si può salvare…

La sua arma è solitamente un’arma bianca – un coltello, la motosega, le cesoie – che non raramente si ricollegano anche allo status sociale o ad un particolare trauma infantile dell’antagonista.

L’ambientazione dello slasher è solitamente un luogo non protetto, privo della componente adulta che controlla, e dove i protagonisti – solitamente belli, bianchi e ricchi – possono fare sostanzialmente quello che vogliono.

Tuttavia, proprio l’ambientazione isolata, da cui non si può fuggire, dà un sapore di maggiore inquietudine e orrore alla storia…

Proprio come il Bates Motel.

Psycho final girl

E, soprattutto, la Final Girl.

La final girl è solitamente il personaggio femminile più esplorato, che si distingue dal resto del gruppo anche per una maggiore maturità e intelligenza, che le permette di rimanere viva fino alla fine.

Quindi un personaggio che eredita l’avvenenza di Marion, la risolutezza di Lila, e lo spirito investigativo di Sam.

In ultimo, la final girl ha l’obbiettivo di sconfiggere, ma soprattutto di smascherare il mostro, a volte aiutata da degli aiutanti maschili che prendono le parti del Sam del finale di Psycho, appunto.

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Spider-Man: Across the Spider-Verse – Il canone tirannico

Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson è il sequel del quasi omonimo film del 2018, con protagonista Miles Morale – l’altro Spiderman.

Un film che promette molto bene al botteghino: a fronte di un budget di circa 100 milioni, ha già raddoppiato i suoi costi di produzione, con 208 milioni di incasso nel primo weekend.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film d’animazione

Di cosa parla Spider-Man: Across the Spider-Verse?

Dopo più di un anno dall’incontro con lo Spider-Verse, Miles e Gwen stanno facendo i conti con i loro irrisolti problemi familiari…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Spider-Man: Across the Spider-Verse?

Miles Morales in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Assolutamente sì.

Spider-Man: Across the Spider-Verse compie diversi ed importanti passi avanti rispetto al precedente film – che era già ottimo: una tecnica artistica che si evolve in nuove direzioni, raccontando visivamente in maniera nuova e fresca i diversi universi, retta anche da una scrittura molto più consapevole.

Infatti, questo film nasce inizialmente come un unico prodotto, ma si è scelto successivamente di dividerlo in due parti. E, a fine visione, sono sicura che di questo capitolo non avreste tolto un minuto: un’introduzione potente e robusta per una storia monumentale.

Insomma, assolutamente imperdibile.

Ricominciamo da Gwen

Gwen Stacy in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Spider-Man: Across the Spider-Verse ricomincia, a sorpresa, da Gwen.

Il suo personaggio è quanto essenziale, quanto poco esplorato nel precedente capitolo. In questo caso, invece, domina la scena per la primissima parte della pellicola, ri-raccontando per certi versi – ma in maniera più approfondita – il trauma personale che la definisce come Spider Woman.

E da qui si sviluppa anche il dramma del rapporto non risolto col padre, che si esplica anche in un senso di forte solitudine, di necessità di trovare un’identità e di far parte di un gruppo – ovvero la Spider Society.

Ma con una scelta che la porta – e per non poco tempo – ad abbandonare il padre stesso…

I super problemi

Miles Morales in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

La seconda parte del primo atto è invece dedicata a Miles.

Anche il giovane protagonista sta affrontando questioni non tanto dissimili da quelle di Gwen, anche se con un taglio narrativo decisamente molto più ironico – in funzione del finale, che invece raggiunge un picco drammatico non indifferente.

Ancora una volta, scopriamo Miles prima come Miles, e poi come Spiderman.

Un ragazzo che sta vivendo un momento di passaggio in realtà abbastanza tipico per il suo personaggio: pensare a che tipo di vita costruirsi oltre alla sua identità segreta, a vivere il peso di rivelare la stessa ai genitori – soprattutto al padre.

Ma anche Miles si lascia momentaneamente il problema alle spalle, per unirsi alla Spider Society.

Un villain di contorno?

Spot in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Spot ha un ruolo tutto particolare.

Inizialmente sembra veramente un villain puramente comico, il villain della settimana, che Spiderman sconfigge facilmente, per poi passare al prossimo super problema.

Ma lui stesso si ribella da questo ruolo, riuscendo invece a riscoprire i propri poteri come molto più interessanti di quanto aveva compreso finora. Purtroppo, le sue motivazioni sono molto banali: vendicarsi su Spiderman.

Per questo motivo nel terzo atto di fatto scompare, rimanendo solo come una minaccia nell’ombra, che aggrava ancora di più una situazione già di per sé assai spinosa…

Il problema del canone

Il vero nemico di Spider-Man: Across the Spider-Verse è Spiderman stesso.

Con un ottimo gioco metanarrativo, si racconta come tutti gli Spiderman, proprio per riuscire a mantenere intatto quello che volgarmente chiamiamo Spider-Verse, devono accettare e di fatto sottostare alle regole del canone.

In questo modo si giustifica come il personaggio, nelle sue varie incarnazioni cinematografiche – in particolare quelle della Sony – ripercorra bene o male le medesime tappe e affronti i medesimi problemi, pur con le dovute differenze.

Ma è questo il vero dramma.

Miguel O'Hara in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Spiderman per essere tale è costretto ad affrontare anche traumi davvero sconvolgenti, che solitamente riguardano la perdita degli affetti.

Per questo il personaggio di Miguel O’Hara è così tanto grigio: avendo vissuto sulla sua pelle cosa significa davvero andare contro il canone e vivere solamente per sé stessi, lo impone giustamente (?) anche a tutti gli altri.

Ma Miles è ancora troppo giovane, troppo inesperto – ancora una volta – e non è pronto ad affrontare un nuovo trauma in così poco tempo. Un trauma che, con ogni probabilità, lo porterebbe ad una distruzione della sua identità e a chiudersi in sé stesso.

E allora cos’è più importante?

Salvare sé stessi o salvare il multiverso?

Spider-Man: Across the Spider-Verse finale spiegazione

Il finale di Spider-Man: Across the Spider-Verse è piuttosto oscuro.

Quantomeno inizialmente Gwen ottiene un finale positivo: anche se scopre che per colpa sua il padre ha lasciato il lavoro da poliziotto, in questo modo non diventa capitano della polizia, non seguendo quindi la strada del canone che l’avrebbe portato alla morte.

Invece il finale di Miles è quasi macabro.

Finalmente pronto ad affrontare i suoi genitori per rivelare la sua identità segreta, il protagonista si confida con la madre, che sembra non capire di cosa stia parlando. E, se in un primo momento la situazione sembra credibile, minuto dopo minuto la verità comincia ad emergere…

Miles Morales in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Miles ha sbagliato universo, è finito in quello da cui deriva il ragno che l’ha morso, dove proprio per questo manca uno Spiderman. E non è neanche la cosa peggiore: Miles, perdendo il padre e non essendo morso dal ragno, è diventato un supercattivo, Prowler.

Ed è piuttosto credibile: nel primo film veniva raccontato quanto Miles fosse legato allo zio, quindi è altrettanto comprensibile che, in mancanza di un’altra strada, si sia lasciato sedurre dalla possibilità di essere super, ma dalla parte sbagliata…

Spider-Man: Across the Spider-Verse Andrew Garfield Donald Glover

Spider-Man: Across the Spider-Verse è il miglior racconto del multiverso di Spiderman portato finora al cinema.

La tecnica narrativa e artistica si arricchisce, portando nuovi e fantastici personaggi, ognuno definito da una propria estetica, peculiare e unica: dallo Spider Punk all’Avvoltoio di Età Rinascimentale.

Ma anche Gwen ha una propria identità visiva, quasi espressionista: una realtà molto sfumata, che cambia a seconda delle sue emozioni.

Un multiverso incredibilmente intelligente, che riesce anzitutto a portare un’ironia metanarrativa particolarmente indovinata:

Ma, soprattutto, sembra mettere finalmente un punto al rapporto fra live action e realtà animata nell’Universo Marvel-Sony.

Semplicemente, i personaggi in live action rimangono tali, non cambiano entrando nell’universo animato. E così il film si collega a tutti gli altri Spiderman della Sony, in maniera molto più organica rispetto a No Way Home (2021).

Ma il collegamento più importante è anche quello che potrebbe sfuggire: Donald Glover nei panni di Prowler, che molti potrebbero essersi dimenticati che è apparso – pur con un minutaggio limitato – in Spiderman: Homecoming (2016):

Quindi già al tempo sapevamo dell’esistenza di Miles Morales nell’universo live action.

Quindi è probabile che questi due mondi – animato e live action – rimangano divisi – e che altrettanto probabilmente ci sarà un Miles Morales diverso in live action (nel già annunciato film) e un sequel di No Way Home, che sembra già essere in produzione.

Così, se tutto va bene, non faranno un disastro.

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Solo – A flop story

Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard è stato il secondo tentativo di portare una storia spin-off nell’universo di Star Wars al cinema, dopo Rogue One (2016). E con risultati molto diversi…

Non a caso fu un discreto flop: a fronte di un budget stimato di 275 milioni di dollari, ne incassò appena 392 milioni in tutto il mondo…

Di cosa parla Solo?

Il giovane Han (non ancora Solo) è imprigionato dal pianeta Corellia, sotto lo stringente controllo di Lady Proxima. Ma ha forse trovato finalmente una via di fuga…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Solo?

Chewbecca in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

Sì e no.

Solo non è un prodotto che mi sento di sconsigliare in toto, ma sicuramente non ve lo raccomando se vi è piaciuto Rogue One o se siete amanti di Star Wars: semplicemente, non è un film della saga.

È un generico film di fantascienza su cui hanno appiccicato alcuni elementi di Star Wars, con una scrittura assai banale, un protagonista che purtroppo non ha un’unghia del carisma di Harrison Ford e una storia nel complesso veramente poco appassionante…

Perché Solo è stato un flop?

Il flop di Solo è secondo me la coincidenza di diversi fattori.

Anzitutto, il periodo di uscita: a differenza di Rogue One, che arrivò in un momento di rinascita del brand, il mercato cinematografico nel 2018 era ormai saturo di Star Wars, con già cinque nuovi prodotti nel giro di pochi anni.

In secondo luogo, Solo partiva molto più svantaggiato: se il precedente spin-off era uscito dopo un film accolto abbastanza positivamente dal pubblico, questa pellicola arrivò dopo Gli ultimi Jedi (2017), prodotto che ancora oggi è incredibilmente divisivo per il pubblico.

Emilia Clarke in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

In ultimo, forse più indirettamente, la situazione dei personaggi della trilogia originale non era delle più rosee: sia Luke che Han erano ormai morti per il canone, e in particolare Harrison Ford si era prestato controvoglia al ritorno nel personaggio.

E se a tutto questo si aggiunge la scarsa qualità della pellicola…

Dove si colloca Solo?

Solo è ambientato esattamente dieci anni prima di Una nuova speranza (1977).

Cominciamo male

Alden Ehrenreich in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

Per molti tratti, ho avuto la sensazione che Solo volesse copiare spudoratamente Rogue One, ma senza capirne i punti di forza.

Infatti, l’incipit è molto simile: una sorta di prologo, a cui segue un’ellissi temporale abbastanza ampia, che purtroppo diventa totalmente irrilevante vista banalità dello sviluppo del rapporto fra Han e Qi’ra.

Ma non è finita qui.

Anche peggio è come si compone il gruppo principale della storia: sia per l’introduzione di Chewbacca, totalmente out of character, ma soprattutto con la devastante debolezza delle motivazioni che portano Tobias ad accogliere Han nella sua squadra.

Basta un così veloce scambio di battute per far passare il personaggio dal voler condannare il protagonista a morte all’includerlo in una missione così importante e pericolosa?

Il mancato interesse

Una cosa che Rogue One aveva capito molto bene è quanto sia essenziale che la storia raccontata sembri importante allo spettatore.

Se ci pensate, tutti i prodotti cinematografici di Star Wars hanno come fine ultimo qualcosa di davvero importante – solitamente la salvezza della galassia – che riesce a coinvolgere lo spettatore all’interno di una dinamica imponente e fondamentale.

Invece, perché dovrebbe importarmi della storia di Solo?

Tutta la missione non sembra altro che una side quest molto diluita, un riempimento sentito come necessario per arrivare a due ore di film e per collegare infine tutti gli elementi che caratterizzano il personaggio di Han Solo.

E non è neanche credibile.

Un film di nicchia

Alden Ehrenreich in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

Vi ricordate quando parlavamo di quanto fosse importante in Rogue One la scelta di eliminare tutti i personaggi in scena, per evitare buchi di trama incolmabili con la Trilogia Originale?

Solo non solo sbaglia in questo, ma fa gli stessi errori dei film successivi.

Andando a fare qualche ricerca, si scopre che il futuro di Q’ira dopo questa pellicola viene raccontato nell’Universo Espanso a fumetti, usciti, ovviamente, dopo La trilogia originale.

Prodotti di nicchia, per la maggior parte non conosciuti dal grande pubblico.

Emilia Clarke in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

In questo modo, si dà per scontato che lo spettatore non abbia un cortocircuito mentale vedendo il personaggio sopravvivere e non apparire nei film successivi, visto che facilmente non conoscerà i fumetti.

In questo modo, come è stato per la seconda stagione di The Mandalorian, ma anche per la futura serie di Asoka, si allontana una buona fetta di pubblico, quegli stessi casual fan (come me) che hanno di solito una conoscenza limitata ai prodotti cinematografici.

E i risultati si vedono…

Star Wars?

Alden Ehrenreich in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

E, nonostante questo, paradossalmente Solo è il film meno Star Wars che mi sia capitato di vedere in tempi recenti.

Evidentemente Ron Howard non ha la stessa eleganza e intelligenza per riuscire a rinnovare l’aspetto della saga di quella che ha dimostrato Gareth Edwards in Rogue One. Infatti, Solo presenta un’estetica molto generica, che non riesce a ricollegare visivamente la pellicola al brand, tranne per pochi elementi.

E, anche peggio, Han Solo non sembra sé stesso.

Per quanto Alden Ehrenreich si sia impegnato, non ha lo stesso carisma e iconicità di Harrison Ford, e quindi non riesce veramente a raccontare un personaggio più giovane e immaturo, portando una backstory francamente neanche così interessante, anzi…

Inutili colpi di scena

Emilia Clarke in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

Il finale di Solo vive di colpi di scena.

Ogni personaggio si scopre di avere un secondo, terzo, quarto obbiettivo o piano nascosto fino a questo momento, con una sequela di colpi di scena quasi nauseante, che sembra voler tenere lo spettatore con la bocca aperta per tutto il terzo atto.

Tuttavia, vuoi per la debolezza delle relazioni dei personaggi, vuoi per il poco interesse che la storia in generale mi ha suscitato, mi sono sentita veramente poco coinvolta, e più esasperata che sorpresa…

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Intrigo Internazionale – Il thriller comico

Intrigo internazionale (1959) – traduzione molto goffa del titolo originale North by Northwest – è una delle opere più note della filmografia di Hitchcock, nonché l’ultimo in cui lavorò con il suo attore feticcio, Cary Grant.

A fronte di un budget medio – 4,3 milioni di dollari, circa 45 oggi – incassò abbastanza bene: 9,8 milioni di dollari (circa 102 oggi).

Di cosa parla Intrigo Internazionale?

Roger Thornhill è un agente pubblicitario che viene involontariamente coinvolto in uno scambio di persona e in un intrigo spionistico…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Intrigo Internazionale?

Cary Grant in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

Assolutamente sì.

Intrigo Internazionale è uno dei titoli più interessanti della filmografia di Hitchcock, dove sperimenta in maniera particolarmente avvincente con il genere thriller, ma con importanti contaminazioni comiche e della spy story.

Una storia intrigante e piena di tensione, che mi ha ricordato molto la storia di Carl Barks Paperino e le spie atomiche (1951).

Non manca qualche piccolo inciampo sul finale, ma elegantemente camuffato da una regia intelligente e piuttosto indovinata, che mostra un Hitchcock perfettamente padrone della sua arte, proprio alle porte del suo capolavoro…

Lo strappo

Cary Grant in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

L’incipit di Intrigo internazionale è magistrale.

Si apre con una lunga sequenza che ci introduce il personaggio: un agente pubblicitario piuttosto intraprendente, pienissimo di impegni e particolarmente carismatico. Piccole scene dal sapore comico, che fanno immergere lo spettatore in atmosfere apparentemente tranquille e quotidiane…

…per poi catapultarlo nel vivo dell’azione.

Mentre Roger sta serenamente intrattenendo la tavolata, la macchina da presa si muove improvvisamente, con uno scatto repentino, per mostrare un elemento della stanza che era rimasto fuori dalla scena fino a quel momento: due loschi individui che hanno adocchiato il protagonista.

Scene vertiginose

Cary Grant in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

Così Roger si trova incastrato in una situazione da cui sembra impossibile uscire, nonostante cerchi continuamente di imporre la propria autorità.

Tuttavia, viene costretto ad una rocambolesca fuga in auto, dopo essere stato ubriacato forzatamente. E qui Cary Grant sfodera le sue incredibili capacità di attore comico, reggendo sulle spalle una scena particolarmente complessa, soprattutto considerando le tecniche disponibili al tempo.

Ma l’attore feticcio di Hitchcock riesce perfettamente a calibrare la situazione nella sua grottesca comicità, aiutato anche da abili movimenti di macchina, che Hitchcock già aveva già utilizzato nella scena analoga di Caccia al ladro (1955).

E non è finita qui.

Un Grant inedito

Cary Grant e  Eva Marie Saint in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

Forse volendo smorzare i toni dopo la tiepida accoglienza del ben più drammatico Vertigo (1958), in Intrigo Internazionale Hitchcock lascia ampio spazio alla recitazione comica.

Tuttavia, non è la solita comicità alla Hitchcock, quell’humour nerissimo che aveva avuto il suo picco in La congiura degli innocenti (1955): troviamo invece dinamiche più semplici, quasi da slapstick comedy.

Ed è qui che Cary Grant dà veramente il suo meglio.

Già molto esperto nel genere, l’attore riesce a muoversi con abilità sia nelle sequenze più drammatiche e di tensione, con il suo sguardo penetrante, sia nei momenti più apertamente comici, in particolare la spassosissima scena dell’asta.

Un’intrusione fondamentale

Cary Grant in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

Una sequenza fondamentale, posta sul finale del primo atto, è quella dedicata allo svelamento dell’intrigo.

Ma solo allo spettatore.

Una breve scenetta in cui le menti dietro al fittizio George Kaplan raccontano il loro piano, fornendo una bussola chiara allo spettatore per il seguito delle vicende. Una tecnica già utilizzata in Vertigo, che permette di continuare a seguire il protagonista nei suoi inciampi senza esasperare la tensione.

In questo modo, inoltre, si rende anche più interessante il momento di svolta in cui il personaggio diventa veramente attivo negli eventi.

Il motore necessario?

Eva Marie Saint in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

Sulle prime ho particolarmente apprezzato il personaggio di Eva.

Una scelta di casting piuttosto peculiare per Hitchcock, che si lascia alle spalle le bellezze più magnetiche di Grace Kelly quanto di Kim Novak, preferendo invece un’attrice come Eva Marie Saint, che funziona molto bene nel ruolo della donna intrigante.

Una donna di difficile lettura, che ricorda quello che sarà poi Janet Leigh in Psycho (1960).

Intorno alla stessa ho anche apprezzato il momento di indipendenza del protagonista, che diventa più furbo delle spie stesse, riuscendo momentaneamente a sbrogliarsi dall’intrigo in cui era stato coinvolto.

Cary Grant e Eva Marie Saint in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

Ho invece meno apprezzato l’idea che Roger di leghi così profondamente ad Eva, tanto da rimettersi in gioco e rischiare davvero la propria vita per salvarla, volendo ovviamente portare all’happy ending romantico.

Una costruzione che ho trovato meno convincente rispetto ad altri prodotti di Hitchcock, che come sempre include l’elemento romantico, percepito evidentemente come necessario, ma che alla fine mi è parso abbastanza debole come motore della vicenda.

Anche se…

Intrigo Internazionale finale

Il finale di Intrigo Internazionale è uno dei più indovinati della filmografia di Hitchcock.

In una scena di incredibile tensione sul Monte Rushmore, quando sembra ormai che Eva sia destinata a morire, Roger la solleva e improvvisamente la scena si riforma in un contesto ben più intimo e accogliente: il treno.

Come creare un finale positivo e senza sbavature.

Intrigo internazionale titolo originale

Il titolo originale di Intrigo internazionale è North by Northwest.

Ma cosa significa?

Letteralmente significa Da nord a nordovest, facendo riferimento al percorso del protagonista: dal Palazzo delle Nazioni Unite (New York), al monte Rushmore (Sud Dakota).

Ma, secondo alcuni critici, lo stesso prende spunto da Amleto (2,2):

I am but mad north-northwest

Non son pazzo, altro che quando il vento spira dal nord-nord-ovest

quindi rendendo il protagonista un eroe shakespeariano moderno.

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Spider-Man: Into the Spider-Verse – Un inizio inaspettato

Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman è un lungometraggio animato di produzione Sony, con protagonista l’Uomo Ragno in una veste inedita.

Un prodotto che ebbe maggior successo nel suo rilascio in streaming, a fronte di un riscontro economico non eccellente: con un budget di 90 milioni, incassò appena 375 milioni – meno del prodotto più debole della Marvel lo stesso anno, Antman and the Wasp.

Di cosa parla Spider-Man: into the Spider-Verse?

Miles Morales è un ragazzino di quattordici anni, che vive stressato dalle aspettative del padre poliziotto e nell’ammirazione dello zio, non sapendo quali strade prendere nella sua vita. Un incidente gli cambierà per sempre la vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Spider-Man: into the Spider-Verse?

Miles Morales in una scena di Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman

Assolutamente sì.

Spider-Man: into the Spider-Verse è stata una grande sorpresa per molti, soprattutto dopo il recente successo dello Spiderman di Tom Holland, e quando il multiverso al cinema era ancora solo timidamente esplorato.

Io non lo vidi in sala – per colpa anche di una distribuzione piuttosto anomala in Italia – ma lo riscoprì grazie all’ottimo passaparola un paio di anni dopo.

E ne rimasi estremamente soddisfatta: un film veramente ben scritto, con una tecnica d’animazione pazzesca ed originale, che gioca fra l’altro in maniera perfetta con l’elemento metanarrativo.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Un inizio (non) ridondante

Raccontare le origini di Spiderman non è affare da nulla.

La sua origin story è nota tanto quanto quella di Batman, e raccontarla identica per l’ennesima volta poteva apparire incredibilmente ridondante e – di fatto – noioso. Per questo Spider-Man: into the Spider-Verse ha scelto la via più intelligente.

L’autoironia.

Collegandosi direttamente – ma non troppo – a Spiderman (2002) di Raimi, riassume in prima battuta la storia dello Spiderman più canonico, per poi passare a raccontare Miles prima di tutto come personaggio e, solo dopo, come l’Uomo Ragno.

Ma c’è di più.

Non il solito Spiderman

Peter B Parker e Miles Morales in una scena di Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman

L’altro elemento di grande novità di Spider-Man: into the Spider-Verse è che Miles non è Peter Parker.

Anche se le origini sono simili, il fatto che non si tratti del medesimo personaggio permette di spaziare nella scoperta di poteri altri oltre a quelli canonici dell’Uomo Ragno, e, soprattutto, di giocare in maniera davvero interessante con la figura di Peter Parker stesso.

Se infatti Miles si aspettava di avere come mentore il suo eroe del cuore, in realtà si trova in mezzo allo psicodramma di un Peter Parker nella sua versione più fallimentare, che ha preso tutte le scelte sbagliate nella vita.

Sapore di verità

Miles Morales in una scena di Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman

L’altro elemento che ho particolarmente apprezzato è quanto Miles sia un eroe molto quotidiano.

Un aspetto che avevo già adorato in Spiderman: Homecoming (2017), prodotto però mancante – per ovvi motivi – di tutta la parte del primo approccio ai poteri del protagonista.

Una sezione invece presente sia in Spiderman (2002), sia in The Amazing Spider-Man (2012), ma che non mi aveva mai veramente soddisfatto.

In questo caso la scoperta delle nuove abilità non solo ha un taglio molto realistico e piacevole, ma è riuscita anche ad avvicinarmi emotivamente al protagonista, nella sua confusione per questa inedita situazione…

Scoprire sé stessi

Miles Morales in una scena di Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman

A primo impatto il modo in cui Miles accetta i suoi poteri potrebbe apparire forzato.

In realtà, è perfettamente coerente col personaggio.

La figura di Spiderman è legata all’istinto e ai sensi ragneschi. Per questo è del tutto comprensibile che, per riuscire a diventare effettivamente l’Uomo Ragno, il protagonista debba riuscire a fare questo salto di fede e accettare istintivamente questi poteri come propri.

E, sempre per i motivi di cui sopra, ho amato il fatto che l’estetica del suo costume è perfettamente coerente con il suo personaggio e, soprattutto, che Miles non debba crearsi – come in The Amazing Spiderman – il costume da solo, ma solo renderlo suo.

Fantastici secondari

Peni Parker, Gwen Stacy, Peter B Parker, Spiderman Noir e Piggy Parker Miles Morales in una scena di Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman

Uno dei punti di forza di Spider-Man: into the Spider-Verse sono le versioni alternative dell’Uomo Ragno.

Elemento che probabilmente – e felicemente – si confermerà anche in Spider-Man: across the Spider-Verse (2023).

Particolarmente vincente l’idea di portare in scena personaggi così tanto diversi da loro, ma pur sempre legati al canone. E un grande successo è stato anche scrivere così bene Spider-Woman, quando c’erano tutti i presupposti per renderla una Mary Sue

Ma il mio preferito è sicuramente Spiderman Noir, la versione alternativa più iconica e rimasta nel cuore degli spettatori.

Parlando invece di Peni Parker…

Peni Parker Spider-Man: Into the Spider-Verse

Capisco tutto di Peni Parker.

Capisco la necessità di inserire un ulteriore personaggio femminile in un team principalmente maschile, di fare ancora una volta un passo verso il pubblico orientale…

Ma il suo personaggio è veramente l’unica cosa che non mi è piaciuta del film.

Oltre ad essere una versione troppo diversa dal personaggio di partenza, l’ho trovata davvero di troppo, non riuscendo a comunicarmi granché, se non un sincero fastidio…

Spider-Man: into the Spider-Verse animazione

Spider-Man: into the Spider-Verse è ricordato anche per la tecnica veramente rivoluzionaria.

Un incredibile incontro fra animazione 3D e 2D, in questo caso particolarmente azzeccata per rendere – anche metanarrativamente – la dimensione fumettistica.

Una boccata d’aria fresca all’interno di produzioni animate ormai abbastanza standardizzate, che ha aperto la porta anche ad altre interessanti sperimentazioni in questo senso.

Fra le più interessanti, la serie Arcane (2021 – …) e Il gatto con gli stivali 2 – L’ultimo desiderio (2022).

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Rogue One – Una falsa speranza

Rogue One (2016) di Gareth Edwards è un film prequel spin-off di Star Wars.

Un progetto piuttosto ambizioso, facente parte dei piani iniziali della Disney di portare un prodotto di Star Wars all’anno – nel 2015 era uscito Il risveglio della forza.

E fu anche un grande successo: a fronte di un budget fra i 200 e i 265 milioni, incassò più di un miliardo in tutto il mondo.

Di cosa parla Rogue One?

Galen Erso è un ex-scienziato al servizio dell’Impero, che viene scovato dalle forze imperiali per tornare a lavorare ad un certo progetto oscuro…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena vedere Rogue One?

Felicity Jones in una scena di Rogue One (2016) di Gareth Edwards

Assolutamente sì.

Rogue One è indubbiamente il miglior prodotto concepito dopo la Trilogia Originale.

Il suo grande pregio è il riuscire a raccontare finalmente una storia diversa dal solito coming of age di un membro sconosciuto della famiglia Skywalker, segretamente lo Jedi che salverà la Galassia – come è stato fatto, pur rimescolando le carte, con tutti gli altri prodotti della trilogia prequel e sequel.

Purtroppo, fa anche un po’ di tristezza vedere questo prodotto con la consapevolezza di quanto sarebbe arrivato dopo: una bellissima, ma falsa speranza della rinascita del brand…

Dove si colloca Rogue One?

Rogue One ha una collocazione molto precisa all’interno della timeline di Star Wars: si ambienta nei giorni immediatamente precedenti all’inizio di Una nuova speranza (1977).

Cominciare dal nulla

Felicity Jones in una scena di Rogue One (2016) di Gareth Edwards

La bellezza del personaggio di Jyn è il suo percorso di maturazione.

Una ragazza già piuttosto adulta, che vive una sostanziale indifferenza, se non addirittura un antagonismo, per tutto quello che riguarda la Ribellione. E questo la porta a vivere solo per sé stessa, come una criminale qualunque.

Il cambio di passo è scatenato in particolare dal confronto con le due figure paterne che l’hanno portata al suo annullamento: Saw e il padre, Galen Erso.

Felicity Jones in una scena di Rogue One (2016) di Gareth Edwards

Da entrambi si è sentita abbandonata e tradita, anche se per motivi diversi.

Viene così spinta ad un rincontro forzato, che però le permette di ricucire quelle ferite che l’avevano così profondamente colpita, comprendendo che invece entrambi si erano sacrificati e prodigati per la sua salvezza.

In particolare, vedendo il messaggio del padre, si riaccende in Jyn quel fuoco interiore da tempo sopito, che la fa diventare il protagonista più importante della Ribellione – senza il quale, di fatto, la vittoria contro l’Impero non sarebbe potuta avvenire.

Il buon fan service

Carrie Fisher in una scena di Rogue One (2016) di Gareth Edwards

Uno dei meriti maggiori di Rogue One è non solo il riuscire a raccontare una storia inedita, anche di andarsi a collocare perfettamente all’interno dell’universo di Star Wars.

Per quanto ci siano alcuni elementi ripescati dal canone di riferimento – il protagonista che ha un padre apparentemente malvagio, la presenza di uno Jedi, un robot a cui è affidata la linea comica del film – niente è forzato o eccessivo.

Inoltre, Gareth Edwards è riuscito ad aggiornare l’estetica della saga senza stravolgerla, ma apportando interessanti cambiamenti così che non sembrasse – come si è cercato di fare in altri film successivi – una sostanziale copia di quanto venuto prima.

Darth Vader in una scena di Rogue One (2016) di Gareth Edwards

Complessivamente i momenti di fanservice – se così vogliamo chiamarlo – rappresentano una porzione minuscola della pellicola, e sono comunque inseriti in maniera intelligente, con la funzione principalmente di contestualizzare la storia, più che di far emozionare i fan.

Inoltre, Rogue One racconta una storia effettivamente importante, che, invece che cambiare, arricchisce nel complesso la saga, andando a spiegare in maniera interessante e credibile un elemento che effettivamente poteva apparire forzato.

Ed è quasi ironico che abbiano usato lo stesso anche in L’ascesa di Skywalker pochi anni dopo…

Il domino

Forest Whitaker in una scena di Rogue One (2016) di Gareth Edwards

Rogue One è anche un film straziante.

È angosciante quanto dovuto vedere alla fine tutti i personaggi che muoiono.

Ma, appunto, non si poteva fare altrimenti: non si è voluto per questo film rischiare alcun tipo di forzatura, né di far sorgere domande per le quali, per ovvi motivi, non si sarebbe potuto dare una risposta.

In breve, se nessuno di questi personaggi appare nella Trilogia Originale, deve morire.

Tuttavia, l’eleganza di questo film sta non solo nel dare ad ognuno di loro una morte importante e che rimanga nella mente dello spettatore, ma anche nel saper concludere la pellicola con un aggancio al canone geniale quanto rincuorante.

Hope.

Speranza.
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Vertigo – Giù la maschera!

Vertigo (1958) – noto in Italia con un titolo ben più spoileroso – è una delle opere più importanti ed iconiche della filmografia di Hitchcock.

Un film dove questo regista cominciò davvero a sperimentare con l’elemento orrorifico, poco anni prima di approdare al suo capolavoro, Psycho (1960).

A fronte di un budget medio – 2,3 milioni di dollari, circa 26 oggi – incassò piuttosto bene: 7,3 milioni di dollari – circa 27 milioni oggi.

Tuttavia, l’accoglienza da parte di pubblico e critica fu abbastanza tiepida, e la pellicola venne rivalutata solo successivamente.

Di cosa parla Vertigo?

John Ferguson è un poliziotto in pensione, che si è ritirata per la sua terribile paura delle altezze. E improvvisamente viene coinvolto in una storia piuttosto strana e terrificante…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Vertigo?

James Stewart in una scena di Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock

Assolutamente sì.

Vertigo è una delle sperimentazioni più interessanti della filmografia di Hitchcock, in cui riesce a costruire una tensione eccezionale, e a rendere lo stesso spettatore in qualche modo complice delle vicende raccontate.

Un film in cui l’orrore, il surreale e il thriller psicologico si incontrano, per dare vita ad un’opera incredibilmente coinvolgente e piena di colpi di scena, dove niente è come sembra…

Insomma, non ve la potete perdere.

Via all’orrore

James Stewart in una scena di Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock

Un inizio improvviso, orrorifico, ma anche assai rivelatorio, ci immerge immediatamente in Vertigo.

Il sogno – ma anche il ricordo – di John nella fatidica notte in cui perse non solo un collega, ma anche la sua carriera da poliziotto. Una sequenza genuinamente angosciante, che ci racconta in pochi frame la profondità della fobia del protagonista.

Segue un quadretto domestico ben più sereno, dove i colori freddi e opprimenti dell’incipit vengono sostituiti da tinte più delicate e confortevoli, in particolare sul personaggio di Midge.

Ma la tranquillità della scena, che appare quasi comica, viene spezzata sul finale: quando John vuole dimostrare di poter superare la sua paura, un’inquadratura improvvisa ci svela la sua soggettiva sulle altezze vertiginose fuori dalla finestra…

L’inspiegabile

James Stewart in una scena di Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock

Il tranello di Gavin – e della regia – è messo in scena alla perfezione.

Lo stesso prima viene introdotto a parole dal marito apparentemente preoccupato, poi Kim Novak riesce efficacemente a portare in scena questa donna malinconica e sfuggente, definita anche dai numerosi particolari del suo alter ego.

Come per Notorious (1946), infatti anche in questo caso Hitchcock mette in risalto i dettagli della scena, accentuando l’intensità delle inquadrature con delle enigmatiche soggettive, che riescono ancora di più ad immergere lo spettatore nella scena.

La donna impossibile

Kim Novak in una scena di Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock

Di solito non sono una grande fan del cosiddetto instant love.

Preferisco una costruzione più articolata della nascita dell’amore fra due personaggi, che sia basato su basi ben più solide del classico colpo di fulmine, a cui segue spesso uno sviluppo della relazione molto banale.

Nel caso di Vertigo è una scelta perfetta.

Hitchcock è riuscito a dirigere un’attrice già di una bellezza sconvolgente come Kim Novak, e a portarla in scena come la donna magnetica e irresistibile, di cui è impossibile non innamorarsi…

Per questo, la reazione del protagonista è del tutto giustificata.

Kim Novak in una scena di Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock

Altrettanto Hitchcock abilmente riesce a distruggere questa immagine, distorcendo il volto della donna con un trucco che di per sé non la imbruttisce affatto, ma la spoglia di quel candore che la caratterizzava al momento dell’innamoramento, rendendola quasi irriconoscibile.

Il terzo atto è proprio dedicato alla ricostruzione del personaggio.

Dal momento che John si era innamorato di Madeleine per la sua folgorante bellezza, dimostra tutta la sua pericolosa ossessione nel voler toccare e vedere la stessa donna di cui si era innamorato, anche a discapito della felicità di Judy.

Una ricostruzione che è solo l’anticamera dell’inevitabile distruzione…

Giocare con lo spettatore

Barbara Bel Geddes in una scena di Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock

In Vertigo, forse più che in ogni altra sua pellicola, Hitchcock dialoga con lo spettatore.

Anzitutto perché alla fine lo stesso si rende conto che almeno due elementi della trama erano molto meno fondamentali di quanto sembrasse. In primo luogo, Midge, il cui aspetto è molto simile a quello di Kim Novak.

E infatti è proprio il suo personaggio ad instillare il seme del dubbio nello spettatore: e se la tanto cara e innocente amica di John fosse in realtà la stessa Madeleine sotto mentite spoglie?

E invece alla fine si rivela per quello che è: un personaggio sostanzialmente di contorno, che scompare dalla scena nel terzo atto.

James Stewart in una scena di Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock

Allo stesso modo Gavin non è altro che l’artefice dell’inganno per sbarazzarsi della moglie, con una trama in cui John è stato coinvolto come mero strumento. Quindi lo stesso personaggio innesca la trama e le conseguenze per John, ma, alla fine del secondo atto, scompare anche lui.

In ultimo Hitchcock sceglie di non affidare la rivelazione del mistero al colpo di scena finale, ma di rendere lo spettatore complice del tranello di Judy, mostrandolo in un momento di debolezza della stessa, che però viene nascosto al protagonista.

In questo modo, il finale ha ancora più effetto.

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L’uomo che sapeva troppo – La coppia maledetta

L’uomo che sapeva troppo (1956) è uno dei titoli più noti della filmografia di Hitchcock, nonché il remake del film omonimo che aveva diretto nel 1934.

A fronte di un budget medio – 1,2 milioni, circa 13 oggi – incassò tutto sommato molto bene: 11,3 milioni di dollari – circa 126 oggi.

Di cosa parla L’uomo che sapeva troppo?

Ben e la moglie Jo sono in vacanza in Marocco. Per via di una serie di avvenimenti, vengono coinvolti in un intrigo spionistico internazionale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’uomo che sapeva troppo?

James Stewart e Doris Day in L'uomo che sapeva troppo (1956) di Alfred Hithcock

In generale, sì.

L’uomo che sapeva troppo è un titolo in parte atipico nella filmografia di Hitchcock, anzitutto per la famiglia protagonista, che ha un ruolo incredibilmente centrale nella pellicola – forse anche troppo…

Inoltre, nonostante forse la lunghezza appaia eccessiva, ha una perfetta costruzione del mistero e soprattutto della tensione, anche grazie a una coppia di attori fenomenali: oltre al già noto James Stewart, è il primo film che ho visto con Doris Day, semplicemente perfetta nella parte.

Insomma, dategli un’occasione.

Una coppia atipica

James Stewart e Doris Day in L'uomo che sapeva troppo (1956) di Alfred Hithcock

Un elemento che mi ha sorpreso de L’uomo che sapeva troppo è la coppia protagonista.

Solitamente – almeno per mia esperienza – al centro delle pellicole di Hitchcock vi è sempre un eroe maschile affiancato da un personaggio femminile, con cui andrà infine a formare una coppia – si può vedere ad esempio in Notorious (1946) e in La finestra sul cortile (1954).

In questo caso invece marito e moglie sono ugualmente motori della storia, anzi si alternano in questo ruolo. Ovviamente Ben è comunque più protagonista della moglie, ma non vi è un significativo sbilanciamento a suo favore.

Anzi, Jo è la prima ad accorgersi che c’è qualcosa di strano…

Un MacGuffin?

Daniel Gélin in L'uomo che sapeva troppo (1956) di Alfred Hithcock

Hitchcock è famoso per l’uso del macguffin, in particolare nell’iconico caso di Psycho (1960).

Non so se Louis Bernard può essere considerato tale, ma vi si avvicina molto: inizialmente sembra un personaggio fondamentale della trama, probabilmente l’antagonista contro cui gli eroi si dovranno scontrare.

Ma poi, improvvisamente, esce di scena.

E così il motore dell’azione passa da lui alla coppia dei protagonisti, in particolare a Ben. Di conseguenza, se prima Bernard era l’uomo che sapeva troppo, adesso questo ruolo passa al dottore protagonista – e, in parte, alla moglie.

Nonostante, ironicamente, per buona parte della pellicola sappiano molto poco di quello che sta succedendo…

La costruzione della tensione

Doris Day in L'uomo che sapeva troppo (1956) di Alfred Hithcock

La costruzione della tensione mi ha convinto a metà.

Da una parte ho davvero apprezzato il percorso dei personaggi: persone comuni che si trovano coinvolte in una storia più grande di loro, costretti pure ad agire da soli. E così non mancano le false piste, le incomprensioni…

E, soprattutto, le situazioni di stallo.

Davvero magistrale la scena del teatro, in cui Jo si trova immobilizzata dalla paura e dall’indecisione, con davanti agli occhi il delitto che si sta per compiere, di cui lei è sostanzialmente complice…

E Doris Day è stata perfetta nel trasmettere lo struggimento di quel personaggio.

Bernard Miles e Mogens Wieth in L'uomo che sapeva troppo (1956) di Alfred Hithcock

Al contempo, non ho del tutto gradito altre sequenze in questo senso.

Prima di tutto il malinteso con Ambrose Chappell, che crea una tensione eccessiva per essere solamente una parentesi che fa perdere tempo al protagonista, facendoci sospettare per tutto il tempo che lui sia il vero colpevole.

Avrebbe funzionato meglio se fosse stata una scena dal sapore comico.

Allo stesso modo, Hank, benché sia fondamentale, ha uno spazio eccessivo: il suo salvataggio personalmente mi è sembrato un allungamento sproporzionato della trama, saltando da momento di tensione a momento di tensione…

L’uomo che sapeva troppo finale

Il finale è il momento in cui Hitchcock riesce a soddisfarmi o a deludermi a fasi alterne.

Non ho apprezzato il momento quasi melenso in chiusura a Io ti salverò (1945) – che tagliava un momento registico perfetto – mentre mi è piaciuta di più la conclusione piena di tensione di Notorious.

In questo caso Hitchcock sceglie di chiudere la sua pellicola con un momento comico particolarmente indovinato, che scioglie la tensione che aveva dominato fino a quel momento la storia.

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Ponyo sulla scogliera – Un disastro felice

Ponyo sulla scogliera (2008) è uno dei film forse più particolari della filmografia di Miyazaki, che arrivò dopo un’assenza dagli schermi del maestro nipponico di ben quattro anni.

Ancora una volta si confermò il successo commerciale della sua produzione: a fronte di un budget di 34 milioni di dollari (circa 3,4 miliardi di yen), incassò 200 milioni in tutto il mondo.

In Italia è stato distribuito nel 2009 dalla Lucky Red.

Di cosa parla Ponyo sulla scogliera?

Il mago Fujimoto vive sott’acqua insieme alle figlie e medita di distruggere il mondo umano. Ma la figlia più grande, Brunilde, riesce a scappare al suo controllo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ponyo sulla scogliera?

In generale, sì.

Ammetto che questa pellicola è una di quelle che meno apprezzo della produzione di Miyazaki. Tuttavia, a differenza di Kiki – Consegne a domicilio (1989), in questo caso semplicemente non mi sento in target.

Infatti, Ponyo sulla scogliera è il prodotto più infantile di Miyazaki.

Un film che farà la felicità dei più piccoli, che sono gli assoluti protagonisti, anche per il punto di vista: nonostante, a livello più profondo, si possono intravedere delle tematiche ambientaliste per nulla scontate, lo sguardo della storia è proprio quello di un bambino.

Insomma, un modo per fare felici i vostri figli e nipoti.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Ponyo sulla scogliera il pericolo è altissimo.

Questo giudizio potrebbe apparire esagerato – e probabilmente lo è – ma per questa pellicola ho un particolare dente avvelenato con Cannarsi. Infatti Ponyo sulla scogliera fu uno dei primi film che guardai per ampliare la mia conoscenza di Miyazaki, al tempo molto limitata.

E fu anche il punto in cui mi sono bloccata per diversi anni.

Infatti, la pellicola si presta proprio ad un doppiaggio incredibilmente pedante e sinceramente insostenibile, che ha sicuramente fatto la felicità di Cannarsi – ma non la mia…

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

Una storia di tutti i giorni

Ponyo sulla scogliera è il primo film di Miyazaki con un taglio così quotidiano.

Nonostante sia presente l’elemento magico, il mondo reale è presente ed integrato in esso senza troppi sconvolgimenti.

Non abbiamo infatti un protagonista che si scontra con un mondo fantastico e segreto come ne La città incantata (2001), ma un taglio più simile a Il mio vicino Totoro (1988).

Tuttavia, in questo caso il mondo reale e quotidiano è molto più presente, al punto che lo scheletro narrativo è una piccola avventura che potenzialmente ogni bambino ha vissuto: trovare un animale in difficoltà, salvarlo e volerlo adottare.

Il film cerca continuamente di dare una maggiore importanza e peso alla storia raccontata – con il piano di Fujimoto e il destino di Ponyo – ma complessivamente è un elemento che rimane costantemente in sottofondo, senza che ci sia mai un conflitto davvero forte in scena.

E, al contempo, il punto di arrivo è sostanzialmente un ripristino della quotidianità, con l’eliminazione dell’elemento magico in Ponyo, senza che in realtà la protagonista abbia avuto un’evoluzione importante o delle prove da affrontare.

La componente educativa

Un elemento che mi ha sempre stranito di Ponyo sulla scogliera è la sua sezione educativa.

Tutta la sequenza in cui Ponyo, ormai umana, viene accolta nella casa di Sōsuke, lo stesso la guida nella scoperta del mondo umano. Ma le loro interazioni sembrano uscite da un libro per bambini in cui si spiega come funziona l’economia domestica…

E diventa ancora più strano nell’incontro con la donna e il bebè, con cui Ponyo riesce a comunicare, andando anche a scontrarsi con la madre, che le spiega sostanzialmente come funziona l’allattamento, proprio come farebbe una madre con sua figlia…

E paradossalmente questi elementi sembrano più importanti del destino di Ponyo stessa…

Il disastro felice

Forse l’elemento più interessante di Ponyo sulla scogliera è il racconto ambientalista.

In questo caso Miyazaki sceglie di rappresentare una natura solo apparentemente minacciosa, facendo riferimento ad un disastro naturale molto presente nella mente del pubblico giapponese: gli tsunami – di cui uno dei più terribili avvenne pochi anni dopo.

L’apparente disastro si trasforma in realtà in un momento di convivenza pacifica con l’elemento naturale, sia in un’occasione per la comunità per rincontrarsi. Infatti, nonostante la città sia letteralmente sommersa, non si parla mai di vittime o di perdite.

Il punto di vista è quello di un bambino, che riesce a divertirsi moltissimo dopo questa apparente catastrofe naturale…

Con Ponyo sulla scogliera Miyazaki sceglie di fare diversi cambiamenti sul lato artistico – e devo dire che non sempre mi convincono…

Il cambiamento più evidente è la rappresentazione degli ambienti esterni: mentre fino a questi sembravano come se fosse dei dipinti ad olio, in questo caso sembrano invece dei disegni fatti a matita:

Nonostante siano sempre sfondi pieni di particolari e cornici perfette per le azioni dei protagonisti, non apprezzo particolarmente questa evoluzione.

Allo stesso modo, anche se ne capisco i motivi, non apprezzo moltissimo la scelta di utilizzare linee molti fluide e morbide, con disegni poco particolareggiati, molto spesso abbozzando i personaggi, soprattutto Ponyo:

Secondo la stessa idea, dopo i fantastici risultati dei film precedenti, non mi ha entusiasmato la rappresentazione delle donne anziane, nonostante siano ben differenziate fra loro.

Ma ci si basa su modelli già esistenti:

Interessante però sia la rappresentazione di Fujimoto, in cui si applica un modello di volto femminile ad un personaggio maschile:

sia il fantastico character design e l’animazione di Granmamare:

Interessante anche la rappresentazione del mondo subacqueo, prima sperimentazione di Miyazaki in questo senso: