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A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar – Un equilibrio peculiare

A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron è uno dei più importanti film del cinema queer, al tempo veramente rivoluzionario per il pubblico mainstream.

Nonostante negli anni abbia acquisito un’importante notorietà, all’uscita fu un flop: con un budget di 30 milioni di dollari, incassò appena 47 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar?

Vida Boheme e Noxeema Jackson sono due famose drag queen di New York che intraprendono un viaggio in auto alla volta di Los Angeles, con un ospite inaspettato…

Vi lascio il trailer per farti un’idea:

Vale la pena di vedere A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar?

Patrick Swayze, Wesley Snipes e John Leguizamo in una scena di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron

Assolutamente sì.

A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar è un film fantastico, che riesce a raccontare con particolare delicatezza temi per nulla semplici, anzi particolarmente drammatici, ma senza mai sfociare nel dramma più smaccato.

Particolarmente brillante la recitazione dei tre attori protagonisti: pur non essendo drag queen, si sono immedesimati perfettamente nella parte, senza mai risultare fuori luogo, anzi.

L’inaspettato

Patrick Swayze in una scena di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron

La particolarità di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar è già nel casting.

Scegliere un attore come Wesley Snipes, futuro interprete di Blade nella saga omonima, e soprattutto Patrick Swayze, la star del cult Dirty Dancing (1987), un divo che era il sogno di un’intera generazione di ragazzine, per interpretare delle drag queen non è una scelta casuale.

E infatti l’incipit gioca proprio su questo apparente contrasto: Patrick Swayze entra in scena in tutta la sua possanza dopo essersi fatto la doccia canticchiando It’s a man’s world, e si trasforma nel suo personaggio.

Un contrasto apparentemente incolmabile, che è invece smentito dalla bravura dell’attore, il quale, insieme a Wesley Snipes, porta in scena una drag queen elegantissima, sublime: insomma, una vera diva d’altri tempi.

Il primo atto d’amicizia

Patrick Swayze in una scena di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron

Ma Vida non è solamente una fantastica drag queen, ma è anche un personaggio guidato da importanti ideali.

Il motore della storia è proprio la scelta di aiutare un collega alle prime armi, un ragazzino ispanico che non conosce niente del mondo, e che, come vedremo, si mette continuamente in pericolo, in qualche modo anche svendendosi.

Un’occasione anche per raccontare in maniera molto esplicita la differenza fra transessuali, travestiti e le drag queen, in un momento quasi didascalico, in realtà fondamentale per gli intenti del film: avvicinare un pubblico inesperto del mondo queer a concetti importantissimi.

E, al contempo, si vanno anche a smentire stereotipi piuttosto crudeli per il mondo drag, che ne svalutano il valore, proprio scegliendo di non far mai uscire Vida dal suo personaggio, perché rappresenta proprio l’espressione della sua vera identità.

La violenza edulcorata

Patrick Swayze in una scena di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron

Per rappresentare gli elementi anche più drammatici della vicenda, A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar sceglie una via di mezzo.

Ed è una via di mezzo ben pensata, che non toglie importanza a momenti veramente drammatici – come il ritorno di Vida alla sua casa natale – e violenti – come la relazione tossica fra Virgil e Carol.

In particolare, è interessante la scena della tentata violenza con il poliziotto, che ovviamente fa il verso a Thelma & Louise (1991), ma con un esito felice: essendo piuttosto ben piazzata, Vida riesce a difendersi e il poliziotto non muore, ma viene ridicolizzato.

Allo stesso modo, quando la protagonista sceglie di intervenire per proteggere la sua nuova amica, non si mostra esplicitamente la violenza della scena, se non per la sua parte conclusiva, che ha un taglio quasi comico.

Infatti, il taglio del film è quanto più positivo possibile.

Nemici e alleati

La pellicola vuole parlare il meno possibile di nemici, ma quanto più di alleati – o possibili tali.

Il weekend in quello sperduto paesino è un’occasione per le tre protagoniste di riuscire a rendere le donne locali più sicure di sé stesse, e gli uomini meno insicuri e distrutti dalla loro stessa mascolinità tossica e violenta.

E il percorso è quanto più naturale e positivo, con una storia emozionante e commovente, in cui un gruppo di donne riesce finalmente a valorizzarsi – ma, soprattutto, a sentirsi veramente libere e felici di poterlo fare.

Patrick Swayze in una scena di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron

Ed è una rappresentazione tanto più vincente in quanto mostra una realtà maschile molto variegata: gli uomini effettivamente negativi sono solo due – Virgil e il poliziotto – ed entrambi vengono messi al loro posto, senza però spingere troppo l’acceleratore sulla loro punizione.

Anzi, il momento di messa in fuga di Dollard racconta come tutti gli abitanti del paese abbiano accettato le protagoniste per quello che sono, sia perché li hanno aiutati, sia perché in questo modo hanno scoperto una parte di sé lontana dagli stereotipi di genere da cui erano definiti.

Ancora più interessante il fatto che i ragazzini non hanno una reazione violenta nei confronti delle drag queen, ma anzi accolgono la lezione – pur brutale – di Noxeema così da migliorarsi e diventare loro alleati.

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Terrore dallo spazio profondo – L’invasione silenziosa

Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman, remake di L’invasione degli ultracorpi (1956), è considerato uno dei migliori film di fantascienza mai realizzati.

A fronte di un budget molto contenuto – 3,5 milioni di dollari, circa 16 oggi – incassò piuttosto bene: 28 milioni di dollari (solo negli Stati Uniti), corrispondenti a circa 122 milioni oggi.

Di cosa parla Terrore dallo spazio profondo?

In un angolo remoto dello spazio, una misteriosa entità discende sulla Terra, camuffandosi fra gli umani…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Terrore dallo spazio profondo?

Leonard Nimoy, Donald Sutherland e Jeff Goldblum in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

Assolutamente sì.

Confrontandolo con Incontro ravvicinati del terzo tipo (1977), Terrore dallo spazio profondo rappresenta l’altra faccia del genere: una fantascienza che innova il tema dell’invasione aliena, con un taglio molto più orrorifico e pessimistico, per certi tratti quasi un thriller.

Ma la bellezza del prodotto è rappresentata anche dalla sua incredibile regia, con diverse inquadrature di grandissima raffinatezza e artisticità, e una scelta della messinscena e della colonna sonora sempre precisa ed efficace.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Un inizio a metà

Brooke Adams in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

L’inizio di Terrore dallo spazio profondo offre solo le informazioni essenziali per poter mettere lo spettatore sullo stesso piano dei personaggi.

Inizialmente infatti sappiamo solo che qualcosa di misterioso, senza faccia e senza forma, è piovuto sulla terra nell’aspetto più innocuo possibile: un fiorellino che chiunque di noi avrebbe voglia di raccogliere e conservare in casa.

E così seguiamo brevemente l’ampio gruppo di personaggi e la loro profonda emotività, mentre l’invasione rimane sotterranea e invisibile, riconoscibile solamente per i piccoli particolari, per un primo atto con una tensione perfetta.

Un presentimento

Prima della scoperta – dello spettatore e dei personaggi – dell’effettivo piano degli alieni, il film vive di atmosfere e presentimenti.

Si comincia a percepire che qualcosa è cambiato, che tutto quello che sembra normale, in realtà è profondamente mutato, anche se in maniera quasi impercettibile, con un sublime dialogo fra Elizabeth e Matthew.

Today everything seemed the same, but it wasn’t.

Oggi tutto sembrava uguale, ma non lo era.

Un dialogo, fra l’altro, accompagnato da sequenze che, nella loro semplicità e precisione, rendono perfettamente il senso di angoscia della protagonista, e ci permettono di immergerci nei suoi dolorosi presentimenti oscuri, culminati con un sanguinoso incidente mostrato in tutta la sua brutalità.

Un racconto a cui non solo crediamo, ma in cui possiamo totalmente ritrovarci: un ambiente familiare, definito da elementi riconoscibili, può mutarsi in una realtà irriconoscibile, minacciosa, quando anche solo pochi sguardi sbagliati cambiano tutto…

Invisibile e inarrestabile

Donald Sutherland in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

Per gli ultimi due atti Terrore dallo spazio profondo alterna l’angoscia psicologica e al terrore visivo.

L’invasione invisibile è prima di tutto un orrore psicologico, che fa cadere i personaggi nella completa paranoia, davanti alla facilità con cui gli alieni distruggono i corpi umani e li sostituiscono con delle copie perfette.

Inoltre, si introduce un sottile dubbio nella mente dei personaggi e dello spettatore: la specie umana è quella che davvero dovrebbe vivere sulla Terra, visto quanto è dilaniata dalle emozioni che portano gli esseri umani a distruggersi fra di loro?

Al contempo l’orrore visivo è garantito da un uso veramente ottimale degli effetti visivi materiali, che raccontano la rinascita del corpo scegliendo appositamente elementi che provocano disgusto e sconvolgimento, mostrando esseri volutamente contraddittori.

Feti con forma adulta, uomini che nascono da bozzoli…

La chiusura

Brooke Adams in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

La chiusura di Terrore dallo spazio profondo è magistrale.

Gli elementi del finale vengono introdotti a poco a poco, anzitutto con il tentativo dei protagonisti di ingannare gli alieni, ma essendo continuamente messi alla prova dalla loro profonda debolezza umana, che li rende del tutto schiavi delle emozioni.

Ancora più agghiacciante è la morte e rinascita di Elizabeth, il cui corpo si sfalda fra le braccia di Matthew, per poi mostrarsi di nuovo in una forma quasi primordiale, nuda e senza vergogna, saggia e riflessiva, del tutto in contrasto con il personaggio che era stato finora.

Donald Sutherland in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

Il culmine è l’iconico finale, in cui Nancy crede ancora di poter trovare nell’irreprensibile Matthew, l’ultimo uomo in vita, un alleato. E invece, grazie all’incredibile espressività di Donald Sutherland, la donna diviene agonizzante, sommersa dal terribile verso di allarme dell’alieno…

…e, al contempo, dalla consapevolezza della fine dell’umanità.

Terrore dallo spazio profondo regia

Ammetto che, prima di vedere Terrore dallo spazio profondo non conoscevo l’opera di Kaufman – noto anche per altri titoli, come Uomini veri (1983) e L’insostenibile leggerezza dell’essere (1988).

Ma in questa pellicola l’ho trovata una regia così elegante ed indovinata che ci tenevo a scrivere un paio di righe per sottolineare gli aspetti che mi hanno colpito di più.

Anzitutto, la profondità dello sguardo.

In non pochi momenti Kaufman sceglie una messinscena con inquadrature molto profonde, sia per creare dei significati visivi, sia per dare maggiore respiro alla scena.

Nel primo caso, vediamo ad esempio nella scena in cui Jack si stende, e in secondo piano scorgiamo il mutante, creando una simmetria visiva che racconta come il personaggio si stia per trasformare:

Per il secondo caso è emblematica è la scena in cui Matthew cerca di chiamare Elizabeth, e, dopo diversi primi piani e particolari, l’occhio della cinepresa si allarga per mostrarci anche quello che succede intorno al personaggio:

Un altro aspetto che ho molto apprezzato della regia è l’uso mai banale delle ombre sul volto dei personaggi, creando delle inquadrature quasi artistiche, che ne sottolineano di volta in volta l’atmosfera tetra e angosciante:

Infine, mi ha fatto impazzire la raffinatezza con cui la regia sporca l’inquadratura con evidenti elementi di disturbo, che si rivelano in realtà ingredienti imprescindibili per delle inquadrature magnifiche:

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Incontri ravvicinati del terzo tipo – La fantascienza positiva

Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) è un classico della fantascienza Anni Settanta (e non solo), nato dalla mente di uno dei più grandi maestri dei cult vivente, Steven Spielberg, al tempo forte del recente successo di Lo squalo (1975).

Con un budget di appena 20 milioni di dollari – circa 100 oggi – ebbe un successo stratosferico, con un incasso di 300 milioni di dollari – circa un miliardo e mezzo oggi.

Di cosa parla Incontri ravvicinati del terzo tipo?

Durante un turno di lavoro notturno, Roy Neary viene coinvolto in un inseguimento di quattro UFO da parte della polizia, vivendo così un incontro ravvicinato...

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Incontri ravvicinati del terzo tipo?

Richard Dreyfuss in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

Incontri ravvicinati del terzo tipo è veramente un titolo imperdibile se siete appassionati di fantascienza, soprattutto a quel tipo di fantascienza pensata per un pubblico più giovane.

Fra l’altro una pellicola che mostra tutta l’intelligenza di Spielberg anche come sceneggiatore, capace di creare scene dal taglio orrorifico diventate immediatamente iconiche – e citate in Stranger Things – e passare organicamente a momenti di pura comicità.

Insomma, cosa state aspettando?

Gli eroi per caso

Richard Dreyfuss in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

Incontri ravvicinati del terzo tipo si basa su un modello narrativo molto semplice, ma che io adoro dei film di fantascienza.

L’eroe incompreso.

Il protagonista principale è Roy, che fin da subito è raccontato come personaggio fondamentalmente non preso sul serio dalla sua famiglia, testardo, quasi infantile, contrapposto alla più autoritaria figura femminile.

A lui viene affidata un’importante sequenza comica, che crea un climax fondamentale per cucire in maniera ancora più importante la relazione con lo spettatore: del tutto vittima degli impulsi psichici a cui è stato sottoposto, in un momento di apparente follia cerca di ricreare materialmente il messaggio degli alieni.

E proprio per questo viene abbandonato.

Richard Dreyfuss e Melinda Dillon in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

Questo modello è trasmesso anche ad altri due personaggi: il piccolo Barry e sua madre, Jillian.

In questo caso il personaggio femminile è un po’ sacrificato, vincolato praticamente solo al ruolo materno. Ma non c’è da stupirsi: eravamo ancora agli albori della fantascienza moderna, in cui il genere era principalmente pensato per un pubblico maschile, molto lontano dell’innovazione di Alien (1979) e dalle eroine di Cameron.

Tuttavia, il contrasto fra Jillian e suo figlio ha un risultato irresistibile.

Punti di vista

Cary Guffey in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

La scena più iconica della pellicola è indubbiamente l’attacco alla casa di Barry e il suo rapimento.

Una scena diretta con grande maestria e un uso delle luci veramente indovinato, che fanno da sfondo perfetto per l’orrore e le grida di Jillian, che vede improvvisamente la casa animarsi e urlare, come posseduta dai fantasmi.

Al contrario il bambino, che aveva già vissuto felicemente il primo contatto, è del tutto affascinato da questo divertente gioco di luci, e per questo si lascia rapire dalla bellezza di questo nuovo amico da scoprire.

Ed è, di fatto, l’unico a capire il vero significato del messaggio degli alieni.

La fantascienza positiva

Cary Guffey e Melinda Dillon in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

La peculiarità di Incontri ravvicinati del terzo tipo è il suo approccio molto positivo alla fantascienza.

Come per Una nuova speranza – uscito lo stesso anno – Spielberg predilige una visione molto più vicina ad un target più giovane, diversamente dal taglio più drammatico e violento che sarà invece tipico del genere nel decennio successivo.

In particolare, la positività dell’incontro fra alieni e umani è racchiusa nel personaggio di Berry.

Cary Guffey e Melinda Dillon in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

Il bambino vive tutto come un sogno, ed è evidente il parallelismo del montaggio fra i piccoli alieni che si vedono alla fine – interpretati effettivamente da delle ragazzine – e il volto del giovane personaggio umano: non sono poi così diversi.

Allo stesso modo il contatto con gli extraterrestri è un finalizzato al legame, e non al conflitto: tramite un linguaggio universale – la musica – questi pacifici alieni cercano di insegnare agli umani come poter comunicare e poter unire le due specie.

Tanto che nel finale il protagonista è accolto sulla nave, pronto ad essere ambasciatore dell’umanità…

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Whiplash – La musica nel sangue

Whiplash (2014) di Damien Chazelle è il suo secondo lavoro come regista, ma anche la sua prima esperienza come autore non indipendente, prima di arrivare al grande successo di La La Land (2016).

Con un budget assai contenuto – appena 3,3 milioni di dollari – fu un ottimo successo al botteghino: quasi 49 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Whiplash?

Andrew Neiman sogna di diventare il miglior batterista della sua generazione, ma la strada per la gloria è molto più insidiosa di quanto potesse pensare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Whiplash?

Assolutamente sì.

Whiplash è una pellicola realizzata veramente con poco, retta sulle spalle di un attore di bravura immensa come J. K. Simmons, il cui ruolo gli è stato sostanzialmente cucito addosso, grazie anche alla sua presenza scenica inarrivabile.

La scelta delle inquadrature e del doppiaggio è sublime, e riesce perfettamente ad immergere lo spettatore all’interno dei vari momenti e suoni di un’orchestra, con un’ottima dinamicità e riprese mai banali.

Insomma, un esercizio di stile veramente imperdibile.

Il sogno (im)possibile

Nella primissima scena vediamo il provino di Neiman, del tutto fallimentare.

Anzi, quasi umiliante.

E che ci racconta molto del suo carattere.

Nonostante il ragazzo sia già all’interno di una – a suo dire – delle più importanti scuole di musica del mondo, non è abbastanza: il vero obiettivo è diventare al pari delle leggende della batteria.

E l’unica via è ottenere l’apprezzamento di Fletcher.

Nonostante un primo fallimento, Nielsen si sente finalmente baciato dalla fortuna quando il terribile direttore gli permette di entrare nella sua band.

In questo momento di euforia, si lascia ingannare dalle rassicurazioni di quel lupo travestito da agnello, abbassando le difese, per poi essere travolto – come tutti – dalla vera sfida: sopportare l’umiliazione, l’aggressione anche (e soprattutto) personale, la corsa impossibile per raggiungere il giusto tempo.

E allora il protagonista comincia veramente a perdere coscienza di quello che gli sta intorno, a sfidare e a sfidarsi per superare i propri limiti per raggiungere l’eccellenza. Ma neanche questo basta: servono ancora ore e ore di provini, di sangue sputato per poter ottenere la parte.

Gloria mundi

La gloria è passeggera.

Ancora una volta Nielsen ricade nell’errore di essere troppo sicuro di sé stesso, di pensare di avere la parte in tasca, di essere indiscutibilmente il migliore di tutti. Ma, allo stesso modo, basta un errore, un taxi perso, delle bacchette dimenticate per far andare tutto a rotoli.

E così, in questa lotta disperata per essere ancora il primo della classe, per dimostrare davvero di avere la potenza di una leggenda nel sangue, Nielsen è disposto persino a trascinarsi via da un incidente automobilistico, arrivare zuppo di sangue sul palco…

…e fallire miseramente.

La vera prova

Nel terzo atto è ora di voltare pagina.

Nielsen getta via – letteralmente – il suo sogno, e decide invece di dedicarsi ad altro, di trovarsi un lavoretto, di cercare di riallacciare i rapporti con Nicole – anche se inutilmente. Ma il destino è ancora una volta in agguato.

E ancora una volta il protagonista si fa gabbare dall’apparente disponibilità di Fletcher, che lo tratta come se fosse il suo alunno prediletto, come se tutto questo fosse solo successo per spianargli la strada verso la leggenda.

Ma la vera prova è quella più inaspettata.

Fletcher aveva abilmente costruito un teatrino con l’unico fine di umiliare Nielsen, per pura vendetta. Ma, inaspettatamente, il ragazzo gli dimostra di aver imparato veramente la sua lezione.

E infatti questa volta non basta un’umiliazione per farlo desistere, ma è anzi la stessa il motore che porta il protagonista a diventare il cuore della banda, e a sfociare in un disperato, quanto perfetto, assolo.

E così, finalmente, trovare negli occhi del maestro quell’apprezzamento tanto ricercato.

Fletcher Whiplash

Whiplash ci mette davanti ad un importante dilemma morale.

I metodi poco ortodossi, anzi micidiali di Fletcher hanno portato tanti ad abbandonare il proprio sogno, addirittura un suo alunno alla depressione ed al suicidio, nonostante avesse tutte le carte in regola per entrare nella leggenda.

E il maestro ci racconta in realtà per filo e per segno il suo metodo educativo per riuscire veramente a tirare fuori dai suoi studenti il loro meglio, per riuscire a scovare la prossima promessa del jazz.

E, proprio per Nielsen, ci mette davanti ad un importante what if…

Se Fletcher non avesse fatto passare l’inferno al protagonista, se non l’avesse messo continuamente davanti alle sfide, all’umiliazione, e non l’avesse anche involontariamente portato a mettersi davvero alla prova, sarebbe veramente diventato un bravo batterista?

O sarebbe rimasto solo un mediocre musicista?

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Thelma & Louise – It’s a man’s world

Thelma & Louise (1991) di Ridley Scott è uno dei maggiori cult del genere road movie – e non solo.

Con un budget piuttosto contenuto – circa 16 milioni di dollari, circa 35 oggi – incassò piuttosto bene: 45 milioni di dollari – circa 100 oggi.

Di cosa parla Thelma & Louise?

Louise e Thelma sono due amiche con gusti e personalità molto diverse, che partono per un viaggio apparentemente innocuo, ma che in realtà cambierà la loro vita per sempre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Thelma & Louise?

Assolutamente sì.

Thelma & Louise non è solo un incredibile cult, nonché uno dei migliori road movie mai realizzati, ma è anche un’interessantissima riflessione sul ruolo del femminile in un mondo dominato dalla presenza maschile.

Una storia di ribellione, di ricerca della libertà, di scoperta di sé stessi, con una regia ottima e due attrici con un’alchimia incredibile, per una storia che unisce il drammatico e il comico in un incontro perfetto…

L’inizio della fine

Fin dall’inizio Thelma & Louise mostra le sue ombre.

Nonostante il viaggio in macchina sembri un appuntamento molto divertente e spensierato, in realtà diversi elementi in scena raccontano altro: la telefonata con il manager del ristorante che infastidisce Thelma – anche se in maniera innocua – la pistola nella valigia e Louise che dice all’amica:

He’s gon’ kill you!

Ti ammazzerà!

Quindi fin dai primissimi minuti abbiamo tutto quello che dobbiamo sapere sulla vicenda: le protagoniste provengono da un contesto sociale opprimente e decidono di fuggire, apparentemente ridendoci sopra, in realtà ben consapevoli della loro situazione.

In particolare è piuttosto indicativa la frase di cui sopra: anche se Louise ci scherza, è quantomai probabile che il marito di Thelma potrebbe quantomeno farle violenza per avergli disubbedito.

Gli uomini sbagliati

Il rapporto di Thelma con gli uomini è il più drammatico.

Probabilmente spinta dal proprio contesto sociale ad accasarsi e ricoprire il ruolo canonico della casalinga sottomessa, Thelma è finita sotto il controllo di un uomo tossico, unicamente interessato a lei come soprammobile da tenere in bella mostra in casa.

Ma, anche cercando si sfuggire al suo terribile matrimonio e alla sua insoddisfazione sessuale, la donna viene costantemente punita – e secondo le stesse dinamiche: Harlan la corteggia in maniera apparentemente molto lusinghiera, cerca di possederla sessualmente in maniera apparentemente innocua…

…ma, appena Thelma si rivela per non essere una semplice bambolina da possedere a proprio piacimento, ma un essere pensante capace di reagire e persino alzare le mani, tutto cambia.

Lo stupro infatti in questo caso non è spinto da un effettivo desiderio sessuale, ma più che altro dalla volontà di sottomettere nuovamente questa donna ribelle.

Louise, anche se non è detto esplicitamente, è stata vittima di stupro.

E, per quanto sia comunque più matura e apparentemente irremovibile dell’amica, vive anch’essa una situazione sentimentale non del tutto positiva: anche se in chiave minore, Jimmy è potenzialmente violento, tossico, e cerca di relegarla all’ambito matrimoniale.

E, proprio per il passato che si porta dietro, Louise è la prima a reagire, è la prima ad usare la pistola anche se era inizialmente contraria ad averla con sé, è la prima a rispondere con la violenza ad una violenza irreparabile.

Da che parte stiamo?

Se ci aspetteremmo inizialmente che la più combattiva fosse Louise, in realtà è Thelma a vivere la ribellione più radicale.

Dopo essere stata per l’ennesima volta tradita ed umiliata da un uomo – questa volta dal punto di vista economico – perde totalmente e gradualmente il controllo: rapina un negozio, distrugge un camion…

Davanti a questa irrefrenabile climax, il film ci mette sempre più davanti ad un dilemma etico:

Da che parte stiamo?

Non esiste una risposta giusta.

Thelma & Louise racconta la storia di due donne che hanno preso consapevolezza della loro condizione sociale: vivere in un mondo di uomini, in cui sono costantemente punite, umiliate, non credute, messe in secondo piano.

E per questo hanno scelto di ribellarsi, in maniera anche molto violenta, non facendosi problemi ad uccidere, distruggere, punire in maniera sempre più spettacolare e sfacciata quegli uomini che – anche se in modi diversi – le hanno tormentate per tutta la vita.

Ma potremmo d’altronde stare dalla parte di questi personaggi maschili così irrispettosi, violenti e distruttivi?

Senza via d’uscita?

L’ago della bilancia di questa situazione è Hal, il poliziotto.

Un personaggio che rappresenta il lato più positivo della mascolinità: un uomo consapevole ed aperto al dialogo, che comprende i drammi e i motivi delle azioni delle protagoniste, e per questo cerca in ogni modo di farle desistere dai loro folli piani.

Quindi, di fatto, Thelma e Louise hanno sempre una via d’uscita: possono gettare le armi e accettare le responsabilità delle loro azioni, accettare di farsi punire…ma anche tornare in una realtà sociale che non possono più sopportare.

E allora, mentre Hal si slancia disperatamente per fermarle, le due invece si lanciano verso la loro distruzione: un messaggio politico forte e irreversibile, che racconta un’esasperazione sociale che non può più essere sopportata, e che porta ad un finale dolce amaro.

Le nostre eroine sono morte, ma sono morte come donne libere.

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Westworld – La vacanza perfetta

Westworld (1973) di Michael Crichton è uno dei film di fantascienza più di culto degli Anni Settanta, precursore di tematiche e dinamiche che saranno poi riprese in cult successivi come Jurassic Park (1993) e Terminator (1984).

La storia godette di un sequel e di due serie tv, la più recente del 2016.

A fronte di un budget veramente ridotto – appena 1,2 milioni di dollari, circa 8 milioni oggi – incassò piuttosto bene: 10 milioni in tutto il mondo – circa 68 oggi.

Di cosa parla Westworld?

In un futuristico 1983, Peter e John visitano un parco a tema unico al mondo: i personaggi al loro interno non sono figuranti, ma robot dalle sembianze umane, apparentemente molto docili…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena vedere Westworld?

Richard Benjamin in una scena di Westworld (1973) di Michael Crichton

Assolutamente sì.

In Westworld troviamo una fantascienza semplice, lineare, che lascia volutamente spazio al mistero e al dubbio, che preferisce raccontare per immagini e per atmosfere, piuttosto che sprecarsi in utili spiegoni.

Un misto fra comico e horror con effetti di montaggio quasi grotteschi, con un senso di angoscia che comincia lentamente a serpeggiare all’interno della pellicola, rivelando a poco a poco la sua trama…

Un inizio rilassato

Yul Brynner in una scena di Westworld (1973) di Michael Crichton

La pellicola si apre in maniera abbastanza simile alla serie omonima.

Dopo un incipit che sembra uno spot pubblicitario – in realtà perfettamente calzante per dare una contestualizzazione allo spettatore – incontriamo i due protagonisti – se così vogliamo chiamarli – in arrivo al parco.

Ci troviamo subito all’interno di un’atmosfera apparentemente rilassata, in cui la coppia di amici comincia ad ambientarsi nel parco, pur con qualche elemento che ci svela quello che succederà – come il colpo di pistola…

Ma l’indizio visivo più evidente appare quando siamo ormai ad un terzo del film: la bella ragazza androide con cui Peter si è intrattenuto a sua insaputa tiene lo sguardo fisso nel vuoto, con gli occhi che le luccicano in maniera sinistra…

Dietro le quinte

Yul Brynner in una scena di Westworld (1973) di Michael Crichton

We aren’t dealing with ordinary machines here

Non stiamo parlando di semplici robot

Un piccolo incidente ci porta dietro le quinte del parco.

Osserviamo i tecnici che armeggiano sui corpi degli androidi, che aprono e chiudono a piacimento, svelando l’intrico di cavi che stride così fortemente con quei volti così apparentemente e perfettamente umani…

E così veniamo messi al corrente di una terrificante rivelazione: queste macchine sono molto meno docili e molto più imprevedibili di quanto si possa pensare. E, ancora peggio, un virus sembra causare diversi malfunzionamenti, e non sempre risolvibili…

La rivolta incontrollabile

Richard Benjamin in una scena di Westworld (1973) di Michael Crichton

Il fuoco del malfunzionamento, della rivolta è inarrestabile.

Si comincia dalle piccole cose, da siparietti apparentemente innocenti: la coppia di amici nel deserto che viene attaccata da un serpente a sonagli, la ragazza di corte che si rifiuta di cedere alla avance di uno degli ospiti…

…e lo stesso viene trafitto dal Cavaliere Nero.

Come per l’ospite appena ucciso, i due protagonisti si risvegliano totalmente ignari della situazione, e decidono di stare al gioco con l’inquietante pistolero, sicuri di poterla avere vinta con facilità.

E così uno dei due viene ucciso.

…e allora il silenzio

Yul Brynner in una scena di Westworld (1973) di Michael Crichton

Nell’ultimo atto il tema della macchina incontrollabile si mostra in tutta la sua tragicità.

In scena cala un drammatico silenzio: Peter e il Pistolero sono le ultime pedine rimaste in gioco, destinate allo scontro determinante fra il creatore e la sua creazione.

L’ultimo uomo è tampinato come un animale negli oscuri corridoi sotterranei, incapace di avere la meglio sulla macchina inarrestabile.

Ma, sul finale, per un momento sembra essere vittorioso…

Yul Brynner in una scena di Westworld (1973) di Michael Crichton

Per un attimo Peter sembra tornare nel mondo reale, nel mondo degli uomini, trovando una ragazza incatenata che sente di voler salvare, quasi come un premio per l’impresa appena compiuta, concedendole la pietà di un sorso d’acqua…

E invece la reazione della donna ne rivela la vera natura, prima che il Pistolero, totalmente spogliato di ogni aspetto umano, si fiondi ancora su di Peter, mentre il volto gli si schiude e rivela la fredda verità che il protagonista pensava di aver scampato:

Questo è il mondo dei robot.

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I segreti di Brokeback Mountain – Il paradiso può attendere

I segreti di Brokeback Mountain (2005) di Ang Lee è uno dei maggiori film cult del cinema queer, incredibilmente avanguardistico nelle tematiche e nella rappresentazione, tanto da ricevere molte critiche e censure nel tempo…

Fu anche un grande successo commerciale: a fronte di un budget veramente ridotto – appena 14 milioni di dollari – incassò 178 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla I segreti di Brokeback Mountain?

Wyoming, 1963. Ennis e Jack sono due giovani cowboy che vengono reclutati per un lavoro durante l’estate. Solo l’inizio di una grande storia d’amore…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere I segreti di Brokeback Mountain?

Heath Ledger in una scena di I segreti di Brokeback Mountain (2005) di Ang Lee

Assolutamente sì.

I segreti di Brokeback Mountain è un cult non per caso: nel lontano 2005 – e francamente anche oggi – era veramente difficile, se non impossibile, trovare un prodotto così ben diretto, sincero e profondo su un dramma romantico con protagonisti queer.

Oltre alle due ottime prove attoriali dei due interpreti protagonisti, sono rimasta davvero colpita dalla genuinità con cui è stata raccontata la loro relazione, senza mai sbilanciarsi né nel dramma né nella sdolcinatezza.

Insomma, da recuperare.

Un amore improvviso

Heath Ledger e Jake Gyllenhaal in una scena di I segreti di Brokeback Mountain (2005) di Ang Lee

Il primo atto è dominato dal silenzio.

Iniziamo lentamente a conoscere i caratteri dei personaggi: Ennis, apparentemente chiuso e silenzioso, Jack intraprendente e chiacchierone. E niente all’inizio porterebbe a pensare allo sbocciare di una relazione fra due uomini così diversi…

Lo scoppio della scintilla avviene all’improvviso, in una serata di ubriachezza che fa da prologo all’inevitabile incontro sessuale: un primo approccio incredibilmente violento, da parte del personaggio più inaspettatamente passionale…

Heath Ledger in una scena di I segreti di Brokeback Mountain (2005) di Ang Lee

Ma già così troviamo tutti gli elementi di forza di I segreti di Brokeback Mountain.

I protagonisti non sono per nulla stereotipati, ma sono due giovani uomini con una vita piuttosto comune, che probabilmente prima di quel momento non avevano mai potuto provare ad esplorare questo lato della loro sessualità.

E il loro rapporto alterna fra il profondo affetto e la più smaccata violenza, dettata da un contrasto, un dramma interiore irrisolto – soprattutto da parte di Ennis – del tutto consapevole della vergogna, della condanna sociale che accompagna inevitabilmente la loro relazione.

Una rappresentazione drammatica quanto terribilmente verosimile.

La vita va avanti?

Heath Ledger e Michelle Williams in una scena di I segreti di Brokeback Mountain (2005) di Ang Lee

Altrettanto verosimile è come i due non possano fuggire dai loro obblighi sociali.

Inevitabilmente entrambi si trovano delle mogli e si costruiscono una famiglia: questo aspetto è incredibilmente realistico, ma mai drammatizzato in maniera eccessiva, come purtroppo accade troppo spesso in prodotti analoghi.

Jake Gyllenhaal in una scena di I segreti di Brokeback Mountain (2005) di Ang Lee

Nonostante infatti i due abbiano una relazione queer, non vengono mai mostrati come incapaci di vivere al di fuori di essa, né vengono umiliati in rappresentazioni che li mostrino impotenti e incapaci con le loro compagne.

Ho preferito questa rappresentazione più sfumata della loro sessualità, che non li costringesse all’interno di un ruolo, ma che aprisse potenziali strade: anche se i due hanno una relazione omosessuale, non significa che siano per forza gay.

E, di fatto, non è neanche importante saperlo.

La paura costante

Tuttavia, appare anche evidente il contrasto, soprattutto nel caso di Ennis, fra lo squallore della vita domestica e la bellezza degli immensi spazi aperti in cui possono rifugiarsi per vivere la loro relazione, il paradiso impossibile dove vorrebbero sempre tornare.

Una relazione incredibilmente passionale, che sfocia ora in un’attrazione irresistibile, ora in una violenza spropositata, sia fra di loro, sia quando Ennis viene minacciato di essere smascherato…

Heath Ledger e Michelle Williams in una scena di I segreti di Brokeback Mountain (2005) di Ang Lee

Quella di Ennis è infatti una paura costante, che si trascina fino agli ultimi momenti della pellicola, del tutto in contrasto invece con l’intraprendenza di Jack, che gode anche di una posizione economica che gli permette di vivere più serenamente.

E così la possibilità di non vivere la loro relazione nell’ombra, e non solo in momenti rubati alla più monotona quotidianità, appare del tutto impossibile e irrealizzabile, portando Jack a cercare la compagnia di altri uomini, con comportamenti condannati persino dal compagno…

Un giusto finale

Heath Ledger in una scena di I segreti di Brokeback Mountain (2005) di Ang Lee

Per quanto il finale sia devastante, è l’unico che poteva accadere.

Si è scelto di andare fino in fondo a raccontare il dramma inevitabile che i due protagonisti devono vivere nel corso di vent’anni di vita, perché – purtroppo – sarebbe stato del tutto irrealistico – e anche poco rispettoso – raccontarlo diversamente.

Così anche da morto Jack viene ricondotto al contesto sociale più controllato e accettabile: essere sepolto nel cimitero di famiglia, come marito e figlio fedele, nascondendo sotto al tappeto tutto il resto, in particolare il significato di Brokeback Mountain…

Allo stesso modo Ennis resta per tutti uno sconosciuto, non più che un vecchio amico del defunto, potendo solo conservare un ricordo insignificante di quell’amore impossibile, potendo solo soffrire in silenzio…

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Shrek – Lo schiaffo dovuto

Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson è uno dei titoli più cult dell’animazione del nuovo millennio, una delle prime prove di animazione 3D della Dreamworks.

Non a caso, fu un successo incredibile: a fronte di 60 milioni di budget, incassò ben 484 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Shrek?

Shrek è un orco che vive in una serena solitudine in un mondo favolistico. Ma un nuovo decreto di Lord Farquaad metterà a rischio la sua isola felice…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Shrek?

Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

C’è da chiederlo?

Shrek è un cult non per caso, anche solo per l’importanza storica che ebbe per l’animazione: un approccio davvero rivoluzionario, con un protagonista totalmente fuori dagli schemi che il pubblico aveva visto fino a quel momento.

Fra l’altro, una pellicola dalla durata veramente limitata, ma che riesce perfettamente a bilanciare i tempi e raccontare tematiche di inedita profondità pur con un minutaggio ridotto.

Insomma, cosa state aspettando?

Meglio vedere Shrek in originale o in italiano

Meglio vedere Shrek doppiato o in originale?

Secondo me, entrambi.

Il doppiaggio italiano di Shrek è uno dei migliori di quegli anni, in particolare nel suo riuscire a rigirare frasi o termini fondamentalmente intraducibili con trovate assolutamente geniali e iconiche.

Fra queste, le più celebri sono sicuramente le scapolottine e l’uomo focaccina.

Tuttavia, se l’avete sempre visto in italiano, magari perché ci siete cresciuti, vi consiglio di provare a guardarlo in originale: il doppiaggio anche in quel caso è davvero ottimo, forte di un voice cast veramente pazzesco.

Lo schiaffo (dovuto)

Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

L’incipit di Shrek ha fatto la storia dell’animazione.

Sostanzialmente è la Dreamworks che prende sessanta e più anni di storia Disney e la distrugge, la deride, la usa come carta igienica – per non dire altro…

Così vediamo per la prima volta un protagonista animato che non è immediatamente positivo, anzi è a tratti veramente disgustoso per tutta la sequenza iniziale, con la sua iconica quanto sconvolgente routine mattutina.

Per non parlare di come vengano messi al bando i personaggi più iconici della concorrenza: da Geppetto che vende Pinocchio per due soldi a Peter con Trilli chiusa in gabbia, è tutto un programma…

Fra tradizione e modernità

Farquaad in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

L’altro elemento di grande novità lo vediamo chiaramente nella scena di introduzione di Farquaad.

L’interrogatorio, la tortura fisica che in altri contesti sarebbe disturbante, diventa una gustosissima miscela fra favola e modernità, con anche Farquaad che cestina Zenzy in un cestino di metallo che sembra veramente preso da uno scaffale dell’IKEA.

Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

Ancora più geniale l’iconica scena delle scapolottine con lo Specchio: la scelta della moglie diventa un programma televisivo con il voto da casa, a raccontare anche tutta la misoginia e pochezza del villain.

Ma probabilmente il picco è Duloc, che di fatto non è altro che un’evidentissima presa in giro di Disneyland: dalla fila con il tempo di attesa, ai tornelli all’ingresso, alla mascotte con la faccia di Farquaad…

Tutto così fuori luogo e improbabile, ma in realtà semplicemente geniale.

La metafora della cipolla

Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

La metafora della cipolla ci racconta già tutto su Shrek.

La cipolla puzza, fa piangere, ma è anche un alimento essenziale e composto da diversi strati, che nascondono altro rispetto a quanto appaia all’esterno.

E non si può addolcire la cipolla

Infatti, nonostante Ciuchino cerchi di mutare la metafora di Shrek, provando a paragonare gli orchi prima ad una torta, poi alle lasagne, ovvero cibi che piacciono a tutti, Shrek non ci sta.

Infatti, il protagonista non vuole assolutamente illudersi: proprio per la sua natura, è consapevole di non poter essere una persona che piace a tutti, quindi preferisce essere apprezzato per altro, ovvero quello che è meno evidente all’esterno.

E, per motivi diversi, trova due compagni che lo apprezzano proprio per questo: Ciuchino e, soprattutto, Fiona.

Il dramma di Fiona

Fiona in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

Fiona è uno dei più interessanti personaggi femminili portati in un prodotto di animazione.

Il suo dramma si scopre a poco a poco, ed è molto meno superficiale della semplice maledizione, ma piuttosto derivante dalle pressioni sociali per un certo tipo di comportamento che gli altri si aspettano da lei.

Fiona è una principessa, quindi deve comportarsi come tale, lasciandosi ubriacare ed illudere dalle promesse del vero amore che l’avrebbe portato ad un fantastico lieto fine – una ricompensa davanti ad una vita di reclusione sia fisica che mentale…

Fiona in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

In realtà, Fiona è aguzzina di sé stessa.

Come scopriamo durante la visione, Fiona non è per nulla la classica principessa illibata e ingenua, ma è anzi abile, piuttosto furba, e piena di risorse e capacità – fra cui il sapersi proteggere da sola.

Per cui appare evidente che la ragazza avrebbe potuto senza troppi problemi scappare dalla torre in cui era stata rinchiusa, ma ha costretto sé stessa a restarci proprio per seguire il preciso percorso da principessa da salvare a cui è stata indottrinata.

Quindi la maledizione è solo la punta dell’iceberg, una rappresentazione materiale di quello che Fiona realmente è – e non solamente perché è un’orchessa, ma perché non corrisponde allo stereotipo della donna in pericolo fino a quel momento proposto nella maggior parte dell’animazione.

L’amore con poco

Fiona e Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

Shrek è proprio la rappresentazione di come dei buoni sceneggiatori siano capaci di raccontare un rapporto efficace anche con poco tempo a disposizione.

Nonostante il minutaggio limitato, la costruzione dell’innamoramento funziona perfettamente.

Tanto più che di fatto Shrek e Fiona si salvano a vicenda: Fiona capisce che può essere sé stessa e trova qualcuno che la ama per questo – e non solo in quanto orchessa, perché Shrek si innamora di lei vedendola umana.

Al contempo, Shrek grazie a Fiona capisce che, per la cattiveria subita per tutta la sua vita, si è troppo chiuso in sé stesso, con la conseguenza di giudicare gli altri con la stessa superficialità a cui si sente condannato…

Un vero amico

Ciuchino e Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

Ma l’effettiva consapevolezza viene da Ciuchino.

L’asino parlante è un personaggio incredibilmente positivo e funzionale, perché riesce veramente a far aprire Shrek alla possibilità di essere qualcos’altro rispetto all’orco odiato da tutti, al reietto sociale – in una auto reclusione non dissimile da quella di Fiona.

In primo luogo, dimostrando di essere qualcuno che non si lascia frenare dalla prima impressione, non scappando a gambe levate appena vede un orco, anzi seguendolo e cercando di diventare suo amico.

E così, pur con tutti i muri che Shrek mette fra di loro, Ciuchino riesce a scuotere il protagonista e portarlo al suo lieto fine, diventando di fatto l’imprescindibile motore dell’azione sul finale.

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Shrek 2 – Ti presento i miei

Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon è il sequel di uno dei titoli animati più di cult dell’inizio Anni Duemila.

Un successo commerciale veramente grandioso, che confermò il culto che si era già al tempo formato intorno al brand: con un budget di circa 150 milioni, incassò quasi un miliardo.

Di cosa parla Shrek 2?

Poco dopo il matrimonio, Shrek e Fiona tornano alla palude, ma una sorpresa è lì ad aspettarli…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Shrek 2?

Shrek in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

Ovviamente sì.

Shrek 2 è la conferma del successo del brand, e anche la sua maturazione, dove il misto fra fiaba e modernità è definitivamente scatenato, con delle trovate veramente incredibili e geniali.

Inoltre, racconta un’ulteriore, quanto essenziale, maturazione di Shrek e del suo rapporto con Fiona, forte di un primo capitolo che ha posto delle basi molto solide per la relazione fra i due protagonisti, così da poter esplorare nuove strade nel suo seguito.

Insomma, non potete perdervelo.

Innamorarsi ancora

Shrek e Fiona in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

La sequenza del viaggio di nozze di Fiona e Shrek riesce al contempo a rinsaldare il rapporto fra i due – che sarà al centro della vicenda – sia ad essere meravigliosamente ironico.

In questo caso, con delle sequenze di pura cattiveria – in particolare quella con la Sirenetta – ma anche davvero esilaranti, come il quadretto idilliaco dei due sposini che corrono nel campo inseguiti dalle folle inferocite.

E funziona proprio grazie al primo film.

Infatti, dal momento che avevo trovato così convincente la costruzione del rapporto fra i protagonisti nella pellicola precedente, sono riuscita davvero ad innamorarmi di nuovo della loro relazione – ed era essenziale che fosse così.

Di nuovo Disneyland?

Una delle parti per me più convincenti in Shrek (2001) era Duloc.

E per questo Molto molto lontano è ancora più geniale.

Una rappresentazione che riesce a riscrivere nuovamente la fiaba e incasellarla in un preciso contesto moderno e commerciale come quello di Hollywood, grazie anche ad un’introduzione veramente perfetta nella sequenza di arrivo.

Così le principesse delle fiabe diventano le star del cinema – pur essendo introdotte effettivamente solo nel prossimo film – le taverne diventano fast-food e i balli reali sono niente di meno dei red carpet.

E il tutto senza alcuna sbavatura.

Ti presento i miei

Harold in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

Tutta la sequenza di incontro con i genitori è indubbiamente ispirata a quel piccolo – quanto recente al tempo – cult di Ti presento i miei (2000).

E funziona ottimamente.

I veri protagonisti della storia, di fatto, sono Shrek e Harold: entrambi compiono un percorso con motivazioni simili – riuscire a rimettersi in discussione – e di fatto il padre di Fiona rivede sé stesso nell’odiato marito della figlia.

Non a caso Harold si è piegato veramente a fare qualunque cosa pur di superare quell’aspetto che, ne era certo, l’avrebbe reso un emarginato sociale, senza poter mai raggiungere lo status – e la relazione – tanto agognato.

Da parte sua Shrek è nuovamente messo davanti alle sue paure, dopo averle temporaneamente superate grazie al rapporto con Fiona: di nuovo i forconi, di nuovo il disprezzo, di nuovo il sentirsi fuori posto.

Il femminile secondario

Fiona in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

Rivedendo Shrek 2 mi sono resa conto di quanto i personaggi femminili positivi siano di fatto secondari.

Eppure, sono assolutamente essenziali.

Il ruolo più appartato, almeno sulle prime, è quello di Lillian: per tutto il tempo cerca di riportare alla ragione il marito, tentando di assumere immediatamente un ruolo conciliante fra le parti.

Al contempo Fiona, nonostante sia poco presente in scena, rappresenta, come la madre, il punto di arrivo dell’eroe maschile, riuscendo di fatto a portare ad una interessante chiusura della storia proprio grazie alla maturazione che ha vissuto nel primo film.

Infatti, la Fiona che troviamo in questo secondo capitolo non è più la principessa che viveva nel sogno del Principe Azzurro, ma è una donna che è finalmente maturata e che ha compreso quanto la bellezza sia di fatto secondaria rispetto all’interno di un rapporto duraturo.

Distruggere la fiaba

Fiona e la Fata Madrina in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

La distruzione dei topoi della fiaba in Shrek 2 è definitiva.

Di fatto si rompe quella sorta di patto narrativo per cui dovremmo credere all’amore a prima vista, all’amore predestinato, riducendo il tutto ad una transazione commerciale.

E così il salvataggio di Fiona non era altro che un matrimonio combinato.

Per questo il personaggio della Fata Madrina è così tanto interessante: va a colpire la Disney ancora sul vivo, distruggendo un caposaldo della fiaba, da sempre rappresentante della maternità e della cura.

In questo caso invece il suo personaggio è di fatto il motore dell’azione, l’abile villain che tira i fili nell’ombra, grazie al potere di poter dettare le regole e sconvolgere a suo piacimento le sorti dei personaggi.

Il principe nell’ombra

Azzurro in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

La rappresentazione del Principe Azzurro è sottilmente geniale.

Shrek 2 gioca abilmente sul fatto che questo principe non sia un eroe qualunque che si identifica sotto questo topos narrativo, ma proprio un uomo che si chiama Azzurro.

Di conseguenza, il destino di Fiona era già scritto senza che se ne rendesse conto, proprio giocando su questa ambiguità del nome. E, per l’appunto, nessuno tranne Harold e la Fata Madrina conosce effettivamente il personaggio.

Azzurro in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

E, incredibilmente, Shrek 2 è riuscito a dare tridimensionalità ad un personaggio spesso totalmente vuoto.

Infatti, soprattutto se si guarda alla Disney dei primi tempi, l’eroe maschile era anche più insipido della protagonista femminile. In questo senso, Azzurro mi ha ricordato una sorta di Flynn di Rapunzel (2010) – in senso negativo, ovviamente.

Così, proprio per la sua posizione e bellezza, Azzurro è incredibilmente vanesio e pieno di sé stesso, anche opportunamente viziato dalla madre, raggiungendo una maturazione da villain solo nel film successivo.

Shrek, tocca a te!

Shrek e Fiona in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

Il motore dell’azione per il viaggio di Shrek è di fatto la sua consapevolezza del debito nei confronti di Fiona.

Infatti, come lei stessa gli ricorda, la moglie ha fatto diversi e importanti sacrifici – la sua posizione sociale, il suo aspetto – per amore di Shrek. E invece il marito si è mostrato del tutto egoista nel fare un passo avanti nei suoi confronti.

Al punto che Shrek arriva a rinunciare alla sua stessa identità – o così sembra – pur di poter garantire a Fiona una vita effettivamente felice – o almeno quella che potrebbe sembrare apparentemente tale.

Tuttavia, proprio per questo il punto di arrivo di Shrek e Harold è il medesimo: entrambi si rendono conto che gli sforzi che hanno fatto verso le loro compagne non era tanto importanti di per sé, ma per quello che hanno in questo modo dimostrato.

Doris Shrek 2

Non voglio arrivare a giudicare con i parametri odierni un film del 2004, ma la presenza del personaggio di Doris mi offre inevitabilmente uno spunto di riflessione.

La sorellastra è una rappresentazione poco chiara, ma sicuramente molto stereotipata, di una drag queen, ma più che altro una donna transgender – non a caso è doppiata da un uomo.

Doris in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

Molte delle battute girano intorno al suo essere poco attraente, quasi repellente – anche dovuta dalla sua natura – in maniera abbastanza sciocca, ma sicuramente molto coerente con lo spirito del periodo.

E mi stupisce vedere una rappresentazione di questo tipo all’interno di un film che promuove così evidentemente la diversità, la bellezza interiore e lo sradicare i ruoli sociali.

Ma era il 2004, appunto.

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Moonrise Kingdom – Una piccola storia di crescita

Moonrise Kingdom (2012) è un titolo un po’ meno noto di Wes Anderson, l’ultimo uscito prima del suo grande successo, Grand Budapest Hotel (2013).

Con un budget piuttosto contenuto – 16 milioni di dollari – incassò tutto sommato abbastanza bene: circa 68 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Moonrise Kingdom?

Isola di New Penzance, New England, 1965. Sam è un giovanissimo scout che decide di organizzare una fuga d’amore insieme all’amata Suzy…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Moonrise Kingdom?

Kara Hayward in una scena di Moonrise Kingdom (2012) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Moonrise Kingdom è uno dei prodotti più riusciti dell’opera di Wes Anderson, che per certi versi mi ricorda un altro cult della sua produzione, The Royal Tanenbaums (2001), in particolare nei personaggi protagonisti.

Una storia di crescita, dei primi amori, raccontata con particolare delicatezza, ma senza cercare di edulcorare il racconto, anzi regalando un’inedita importanza ai sentimenti dei giovanissimi protagonisti nella loro fuga d’amore.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Bloccati

Jared Gilman in una scena di Moonrise Kingdom (2012) di Wes Anderson

Nell’incipit scopriamo il vero motivo della partenza dei protagonisti.

Entrambi si trovano bloccati in uno status quo che non apprezzano: Sam, nonostante abbia imparato molto dagli scout e continui a vestire i loro simboli, si sente intrappolato in un contesto dove non viene apprezzato, anzi dove è odiato senza motivo.

Al contempo Suzy si trova in una realtà familiare che perlopiù la annoia, anche per la grande maturità che dimostra, già solo scoprendo il tradimento della madre e tenendoselo dentro per moltissimo tempo.

E allora è ora di partire.

Si parte!

Quando il film comincia, anche il viaggio è già iniziato.

E pezzo per pezzo ricostruiamo l’antefatto del loro viaggio, in particolare nel bellissimo montaggio dedicato al loro scambio di lettere, che ci racconta come il loro rapporto si sia consolidato nel tempo, nel loro ritrovarsi come due animi affini…

Nel loro viaggio, Suzy e Sam portano sé stessi.

Sam sembra l’unico ad essersi preparato per questa avventura, anche troppo: il ragazzino non abbandona mai veramente la sua identità di scout, nonostante si sia ritirato, in particolare nel sacrificio verso gli altri, aiutando costantemente la sua compagna di viaggio.

Jared Gilman e Kara Hayward in una scena di Moonrise Kingdom (2012) di Wes Anderson

Al contempo Suzy sembra incredibilmente imparata: si porta dietro troppi oggetti, molti anche assolutamente inutili o eccessivi nella loro quantità: una valigia piena di libri, una cesta con dentro un gattino…

Queste valigie rappresentano in realtà le loro identità, i loro bagagli emotivi che tengono ancora sulle spalle, anche se sono ormai pronti a scoprire qualcosa di nuovo: l’amore, i primi pruriti sessuali, l’indipendenza dagli adulti.

Impossibile fuggire?

Anche se il loro viaggio sembra destinato a finire prematuramente, anche se sembra che gli adulti cerchino di nuovo di domare le loro indoli ribelli e riportarli ai loro ruoli, di fatto sottovalutano l’energia dei protagonisti.

Ma, soprattutto, avviene l’inaspettato.

Questi due outsider riescono a proseguire il loro viaggio grazie agli amici che si fanno lungo la strada, grazie a degli improbabili alleati che, davanti ad un destino fin troppo drammatico di Sam, passano da essere cacciatori a diventare loro complici.

E quando sembra che abbiamo raggiunto il picco drammatico, quando ormai sembra che non ci sia niente da fare, anche gli adulti, uno in particolare, diventa loro alleato: il povero poliziotto Sharp, che ha pena per il ragazzino e sceglie di adottarlo.

L’eterna fuga d’amore

Kara Hayward in una scena di Moonrise Kingdom (2012) di Wes Anderson

Il finale sembra ricomporre la situazione iniziale con poche differenze.

In realtà, tutto è cambiato.

Ora i due possono vivere più apertamente la loro relazione, senza doversi più nascondere, ma volendo comunque mantenere vivo quel senso di pericolo: motivo per cui Sam, invece per passare dalla porta, scappa come un ladro dalla finestra di Suzy.

E intanto il ragazzino ha anche trovato una nuova realtà in cui identificarsi, un nuovo mondo in cui esplorare la sua crescita: come parte della polizia locale – in maniera ironicamente paradossale visto il suo atteggiamento criminale.