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Star Wars: La vendetta dei Sith – Il riscatto

Star Wars: La vendetta dei Sith (2005) è il terzo capitolo della cosiddetta trilogia prequel, sempre scritto e diretto da George Lucas.

Dopo il drammatico calo di incassi del precedente capitolo, Episodio III riuscì a riconquistare parte del pubblico: con un budget di 113 milioni di dollari, ne incassò ben 868 milioni in tutto il mondo

Di cosa parla Star Wars: La vendetta dei Sith?

Tre anni dopo l’inizio della guerra dei Cloni, le forze separatiste rapiscono il Cancelliere Palpatine, e Obi-Wan e Anakin devono salvarlo. Ma niente è come sembra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena Star Wars: La vendetta dei Sith?

Yoda in una scena di Star Wars: La vendetta dei Sith (2005) di George Lucas

Con mia grande sorpresa, sì.

Personalmente considero La vendetta dei Sith il film migliore della trilogia prequel, che riesce complessivamente a trattare con intelligenza la costruzione del finale della trilogia, e a ricollegarlo coerentemente con i film successivi.

Ovviamente non mancano alcune forzature e momenti di puro ed ingenuo fanservice, ma il film si salva sia per un visibile miglioramento nella recitazione di Hayden Christensen, sia per diversi momenti assolutamente iconici.

Insomma, potreste rimanerne soddisfatti.

I tre anni fondamentali

Hayden Christensen e Ewan McGregor in una scena di Star Wars: La vendetta dei Sith (2005) di George Lucas

In questo capitolo conclusivo, finalmente sono riuscita ad apprezzare Anakin.

Il giovane Padawan non è più il personaggio totalmente immaturo e fortemente emotivo di Episodio II, ma uno Jedi ben più adulto e consapevole delle sue potenzialità.

Tuttavia, pur consapevole che il racconto dei tre anni fra questo film e il precedente è presente nella serie Clone Wars, durante la visione ho percepito ancora una volta un senso di vuoto.

Nonostante, infatti, come prodotto mi abbia soddisfatto, riguardandomi indietro avrei preferito una costruzione del tutto diversa della storia, che permettesse di arrivare ad un finale basato su solide fondamenta.

E questo si vede soprattutto nel punto focale della narrazione…

Una costruzione forzata?

Hayden Christensen e Natalie Portman in una scena di Star Wars: La vendetta dei Sith (2005) di George Lucas

Una critica spesso mossa nei confronti di questo film è la conversione fin troppo fulminea di Anakin al lato oscuro.

Io mi trovo in una posizione di mezzo.

Sicuramente la trasformazione del protagonista poteva essere costruita decisamente meglio, ma le colpe sono da attribuire principalmente ai film precedenti: nei primi due capitoli mancano basi ben più solide che raccontino non tanto il carattere turbolento di Anakin, ma il suo rapporto con Palpatine.

Hayden Christensen e Natalie Portman in una scena di Star Wars: La vendetta dei Sith (2005) di George Lucas

In La vendetta dei Sith per questo si è dovuti partire quasi da zero per costruire la loro relazione, con Darth Sidious che comincia ad avvelenare la mente di Anakin, facendo leva non tanto sulla sete di potere del protagonista, ma sulla sua paura per il destino Padmé.

Ed è anche qui il problema.

La scelta di passare al lato oscuro di Anakin è basata per la maggior parte sul salvare la donna amata, peccato che il loro rapporto sia molto più secondario in questa pellicola e non sia stato costruito così profondamente nei precedenti capitoli.

E così manca un vero coinvolgimento emotivo al riguardo…

Una maggior organicità

Hayden Christensen e Ewan McGregor in una scena di Star Wars: La vendetta dei Sith (2005) di George Lucas

Finora mi era sempre mancata una buona gestione dell’elemento più iconico della saga di Star Wars, ovvero i combattimenti con le spade laser: solitamente gli stessi si perdevano all’interno del marasma della battaglia finale.

In questo caso invece sono presenti diversi duelli, ben distribuiti nel complesso della pellicola, con scene dal sapore epico e monumentale – aspetto che non sempre ho percepito nei primi due film.

Hayden Christensen in una scena di Star Wars: La vendetta dei Sith (2005) di George Lucas

Ovviamente, l’iconico duello fra Anakin e Obi-Wan è il punto più alto della pellicola.

Uno scontro in cui si percepisce davvero l’epicità e la monumentalità di questo momento storico, con l’avvincente cornice del pianeta lavico, che racconta già da solo la natura di Anakin e del lato oscuro: una potenza attraente, ma incredibilmente pericolosa.

Inoltre, per la prima volta mi è finalmente piaciuto il rapporto fra i due personaggi, che avevo invece trovato eccessivamente velenoso nei precedenti capitoli. Anche qui avrei preferito una migliore costruzione, che portasse davvero ad un doloroso momento di scontro, ma mi posso accontentare…

Trilogia prequel fanservice

Come per i precedenti capitoli, anche La vendetta dei Sith è un film schiavo del fanservice.

In questo caso però mi è sinceramente dispiaciuto vedere diversi momenti e diversi snodi narrativi che mancano di spiegazioni adeguate – o di spiegazioni in generale – lasciando diverse domande senza una risposta chiara.

Fra le tante, perché Padmé sceglie proprio quei nomi per i suoi figli? Qual è il senso dell’armatura di Anakin, così facilmente pronta all’occorrenza nel momento del bisogno?

Questioni di per sé non estremamente rilevanti, ma che sarebbero state ben più interessanti se spiegate adeguatamente…

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Il castello errante di Howl – Il gioco delle maschere

Il castello errante di Howl (2004) è uno dei miei prodotti preferiti di Miyazaki, nonché di uno dei progetti più ambiziosi del maestro nipponico.

A fronte di un budget non particolarmente sostanzioso – 2,4 miliardi di yen, circa 24 milioni dollari – fu un incredibile successo commerciale, incassando 236 milioni di dollari. In Italia uscì nel 2005 e in DVD nel 2006, il primo film Ghibli distribuito dalla Lucky Red.

Di cosa parla Il castello errante di Howl?

Sophie è una modesta cappellaia di paese, che sembra non voler abbandonare il negozio di famiglia. Ma la sua vita prenderà una via inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il castello errante di Howl?

Testa di rapa e Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Assolutamente sì.

Ammetto che dopo una recente revisione de Il castello errante di Howl l’avevo un po’ rivalutato in negativo, per via di alcuni snodi di trama che mi sembravano poco chiari e comprensibili.

In realtà, rivedendolo, mi sono resa conto che, comprendendo la chiave di lettura, tutto assume un senso.

Oltre a questo è un superbo film di avventura, con un world building paragonabile per bellezza solo a La città incantata (2001), ma che prende strade nuove e anche più importanti, pur con temi comuni.

Insomma, non ve lo potete perdere.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Il castello errante di Howl è incredibilmente basso.

Come detto, questo fu il primo film distribuito dalla Lucky Red e anche il primo doppiaggio dello Studio Ghibli curato da Cannarsi. Proprio perché era agli inizi e non aveva neanche tutto questo potere decisionale, fece un lavoro incredibilmente accettabile.

Ovviamente non mancano gli arcaismi, i dialoghi che suonano a tratti artificiosi, ma niente che vi porterà a voler abbandonare la visione.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

Un’origine modesta

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

L’incipit racconta anche solo visivamente il carattere della protagonista.

Una ragazza dall’aspetto e dai comportamenti molto riservati e modesti, che si scontra continuamente con il carattere e l’estetica molto più chiassosa delle altre donne della sua vita, soprattutto la madre e la sorella.

In particolare la sorella, ragazza piacente e corteggiata da molti uomini, si oppone all’idea della sorella maggiore di rimanere per sempre ancorata al suo nido paterno, per condurre una vita riservata e senza grandi sorprese.

Howl e Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Per questo l’incontro con Howl è così sconvolgente.

Il mago è infatti un personaggio emotivo e travolgente, che trascina improvvisamente Sophie nella sua vita. Una vita fatta di fughe e di colpi di scena, in cui la protagonista sembra costantemente di star partecipando ad un gioco di cui tutti conoscono le regole, tranne lei.

Ovviamente Sophie è subito – comprensibilmente – folgorata, ma si lascia anche abbastanza facilmente l’accaduto alle spalle.

Una nuova maschera

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Il primo incontro-scontro con la Strega delle Lande è tanto più determinante.

Sophie mostra abbastanza in fretta di non essere così tanto docile come potrebbe apparire, reagendo piuttosto fermamente alla scortesia della donna. Potrebbe sembrare che questo suo comportamento sia il motivo della maledizione…

…ma non è così.

La strega, così come Howl, è un personaggio sfacciato e pieno di se stesso, così altrettanto indifferente delle conseguenze delle proprie azioni. Per questo, avrebbe comunque punito Sophie per aver aiutato il suo nemico.

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

In realtà, questa maledizione è un’opportunità.

Sia in senso positivo che negativo.

In senso positivo, Sophie può cambiare vita: la protagonista non ci mette molto ad accettare la sua nuova condizione, e si rifugia in realtà abbastanza divertita dietro una serie di luoghi comuni e battute frizzanti che il suo nuovo aspetto le permette.

In senso negativo, Sophie ha una nuova maschera dietro cui nascondersi: anche se riesce comunque a mostrarsi più intraprendente e decisa nel suo agire, in qualche modo finisce per trovare anche un altro rifugio per il suo tanto agognato quieto vivere.

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Per questo, Sophie non è tanto diversa da Howl.

Con queste nuove vesti da vecchietta innocua ma decisa, si ritaglia il suo spazio nella vita del mago, senza arrendersi mai neanche davanti alle proteste degli altri personaggi.

Ma è ancora una volta un’apparenza dietro cui nascondersi, per celare tutta la sua insicurezza e paura, che non a caso emerge di tanto in tanto, anzitutto col primo (ri)incontro con Howl, mentre sta cucinando…

Una sfacciata apparenza

Howl in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Howl è un giovane favoloso.

All’apparenza è un uomo attraente e sicuro di sé, che si muove abilmente in tutte le situazioni della vita con anche una certa giocosità, fin dalla sua primissima apparizione quando si trova tampinato dagli sgherri della Strega delle Lande.

Questo aspetto viene ancora confermato, anche se in senso diverso, dalla sua attività segreta: scegliere di non allearsi per principio con il Re per combattere la guerra, ma boicottarla segretamente, mettendo in pericolo la sua stessa vita.

E proprio qui avviene il punto di svolta.

Howl in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Da un errore apparentemente innocuo – una tinta per capelli andata male – Howl svela la sua prima insicurezza.

L’ossessione per la bellezza esteriore.

Infatti basta questo piccolo ostacolo per farlo crollare in una profonda depressione, tale da annientarlo completamente e fisicamente, oltre a mettere in pericolo anche chi gli sta intorno. E in questo momento la sfuriata di Sophie è più fondamentale di quanto sembri…

Una svolta inaspettata

Howl in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Come un bambino imbronciato, Howl si chiude in camera sua.

Un contesto già in apparenza assai infantile – con molti giocattoli che ricordano quelli di Bō, il figlio di Yubaba, ne La città incantata – ancora più sottolineato dal suo non voler parlare e non accettare le cure di Sophie.

Tuttavia, Howl ha già imparato qualcosa.

Ha accettato almeno una parte del suo aspetto, scegliendo di non tingersi più – neanche successivamente – i capelli, ma mantenere il suo aspetto originale. Insomma, la sfuriata di Sophie contro la sua vanità incontrollata ha avuto un inaspettato effetto positivo.

Howl e Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Inoltre, da questo momento Howl comincia a fidarsi di Sophie.

Per quanto sia probabile che Howl abbia riconosciuto subito la ragazza appena se l’è trovata in casa, proprio la notte che torna dal combattimento la vede addormentata col suo vero aspetto, e così conferma il suo sospetto.

E per questo, consapevole della determinazione della protagonista, le affida una missione importante per riuscire ad affrontare faccia a faccia Madame Sullivan, non essendo capace lui stesso di fronteggiare le trappole della maga.

Howl e Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

E infatti, in un gioco delle parti piuttosto intraprendente, Howl entra nel luogo che aveva da così tanto tempo avuto paura di penetrare.

Sia lui che Sullivan sono fin da subito consapevoli di star giocando – Howl sa che Sullivan l’ha riconosciuto – ma è l’unico modo per cui il mago riesce finalmente a dire alla sua ex-maestra che non vuole prendere parte a questa guerra.

Ovviamente la maga non si arrende così facilmente, e cerca di insidiarlo con diverse e spaventose illusioni, in cui lui rischia inevitabilmente di soccombere, se non fosse ancora una volta per l’intervento di Sophie.

La lenta trasformazione

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

La prova del palazzo è un punto di svolta anche per Sophie.

È infatti il primo momento in cui la protagonista esprime apertamente i suoi sentimenti felici, che la fanno ritornare improvvisamente al suo vero aspetto. Aspetto che è per tutto il tempo sotto gli occhi di tutti, ma che lei è l’unica a non voler accettare.

Dal rientro al castello, Sophie comincia piano piano ad abbandonare la sua maschera, ringiovanendo lentamente, ma visibilmente:

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Da questo momento Howl comincia sempre di più a mostrare il suo amore e la sua riconoscenza verso la ragazza: non solo col trasloco le dà una stanza tutta per sé, ma con lo stesso ricrea la casa natale della protagonista.

Ma il picco è il rifugio nella natura.

Il mago le fa questo meraviglioso regalo, che la fa scoppiare di felicità, facendola ritornare improvvisamente al suo aspetto reale. Nella stessa occasione Sophie prova anche ad esternare le sue paure, e Howl le risponde con forza per rassicurarla, ma riuscendo solo a farla rinchiudere di nuovo in se stessa.

Sophie  e Howl in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Il momento effettivo è quando Sophie si rende conto delle intenzioni di Howl.

Quando infatti la protagonista accetta finalmente l’amore del mago, accetta di essere amata nonostante non sia bella, e quando altresì la paura la domina definitivamente, si ribella ai suoi stessi timori e prende in mano la situazione.

E ritorna definitivamente al suo aspetto.

Distruzione e costruzione

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Pur armata di grande determinazione sulle prime, Sophie è un personaggio umano, che quindi può sbagliare.

Anzitutto la protagonista accetta la sua vera forma, anzi sceglie di prenderne una nuova: regalare la sua treccia a Calcifer, e cambiando del tutto aspetto. Ed è anche il primo momento di distruzione di Howl, tramite il castello stesso, che rappresenta questa apparenza dietro a cui il mago continua a nascondersi.

Ma l’inseguimento non va a buon fine.

Howl in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Questo momento di apparente sconfitta – Sophie è convinta di aver ucciso Howl gettando l’acqua su Calcifer – in realtà è il momento della rivelazione. Grazie all’anello che l’amato le aveva regalato, la ragazza riesce a trovare Howl, scoprendo il suo segreto.

Sophie capisce così come salvare il mago da se stesso, ridonandogli quella vera natura che ha cercato di fuggire per tutta la vita – ovvero il suo cuore. E Howl è ancora più felice quando vede Sophie nella sua splendida, migliore forma.

La strega delle lande spiegazione

Nel terzo atto, le azioni della Strega delle Lande e Heel, il cane di Madame Sullivan sono apparentemente incomprensibili.

In realtà, sono facilmente spiegabili.

La Strega delle Lande ha vissuto tutta la vita con un solo obbiettivo: possedere Howl – le interpretazioni sul come vuole possederlo le lascio alla vostra immaginazione.

E neanche quando è privata dei suoi poteri, non si arrende.

Cerca infatti giocosamente di boicottare Howl, in modo da indebolirlo e potersene impossessare. Per questo dà in pasto l’insetto spione a Calcifer – che viene annientato e non può più proteggere la casa.

Infatti per questo il castello viene preso di mira, portando Howl a tornare e ad intestardirsi nel difenderlo, ma essendo anche in costante difficoltà.

E infatti alla fine riesce a prendere possesso del cuore.

Strega delle lande il castello errante di Howl

Perché Howl non la caccia?

Ci possono essere varie motivazioni, ma una in particolare è la più comprensibile: come Chihiro in La città incantata, Howl ha la capacità di vedere la vera natura delle persone – e non solo.

Per questo si rende conto che la Strega, ormai senza poteri, non può fargli del male e che non ha neanche effettive cattive intenzioni: è semplicemente ossessionata, ma anche pronta ad arrendersi per il bene di Howl stesso.

Heel il castello errante di Howl

Heel in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Per lo stesso motivo, Howl non caccia Heel.

Per quanto abbia paura di Sullivan, Howl è anzitutto sicuro di essere protetto dalla sua magia e da Calsifer, quindi accetta quasi giocosamente di avere la maga alle calcagna – avendo fra l’altro la testa su tutt’altro obbiettivo.

Ma, soprattutto, Howl capisce le vere intenzioni del cagnolino, che è naturalmente riconoscente a Sophie, di cui ha visto la natura generosa e temeraria, e che per questo non vuole boicottare – e infatti non lo fa.

Il castello errante di Howl rapa

Una storia molto secondaria è quella di Testa di Rapa.

Un personaggio apparentemente molto di contorno, in realtà fondamentale in molti momenti: dopo che Sophie l’ha salvato, le fornisce un aiuto per camminare, le trova una casa e le recupera anche lo scialle.

E, oltre alla tenerissima scenetta in cui la aiuta col bucato, è il personaggio che di fatto salva la vita a tutti i personaggi quando stanno per cadere in un dirupo, mettendosi lui stesso in pericolo…

E, proprio in quel momento, Sophie gli dimostra finalmente affetto e lui può tornare alla sua vera forma così da fermare la guerra, pur dovendo accettare un amore non ricambiato…

Anche dal punto di vista artistico, Il castello errante di Howl è uno dei prodotti che più apprezzo della filmografia di Miyazaki.

Insieme a Yubaba, Sophie nella sua versione anziana è uno dei migliori visi anziani gestiti nella filmografia del maestro, ricchissimo di particolari e con delle animazioni stupefacenti:

Nonostante per i personaggi di Howl e Sophie – da giovane – Miyazaki utilizza dei modelli piuttosto standardizzati, senza particolari note di merito, non manca una cura particolare nei dettagli e nell’uso delle ombre, oltre che nel loro cambiamento durante il film:

Ma uno dei punti più alti è sicuramente la rappresentazione degli ambienti, sia esterni che interni.

Il castello in particolare è pieno zeppo di particolari, sia nella sua visione esterna che interna, sopratutto nei momenti di distruzione e cambiamento:

Così mi ha sempre fatto sognare la bellezza e la profondità con cui Miyazaki è riuscito a raccontare visivamente gli spazi esterni, in particolare la città reale:

Ma forse quello che mi piace di più di questo film è la rappresentazione del cibo e soprattutto dei personaggi che lo mangiano:

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La congiura degli innocenti – L’altro Hitchcock

La congiura degli innocenti (1955), traduzione piuttosto evocativa del titolo originale The trouble with Harry, è uno dei prodotti meno noti e anche più atipici – ma tipici insieme – della filmografia di Hitchcock.

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 1,2 milioni di dollari, circa 13,5 oggi – incassò tutto sommato abbastanza bene: 3,5 milioni, circa 39 oggi.

Di cosa parla La congiura degli innocenti?

Durante una battuta di caccia, il capitano Wiles pensa di aver ucciso un uomo. Ma è solo l’inizio di un’incredibile avventura…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La congiura degli innocenti?

Edmund Gwenn in una scena di La congiura degli innocenti (1955) di Alfred Hitchcock

Dipende.

La congiura degli innocenti è un film veramente particolare, che racconta un lato meno esplorato della filmografia di Hitchcock, pur sempre presente in sottofondo nei suoi prodotti precedenti: l’humor nero, in questo caso apertamente surreale.

Davanti al ritrovamento di un cadavere, ci si aspetterebbe una certa reazione dai personaggi di Hitchcock. In realtà, per vari motivi che vengono svelati durante la pellicola, le varie figure che si susseguono hanno delle reazioni imprevedibili, ma incredibilmente sensate…

Insomma, se vi piace il genere, lo adorerete.

The trouble with harry

Se non avete mai visto La congiura degli innocenti, vi consiglio caldamente di guardarlo in lingua originale.

Infatti la pellicola si basa su un’ironia piuttosto sagace, originata per la maggior parte da giochi di parole spesso intraducibili. Inoltre, senza conoscere il titolo originale, si perde il senso della conclusione.

Insomma, per apprezzarlo appieno, non rischiate!

Un omicidio inaspettato

Edmund Gwenn in una scena di La congiura degli innocenti (1955) di Alfred Hitchcock

Dopo un paio di inquadrature funzionali a raccontare l’ambiente – una minuscola comunità rurale – ci viene immediatamente introdotta la vicenda, con il simpatico Capitano che si accorge di aver ucciso un uomo.

Un evento che in altre circostanze avrebbe portato ad un picco drammatico, in questo caso porta ad una prima scenetta comica, dal sapore molto surreale: tutti gli abitanti della città – ad eccezione dello sceriffo e della bottegaia – passano vicino al cadavere.

E ognuno di questi sembra essere fondamentalmente disinteressato o per nulla preoccupato, ma ognuno con una motivazione chiara che verrà rivelata più avanti.

Oggetti (e personaggi) di valore

Edmund Gwenn in una scena di La congiura degli innocenti (1955) di Alfred Hitchcock

Durante la pellicola diversi oggetti passano di mano in mano, ognuno con un valore preciso.

Le scarpe di Harry, il coniglio morto, l’album da disegno…

Ed insieme agli oggetti, si muovono anche i personaggi, le cui vicende si intrecciano in maniera inaspettata e sorprendente, con un susseguirsi di gustosissimi colpi di scena, che rivelano a mano a mano tutti gli elementi della vicenda.

Così l’incontro fra il Capitano e Sam porta al dialogo con Jennifer e allo scoprire l’identità di Harry, il consumarsi dell’appuntamento fra il Capitano e Miss Gravely alla vera natura del delitto, e a un continuo sotterrare e dissotterrare il corpo…

Shirley MacLaine e John Forsythe in una scena di La congiura degli innocenti (1955) di Alfred Hitchcock

Di conseguenza, anche la colpa – e così il motore dell’azione – passa da personaggio in personaggio.

Prima il Capitano che deve nascondere il delitto, poi Miss Gravely che deve discolparsi, infine Sam che deve sposarsi. Ma proprio alla fine, quando quest’ultimo diventa responsabile dell’ennesimo – e per fortuna ultimo – dissotterramento del corpo, riesce a ricompensare tutti per il loro silenzio.

Infatti, invece che tenersi entrambi i premi per sé – la nuova moglie e i soldi dalla vendita dei dipinti – sceglie di premiare ognuno dei personaggi, come una sorta di premio di partecipazione per averlo aiutato nel suo obbiettivo.

Che l’ironia continui!

Royal Dano in una scena di La congiura degli innocenti (1955) di Alfred Hitchcock

Soprattutto sul finale, la colonna sonora stessa racconta la natura del film.

I temi più tipici che facevano da cornice sonora ai classici thriller alla Hitchcock, vengono smorzati da delle tonalità più scanzonate. Così, l’ironia nerissima – ma nondimeno gustosa – che domina la scena sembra poter finire da un momento all’altro.

Infatti, sul finale viene introdotto un elemento di disturbo, lo sceriffo che cerca di fare luce sulla storia e, in maniera quasi metanarrativa, rovinare la festa e mettere fine all’ironia della storia.

Al punto che lo spettatore non solo non vuole che i personaggi vengano puniti, ma pretende che si mantenga fino alla fine il taglio umoristico che finora aveva dominato. E per fortuna la vicenda si chiude come si è aperta, e con una chiosa piuttosto simpatica:

The trouble with Harry is over.

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Star Wars: L’attacco dei cloni – Il capitolo della resa

Star Wars: L’attacco dei cloni (2002) di George Lucas è il secondo capitolo della cosiddetta trilogia prequel.

Il budget fu lo stesso del primo capitolo – 115 milioni – ma guadagnò quasi la metà: appena 645 milioni di dollari.

Di cosa parla Star Wars: L’attacco dei cloni?

Dieci anni dopo Episodio I, Anakin è un giovane Padawan pieno di dubbi, e che non riesce a smettere di pensare a Padmé…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Star Wars: L’attacco dei cloni?

Natalie Portman in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Dipende.

Nonostante complessivamente abbia apprezzato un pochino di più questo capitolo rispetto al precedente, non mi ha lasciato un buon sapore in bocca. In questo film infatti si intraprende definitivamente la via più banale e meno interessante per raccontare un personaggio essenziale come Anakin.

Tuttavia, perlomeno il film dedica uno spazio importante ad Obi-Wan, con una storyline complessivamente interessante – soprattutto nel complesso della lore di Star Wars. Non un elemento che riesce a risollevare il mio entusiasmo, ma sicuramente meglio della noia che mi ha procurato il primo capitolo…

Insomma, se volete affrontare la trilogia prequel fino in fondo, dovete passare anche di qua.

Manca un pezzo?

Natalie Portman, Ewan McGregor e Hayden Christensen in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Cominciando L’attacco dei cloni, ho avuto un senso di vuoto.

Mi è stata sostanzialmente confermata la sensazione che Episodio I sia un prodotto sprecato, almeno per quanto riguarda la caratterizzazione del protagonista – che era l’elemento centrale nella trilogia originale.

Infatti, Anakin ci racconta tutte le sue problematiche e i suoi dilemmi solamente a parole, affrontando anche questioni piuttosto importanti – il sentirsi pronto all’essere un maestro ma non poterlo diventare, il suo sentirsi sottovalutato…

Hayden Christensen in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Insomma, l’idea alla base di questo capitolo centrale era di mostrare una maturazione – anche negativa – del personaggio, in particolare attraverso il tentativo di ricongiungimento tanto desiderato con la madre.

Tuttavia, neanche in questo caso a mio parere si è fatto centro: mi viene onestamente da chiedermi cosa servisse questa costruzione estremamente melodrammatica, se non a portare, ancora una volta, alla più banale caratterizzazione del personaggio come spietato e schiavo delle emozioni.

Hayden Christensen in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Rimango insomma dell’idea che manchi un pezzo fondamentale, che permettesse di rendere veramente tridimensionale questo importantissimo personaggio, che è stato fondamentalmente rovinato da una scrittura poco indovinata e da una recitazione molto approssimativa.

Tanto più che di fatto Anakin non è altro che un ragazzino, pieno di emozioni e incapace di canalizzarle correttamente. Ormai purtroppo con questo capitolo mi sono arresa all’idea che questa sia la strada scelta, ma non posso che soffrire la mancanza di un approccio ben più profondo e vincente…

Un amore senza basi

Hayden Christensen e Natalie Portman in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Per lo stesso motivo di cui sopra, la storia d’amore è monca.

Era evidente che Lucas avesse bisogno di questa relazione per giustificare quanto successo dopo, ma si è dimenticato di introdurla. Infatti, mi vengono i brividi anche solo a pensare che l’innamoramento sia sbocciato quando Anakin era ancora un bambino…

Ho percepito la volontà di Lucas di togliere questo pensiero dalla mente dello spettatore: all’inizio Padmé vede Anakin ancora come un bambino. Tuttavia, questo elemento si mette facilmente da parte davanti all’evidente insistenza del ragazzo – e nient’altro…

Al contempo, ho trovato del tutto ingiustificata la reazione della ragazza quando il futuro Darth Veder le racconta di aver sterminato un intero villaggio, anche di innocenti, evidente foreshadowing della sua malvagità.

Un elemento chiarissimo allo spettatore, non pervenuto per Padmé…

Per fortuna c’è Obi-Wan

Ewan McGregor in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Ma, nonostante tutto, Episodio II mi è piaciuto più del precedente.

Oltre al fatto che la trama politica sembra molto meno fine a sé stessa e già più interessante, ho trovato anche piuttosto intrigante la storyline di Obi-Wan, con la sua caccia al mistero – e ai cloni – piena di tensione e di colpi di scena.

Forse uno degli elementi più vincenti della trilogia prequel è stato infatti il riuscire ad approfondire questo personaggio – che aveva uno screentime piuttosto limitato in Una nuova speranza e – finora – un passato assai misterioso.

Al contempo però ho poco apprezzato il continuo e costante contrasto, quasi velenoso, fra Obi-Wan e il suo Padawan: ne comprendo la funzione, ne comprendo i fini, ma mi sembra ancora una volta scegliere la via più facile e banale…

Sempre alla fine…

Natalie Portman, Ewan McGregor e Hayden Christensen in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Come per il precedente, tutta l’azione è concentrata nel finale.

E ancora una volta mi sono trovata davanti ad un lungo ed impegnativo combattimento conclusivo, che ho trovato personalmente sempre troppo dispersivo e troppo lungo, risvegliando il mio interesse effettivamente solo negli ultimi momenti.

In particolare, con lo scontro fra Yoda e Doku.

Uno duello davvero emozionante e pieno di colpi di scena, che riporta al centro della scena uno dei miei personaggi preferiti – Yoda – che purtroppo arriva dopo una sequela combattimenti molto meno soddisfacenti, financo ridicoli pensando al comportamento di Anakin…

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2023 Avventura Azione Cinecomic Comico Dramma romantico Drammatico Fantascienza Film Guardiani della Galassia MCU Nuove Uscite Film Oscar 2024 Racconto di formazione

Guardiani della Galassia Vol. 3 – Farewell?

Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) è l’ultimo (?) capitolo della trilogia omonima creata e diretta da James Gunn per l’MCU.

A fronte di un budget piuttosto importante di 250 milioni di dollari, è stato il quarto maggior incasso del 2023, con 845 milioni di dollari al botteghino.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023)

in neretto le vittorie

Migliori effetti speciali

Di cosa parla Guardiani della Galassia Vol. 3?

Subito dopo lo Speciale di Natale, i Guardiani si trovano nella loro base, ma improvvisamente una nuova minaccia fa capolino…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Guardiani della Galassia Vol. 3?

Chris Pratt in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

In generale, sì.

Guardiani della Galassia Vol. 3 è un film fatto davvero apposta per i fan – dell’MCU, ma soprattutto del brand. Al punto che, per godere appieno della visione, è quantomai necessario vedere lo Speciale di Natale rilasciato nel 2022: la vicenda prende le mosse proprio da lì.

In generale, è un film che lavora moltissimo sul lato emotivo, con l’evidente intenzione – purtroppo per ovvi motivi – di chiudere dignitosamente tutti i personaggi, rischiando però in molti punti di forzare certe caratterizzazioni…

Ma, se siete fan dei Guardiani, ve ne innamorerete.

Il protagonista assente?

Rocket in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Una particolarità di Guardiani della Galassia Vol. 3 è il cambio di protagonista.

Nonostante infatti si cerchi di dare più o meno spazio a tutti, il centro emotivo non è più Star Lord, ma Rocket e il suo passato. Tuttavia, il personaggio è assente dalla scena per la maggior parte della pellicola, vivendo solamente nei flashback.

Una storia piuttosto dolorosa, che ridimensiona il personaggio e lo porta su binari meno esplorati finora, con un’inedita crudeltà che domina la scena – pur perfettamente nascosta grazie ad una tecnica registica estremamente abile.

Rocket in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Per quanto mi sia profondamente emozionata nel veder raccontare la sua storia – che ha toccato tutti i tasti giusti – d’altra parte un po’ mi è dispiaciuto vedere così poco in scena quel Rocket a cui ero abituata finora, uno dei miei personaggi preferiti dei Guardiani…

Ma ho comunque apprezzato che la missione della pellicola fosse il suo complesso e intricatissimo salvataggio, preferendola ad una narrazione più tipica con il villain di turno da sconfiggere – soprattutto per il collegamento emotivo che è riuscito a creare.

E a questo proposito…

Il villain nelle retrovie

Will Poulter in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Adam Warlock, interpretato dalla stella nascente Will Poulter, era stato venduto se non come il villain principale, sicuramente come una figura importante nel film.

E invece è tutto il contrario.

Un personaggio che è stato quasi sicuramente riscritto e di gran lunga ridimensionato, diventando una sorta di antagonista di contorno, con una caratterizzazione piuttosto abbozzata ed un arco evolutivo altrettanto debole.

Per quanto non avrei personalmente voluto che fosse più centrale nella scena – anzi, l’avrei direttamente eliminato – mi dispiace per l’attore, per cui questo film doveva essere probabilmente un punto di svolta per la sua carriera…

Ma parlando del vero villain…

Un villain per ogni occasione

Chukwudi Iwuji  in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Ho decisamente apprezzato l’Alto Evoluzionario.

Come nel precedente capitolo, Gunn ha scelto di scrivere un villain che fosse profondamente legato ad uno dei personaggi. E questo carattere così altalenante, che passa da una finta docilità ad una rabbia distruttiva, unito al suo totale disinteresse per il valore della vita, ai miei occhi l’ha avvicinato ad un altro villain importantissimo dell’MCU.

Thanos.

Anche se ovviamente l’Alto Evoluzionario non ha la medesima profondità ed importanza, presenta la stessa malvagità giustificata del villain della Saga dell’Infinito, in questo caso nel ruolo di un dio generoso quanto vendicativo. E l’ottima performance di Chukwudi Iwuji ha fatto il resto.

I secondari al centro

Mantis in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Dovendo dire addio per sempre ai suoi personaggi, James Gunn ha voluto dare ad ognuno un proprio arco evolutivo ed una conclusione.

L’esempio più evidente è Mantis.

Personaggio introdotto come secondario in Guardiani della Galassia Vol. 2, con un ruolo da protagonista nello speciale, Mantis ha un’evoluzione essenziale quanto brusca: viene emotivamente più approfondita, diventando al contempo anche quasi aggressiva.

Inoltre, si scopre come i suoi poteri possano essere essenziali non solo come supporto emotivo per il gruppo, ma anche all’interno degli stessi combattimenti e delle intrusioni. E da quello ne deriva il suo finale: l’inizio di un viaggio per riscoprire sé stessa.

Drax in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Drax è un discorso a parte.

Il suo personaggio di per sé non ha un cambiamento significativo, anzi rimane per certi versi troppo uguale a sé stesso. Infatti, la sua comicità è fondamentalmente sempre identica: indubbiamente divertente ma, arrivati al terzo film, non ugualmente brillante come poteva apparire all’inizio…

Ma la parte importante è il suo finale: al pari di Star Lord, anche Drax capisce che è il momento di fermarsi, non essere più Il Distruttore, ma un padre per la nuova famiglia che si è creato. E, anche se è fin troppo didascalica, è comunque una conclusione che mi è parsa coerente e che ho nel complesso apprezzato.

Un protagonista indebolito?

Chris Pratt e Zoe Saldana in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

In questo capitolo, Star Lord è un personaggio estremamente legato all’emotività.

Sia per il salvataggio di Rocket – di cui è il principale motore – sia per la relazione con Gamora. Se per certi versi la sua rappresentazione è forse troppo melensa e il suo rapporto con l’ex-compagna troppo insistente, probabilmente non si poteva fare diversamente.

Infatti, Peter aveva mostrato fin da subito un interesse per una ragazza che faticava anche solo ad accettarlo nella sua vita, con un rapporto, soprattutto sulle prime, assai antagonistico – in particolare da parte di Gamora – che si risolveva solo alla fine del secondo capitolo.

Zoe Saldana in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Tuttavia, ho personalmente apprezzato la conclusione.

Gunn ha scelto saggiamente di non abbassarsi alle dinamiche più tipiche da commedia romantica, con un ricongiungimento amoroso sul finale, magari costruito in maniera pure poco credibile e interessante.

Si mostra invece come Gamora ritorni ad un’altra famiglia, quella che ha ritrovato in questa realtà, e che non deve per forza di nuovo legarsi né a Quill né ai Guardiani – e trovando come loro una inaspettata nuova forma.

Ci saranno altri film sui guardiani della galassia?

All’indomani dell’uscita di Guardiani della Galassia Vol. 3, la maggior parte degli attori ha chiuso le porte a future partecipazioni alla saga.

Zoe Saldana (Gamora) non ha dimostrato ulteriore interesse per l’MCU – e, essendo legata all’estremamente redditizio brand di Avatar, non ne ha francamente neanche bisogno…

Dave Bautista (Drax) ha scelto una via più drammatica per la sua carriera – recentemente come protagonista di Army of the Dead (2021) e Bussano alla porta (2022). Gli altri due personaggi – Mantis e Nebula – per quanto interessanti, non sono così tanto di richiamo da farli riapparire né in singolo né in gruppo.

Come se non bastasse, Sean Gunn, fratello del regista, non solo interpreta l’ex-ravager Kraglin, ma dà anche le movenze a Rocket – e non è da sottovalutare la sua eventuale, ma quasi scontata, assenza…

Una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Quindi è l’ultimo film sui Guardiani?

Secondo me, per tutti i motivi di cui sopra, sì.

E questo anche perché questo brand è troppo legato alla figura di James Gunn, che nel prossimo futuro avrà decisamente molte e altre gatte da pelare…

Tuttavia, rimane la questione Star Lord – che, a quanto pare, ritornerà. Visto l’andamento di carriera di Chris Pratt, che avuto i suoi momenti più economicamente interessanti solo legandosi a grandi brand, non mi stupisce che abbia stretto un altro accordo con l’MCU.

Ma, per quali prodotti, è ancora un grande mistero…

Dove si colloca Guardiani della Galassia 3?

Come i precedenti capitoli di Guardiani della Galassia, anche il terzo film della saga è totalmente autonomo.

E, nonostante sembri che siano passati solo pochi mesi da Guardiani della Galassia (2014), il film si colloca nel 2024, quindi sia dopo Endgame (2019), sia dopo lo Speciale di Natale.

È il secondo film della Fase Cinque.

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Alfred Hitchcock Avventura Dramma romantico Drammatico Film Giallo

Caccia al ladro – Un mistero amaro

Caccia al ladro (1955) è uno dei titoli meno noti di Hitchcock, che si differenzia dal resto della sua produzione anche per non avere al centro della trama un omicidio, ma una serie di furti.

Con un budget abbastanza contenuto – 2,5 milioni di dollari, circa 28 milioni oggi – ebbe un riscontro buono, ma abbastanza contenuto: circa 9 milioni di dollari – circa 100 milioni oggi.

Di cosa parla Caccia al ladro?

Una serie di furti terrorizza la Costa Azzurra, e tutti i sospetti riconducono all’ex topo di appartamento, John Robie. Ma lui si dichiara innocente…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Caccia al ladro?

In generale, sì.

Anche se non la considero personalmente una delle opere più brillanti della produzione hitchcockiana, è un film incredibilmente piacevole e intrigante, grazie soprattutto al magnetismo dei due attori protagonisti, Cary Grant e Grace Kelly.

Forse l’elemento che mi ha meno convinto è lo scioglimento della vicenda: con una costruzione del mistero e della tensione tale da tenere lo spettatore incollato allo schermo, la rivelazione finale l’ho trovata un po’ sbrigativa…

Ma comunque ve lo consiglio.

E un urlo squarciò la scena…

L’inizio di Caccia al ladro mi ha piuttosto sorpreso.

Mentre stavo seguendo, anche leggermente annoiata, gli infiniti titoli di testa, mi aspettavo un’apertura che mantenesse la stessa atmosfera languida e serena. Niente di più sbagliato: un urlo terribile squarcia la scena, e ci immerge subito nella tensione della storia.

Un susseguirsi di momenti rapidissimi, che ci permettono di inquadrare perfettamente la scena e la situazione, con i diversi furti che terrorizzano la Costa Azzurra. In chiusura, un articolo di giornale ci introduce il protagonista, John Robie – nomen omen – ex-galeotto.

E uno splendido aggancio visivo – il gatto nero che vediamo sia sul tetto, sia sul divano del protagonista – accompagna all’effettiva introduzione protagonista, di cui sappiamo già moltissimo senza che sia ancora entrato in scena.

E, anche quando appare, il suo atteggiamento, osservatore e schivo, lo avvicina alla figura del felino. Ma subito mostra anche la furbizia di una volpe, riuscendo ad orchestrare un’abilissima fuga, articolata in diversi ed imprevedibili – per noi e la polizia – colpi di scena.

Una MacGuffin?

Dopo La finestra sul cortile (1954), Hitchcock tornò a lavorare con Grace Kelly, scrivendole un personaggio anche più interessante rispetto al precedente film.

Forse anche troppo.

Francie è una coprotagonista che viene introdotta a piccolissimi passi: prima appare come misteriosa donna che osserva il protagonista in spiaggia, poi riappare alla cena dell’hotel, rimanendo in silenzio per molto tempo…

Non so se fosse effettivamente nelle intenzioni di Hitchcock, ma portare in scena un personaggio così enigmatico, ma anche fortemente intraprendente – da ogni punto di vista – me l’ha resa fin da subito il principale sospettato per il nuovo Gatto.

Soprattutto per la intrigantissima e perfettamente orchestrata scena dell’inseguimento in macchina, che si conclude con il primo colpo di scena: Francie conosce la vera identità di John.

Ma la vera rivelazione…

Una rivelazione poco interessante

Nonostante, ripensandoci a posteriori, effettivamente ha perfettamente senso che Danielle sia la colpevole, il finale mi è risultato poco soddisfacente.

Infatti, nonostante tutta la costruzione sia coerente e logica, con anche il colpo di scena sul fatto che sia una donna – come nessuno aveva prima sospettato – e con anche la creazione di una tensione perfetta sul finale…

…non si lascia abbastanza spazio per raccontare meglio la rivelazione, magari facendo anche un puntuale riepilogo di tutti gli indizi che hanno portato a smascherarla, un racconto del suo destino e delle sue intenzioni.

Insomma, sarei rimasta più soddisfatta se avessero meglio approfondito l’elemento centrale della trama…

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La città incantata – La maturazione invisibile

La città incantata (2001) è forse l’opera più famosa di Hayao Miyazaki, parte di quello che io considero il terzetto delle meraviglie – insieme a La principessa Mononoke (1997) e il successivo Il castello errante di Howl (2004).

Fu anche uno dei maggiori successi del maestro nipponico: con un budget di appena 19 milioni di dollari, ne incassò quasi 400raddoppiando il successo del film precedente. In Italia venne distribuito prima nel 2003 e poi nuovamente nel 2014, con un nuovo doppiaggio.

Di cosa parla La città incantata?

Chihiro è una bambina di appena 10 anni che sta viaggiando verso la sua nuova casa. Ma nel viaggio il padre sbaglia strada, e la protagonista si trova coinvolta in un’incredibile avventura…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La città incantata?

Chihiro e Lin in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

Assolutamente sì.

Non vi nascondo che sono personalmente molto legata a questa pellicola – anche solo per il fatto che è il primo prodotto di Miyazaki che ho visto. Ma nondimeno è un film veramente fantastico, uno dei punti più alti di tutta la produzione del regista.

Un’avventura piuttosto articolata, con tanti personaggi, ma che agiscono all’interno di spazi ben precisi, e senza mai far sembrare il film troppo pesante da guardare – come era stato invece per La principessa Mononoke.

Insomma, non ve lo potete perdere.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di La città incantata dipende.

Sono abbastanza sicura di averlo visto per la prima volta – e negli anni successivi – con il primo doppiaggio del 2003, curato da un’altra casa di produzione e non vivaddio! – da Cannarsi.

E infatti è un buon doppiaggio.

Il problema è che nel 2014 la palla è passata alla Lucky Red, e quindi a Cannarsi. Ho rivisto la pellicola quando è stata ridistribuita nel 2022 al cinema, con credo il doppiaggio del 2014 – a meno che Cannarsi non ci abbia di nuovo rimesso le mani.

Ed è un doppiaggio da incubo, da cui vi consiglio di stare lontani.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

La città incantata titolo originale

La traduzione del titolo de La città incantata è piuttosto particolare.

Infatti, se sostanzialmente la totalità dei titoli precedenti di Miyazaki era traducibile alla lettera – e così è stato fatto – in questo caso era un’impresa ben più complessa.

Se ci si pensa un attimo, il titolo italiano non ha molto senso.

Anzitutto, la storia non è ambientata in una città, ma principalmente in una sorta di centro benessere. Inoltre, in italiano incantata ha un’accezione più che altro positiva, favolistica, mentre in questo caso sarebbe meglio usare il termine stregata.

Una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

Il titolo originale è 千と千尋の神隠し, letteralmente La sparizione causata dai kami di Sen e Chihiro.

Se è in generale la prima parte è abbastanza comprensibile – effettivamente la protagonista, che avrà i due nomi indicati, è scomparsa – meno chiara è la seconda parte.

I kami sono divinità o spiriti venerati dalla religione shintoista – e alcuni sono presenti effettivamente nella storia. Ma, più in generale, l’espressione kamikakushi contenuta nel titolo indica la sparizione improvvisa di una persona, che si presuppone essere rapita dalle divinità.

Non a caso, in inglese ha il titolo più attinente di Spirited away.

Una protagonista perfettamente umana

Chihiro in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

Chihiro è forse la protagonista meglio scritta della produzione di Miyazaki.

Inizialmente viene presentata come una ragazzina anche piuttosto timida, insicura e paurosa, ma anche dotata di idee molto forti, che però non riesce a farsi ascoltare. In realtà, le sue proteste iniziali verso i genitori raccontano una delle sue più importanti qualità.

L’abilità di guardare oltre l’apparenza.

Questa capacità si rifletterà nelle diverse prove che dovrà affrontare e che hanno tutte come sottofondo l’idea di capire la vera natura di qualcuno o qualcosa, mentre tutti gli altri si lasciano abbagliare solo dalla pura apparenza.

Chihiro e Kamaji in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

E l’altra qualità imprescindibile della protagonista è la sua perseveranza.

Nonostante si trovi in una situazione di effettivo pericolo per la propria vita – ed è per questo evidentemente spaventata – Chihiro non si lascia mai abbattere: riesce a seguire le indicazioni di Haku ed arrivare a Kamaji, con cui insiste testardamente per avere un lavoro, tanto da mettersi in gioco in prima persona.

E proprio davanti alla perseveranza e al coraggio della protagonista, l’inquietante e burbero yōkai la aiuta.

Chihiro e Yubaba

Yubaba in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

E questa sua implacabile tenacia si vede ancora meglio nell’incontro con Yubaba.

Chihiro fino a questo momento è stata maltrattata, e, come se non bastasse, in questa scena le viene cucita la bocca, viene fisicamente aggredita da questa inquietante ed enorme donna, che minaccia – ancora una volta – la sua stessa vita e quella dei suoi genitori.

Ma ancora una volta la protagonista non si arrende, ma continua a inseguire il suo obbiettivo.

E a che prezzo…

La città incantata nome

Il modo in cui Yubaba ruba il nome alla protagonista è incomprensibile se non si conosce il giapponese.

Fondamentalmente il nome Chihiro in giapponese è scritto 千尋, quindi con due kanji – i caratteri della lingua giapponese. Yubaba ruba alla protagonista uno dei due, ovvero 尋, lasciando solo 千, che da solo si legge appunto Sen.

Il significato è piuttosto semplice: la strega sottrae il nome a chi sigla un patto con lei, quindi rubando l’identità del malcapitato, così da renderlo più obbediente – e, soprattutto, incapace di scappare…

Yubaba Kamaji folklore giapponese

Come la maggior parte dei personaggi fantastici presenti nel film, Yubaba e Kamaji sono ispirati al folklore giapponese.

Yubaba prende il nome dalla creatura di riferimento, ovvero 山姥, la Yama-uba: una mostruosa strega con i capelli spettinati, il kimono stracciato e che si nutre di carne umana.

Invece il nome Kamaji è molto esplicito: 釜爺 significa vecchio della caldaia ed è un tsuchigumo, ovvero un uomo dalla forma di ragno, animale che simboleggia l’operosità e l’abilità, ed indica anche un umano che vive sottoterra.

Le due prove

Nella parte centrale del film, Chihiro viene messa davanti a due prove.

La prima ha al centro il Dio del Fiume, travestito da Spirito del cattivo odore, ovvero una creatura il cui corpo è composto da sporco e spazzatura. Yubaba costringe la protagonista ad occuparsene, cercando di punirla.

Ma proprio per la sua capacità di guardare oltre, Chihiro – come in realtà già Yubaba – capisce che questo spirito non è quello che sembra, e cerca di aiutarlo a ritrovare il suo vero aspetto, eliminando tutta la spazzatura che lo ricopre.

Questo episodio è fra la sfida e la burla – il Dio si congratula con lei e poi scappa via ridendo, piuttosto divertito. Ma è anche il primo momento in cui Sen guadagna un po’ di rispetto dagli altri personaggi.

E, soprattutto, acquisisce un oggetto fondamentale.

Chihiro e Haku in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

Mentre tutti i dipendenti sono abbagliati dall’oro lasciato dal dio, Chihiro si ritrova fra le mani un 苦団子, Niga-Dango: il dango è una sorta di gnocco di riso, che però in questo caso ha un sapore disgustoso – niga significa amaro.

Questo strumento è un elemento chiave per la prova successiva: Sen capisce che questo boccone disgustoso permette di liberare chi lo mangia di tutto quello che lo ricopre e con cui si nasconde, per svelarne la vera natura.

Per questo in primo luogo lo utilizza per aiutare Haku, facendoglielo mangiare quando è in fin di vita: in questo modo inconsapevolmente Chihiro libera il ragazzo sia dal sigillo che aveva rubato da Zeniba – e che lo faceva star male – sia dal demone che Yubaba usava per controllarlo.

La città incantata senza volto

Senza Volto e Chihiro in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

Ma il momento fondamentale è lo scontro con Senza Volto.

Uno spirito piuttosto sofferente, che è privo di un’identità, e che cerca di trovarne una incorporando proprio altre persone, di cui prende l’aspetto e la voce. E riesce a tentarle proprio offrendo loro quello che desiderano.

Ma Chihiro non è così superficiale.

La protagonista non ha bisogno dell’eccesso di ricchezza che lo spirito le offre, motivo per cui lo stesso impazzisce e non desidera altro che possederla. Ma ancora una volta Sen capisce la vera natura di chi ha davanti e lo libera tramite il dono fattogli dal Dio.

Senza Volto Dio Del fiume folklore giapponese

La misteriosa figura di Senza Volto è di fatto un’invenzione del film, ma la maschera è un riferimento alla forma di teatro giapponese 能, , caratterizzato da movimenti lenti e dei testi aperti all’interpretazione dello spettatore.

Il significato del Dio del fiume è un po’ più complesso: questo spirito non ha un nome, ma Yubaba lo descrive come 名のある川の主, ovvero Signore di un fiume famoso. Allo stesso modo in La principessa Mononoke, il Dio Cinghiale, Nago, veniva definito Signore di una famosa montagna.

Riprendendo quindi la lettura ambientalista tipica delle opere di Miyazaki, entrambi potrebbero rappresentare delle divinità naturali che sono state corrotte dalla pressante presenza umana e dall’inquinamento che ne è derivato.

L’ultimo atto

Bambino in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

Nella sua corsa verso il finale, Chihiro viene accompagnata da due figure che hanno perso il loro aspetto naturale: Bō, il figlio di Yubaba trasformato in topo, e Yu-Bird, uno dei servi di Yubaba, che diventa un uccellino.

Particolarmente interessante è l’arco evolutivo del bambino: inconsapevolmente imprigionato in una stanza, soffocato dalle coccole e dalle attenzioni della madre, si trova infine nella condizione di poter esplorare il tanto temuto mondo esterno.

Sicuramente il momento di passaggio è quando la Yubaba non lo riconosce, shock che porta il personaggio a voler essere così indipendente da non accettare neanche il passaggio sulla spalla di Chihiro quando sono scesi dal treno.

Zeniba, Chihiro e Senza Volto in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

All’arrivo alla casa di Zeniba, la situazione è molto più tranquilla di quanto ci si aspettasse.

Come altri personaggi prima di lei, la strega ha compreso la natura fondamentalmente buona di Chihiro, che, invece di tenersi per sé il prezioso sigillo, ha intrapreso un importante viaggio per venire a restituirglielo e scusarsi, evidentemente perché pensava fosse la cosa giusta.

Proprio lì Senza Volto trova il suo posto nel mondo, e si scopre che i due piccoli accompagnatori di Chihiro potevano già da tempo tornare al loro aspetto originale, ma hanno preferito continuare a mantenere questa forma per portare a termine la loro missione.

Ovvero, aiutare la protagonista.

Haku la città incantata

Chihiro e Haku in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

Ma il momento di passaggio fondamentale è con Haku.

Chihiro riesce a portare a termine la sua missione più importante: permettere ad Haku di ritrovare il suo nome, proprio grazie alla loro connessione, che ha permesso loro di salvarsi vicendevolmente la vita in più occasioni.

In realtà già da prima Haku era in parte riuscito a liberarsi dal giogo di Yubaba, proprio grazie all’uccisione dello spirito che lo controllava: si vede molto bene che, nel confronto successivo che ha con la strega, il ragazzo ha un atteggiamento del tutto diverso.

La città incantata finale

Nel finale, Chihiro riesce a superare efficacemente l’ultima prova di Yubaba, dimostrando ancora una volta di essere più acuta di quanto gli altri personaggi si aspettassero da lei.

L’ultima sequenza è apparentemente paradossale.

Infatti, Chihiro rincontra i suoi genitori, che evidentemente non si ricordano nulla, e torna indietro rivivendo il viaggio dell’andata apparentemente con le stesse dinamiche e sentimenti.

Ma tante cose sono cambiate.

Anche se Chihiro comunque è ancora una bambina spaventata e impacciata, ha capito molte cose su sé stessa, ha compreso la potenza delle sue qualità, e quanto sia prezioso essere gentili e corretti con gli altri.

Insomma, una maturazione invisibile, ma fondamentale.

Bambino la città incantata

Il figlio di Yubaba, Bō, è ispirato a Kintaro, un personaggio mitologico raccontato come un bambino dotato di forza sovrumana, e che secondo alcune versioni era stato proprio cresciuto da Yama-uba.

Sia Yubaba che Zeniba hanno degli shikigami, degli spiriti servitori: la prima, fra gli altri, il già citato Yu-Bird, mentre la sorella gli spiriti a forma di pezzi di carta.

La città incantata è uno dei punti più alti nell’evoluzione artistica di Miyazaki.

Anzitutto, per il lavoro fatto su Chihiro, personaggio che riprende il modello usuale per i volti più giovani, ma lo arricchisce di particolari, dandogli un’inedita profondità:

Inoltre, la protagonista è un personaggio incredibilmente espressivo, anche in maniera macchiettistica, ma nondimeno efficace:

Inoltre, in questa pellicola si trova il momento più alto nella rappresentazione dei volti anziani, con Yubaba, con un livello di dettagli e cura delle ombre semplicemente perfetto:

E anche in questo caso si continua con la rappresentazione delle donne con nuovi particolari, riuscendo a distinguerle in maniera abbastanza netta:

Ovviamente fantastica la rappresentazione di tutte le creature magiche, in particolare Yubaba, con la sua espressività esplosiva, e Haku nella sua versione drago:

Senza contare ovviamente la grande originalità nella rappresentazione degli ambienti, sempre ricchissimi di particolari e mai banali:

E, in ultimo, l’evoluzione essenziale nel rappresentare i cibi, che avrà il suo picco nel successivo Il castello errante di Howl:

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La finestra sul cortile – Spiare un delitto

La finestra sul cortile (1954) è uno dei film più noti della filmografia di Hitchcock, nonché uno dei miei preferiti.

In maniera piuttosto prevedibile, dato i pochi spazi utilizzati e il cast di principali piuttosto ridotto, il budget è di appena 1 milione di dollari (circa 12 milioni oggi). E incassò veramente benissimo: 37 milioni in tutto il mondo (circa 463 oggi).

Di cosa parla La finestra sul cortile?

L’avventuroso fotoreporter Jeff è costretto sulla sedia a rotelle dopo un brutto incidente. Nella sua ultima settimana di ricovero in casa, nota qualcosa di strano che accade nell’appartamento di fronte…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La finestra sul cortile?

Assolutamente sì.

La finestra sul cortile è una delle sperimentazioni più interessanti di Hitchcock, che aveva già in parte messo in scena nel precedente Nodo alla gola (1948) – con protagonista sempre James Stewart, ormai attore feticcio.

Il film si svolge all’interno di un unico ambiente, esplorando il circondario tramite un abilissimo uso della soggettiva, con l’inserimento di piccole storie autoconclusive dal forte sapore umoristico.

Inoltre, la costruzione della tensione è superba, narrativamente e registicamente integrata in maniera eccellente nella storia, rendendo questa pellicola il perfetto esempio di thriller alla Hitchcock.

Inquadrare il protagonista

L’incipit de La finestra sul cortile è uno dei migliori di tutta la filmografia hitchcockiana.

Anzitutto una carrellata rivelatoria ci racconta, in pochi secondi, moltissimo del protagonista: un fotoreporter d’assalto, particolarmente appassionato del suo lavoro, ma che rischia continuamente la sua vita per ottenere scatti spettacolari.

La sua situazione viene anche meglio inquadrata dalla telefonata con il suo caporedattore: con una simpatica gag, scopriamo che Jeff è all’ultima, noiosissima settimana di ricovero domestico.

In ultimo, l’arrivo di Stella, l’infermiera, ci racconta le intenzioni del protagonista, continuamente indaffarato a spiare – con un gusto non poco voyeuristico – i suoi vicini e a seguire le loro vicende, fra il comico e grottesco.

Ma dal loro dialogo emerge anche un altro elemento importante.

Una donna in posa?

Avere fra le mani un’attrice così magnetica come Grace Kelly non era cosa da poco.

Il suo personaggio viene introdotto dallo scambio fra Stella e Jeff, in cui l’infermiera rimprovera il protagonista per non essere in grado di suggellare la relazione con la ragazza – da subito definita meravigliosacon il tanto sospirato matrimonio.

All’inizio sembra insomma che il rapporto fra Jeff e Lisa sia antagonistico.

Ma la prima apparizione del personaggio racconta anche altro: a livello sentimentale e – soprattutto – sessuale, Jeff e Lisa hanno un’intesa profonda ed evidente, complice anche l’aspetto così delicato, ma anche fortemente attraente, della ragazza.

Il conflitto riemerge da alcuni scambi fra i due, in cui entrambi raccontano il loro rifiuto di abbandonare il proprio stile di vita attuale: da una parte un’esistenza abbastanza superficiale e mondana, dall’altra una vita avventurosa e piena di pericoli.

Apparentemente, i due sono incompatibili.

Sulle prime Hitchcock sembra sfruttare l’incredibile presenza scenica di Grace Kelly, mettendola in non poche scene in posa. E così sembra anche che il suo personaggio sia ridotto ad un mero vezzo estetico…

Per fortuna non è così.

Il loro rapporto si risolve perché Lisa – anche abbastanza indipendentemente da Jeff – si dimostra davvero intraprendente: va a caccia di indizi, fornisce al protagonista delle informazioni fondamentali, rischia la sua stessa vita infilandosi nell’appartamento dell’assassino, arrivando persino ad ingannarlo.

Insomma, la ragazza si dimostra ben più intelligente, acuta e intraprendente di quanto Jeff avrebbe mai immaginato – anche sottovalutandola, evidentemente. E, nella migliore delle ipotesi, questa piccola avventura sancirà un loro ricongiungimento.

Tante piccole storie

La costruzione narrativa de La finestra sul cortile è di rara eleganza.

Hitchcock non vuole introdurre immediatamente – e smaccatamente – il delitto e il colpevole, ma lo nasconde in un folto gruppo di personaggi secondari, le cui vicende continuano per tutta la pellicola.

Troviamo diverse figure, meno tipizzate di quanto potrebbe sembrare: l’ape regina – che in realtà è sposata con un militare – la donna solitaria – che ritrova l’amore tanto cercato nell’altrettanto solitario pianista – la coppia focosa

La presenza di queste storyline, apparentemente del tutto accessoria, è in realtà fondamentale: oltre ad offrire maggiore profondità allo spazio scenico, regala qualche momento di leggerezza e elegante ironia.

E in una storia così ricca di tensione, è un comic relief essenziale.

Costruire la tensione

Inizialmente la storia di Lars non sembra tanto diversa da quella dei suoi vicini: una velenosa vicenda matrimoniale, in cui la moglie, indisposta a letto, bullizza e deride il marito, che sulle prime sembra anche incapace di tenerle testa.

Il punto di svolta è quella fatidica notte, che, in linea con i migliori noir, racconta un delitto che si consuma nell’ombra, e le cui prove sono del tutto indiziarie. E la tensione è già perfetta proprio in questa sequenza, in cui il protagonista cerca di non addormentarsi per seguire i movimenti di Lars…

Il mistero è dinamico ed intrigante: il protagonista continua a osservare attentamente le azioni del suo sospettato, sentendosi pronto all’azione e all’intervento a parole, ma impossibilitato fisicamente.

E la bellezza della costruzione narrativa sta anche nella costante difficoltà del protagonista – in cui lo spettatore può rispecchiarsi – nel riuscire a farsi credere dagli altri personaggi, in particolare dal suo amico poliziotto.

E proprio quando sembra essersi convinto che era tutto frutto della sua immaginazione, un altro delitto riapre il mistero: l’avventato omicidio del cagnolino troppo curioso, il cui colpevole emerge proprio dalla sua assenza in scena…

Allora continua un crescendo di tensione, con un abilissimo uso della soggettiva…

La finestra sul cortile soggettiva

Le sperimentazioni con la soggettiva sono uno dei marchi di fabbrica del cinema di Hitchcock, con il picco che si vedrà in Psycho (1960).

In particolare, questa specifica inquadratura è al centro de La finestra sul cortile: la maggior parte delle vicende sono mostrate filtrate dallo sguardo del protagonista stesso, che permette fra l’altro allo spettatore di immergersi nella scena ed identificarsi con l’eroe.

E l’abilità di Hitchcock sta proprio nell’utilizzarla per mostrare il colpo di scena della pellicola: quando Lars finalmente si accorge di essere osservato, guarda direttamente negli occhi Jeff – e, da un certo punto di vista, sta guardando anche noi…

Come se non bastasse, il momento dello scontro fra l’eroe e l’antagonista è proprio definito dalla soggettiva, con il punto di vista che rimbalza fra l’uno e l’altro.

Infatti, come Jeff vede Lars emergere minacciosamente dall’ombra, vediamo anche l’effetto stordente che le mosse dell’eroe hanno sugli occhi del suo assalitore, con una tecnica semplicemente perfetta.

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Avventura Azione Drammatico Fantascienza Film Star Wars - Trilogia prequel

Star Wars: La minaccia fantasma – Un tiepido inizio

Star Wars: La minaccia fantasma (1999) di George Lucas – denominato retroattivamente Episodio I – è il primo capitolo della cosiddetta trilogia sequel.

Già con questo film – come prevedibile – il budget aumentò notevolmente, e di conseguenza anche gli incassi: si portò a casa più di un miliardo di dollari in tutto il mondo, a fronte di un budget di appena 115 milioni.

Di cosa parla Star Wars: La minaccia fantasma?

Diversi decenni prima di Una nuova speranza, il Maestro Jedi Qui-Gon Jinn e il suo giovane Padawan, Obi-wan Kenobi, si recano in missione diplomatica con la Federazione. Ma la negoziazione non va come si aspettano…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Star Wars: La minaccia fantasma?

Keira Knightley in una scena di Star Wars: La minaccia fantasma (1999) di George Lucas

Dipende.

Personalmente La minaccia fantasma è il capitolo che meno apprezzo complessivamente di tutta la saga di Star Wars – secondo forse solo a L’ascesa di Skywalker (2019). E, più in generale, non apprezzo la trilogia prequel per diversi motivi. E non è neanche il capitolo da cui consiglierei di partire ad un neofita.

In realtà, per la visione di Star Wars mi limiterei alla saga originale.

Tuttavia, se volete fare i completisti e avere una visione d’insieme almeno dell’universo cinematografico della galassia lontana lontana, guardatelo – magari potrebbe pure piacervi. Se invece non sapete niente di Star Wars, ho qui una guida pronta per voi.

Un eroe già formato

Liam Neeson e Jake Lloyd in una scena di Star Wars: La minaccia fantasma (1999) di George Lucas

Nonostante il personaggio di Anakin sia universalmente odiato per la scarsa interpretazione di Hayden Christensen nei successivi capitoli, io vado controcorrente e vi dico che non lo sopporto già da Episodio I.

La bellezza di Luke come protagonista era proprio la sua propensione alla Forza, che però doveva essere modellata per farne un Cavaliere Jedi, così da riuscire anche a sconfiggere i suoi demoni.

Al contrario, Anakin viene raccontato subito come il prescelto e come il classico insopportabile bambino prodigio.

Liam Neeson e Natalie Portman in una scena di Star Wars: La minaccia fantasma (1999) di George Lucas

Mi rendo conto della necessità di introdurre il futuro antagonista della saga come dotato di incredibili poteri, raccontandone fin da subito la potenziale pericolosità, così da rendere gli spettatori affezionati quasi complici della disfatta futura.

Tuttavia, avrei preferito che non si scegliesse la strada più semplice.

Infatti, di per sé il giovanissimo Anakin non si dimostra tanto sensibile alla Forza, ma più che altro un prodigio in tutt’altro, cercando di fare una sorta di foreshadowing alle capacità che poi saranno anche proprie del figlio.

E, come se non bastasse, in questo film è quasi un secondario.

La politica al centro

Keira Knightley e Natalie Portman in una scena di Star Wars: La minaccia fantasma (1999) di George Lucas

Per tutta la visione della pellicola, ho avuto come la sensazione che non sapessero cosa raccontare.

Infatti, la trama gira principalmente intorno a questa intricata situazione politica, che ho personalmente trovato più noiosa che intrigante. Inoltre, è evidente che la stessa serve ad introdurre il personaggio di Palpatine e la sua ascesa al potere…

…ma anche per questo avrei preferito una gestione diversa.

Yoda in una scena di Star Wars: La minaccia fantasma (1999) di George Lucas

Tanto più che in questo modo le vicende di Anakin diventano quasi secondarie ed accessorie, puramente introduttive. Fra l’altro inserendo una complessa costruzione narrativa che porta alla sua liberazione da schiavo, che io avrei serenamente evitato.

Ed è ancora più paradossale che la vicenda politica appaia centrale, pur essendo di fatto superflua nel grande schema della trilogia, oltre a proseguire assai lentamente e a mettere in secondo piano anche l’importantissimo personaggio di Obi-Wan.

Era così difficile una più semplice, ma efficace gestione alla Episodio IV?

Dove sono i Jedi?

Natalie Portman, Liam Neeson, Ewan McGregor e Jake Lloyd in una scena di Star Wars: La minaccia fantasma (1999) di George Lucas

La così ampia presenza della trama politica è soffocante anche per uno degli elementi più iconici della saga.

I combattimenti con le spade laser.

Se ne vedono infatti non più di due – uno molto veloce all’inizio, poi l’ampia scena dello scontro sul finale. E, se comunque il duello con Darth Maul è piuttosto spettacolare, si trova all’interno di una sequenza di combattimento davvero troppo dispersiva.

In generale, sono rimasta veramente stupita per come, per certi versi, questo film si auto saboti: se insiste – in maniera anche abbastanza patetica – su diversi momenti di puro fanservice, al contempo si dimentica di quello che rendeva questa saga così interessante…

Jar Jar Binks Star Wars

Con questa sezione voglio aprire e chiudere la questione di Jar Jar Binks.

Il suo personaggio è uno degli elementi più odiati della saga prequel secondo solo alla recitazione di Hayden Christensen. E i motivi sono piuttosto evidenti: è un personaggio che vorrebbe essere buffo, ma che risulta solo insopportabile e fastidioso.

Un chiaro esempio di un tentativo davvero fallimentare di introdurre una spalla comica, che facesse le veci di C-3PO e R2-D2 per la saga originale. Tuttavia, ne risulta un personaggio che non ha un’unghia del fascino dei suddetti…

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2023 Ari Aster Avventura Commedia nera Dramma familiare Drammatico Film Nuove Uscite Film Racconto di formazione Surreale

Beau is afraid – La madre rapace

Beau is afraid (2023) è la terza pellicola di Ari Aster, autore indie attivo da pochi anni, ma che si è proficuamente fatto strada nel panorama dell’horror autoriale grazie alla A24.

A fronte di un budget abbastanza consistente per questo tipo di prodotto – 35 milioni – ha aperto piuttosto male al primo weekend: appena 5 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Beau is afraid?

Beau è un uomo di quarant’anni che vive in un quartiere estremamente pericoloso, e sta per andare a trovare la madre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Beau is afraid?

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Assolutamente sì, anche se…

Beau is afraid non è il film che potreste aspettarvi da Ari Aster: se vi immaginate un prodotto simile ai due precedenti – Hereditary (2018) e Midsommar (2019) – cambiate idea. Questa nuova pellicola è probabilmente un punto di svolta per la carriera di questo ambizioso regista, che sceglie un taglio alla I’m Thinking of Ending Things (2020).

E forse è anche il motivo per cui mi è piaciuto.

Non vorrei che Aster in futuro abbandonasse del tutto l’horror, ma apprezzo questa nuova via che ha intrapreso, anche se non tutti potrebbero esserne altrettanto contenti. Personalmente, non essendomi entusiasmata per i precedenti prodotti, è stato un passo fondamentale.

L’unico elemento che mi sento di segnalare è l’eccessiva pesantezza della narrazione, tipica di tutti i prodotti di Aster finora: nonostante la durata importante non mi abbia infastidito, al contempo la storia poteva essere notevolmente alleggerita.

Nell’occhio del ciclone

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

La prima scena Beau is afraid mostra una situazione apparentemente tranquilla.

Beau dialoga con il suo terapeuta, facendoci capire che sta per tornare nella sua casa natale, per l’anniversario della morte del padre.

Ma già in questa scena è presente un elemento di disturbo: la madre che continua ad intervenire – tramite chiamate e messaggi – in uno spazio che dovrebbe essere privato e confidenziale.

E l’intrusione è continua.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Così, anche quando il protagonista riesce ad arrivare illeso al suo appartamento, viene continuamente stressato dall’ambiente che lo circonda, anche e soprattutto per motivazioni che non sono colpa sua – rappresentazione esplicita del suo stato di ansia e di colpevolezza.

Infine, viene totalmente scacciato da quel piccolo spazio privato che era riuscito a costruirsi, ma che viene letteralmente invaso e distrutto. E, anche se poi cerca di riprenderne possesso, ormai è stato violato.

E si può solo scappare.

Madonna Beau is afraid

Nel primo atto è interessante il contrasto fra due elementi.

La madonna e il ragno.

Prima di tornare a casa, Beau compra un regalino per sua mamma, una statuina che rappresenta una candida scena materna, con una figura mariana con in braccio un bambino – rappresentazione del suo desiderio di amore materno.

E proprio su quell’oggetto il protagonista racconta la sua angoscia interiore, un ulteriore tentativo di scusarsi con la madre, per qualcosa che non è neanche colpa sua – la morte del padre.

La stessa immagine la troviamo nell’imponente statua davanti alla casa natale.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Ma nell’appartamento è presente una figura ben più minacciosa: il ragno dal morso mortale.

È la rappresentazione effettiva della natura della madre: insidiosa, potenzialmente mortale, costantemente presente nella vita di Beau, anche senza che lui se ne renda conto.

E questo tanto più se si considera che l’appartamento in cui abita, come si scopre in seguito, è stato costruito dalla madre stessa…

Un’apparente tranquillità

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Dopo essere fuggito dal suo appartamento ed essere stato totalmente spogliato, è come se Beau rinascesse, e fosse ricondotto alla sfera infantile, che forse non aveva mai effettivamente lasciato…

Infatti, si sveglia nella stanza di una ragazzina, viene vestito solo con vestiti da ospedale e con pigiami, proprio come un infante, e trattato come se fosse il nuovo figlio di questa strana famiglia, che lo accudisce teneramente.

Ma è tutta apparenza.

In realtà, più che una casa, è una prigione: Beau è inconsapevolmente incatenato – con la cavigliera che mostra la sua posizione – e costantemente controllato da telecamera di sicurezza, come scopre solo alla fine.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Al contempo, la nuova casa è anche il luogo della colpa.

Beau viene continuamente stressato dall’idea di doversi ricongiungere con la madre, di mostrare il suo affetto, mentre la sua assenza – nonostante sia giustificata da motivi del tutto validi – è raccontata come un’umiliazione.

La vera natura della nuova abitazione – luogo di conflitto e di violenza – viene particolarmente sottolineata in chiusura dell’atto, con la terrificante morte di Toni. E, ancora una volta, la colpa viene data a Beau.

E così deve ancora scappare.

Lo spettacolo di una vita

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Sulle prime mi era veramente poco chiaro il senso dello spettacolo che Beau si immagina mentre è nel bosco.

Poi, pensando agli elementi raccontati a posteriori, sono riuscita a formulare una mia interpretazione: questo viaggio mentale del protagonista è forse l’unica parte veramente irreale della storia raccontata.

Nonostante riprenda alcuni elementi della realtà e preveda anche gli eventi successivi, è una riscrittura di Beau della sua stessa vita. In essa, infatti, si ritrovano la maggior parte degli eventi raccontati, anche se re immaginati – come lo spezzare della catena (la cavigliera) e il cane che lo insegue (Jeeves).

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Tuttavia, vi sono due elementi di differenza fondamentali: la madre morta e la famiglia di Beau.

Nella sua immaginazione, il protagonista si è liberato dalla madre – che comunque ricompare nei panni della moglie – e vive una vita piena di insidie e pericoli. Tuttavia, riesce a guadagnarsi un finale idealmente felice.

Ma proprio lì si spezza l’incanto: quando i figli ritrovati gli fanno comprendere la contraddizione delle sue parole – la loro esistenza e la verginità del padre – la scena si interrompe bruscamente.

È il momento in cui Beau capisce che questa vita felice è per lui impossibile.

Ritornare a casa

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

L’ultimo atto è dedicato al ritorno a casa.

Come nella sua immaginazione Beau ritrovava i figli, nella realtà ritrova la madre. Ma prima si esplora l’immensa figura materna: una donna potente e minacciosa, che aveva costruito un impero commerciale, ma anche una trincea intorno al figlio.

Non a caso tutte le pubblicità dei suoi prodotti si concentrano sulla sicurezza e hanno molto spesso al centro Beau stesso: quindi rappresentano il continuo tentativo della madre di proteggere il figlio dal mondo esterno.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

E allora Beau prova a prendersi la prima rivalsa.

Rincontrando Elaine dopo tantissimi anni, il protagonista ammette di essersi conservato per lei, di averla aspettata per poter condividere con lei la sua prima esperienza sessuale – e ancora una volta si parla quindi di una donna opprimente che cerca di limitarlo…

Tuttavia, il protagonista sembra avere il suo riscatto, vivendo – nonostante la paura – la sua prima relazione sessuale, la stessa che la madre gli aveva negato tutta la sua vita, terrorizzandolo tramite i terribili esiti che la stessa avrebbe portato.

In realtà la madre vince ancora.

La madre rapace

La natura rapace della madre si capisce fin dal primo atto, anche se non è presente in scena.

Sia per la foto che Beau tiene in bagno – con la mano della madre che gli regge la testa che sembra un artiglio – sia per le pressioni che la donna continua a buttargli addosso, accusandolo, fra le altre cose, di non volerla andare a trovare.

Insomma, Mona è un genitore narcisista, che affoga il figlio con amore e attenzioni, ma pretendendone altrettante indietro, pena terribili ricatti emotivi. E, proprio grazie alle registrazioni delle sedute con il terapista, Beau si rende conto della tossicità del loro rapporto.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

E questo viene ancora ribadito dalla scena della soffitta.

Il sogno – in realtà un ricordo – racconta proprio il loro conflitto: se nella sua fantasia Beau poteva essere un bambino che si ribellava dalle continue invasioni della madre, la stessa aveva un potere tale su di lui da riuscire a sopprimere questi inaccettabili slanci.

La soffitta è soprattutto il luogo della distruzione della virilità: sia tramite la reclusione del padre, foce della più importante paura – quella verso il sesso – sia, in maniera estremamente esplicita, tramite la segregazione dei simboli fallici.

E allora avviene l’effettiva ribellione.

Beau is afraid finale

Sul finale Beau cerca di uccidere la madre, ma poi si pente – con una reazione piuttosto infantile.

Ma ormai è fatta.

E Beau scappa, definitivamente.

Ma si trova imprigionato nel terribile tribunale che lo mette davanti alle sue colpe, anche quelle apparentemente più assurde, che aprono la strada a due diverse interpretazioni della storia nel complesso: quella letterale e quella metaforica.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Se seguiamo la lettura letterale, tutto quello che è successo – tranne due momenti – è fondamentalmente reale.

Il viaggio di Beau nasce dalla morte della madre, si sviluppa nel suo continuo scappare e trovarsi in situazioni di pericolo e di conflitto, in realtà create ad hoc dalla madre, che cercava ancora una volta di avere prova dell’amore del figlio.

Tutte scene reali, ad eccezione dell’immaginazione di Beau per lo spettacolo, e la scena finale col tribunale, che potrebbe essere in parte deviata dall’immaginazione del protagonista – ed essere in realtà un semplice dialogo con la genitrice.

Kylie Rogers in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Se invece seguiamo l’interpretazione metaforica, tutta la storia racconta è un viaggio immaginario di Beau, con rappresentazioni visive delle sue ansie e del suo tentativo di superare il legame opprimente con la madre.

Tuttavia, in entrambe le visioni, alla fine Beau è vinto dall’eccessivo senso di colpa che lo opprime, e decide di non provare neanche a salvarsi, ma accettare la sua morte come giusta punizione per il suo comportamento.

Quindi, alla fine, Beau è sconfitto.