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Peter Pan & Wendy – Peter, dove sei?

Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery è il live action Disney tratto dal classico del 1953 e dall’opera teatrale di J. M. Barrie – almeno sulla carta.

Il film è stato rilasciato direttamente su Disney+.

Di cosa parla Peter Pan & Wendy?

Wendy è una giovane donna che sta per partire per un collegio lontano da casa, ma già rimpiange la sua vita da bambina, quando era tutto più semplice…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Peter Pan & Wendy?

Ever Anderson in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

Dipende.

Se volete vedere un film su Peter Pan, decisamente no: Peter Pan & Wendy, semplicemente, non parla di questo. Si tratta di tutto un altro tipo di storia, dal piglio fortemente drammatico, con al centro il racconto di un’amicizia – e non fra Peter e Wendy.

Il tutto condito da un girl power al limite del nauseante, che dimostra ancora una volta l’incapacità della Disney nel trattare temi delicati e nel metterli in scena in maniera credibile – e questo sia per i personaggi femminili, sia in generale per tutte le rappresentazioni inclusive.

Io vi ho avvertiti.

Uccidiamo Peter Pan!

Alexander Molony in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

Peter Pan & Wendy sembra vivere del desiderio di togliere Peter di scena.

Per ben due volte il personaggio viene considerato morto, riapparendo magicamente praticamente solo nelle scene in cui è strettamente necessario per portare avanti quello scampolo di trama presente nel film.

Per il resto, il film vuole solo parlare di Wendy.

E neanche bene.

Alexander Molony e Ever Anderson in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

Manca del tutto una costruzione emotiva del rapporto fra lei e Peter, che sembrano quanto più divisi per la differenza di età: nonostante gli attori siano sostanzialmente coetanei, Peter sembra avere l’età dell’opera originale – un preadolescente – mentre Wendy dovrebbe avere almeno 15 anni.

In questo senso si sarebbe potuto lavorare sulla costruzione di un rapporto fra loro due come sorella maggiore e fratello più piccolo – come era accennato proprio nell’incipit del film. Ma niente di tutto questo: semplicemente, il loro rapporto non esiste.

Ma parliamo di Wendy.

Non voglio crescere

Ever Anderson in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

Il personaggio di Wendy poteva essere riscritto in diverse direzioni.

All’inizio viene raccontato come la ragazza stia affrontando un momento di passaggio piuttosto fondamentale per la sua vita, ovvero andare a vivere lontano da casa. Troviamo quindi una Wendy già piuttosto matura rispetto alle precedenti trasposizioni – elemento che non sarebbe stato problematico di per sé.

In realtà i problemi sono molteplici.

Il primo problema riguarda l’eccessiva attualizzazione della sua storia al tempo presente: Wendy e i suoi genitori si comportano in maniera non tanto diversa da come si comporterebbero se vivessero nel 2023, mentre la storia è ambientata più di un secolo fa.

Emerge così un’evidente incapacità di raccontare le vere sfide che una donna all’inizio del Novecento doveva affrontare – come invece fatto ottimamente in Peter Pan (2003). Come se non bastasse, manca del tutto il suo percorso di maturazione emotiva che le faccia capire l’importanza di crescere.

Infatti, Wendy si limita a ripetere a pappagallo quello che la madre le ha detto.

E l’ambientazione non aiuta…

Fuggire l’infanzia?

Ever Anderson in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

Uno dei concetti fondamentali di Peter Pan è L’isola che non c’è.

Nel racconto originale, Wendy e i suoi fratelli venivano tentati dalle delizie della vita piena di avventure e creature fantastiche, all’interno di un’ambientazione dal forte sapore favolistico. E infatti Peter Pan era incapace di affrontare le responsabilità della vita adulta, scegliendo invece questa confortante ed infinita giovinezza.

Tuttavia, era altrettanto evidente come questo luogo rappresentasse l’oblio: non solo Peter Pan si dimenticava continuamente sia delle sue avventure, sia dei personaggi che lo circondavano, ma anche Wendy col tempo si rendeva conto di essere assorbita da questo ambiente, dimenticandosi gli affetti che si era lasciata indietro.

Alexander Molony e Ever Anderson in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

Al contrario, per stessa ammissione del film, L’isola che non c’è è un luogo deprimente.

È il luogo del conflitto continuo fra Peter e Uncino, con una scrittura piuttosto ambiziosa, che però si dimentica totalmente di inserire una narrazione coerente in merito: se Peter Pan è chiaramente contrario all’idea di ritornare a casa, manca tuttavia la spiegazione effettiva del perché.

Infatti, se già la mancanza della desiderabilità di Neverland era problematica, lo è ancora di più la scarsità del racconto del contesto storico dell’opera, che chiariva le paure di Peter di diventare un grigio e noioso adulto, dovendo mettere da parte i suoi sogni e le sue ambizioni.

Un uomo ridicolo

Jude Law in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

La riscrittura di Capitan Uncino è forse quella che ho meno digerito.

Il suo personaggio per sua natura è dotato di un fascino quasi magnetico, con i suoi abiti barocchi e sfarzosi, gli accessori che raccontavano il suo essere vanesio – come il bocchino per le sigarette di sua invenzione – e, più in generale, il suo modo di comportarsi.

Al contrario l’Uncino di Jude Law è un personaggio stanco, semplicemente miserabile, che porta strenuamente avanti la sua lotta con Peter Pan per motivazioni più personali che simboliche, ovvero la loro amicizia che si era conclusa tragicamente.

Jude Law in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

E se il concetto poteva comunque essere interessante nella scena della – apparente – morte del personaggio, che afferma di non avere pensieri felici, manca ancora una volta il percorso di maturazione di Peter per arrivare al perdono del suo eterno nemico.

Come se non bastasse, alla luce del contesto della storia estremamente angosciante e conflittuale, non si capisce neanche come lo stesso Peter possa essere così spensierato tanto da poter volare quasi senza bisogno della magia di Trilli, dal momento che si parla piuttosto di un personaggio davvero affranto…

Lavorare di sottrazione

Yara Shahidi in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

In Peter Pan & Wendy non sanno davvero cosa farsene del materiale originale.

Anche andando oltre gli aspetti più profondi dell’opera di cui sopra, manca tutto il resto: dove sono le sirene, le scene con gli indiani, i bimbi sperduti che cercano di uccidere Wendy istigati da Trilli?

Il film lavora incredibilmente per sottrazione, eliminando tutti gli elementi fondamentali della storia, e svuotando il film di un effettivo contenuto.

Ne risulta un prodotto che non è altro che un giro a vuoto intorno agli stessi due concetti, che manca totalmente di una parte centrale che permetta allo spettatore di conoscere i personaggi ed affezionarsi a loro, portando ad un finale freddo e distante.

Ever Anderson in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

E poi c’è il girl power.

Questo tentativo di rendere i personaggi femminili non solo più protagonisti del necessario, ma anche figure già formate, perfette e lodevoli, mi ha profondamente angosciato. Anzitutto Trilli, mancante totalmente della sua caratterizzazione da personaggio cattivello, pure smorzata come nel classico Disney.

Qui diventa un personaggio assolutamente perfetto e positivo, anzi inascoltato, come d’altronde tutti i personaggi femminili del film. Il picco di questa tendenza è rappresentato ovviamente da Giglio Tigrato, che più che un personaggio sembra la protagonista di una pubblicità di profumi

Peter Pan & Wendy politically correct

Ho rivisto recentemente il classico Disney Peter Pan, uscito nel 1953.

Prima dell’inizio del film compare un disclaimer che recita qualcosa tipo Questo film è pieno di rappresentazioni offensive, ma non vogliamo censurarlo. Il problema, anche se non è detto esplicitamente, è soprattutto la rappresentazione degli Indiani d’America.

Secondo i canoni odierni, l’idea di questo popolo come creatura fantastica di un mondo fantastico è già di per sé una feticizzazione. Ma, più in generale, anche la loro rappresentazione visiva piuttosto stereotipata, con anche la pelle rossa, poteva apparire offensiva.

Alyssa Wapanatâhk in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

Per questo giustamente in Peter Pan & Wendy hanno deciso direttamente di eliminare i personaggi.

Rimane solamente il personaggio di Giglio Tigrato, presente in scena più del dovuto con il suo fantastico cavallo bianco, e non si mostra nulla del rapporto fra gli Indiani e i pirati, né con Peter.

Inoltre, con una mossa che per me non è neanche inclusività forzata, ma proprio l’inserimento di token fatti e finiti, i bambini sperduti si tramutano in una graziosa e molto conveniente pubblicità di Benetton, con anche l’inclusione di un attore con la sindrome di down.

Sulla carta non era una cosa che trovavo troppo problematica, perché sarebbe bastata una facile e giusta spiegazione di questa riscrittura. Tuttavia, come al solito, anche per questo manca del tutto una contestualizzazione storica credibile, e si preferisce includere a casaccio.

Ma, d’altronde, questo non è un film di Peter Pan, quindi perché dovrei stupirmi…

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La principessa Mononoke – Caos naturale

La principessa Mononoke (1997) è il primo film del terzetto delle opere più ambiziose di Hayao Miyazaki – insieme ai successivi La città incantata (2001) e Il castello errante di Howl (2004).

Una pellicola che ottenne un ottimo riscontro internazionale, raddoppiando i risultati commerciali finora ottenuti da Miyazaki: a fronte di un budget di circa 23 milioni (2,1 miliardi di yen), ne ha incassò quasi 170 in tutto il mondo.

Di cosa parla La principessa Mononoke?

Il giovane principe Ashitaka rimane vittima di un attacco da parte di un cinghiale-demone, che lo porta a cercare una cura lontano da casa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La principessa Mononoke?

La principessa Mononoke e Moro in una scena di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

Assolutamente sì.

Anche se devo ammettere che è uno dei prodotti non solo più complessi, ma anche più impegnativi di Miyazaki, è comunque un’opera piena di fascino, che racchiude la totalità dei temi cari a questo regista, raccontati però in una forma più matura.

Una trama piuttosto intricata, affollata di tanti e diversi personaggi, focalizzata sulla tematica dell’ambientalismo, ma anche sulla caoticità, imprevedibilità, nonché la temibilità della natura, e delle conseguenze del provare a distruggerla…

Insomma, non un film facile, ma un film da vedere.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di La principessa Mononoke il pericolo è medio-alto.

Infatti, il doppiaggio è una barzelletta: oltre alle solite forzature, è il caso più iconico dell’incapacità di Cannarsi di scrivere degli adattamenti, con la traduzione del Dio della Foresta con Dio Bestia – e tutta l’ilarità correlata.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

La natura caotica

La principessa Mononoke e Moro in una scena di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

La principessa Mononoke riprende alcune tematiche e dinamiche centrali di Nausicaä della Valle del vento.

Ma le riscrive con un’ottica del tutto nuova.

Se infatti nella sua opera prima Miyazaki rappresentava una natura vista come nemica e distruttiva, ma solamente perché gli umani non erano capaci di comprendere i danni che le avevano inferto, e il tentativo della stessa di curarsi.

Diversamente nella pellicola del ’97 la natura è semplicemente caotica, financo temibile: animali giganteschi e aggressivi, quasi preistorici, testardi ed indomabili, pronti persino a sacrificare sé stessi in nome della salvezza del proprio ambiente.

La principessa Mononoke e Okkoto di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

In particolare, le due divinità, la lupa Moro e il cinghiale millenario Okkoto: bestie enormi, ricchissime di particolari, dei capi saggi, ma anche incapaci di scendere a compromessi e sempre pronti ad aggredire il nemico – anche solo presunto.

Al contempo, Re della Foresta, che rappresenta la Natura, racchiude al proprio interno sia la vita che la morte, come si vede chiaramente dal suo incedere: nelle sue orme la natura sboccia immediatamente rigogliosa, ma altrettanto velocemente perisce.

La violenza chiama la violenza

Lady Eboshi in una scena di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

Se la natura è violenza, l’umanità è distruzione.

L’ambientazione storica non è casuale: la pellicola si ambienta nel Periodo Muromachi (XIV-XVI sec.), in cui il Giappone vide un indebolimento del potere centralizzato, con una scena politica dominata invece dagli shōgun, i capi dell’élite militare.

Ma, soprattutto, fu l’epoca in cui il Giappone conobbe le armi da fuoco.

E infatti Lady Eboshi è proprio una shogun – una signora della guerra, se la volessimo dire all’occidentale – a capo della Città di Ferro, specializzata proprio nella produzione di queste armi moderne e micidiali.

Lady Eboshi in una scena di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

Ma Eboshi è anche il personaggio più tridimensionale della pellicola.

Anche se apparentemente è solamente un capo spietato e senza cuore – come testimoniato dal fatto che non raccoglie neanche i cadaveri dei suoi uomini dopo il primo attacco dei lupi – si mostra anche come protettrice degli ultimi degli esclusi.

E infatti la sua città accoglie non solo gli uomini, ma anche i lebbrosi e le prostitute, i suoi veri sostenitori. Quindi si potrebbe dire che basa il suo potere sulle armi e sull’essere una sorta di capopopolo.

Ma è vera benevolenza o semplice sete di potere?

Due anonimi protagonisti

La principessa Mononoke e Ashitaka in una scena di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

Come ho apprezzato Lady Eboshi come personaggio, ho molto meno gradito i due protagonisti.

Anche a fronte di uno screentime abbastanza ridotto per quelli che dovrebbero essere gli eroi della storia, li ho trovati molto più anonimi e bidimensionali di quanto si sarebbero meritati. Portano infatti sulle spalle entrambi tematiche e questioni piuttosto interessanti e non facili da trattare, ma si comportano anche con la massima ingenuità.

Da un certo punto di vista penso sia un aspetto anche voluto, per contrapporre agli antagonisti due eroi testardi e indomabili, effettivi motori della trama per molti tratti, così da seguire una strada tutto sommato semplice verso la conclusione, a fronte di una trama invece piuttosto complessa.

E a questo proposito…

Una trama (troppo) complessa

Forse anche nella sua volontà di voler rappresentare in maniera molto realistica e credibile il periodo storico scelto, Miyazaki ha scritto una trama per certi versi veramente troppo complessa.

E non era veramente necessario.

Infatti, si poteva facilmente alleggerire il lato degli antagonisti – non dovendo intrecciare addirittura tre gruppi di personaggi – e riequilibrare il lato invece degli eroi, offrendogli una maggiore personalità e tridimensionalità.

Soprattutto perché di fatto la storia non è di per sé così complicata, ma è stata inutilmente appesantita.

La principessa Mononoke e Ashitaka in una scena di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

Nondimeno ho apprezzato molto il finale.

Il Dio sacrifica se stesso, dopo aver rischiato di distruggere la sua stessa foresta, e ridona il verde alla valle, concedendogli una seconda occasione per prosperare. E come spiega proprio Ashitaka, il Dio non è morto, ma è la vita stessa che continua a vivere e a rinascere.

I due protagonisti scelgono due vie diverse, per ricreare sia il mondo della Natura, sia la realtà degli uomini, con la speranza che possano coesistere in armonia. E l’apparizione del kodama alla fine fa ben sperare…

Cosa significa Mononoke in La principessa Mononoke

Anche se emerge molto meno nella traduzione sia italiana che inglese, Mononoke non è un nome proprio – e infatti la protagonista si chiama San – ma ha un significato preciso.

I mononoke ((物の怪) sono degli spiriti, in particolare spiriti maligni che prendono possesso di altri esseri viventi per causargli dolori e sofferenze.

In questo caso è possibile che si intenda la parola anche come yōkai, ovvero esseri soprannaturali del folklore giapponese, come termine ombrello per raccontare il mondo spirituale della foresta, con i suoi spiriti e i suoi dei (kami)

All’interno di un’opera così ambiziosa, era quasi scontato che il lato artistico di Miyazaki migliorasse ulteriormente.

Anzitutto, si vede un’interessante evoluzione nel rappresentare i volti femminili, riuscendo davvero a differenziare Lady Eboshi da San:

Fra l’altro il modello di Lady Eboshi è stata una rappresentazione talmente interessante per Miyazaki da utilizzarla in maniera quasi identica nel successivo La città incantata:

Al contempo, interessanti sperimentazioni per i volti maschili, evolvendo il modello di base utilizzato finora, che poi si ritrova sempre nel film successivo:

Ma soprattutto con l’introduzione di un modello del tutto nuovo, rappresentato in questo caso da Jiko-Bō, in La città incantata da vari personaggi maschili:

Ma le sperimentazioni più interessanti riguardano sicuramente la rappresentazione degli animali, ricchissimi di particolari e di tecniche del tutto nuove, che si evolveranno in maniera diverse sia in Il castello errante di Howl, sia in La città incantata:

E lo stesso vale anche per i corpi giganteschi e gelatinosi, qui per il Dio della Foresta, in la Città Incantata con il Senza-volto nella sua forma finale:

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Peter Pan (2003) – Dalla parte di Wendy

Peter Pan (2003) di P. J. Hogan è l’adattamento più recente e pedissequo dell’opera omonima di J. M. Barrie, molto più anche del Classico Disney del 1953.

Fu purtroppo anche un flop commerciale piuttosto disastroso: a fronte di un budget di 130 milioni, ne incassò appena 122, rimanendo comunque nei cuori degli spettatori ancora oggi.

Di cosa parla Peter Pan (2003)?

Londra, inizio Novecento. La giovane Wendy si trova costretta a crescere, ma le viene offerta una via d’uscita piuttosto interessante…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Peter Pan (2003)?

Jeremy Sumpter in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Assolutamente sì.

Questa pellicola mi è sempre rimasta nel cuore e posso dire felicemente che mi ha accompagnato nella crescita: la vidi da bambina, da adolescente, e l’ho rivista ora da adulta, ogni volta percependola in maniera assolutamente differente.

Peter Pan è infatti una pellicola estremamente trasversale.

Per i suoi aspetti giocosi e favolistici può coinvolgere facilmente i più piccoli, può emozionare gli adolescenti che si possono rivedere nei protagonisti, ma anche gli adulti, con una riflessione sulle bellezze e le amarezze del diventare grandi…

Dalla parte di Wendy

Rachel Hurd-Wood in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Uno degli aspetti più vincenti della pellicola è la riscrittura del personaggio di Wendy.

Nelle opere originali – sia la pièce teatrale, sia nel romanzo derivativo – Wendy è un personaggio passivo, che viene costantemente ricondotto al ruolo della madre – per quello che voleva dire essere tale nell’epoca rappresentata.

E questo era proprio il primo ostacolo della trasposizione.

Come nella storia di P. J. Hogan Wendy più che madre dei bimbi sperduti diventava la loro balia e domestica – cucina, li mette a letto, li accudisce, Peter compreso – nel Peter Pan del 2003 si sceglie di ricondurre il ruolo della madre invece alla raccontastorie, soprattutto nel gioco dei ruoli fra lei e Peter.

Jeremy Sumpter e Rachel Hurd-Wood in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Al contempo, il dramma della crescita è principalmente sulle sue spalle.

Nel contesto storico raccontato, diventare adulta per una donna era un passaggio fondamentale quanto difficoltoso, in cui si doveva sottostare a precise aspettative ed obblighi, per mettersi sul mercato e maritarsi al più presto.

È quindi è piuttosto comprensibile che Wendy si lasci abbastanza facilmente lusingare dalle promesse di Peter – oltre ad essere totalmente ammaliata da lui fin dal primo incontro. Wendy di fatto scappa dalle responsabilità che le sono crollate addosso all’improvviso, e sceglie di rimanere per sempre bambina e felice.

Ma non è tutto oro quel che luccica…

Una crescita dolce e amara

Jeremy Sumpter, Rachel Hurd-Wood, Freddie Popplewell e Harry Newell in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Wendy è totalmente rapita – in tutti i sensi – dalla vita di Peter, fatta di continue avventure in un mondo pieno di creature fantastiche e uscite da un libro delle favole – praticamente la materializzazione di tutti i suoi sogni.

Ma Wendy non può non crescere.

Da preadolescente comincia inevitabilmente a sentire quei primi pruriti, che non riesce del tutto a comprendere, ma che sa che saranno più chiari quando sarà grande. In sostanza, Peter Pan parla della maturazione sia emotiva che sessuale di Wendy – e, in parte, anche di Peter.

Una maturazione che la protagonista sente non solo come necessaria, ma anche tutto sommato più auspicabile rispetto all’eterna giovinezza di Peter. E questo nonostante sia allo stesso tempo consapevole di cosa significa essere adulti.

Mrs. Darling racconta infatti alla figlia il lato più amaro della crescita: dover mettere da parte i sogni, chiuderli in un cassetto, ma mantenerli ancora nel proprio cuore, pur con sofferenza – proprio quello a cui Peter non vuole e non può rinunciare…

Un personaggio tragicomico

Jeremy Sumpter, Rachel Hurd-Wood e Ludivine Sagnier in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Peter Pan è un personaggio complesso, con diverse chiavi di lettura.

Rappresenta di fatto la giovinezza eterna, con le sue luci e le sue ombre: una perpetua spensieratezza – che gli permette di essere leggero e quindi di volare – ed avventure fantastiche, che farebbero la gioia di ogni bambino.

Ma è anche chiudere le porte alle felicità che solo un’effettiva maturazione può portare, anzitutto l’amore romantico, ben diverso dal semplice affetto dei propri genitori, e che Peter scopre proprio grazie a Wendy.

Un altro lato piuttosto drammatico – più volte affrontato nelle opere originali – è che questa eccessiva spensieratezza si accompagna anche ad una memoria fragilissima, che porta Peter a dimenticarsi continuamente delle sue stesse avventure e, potenzialmente, anche di Wendy stessa…

O a diventare come Uncino.

Il dramma di Uncino

Jason Isaacs in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Uncino è un personaggio speculare e parallelo a Peter Pan.

Un adulto pieno di rabbia e malignità, che odia Peter perché rappresenta tutto quello che lui ha ormai da tempo perduto. Al contempo, si rende conto che sia lui che Peter sono privi di un elemento fondamentale, anche se per motivi diversi.

Infatti Uncino, nella sua astuzia e malizia, vuole far paura a Peter quando capisce che anche lui sta vivendo il suo stesso dramma – non essere amati. E quello che gli racconta è per certi versi quello che succede effettivamente nel finale del romanzo: Peter si dimentica di Wendy e la ritrova adulta e sposata.

E glielo racconta così abilmente perché è proprio la stessa situazione in cui si trova lui stesso, la stessa consapevolezza che ha ormai da molto tempo, e che infine lo porta ad arrendersi, a rinunciare alla sua stessa vita…

Come Wendy salvò Peter

Jeremy Sumpter e Rachel Hurd-Wood in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Quando Uncino lo minaccia di un futuro senza Wendy, senza amore e senza affetti, Peter è inevitabilmente a terra, vinto.

Per questo Wendy riesce a salvarlo, promettendogli che, anche se le loro strade si separeranno, lei continuerà comunque ad amarlo, come suo primo ed unico amore. Per questo quel bacio rappresenta il momento di passaggio per entrambi.

Wendy accetta la sua maturazione sessuale ed emotiva, capisce in quale direzione la porteranno queste nuove sensazioni che la stanno travolgendo. Al contempo Peter conosce una felicità nuova, regalata non solo dalle emozioni di questa spensierata giovinezza, ma anche da altri sentimenti finora conosciuti.

Rachel Hurd-Wood in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Perché allora alla fine Peter e Wendy si separano?

Anche se Peter rimarrà per sempre un ragazzino, in qualche modo è diventato comunque un po’ più grande: ha capito meglio le sue scelte di vita, le gioie – la spensieratezza, la mancanza di responsabilità – e le amarezze – non avere l’affetto di una famiglia o l’amore di Wendy.

Ma la stessa Wendy è maturata: ha abbracciato questi nuovi e strani sentimenti, ed è pronta ad esplorarli come giovane donna. Ed è diventata anche abbastanza matura da capire le amarezze della vita di Peter, dicendo in un certo senso addio alla sua stessa infanzia.

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Guardiani della Galassia Vol. 2 – Il film della maturazione

Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) è il sequel dell’omonimo film che fece la fortuna di James Gunn, confermata proprio da questo capitolo: dopo il licenziamento del regista per dei tweets di cattivo gusto (ma molto datati), cast e pubblico si rivoltarono contro la produzione.

Il resto è storia.

Fra l’altro un sequel che confermò l’andamento positivo del brand, con anche un aumento degli incassi: 863 milioni, contro 200 di budget – il primo ne aveva guadagnati circa un centinaio in meno.

Di cosa parla Guardiani della Galassia Vol. 2?

Pochi mesi dopo il primo film, i Guardiani sono impegnati in una missione per i Sovereign, ma non tutto va come si immaginavano…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Guardiani della Galassia Vol. 2?

Michael Rooker e Sean Gunn in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

In generale, sì.

Assolutamente sì se avete visto ed apprezzato il primo capitolo: vedendoli per la prima volta a così poca distanza, mi sono resa conto della superiorità di Guardiani della Galassia Vol. 2 rispetto alla pellicola del 2014, indice forse anche di una maggiore maturazione e libertà del regista a seguito del successo ottenuto.

Nonostante non manchi di qualche elemento anche di forte debolezza, riesce a migliorarsi sotto molti aspetti, anzitutto per l’antagonista e per la struttura narrativa, che evade la gestione più classica di questo tipo di prodotti, come era stato invece per il precedente.

Un nuovo obbiettivo

Michael Rooker e Rocket Raccon in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

Nel precedente film l’obbiettivo finale della pellicola era costituire il gruppo, in questo caso Gunn si è trovato davanti all’ostacolo di dover gestire un gruppo piuttosto folto di personaggi – vista anche l’introduzione di Mantis e la maggior importanza di Yondu.

E ha sperimentato una gestione dei personaggi che sarà poi la stessa di Infinity War (2018): dividerli in piccole storyline autoconclusive, per poi farli rincontrare nel finale.

L’arco narrativo più azzeccato è ovviamente quella di Yondu e Rocket, utile ad entrambi per un’interessante riflessione e conseguente maturazione: come Rocket si rende conto della sua irriverenza e incapacità di fare gruppo, Yondu sceglie di abbandonare la sua corazza burbera per rinsaldare il rapporto con Peter.

Ma qui nasce il primo problema…

Come si cambia…in fretta

Rocket Raccon e Groot in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

A conti fatti, l’arco narrativo di Rocket e Yondu è quello meglio costruito, mentre gli altri appaiono complessivamente molto più difettosi.

Escludendo la coppia Drax e Mantis, che rappresenta semplicemente un simpatico siparietto comico, l’arco narrativo che mi ha meno convinto è quello di Peter e suo padre.

Per quanto il film si impegni moltissimo nel raccontare la diffidenza di Star Lord nei confronti di Ego, concede molto meno minutaggio al racconto dell’assuefazione di Peter verso il ritrovato genitore.

Infatti, nonostante Ego riesca a convincere sottilmente il figlio della sua visione, al contempo lo stesso si rivolta fin troppo facilmente e nettamente contro di lui, anche se il trigger è molto potente – il trauma della morte della madre – e rivela immediatamente la vera natura dell’antagonista.

Karen Gillan in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

Altro discorso per Nebula e Gamora.

Il loro rapporto è in realtà una costante anche nei successivi film degli Avengers, ed era già stato introdotto nello scorso capitolo. Tuttavia, il loro parziale rappacificamento mi è parso un po’ troppo veloce, e avrebbe secondo me avuto bisogno di un maggiore screentime.

Tuttavia, mi sono anche in parte ricreduta quando l’argomento viene nuovamente affrontato sul finale, con almeno un parziale ed effettivo confronto fra le due, che verrà poi meglio raccontato nei film successivi, collocato proprio nel momento di riflessione generale di tutti i personaggi.

Lo stesso problema?

Pom Klementieff, Dave Bautista, Chris Pratt, Kurt Russell e Zoe Saldana in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

Uno dei principali problemi di Guardiani della Galassia era proprio la scelta dell’antagonista.

Nel sequel Gunn compie un parziale passo avanti.

E dico parziale in quanto, anche se indubbiamente il personaggio di Ego è ben gestito, raccontando abbastanza approfonditamente la sua psicologia e le sue motivazioni, sostanzialmente le stesse si riassumono – ancora una volta – nel desiderio di conquistare il mondo.

Anche peggio se parliamo dei Sovereign, l’elemento più debole, soprattutto esteticamente, dell’intera pellicola: personaggi veramente anonimi, che potevano essere sostituiti od eliminati dalla pellicola con poche righe di sceneggiatura.

Infatti, la loro vera utilità è introdurre il villain del terzo capitolo, Adam Warlock.

La morte di Yondu è probabilmente una delle più dolorose dell’intero MCU.

Ma era di fatto inevitabile.

È evidente che in questo capitolo Gunn volesse approfondire Yondu: nonostante sia un personaggio davvero accattivante e intrigante, aveva avuto fin troppo poco spazio nel primo capitolo.

E il suo approfondimento è anche finalizzato a farci comprendere meglio il significato della sua morte, essenziale per il personaggio di Quill: il protagonista dice definitivamente addio la figura paterna e scende a patti con un trauma che l’aveva accompagnato per tutta la vita, anche se nella maniera più tragica…

Dove si colloca Guardiani della Galassia 2?

Come il primo capitolo, Guardiani della Galassia Vol. 2 è un film altrettanto autonomo, tanto da essere ambientato appena un paio di mesi dopo la pellicola del 2014.

Non a caso le diverse post-creditben cinque! – non si collegano in alcun modo agli altri film dell’MCU, ma servono ad approfondire alcuni aspetti della pellicola stessa, ad inserire alcune gag per smorzare la tragicità del finale, nonché ad introdurre il villain del terzo capitolo.

La pellicola è fra i primi tre film dell’affollata Fase 3, conclusiva della Saga dell’Infinito.

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Guardiani della Galassia – Un film indipendente

Guardiani della galassia (2014) è il primo capitolo della trilogia omonima diretta da James Gunn – quando era ancora un regista di nicchia – nonché il film di introduzione di questo gruppo di personaggi.

Un prodotto che ottenne, a sorpresa viste le premesse, un buon successo – e non solo commerciale: con un budget di circa 232 milioni, ne incassò 733.

Di cosa parla Guardiani della Galassia?

Peter Quill, aka Star Lord, è un criminale spaziale che cerca di mettere le mani sul preziosissimo Orb, senza però saperne il vero valore…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Guardiani della Galassia?

Chris Pratt e Dave Bautista in una scena di Guardiani della galassia (2014) di James Gunn

In generale, sì.

Soprattutto se non siete particolarmente appassionati di cinecomic e siete dei casual watcher dell’MCU: a differenza di altre pellicole della Marvel, Guardiani della Galassia è un film così tanto a sé stante che non ci sono neanche delle post-credit che lo collegano agli altri prodotti del franchise.

Infatti, più che un film di supereroi, è un’avventura fantascientifica caratterizzata da una comicità anche piuttosto piacevole rispetto ad altri prodotti MCU, ma che pecca nei soliti problemi di questi film: struttura narrativa ripetitiva e villain insipido.

Tuttavia, come prodotto di intrattenimento, ve lo consiglio molto.

Creare un gruppo

Chris Pratt e Zoe Saldana in una scena di Guardiani della galassia (2014) di James Gunn

Una delle sfide più ardue era il saper creare un gruppo che fosse effettivamente unito e credibile.

Per quanto ci sia qualche debolezza narrativa – anche piuttosto prevedibile – il film riesce complessivamente bene in questo senso, utilizzando due elementi particolarmente vincenti: costruzione di un solido background ed assegnazione di un obiettivo personale ad ogni componente del gruppo.

Il primo elemento sembra molto scontato, ma non lo è per niente: basta pensare a prodotti con finalità analoghe come Suicide squad (2016), quasi comico da questo punto di vista, che allestisce una squadra di personaggi bidimensionali e che non hanno alcun motivo per fare gruppo.

Chris Pratt, Zoe Saldana, Dave Bautista e Vin Diesel in una scena di Guardiani della galassia (2014) di James Gunn

Al contrario, anche e soprattutto attraverso i dialoghi, Guardiani della Galassia riesce a rendere tutti i personaggi abbastanza tridimensionali e a fornire ad ognuno di loro un proprio personale e credibile motivo di fare gruppo con gli altri protagonisti.

Come elemento bonus ai fini della credibilità, i conflitti fra i personaggi non vengono risolti fino in fondo, anzi si ritrovano anche nei film successivi.

Ed è piuttosto indicativo in questo senso che il rapporto fra Gamora e Star Lord non venga concluso alla fine di questo capitolo – e neanche propriamente nel successivo, in realtà.

Tuttavia, qui sorgono i primi problemi.

Tornare all’essenziale

Chris Pratt, Zoe Saldana, Dave Bautista e Vin Diesel in una scena di Guardiani della galassia (2014) di James Gunn

Per i primi due atti del film la narrazione scorre in maniera piuttosto credibile ed interessante, e anche abbastanza anomala per un prodotto di questo tipo, non venendo mai meno all’identità dei personaggi stessi.

Poi, col terzo atto, questo elemento si indebolisce.

Il primo scontro con l’antagonista porta, come sempre, alla sconfitta degli eroi, che devono mettere da parte i propri principi per salvare il mondo, quindi seguendo binari più sicuri e consolidati del genere di riferimento.

Tuttavia, come scelta stona un poco con l’identità dei protagonisti stessi.

Ma non manca comunque una costruzione abbastanza piacevole e una conclusione non del tutto scontata, che apre anche le porte anche al sequel in maniera piuttosto coerente – indice di una progettualità presente fin da questo primo capitolo.

Il solito problema

Lee Pace e Karen Gillan in una scena di Guardiani della galassia (2014) di James Gunn

Un altro problema evidente della pellicola – e in realtà della maggior parte dei prodotti MCU – è la bidimensionalità dell’antagonista, Ronan l’Accusatore. E non è di sicuro un caso che lo stesso sia legato proprio allo snodo narrativo meno efficace della pellicola, di cui sopra.

E personalmente un po’ mi dispiace: si vede che Gunn ha comunque cercato di costruire un minimo di trama politica per contestualizzare il villain, così da non renderlo semplicemente un nemico spinto dal desiderio di conquistare il mondo.

Lee Pace in una scena di Guardiani della galassia (2014) di James Gunn

Tuttavia, è una strategia che purtroppo non funziona fino in fondo.

E mi dispiace anche per Lee Pace, attore che io ho sempre apprezzato, sia come l’elfo altezzoso in La desolazione di Smaug (2013), sia in quel ruolo veramente indovinato per le sue capacità di Fratello Giorno nella serie tv Fondazione (2021- …).

E questo è anche il motivo per cui Guardiani della Galassia è il mio secondo film MCU preferito, dopo a Spiderman Homecoming…

Gamora Guardiani della Galassia

Il personaggio di Gamora purtroppo fu un personaggio scritto nel periodo peggiore dell’MCU per i personaggi femminili, che dovevano essere o delle insopportabili Mary Sue, possibilmente anche acide, oppure ipersessualizzate come Black Widow in Iron Man 2 (2010).

E ovviamente il picco è stato Captain Marvel (2019).

E Nebula non è da meno.

Tuttavia, bisogna ammettere che quantomeno in questo caso entrambi i personaggi femminili sono ottimamente contestualizzati nella storia e nella loro caratterizzazione – qui e anche – e soprattutto – nei successivi prodotti.

Dove si colloca Guardiani della Galassia?

Come detto, Guardiani della Galassia è un film molto autonomo, ma dovrebbe indicativamente collocarsi nel 2014 durante Captain America – Civil War (2016) – e così anche il sequel.

Si trova a circa a metà della Fase 2.

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2021 Avventura Azione Dramma storico Drammatico Fantastico Film Surreale

The Green Knight – La morte cammina con te

The Green Knight (2021) di David Lowery è la pellicola forse più strana ed ambiziosa della sua produzione (finora). Tratta da un poema cavalleresco anonimo del XIV sec., è una storia dal taglio medievaleggiante e fantastico.

A fronte di un budget anche abbastanza ambizioso per un prodotto indie – 15 milioni di dollari – come prevedibile per periodo ed il tipo di film, è stato un discreto flop: meno di 20 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla The Green Knight?

Il giovane Ser Gawain viene costretto dalla madre a partecipare ad una festa della Tavola Rotonda, organizzata da suo zio, Re Artù. In questa occasione si scontrerà con una sfida inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Green Knight?

Dev Patel in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

Assolutamente sì.

Per quanto sia un film incredibilmente complesso – tanto che mi ha ricordato per certi versi un’altra produzione della A24, Men (2022) – è anche una pellicola incredibilmente affascinante: un’avventura di stampo folkloristico, medievaleggiante, ma anche quasi surreale.

La sua bellezza è anche l’aprirsi a diverse chiavi di lettura, fornite in realtà dal regista stesso, ma che lasciano ampio spazio anche alla libera interpretazione allo spettatore, vista la complessità dell’opera di partenza in primo luogo.

Insomma, se vi affascinano storie complesse ed estremamente simboliche, guardatelo assolutamente.

Il punto di partenza

Dev Patel in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

La personalità del protagonista è chiara fin da subito.

Si intrattiene con la sua amante, passa le notti fuori casa, ma non riesce ancora ad essere un cavaliere, nonostante sia nipote di Re Artù nonché, come si vede nella scena della festa, il suo prediletto e il suo sicuro erede.

E, nel momento del lancio della sfida del Green Knight, mostra anche un altro lato della sua personalità: l’irriverenza e il desiderio di mostrare il suo valore, ma senza la saggezza e l’equilibrio che dovrebbe distinguere i Cavalieri di Artù.

E infatti quella è solo la prima prova.

La responsabilità della Madre

The Green Knight in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

La Madre di Gawain invoca il Green Knight.

Ma perché lo fa?

La risposta è più chiara a visione conclusa: la donna – che dovrebbe essere una rivisitazione di Morgana del ciclo arturiano – è consapevole dell’immaturità del figlio, il quale dovrebbe compiere il passaggio fondamentale alla vita adulta – diventare cavaliere e erede di Artù – ma non ha ancora la maturità necessaria, appunto.

Infatti al figlio mancano due capacità fondamentali.

Il senso di responsabilità e l’intraprendenza positiva.

Dev Patel in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

Ser Gerwig dimostra di essere intraprendente, ma in maniera non positiva: si può parlare meglio di avventatezza, irriverenza, appunto. Infatti accetta la sfida del Green Knight, ma non ne capisce minimamente la valenza: per lui è solo un modo per mostrare la sua virilità.

Il vero significato della sfida è dimostrare di saper saggiare la situazione: essere intraprendenti e pronti a mettersi alla prova, ma sapere anche meditare al meglio le proprie azioni – e quindi essere capaci anche di affrontare le conseguenze.

Il classismo?

Barry Keogan in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

Il primo ostacolo – anche se non ne è inizialmente consapevole – è il villano che Ser Gerwig incontra all’inizio del suo viaggio.

Nonostante il personaggio di Barry Keogan sia indubbiamente fastidioso e insistente, fornisce comunque informazioni fondamentali al protagonista per il suo viaggio. Ma, quando il ragazzo gli richiede qualcosa in cambio per la sua gentilezza, il protagonista lo tratta con grande arroganza e superiorità.

Appare qui evidente come Gerwig abbia vissuto fino a questo momento nella sicurezza e comodità della sua città, in una posizione di potere e prestigio, approfittandosi anche evidentemente delle persone a lui inferiori.

Ma il mondo esterno è molto più pericoloso.

Barry Keogan in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

Infatti il protagonista rimane vittima di un’imboscata, in cui perde la maggior parte dei suoi averi e dei suoi simboli – l’ascia e il cavallo. E, in un certo senso, il ragazzo sceglie di prendere il suo posto, quindi sottrargli la sua posizione che il protagonista considerava intoccabile.

Se fosse stato più generoso non sarebbe stato attaccato?

Forse no, ma, nel simbolismo della pellicola, è quantomai evidente che questa sia un momento di passaggio per il futuro re, che avrebbe dovuto mostrare saggezza e generosità nel trattare col popolo, soprattutto potendoselo permettere.

E proprio in quel momento sarebbe potuto anche morire…

L’incontro con Santa Winifred

Erin Kellyman in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

Il personaggio di Santa Winifred è meno casuale di quanto sembri.

Apparentemente l’incontro con la ragazza sembra solo una side quest portata avanti dal protagonista, impietosito dalla situazione della sfortunata. In realtà, oltre ad essere un racconto piuttosto fedele al mito originale, è una prova fondamentale per Ser Gerwig.

Infatti per la prima volta il protagonista si impegna nell’aiutare il prossimo, senza pensare ad un guadagno futuro – per esempio giacere con la ragazza – che in realtà diventa un aiuto fondamentale per la il suo viaggio, anche se sotto altra forma.

Nelle sue identità – la donna e la volpe – Winifred è un’effettiva guida per Ser Gerwig: grazie a lei capisce – o, meglio, lo spettatore capisce – che è la stessa madre ad aver invocato il Green Knight, e viene anche messo in guardia sulla pericolosità della prova finale.

Il misterioso castello

Alicia Vikander in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

Dopo un viaggio piuttosto stancante e faticoso, Ser Gerwig diventa ospite del misterioso lord dell’altrettanto misterioso castello, la cui moglie ha le sembianze proprio della sua amante, Essel.

Il castello è infatti una sorta di rappresentazione – con le dovute differenze – della vita presente e futura del protagonista. Sotto alla protezione di un benevolente signore – come era Re Artù – vivendo una vita sessuale piuttosto libertina con la lady del castello – come con Essel – ma sotto la stretta e minacciosa sorveglianza della madre – qui nei panni dell’anziana bendata.

Ma per la relazione con la lady le parti si invertono.

Alicia Vikander e Dev Patel in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

Nonostante sia sempre la sua amante, in questo caso è Essel a starsi approfittando di Gerwig, e non il contrario. Infatti il protagonista in questo caso sta sfruttando dell’ospitalità del lord, mentre a casa era lui che si approfittava della ragazza, senza darle nulla in cambio.

Questo passaggio è insomma un modo per mettere il protagonista non solo davanti alla sua vita miserabile vista da un altro punto di vista, ma anche a comprendere quanto le fortune possano essere alterne: un giorno Re, un giorno straccione.

The Green Knight finale

Il finale di The Green Knight è doppio.

Nel primo finale Ser Gerwig rimane saldamente legato alla sua cintura di protezione per tutta la sua vita, sottraendosi alla sua prova e alle sue responsabilità.

E questo lo porta ad una vita per nulla felice.

Continua ad approfittarsi di Essel, le strappa di braccia il figlio appena nato, si sposa con una moglie di convenienza, e il primo figlio gli muore in battaglia. E, nonostante tutto, alla fine deve comunque affrontare la morte che aveva cercato di fuggire.

Sean Harris in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

E questa vita è quella che gli passa apparentemente davanti agli occhi nel secondo finale, in cui capisce che non potrà fuggire dal suo destino, ma che è arrivata l’ora di affrontarlo. Ma, soprattutto, di affrontarlo senza una perpetua protezione.

Così viene ricompensato, con una vita – si spera – più saggia e felice.

La cintura verde The Green Knight significato

La cintura donata dalla madre a Ser Gerwig è fondamentale.

È uno strumento che la donna offre al figlio per proteggersi, come per portare con sé sempre una parte della maternità che fino a questo momento l’ha guidato e protetto – una sorta di coperta di Linus ante-litteram.

Proprio intorno a questo elemento in realtà gira l’insegnamento della madre: il protagonista deve essere capace di liberarsi da una protezione – vera o immaginaria – che sia della madre o della sua posizione, e diventare capace di agire autonomamente.

E infatti il protagonista alla fine sceglie in entrambi i finali di togliersi la cintura, arrivando in un modo o nell’altro ad affrontare le sue responsabilità. Ma solo facendolo nel momento giusto può evitare una vita di vigliaccheria e violenza, e di sola apparente sicurezza…

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Porco rosso – Un’avventura italiana

Porco rosso (1992) è la prima avventura italiana di Hayao Miyazaki, nonché il primo suo lungometraggio con un protagonista maschile.

Un prodotto che confermò nuovamente l’andamento positivo del maestro nipponico a livello internazionale: sempre 44 milioni di dollari di incasso, a fronte di 9,2 milioni di yen (circa 7 milioni di dollari).

Di cosa parla Porco rosso?

Porco Rosso, soprannome dell’aviatore Marco Pagot, è un ex pilota dell’Aeronautica Italiana e cacciatore di taglie. Il nome deriva dal suo particolare aspetto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Porco rosso?

Porco Rosso in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

Assolutamente sì.

Porco rosso è fra i minori di Miyazaki che assolutamente preferisco, al pari del precedente Il mio vicino Totoro (1988). Solo la prima delle due avventure italiane del maestro nipponico, prima del più recente Si alza il vento (2013).

Una storia che unisce il realismo più stringente e l’elemento fantastico in maniera organica e ben pensata, con un protagonista carismatico e interessante. E non manca anche di un tono che mischia il drammatico e i momenti più gustosamente comici.

Da vedere, assolutamente.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Porco Rosso il pericolo è medio-alto.

Il solito appesantimento insostenibile dei dialoghi, con utilizzo di termini totalmente fuori contesto: insomma, al solito i personaggi parlano come dei libri stampati – e pure datati. Ci mancava solo che Cannarsi avesse tradotto il titolo Maiale cremisi

Proprio per questo, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

Una storia semplice e perfetta

Porco Rosso e Fio Piccolo in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

La bellezza della storia di Porco rosso è soprattutto nella sua semplicità.

Una piccola storia di pirati, che riprende i livelli di comicità degli analoghi personaggi di Laputa (1986) e un protagonista inedito Miyazaki, più complesso e non del tutto positivo, ma anzi con dei picchi drammatici piuttosto interessanti.

La vicenda è divisa in due atti e ruota intorno allo scontro fra Marco e Curtis, arricchendosi di tante sottotrame piacevoli e divertenti, e, al contempo, con approfondimenti sul protagonista e la sua storia, anche se non viene mai del tutto chiarita…

La donna oggetto?

Fio Picolo in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

Anche in questo caso Miyazaki conferma la sua superba gestione dei personaggi femminili.

Ambientando la vicenda alla fine degli Anni Venti, sarebbe stato del tutto irreale inserire un personaggio come Fio senza un’adeguata contestualizzazione. E infatti la ragazza viene trattata in maniera estremamente verosimile: sottovalutandola, sminuendola e oggettificandola.

All’inizio Porco Rosso non vuole che lei si occupi del suo aereo, dicendo esplicitamente che non si fida perché femmina e troppo giovane. Ma basta poco perché la ragazza dimostri le sue capacità, al punto che, grazie alla sua forte intraprendenza, diventi persino motore dell’azione.

In seconda battuta, con i pirati, e soprattutto con Curtis, Fio diventa l’oggetto del desiderio, ma in realtà è anche il personaggio che riesce a risolvere la disputa in maniera ordinata e senza che nessuno si faccia veramente male, dimostrando arguzia e intelligenza.

Essere liberi

Porco Rosso in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

Meglio maiale che fascista.

Il contesto storico è assai sottolineato durante la narrazione, con uno spiccato accento sul pacifismo e sull’opposizione al regime. Tuttavia, anche spogliando la narrazione del suo esplicito significato politico, la morale è un’altra.

Marco, dopo aver visto i suoi compagni morire, ha capito di dover volare da solo, libero, ma anche escluso dagli altri. Una libertà quindi guadagnata a caro prezzo, dovendo soffrire un aspetto repellente e al contempo l’essere nel costante mirino del Fascismo.

E a questo proposito…

Perché Porco Rosso è un maiale?

Il motivo della maledizione di Porco Rosso che lo rende un maiale non è esplicitato, ma si può intuire dal suo racconto.

Marco era un pilota dell’aeronautica, che ha visto morire amici e nemici insieme, trovandosi solo nel mondo, e capendo proprio in quel momento che quella doveva essere la maledizione della sua vita: volare da solo.

Una maledizione che forse è anche dovuto all’autosuggestione, a come il protagonista ha interpretato quella scena, decidendo anche di recidere ogni contatto personale e relazione potenziale, in particolare con Gina.

Cosa succede nel finale di Porco rosso?

Porco Rosso e Gina in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

Quindi cosa succede nel finale di Porco Rosso?

La narrazione è affidata alle parole di Fio, che spiega l’esito della scommessa di Gina è un segreto, ma che lei comunque non ha più incontrato Porco Rosso. Quindi un finale aperto, che lascia però una speranza allo spettatore.

Io personalmente spero che Marco sia riuscito a ricongiungersi con Gina, a stringere una vera e profonda relazione con lei, e, in questo modo, si sia liberato di quella maledizione che in qualche modo si è autoimposto. Così da tornare umano.

E meno solo.

Le parole italiane in Porco rosso

Miyazaki, come altri autori nipponici, dimostra un profondo amore per l’Italia. E, per questo, mi viene più facile perdonargli alcuni errori di pura ingenuità.

Fra tutte le scritte in italiano che compaiono nella pellicola, ce ne sono alcune con piccoli errori, in particolare nell’officina Piccolo vi è il classico cartello che dice Non si fa credito, ma è scritto Non si fo credito.

Al contempo, l’ambientazione della storia è abbastanza generica, in particolare la Milano rappresentata sembra più ispirata a diverse città europee, e non specificatamente alla capitale lombarda.

In ultimo, nella sua totale ingenuità, Miyazaki evidentemente non si rendeva conto di quanto sia involontariamente comico il fatto che Fio chiami il protagonista Porco, che ha un altro significato in italiano…

In Porco Rosso Miyazaki sperimenta in nuove direzioni.

Anzitutto, qui per la prima volta si vede il nuovo modello per i personaggi femminili, principalmente quelli adulti, che si distinguono più nettamente da quelli invece più giovani, che restano costanti fin da Nausicaä della Valle del vento (1984).

Infatti, Fio Piccolo è sostanzialmente identica a Nausicaä:

Mentre Gina è il primo personaggio femminile adulto veramente differente, con un modello poi ripreso sia ne La città incantata (2001) che nel Il castello errante di Howl (2004):

Elemento curioso: è la prima volta che in un film di Miyazaki i personaggi fumano, elemento incredibilmente presente in La città incantata:

Inoltre, continua qualche passo avanti nella rappresentazione degli oggetti domestici, con un netto miglioramento:

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Alfred Hitchcock Avventura Commedia nera Drammatico Film Giallo Humor Nero Thriller

Nodo alla gola – Un omicidio da appartamento

Nodo alla gola (1948), talvolta noto anche come Cocktail per un cadavere, è la prima pellicola in Technicolor girata da Alfred Hitchcock.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 2 milioni di dollari, circa 25 oggi – ebbe un riscontro altrettanto contenuto, corrispondente agli stessi costi di produzione (fra i 2,2 milioni e i 2,8 milioni).

Di cosa parla Nodo alla gola?

Poco prima di una festa da loro organizzata, i due giovani Brandon e Phillip uccidono un loro “amico”. E per tutto il party il cadavere sarà presente in scena…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Nodo alla gola?

John Dall e Farley Granger in una scena di Nodo alla gola (1948) di Alfred Hitchcock

Assolutamente sì.

Nodo alla gola è una delle opere meno conosciute di Hitchcock, ma è anche un’interessante sperimentazione di questo straordinario regista, per la prima volta con una pellicola a colori e con l’utilizzo di diversi ed abili piani sequenza.

Inoltre, non manca anche di un’ironia piuttosto sottile, profondamente dark, che ho personalmente molto apprezzato – la più interessante sperimentazione in questo senso finora, dopo alcuni accenni in altri prodotti, ad esempio in Rebecca (1940).

Cominciamo subito!

L’elemento sicuramente più interessante della pellicola è l’incipit.

Vediamo fin da subito l’omicidio, rappresentato anche in maniera piuttosto esplicita e violenta. E conosciamo immediatamente anche i colpevoli, una coppia piuttosto singolare di giovani rampolli della buona società.

La tensione è palpabile fin dal primo momento, definita proprio dal contrasto fra i due: mentre Brandon si sente brillante ed invincibile, al contrario Philip è evidentemente preoccupato, sicuro di essere scoperto da un momento all’altro.

E sembra che lo svelamento del mistero sia chiamato fin dall’inizio…

Il vero protagonista

James Stewart in una scena di Nodo alla gola (1948) di Alfred Hitchcock

Anche se apparentemente la coppia omicida è la protagonista, in realtà il vero focus della pellicola è il personaggio di James Stewart.

Dopo un piccolo susseguirsi di figure di contorno che animano la festa, Rupert compare improvvisamente in scena, dopo essere stato annunciato dai protagonisti stessi con una discreta tensione: Philip rimprovera l’amico di aver invitato il loro ex insegnante, essendo questo una persona molto sospettosa.

In realtà il professore è molto di più: mentre i due conversano amabilmente del più e del meno, mentre Brandon si sente particolarmente acuto nelle sue battute piene di doppi sensi, l’uomo osserva attentamente la scena, e coglie tutti gli indizi che lo portano allo svelamento del mal celato delitto.

Non a caso, la camera si sofferma in un paio di momenti fondamentali ad inquadrarlo per diversi secondi, mentre i due si stanno tradendo con le loro stesse mani, anche se nessuno, a parte il professore, sembra essersene accorto…

Il gioco è finito

John Dall e James Stewart in una scena di Nodo alla gola (1948) di Alfred Hitchcock

Nell’ultimo atto è chiaro sia allo spettatore che ai due assassini che Rupert ha capito il loro gioco.

A questo punto, il professore e il suo allievo cominciano a giocare, raccontando una storia a parole assurda, ma che mostra in realtà come Rupert sia perfettamente consapevole delle dinamiche del loro delitto. E, proprio per questo tono leggero, Brandon pensa di poter avere l’approvazione del suo maestro.

Ma è il suo più grave errore.

Nel momento dell’effettivo svelamento, il giovane cerca di convincere il professore di aver solo messo in pratica le teorie da lui stesso promosse, ma Rupert lo respinge violentemente, annullando i suoi sogni di superiorità quasi con disprezzo, e rimettendolo così al suo posto.

E il finale è piuttosto esplicativo in questo senso.

Nodo alla gola finale

Il finale è particolarmente indovinato.

E finalmente, come anche per il precedente Notorious (1946), in questa fase Hitchcock comincia a gestire in maniera ottimale le chiusure delle sue pellicole.

Infatti, dopo una costruzione perfetta della tensione, con Rupert svela l’arma del delitto e Philip che cerca di aggredirlo, la scena si ricompone.

Osserviamola.

John Dall, Farley Granger e James Stewart in una scena di Nodo alla gola (1948) di Alfred Hitchcock

Philip e Brandon cercano di riprendere le loro posizioni, di riacquistare il loro safe space: Philip si ritira al pianoforte, dove si era continuamente rifugiato durante la festa, ma dove comunque Rupert era riuscito ad insidiarlo.

Invece Brandon sceglie di versarsi un altro drink e di rimanere al centro della scena, come se la festa che tanto l’aveva divertito fosse ancora in corso, e lui potesse mantenere il suo status di giovane brillante ed innocente.

James Stewart in una scena di Nodo alla gola (1948) di Alfred Hitchcock

Per Rupert è tutto il contrario.

Dopo aver ristabilito la sua autorità a voce, la ridefinisce anche a livello visivo: ha in mano sia l’arma del delitto che la pistola, e diventa una sorta di custode del cadavere, la prova decisiva per incastrare i due (ex) allievi indisciplinati.

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2023 Avventura Azione Cinegame Commedia Fantastico Film Racconto di formazione

Super Mario Bros. – Il film – Bastava poco…

Super Mario Bros. – Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic è un titolo già di per sé abbastanza esplicativo.

Ma, in altri termini, è anche molto probabilmente il più grande incasso dell’anno: con un budget di 100 milioni di dollari, ne ha incassati 470 in sole due settimane.

Di cosa parla Super Mario Bros. – Il film?

Mario e Luigi sono due fratelli aspiranti idraulici, che trovano un passaggio che porta in un regno magico, ma anche pieno di insidie…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Super Mario Bros. – Il film?

Mario in Super Mario Bros. - Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic

Dipende.

Ed è un enorme dipende.

Se siete anche minimamente appassionati dei giochi platform e dei vari titoli di Supermario, resterete molto facilmente abbagliati dalla bellezza delle animazioni e dei riferimenti inseriti all’interno della pellicola.

Se invece non avete il minimo interesse per questi temi, anzi vi danno pure un po’ fastidio questo tipo di argomenti e le trasposizioni videoludiche in genere, vi sentirete con ogni probabilità dei pesci fuor d’acqua.

Io vi ho avvisato.

Un’animazione perfetta

Mario in Super Mario Bros. - Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic

Finora non avevo visto nessun titolo della Illumination.

E sono rimasta letteralmente a bocca aperta.

Gli autori di questo film sono riusciti perfettamente a riportare in scena personaggi che già da anni hanno la loro versione 3D, ma senza farne una copia carbone, ma piuttosto arricchendo il loro character design.

E così la finezza nella gestione dei particolari dei personaggi e delle ambientazioni, la potenza delle animazioni, e pure una regia piuttosto indovinata, hanno reso i personaggi e gli ambienti vivi, materiali, reali.

E non è l’unico pregio.

La gestione dei ruoli

Mario in Super Mario Bros. - Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic

Era piuttosto importante sia per la robustezza della narrazione, sia per il coinvolgimento dello spettatore, gestire in maniera ottimale i ruoli di personaggi.

Soprattutto Mario e Peach.

Mario parte come un personaggio molto vicino allo spettatore, con cui è facile empatizzare: cerca di inseguire il suo sogno, nonostante sia da tutti considerato un perdente.

E per questo (ri)scopre il mondo di gioco insieme a noi, e con noi si emoziona, si stupisce di tutte le stranezze che si trovano davanti, e riesce piano piano, e in maniera assolutamente credibile, a diventare l’effettivo eroe.

Peach in Super Mario Bros. - Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic

Discorso diverso per la Principessa Peach.

Anzitutto interessante l’idea di mantenere il suo character design sostanzialmente intatto, riuscendo comunque a farla passare da figura canonicamente passiva (soprattutto nei primi giochi) ad attiva e molto presente sulla scena.

Una costruzione complessivamente intelligente, che riesce ben a contestualizzare il suo personaggio e le sue abilità senza che questo appaia forzato, e senza doverla far diventare più protagonista di quanto fosse necessario.

Parlando invece della costruzione narrativa…

Bastava così poco…

Mario in Super Mario Bros. - Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic

Analizziamo la trama.

Il primo atto è complessivamente solido: conosciamo il protagonista e l’antagonista, in particolare il primo con la sua piccola avventura urbana. Poi, appena Mario conosce la Principessa Peach, vi è un momento di passaggio fondamentale in cui il protagonista deve convincerla delle sue capacità.

Ma è molto debole.

Sembra che Mario impari ad essere un eroe nel giro di una giornata, pur mantenendo una certa fallibilità essenziale per il proseguo della storia e della sua maturazione. Ma il vero problema è che Peach sceglie di portarlo con sé per motivi non proprio chiari, dal momento che anche in seguito non ha così tanta fiducia in lui.

Mario e Peach in Super Mario Bros. - Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic

Sembra più che lo scelga come compagno di viaggio per aiutarlo nel suo percorso di crescita, ma senza che ci siano delle basi effetti per il loro rapporto. Bastava così poco per rendere Mario più convincente o indicare meglio il loro legame in quanto umani…

Così anche la parte centrale in generale non è stata sfruttata a dovere: sarebbe stato molto più equilibrato inserire qualche tappa in più, magari coinvolgendo Donkey Kong. E anche quest’ultimo funziona a metà: molto ben realizzato lo scontro con Mario, meno il rapporto che dovrebbe crearsi fra i due.

Lo stesso finale si poteva gestire meglio, in particolare rendendo meglio il piano di Peach, che è forse la parte meno credibile di tutta la pellicola: non esiste una vera costruzione del suo rapporto con Bowser, ne è chiaro come riesca ad ottenere il fiore per liberarsi.

Al contrario, gli ultimi momenti della pellicola sono davvero ben gestiti.

Appunto, bastava poco per fare un prodotto veramente buono.

Rendere il videogioco in Supermario film

Portare sullo schermo un videogioco senza sembrare dozzinali non è per nulla semplice, e si sprecano gli esempi in questo senso.

Super Mario Bros. rischia diverse volte di eccedere nel citazionismo, ma nel complesso è un aspetto ben gestito, soprattutto per la ricca presenza dei personaggi sullo sfondo, delle vere chicche per i fan.

Al contempo, la scena della corsa di Mario e Luigi per andare al lavoro è semplicemente perfetta nel raccontare un gioco platform, fluida e naturale nelle dinamiche.

Per non parlare di tutta la parte di Donkey Kong, in cui ogni appassionato del genere può facilmente rivedersi.

Ci sarà un seguito del Super Mario Bros il film?

La prospettiva di un sequel è praticamente certa, soprattutto visto il riscontro incredibile che questo prodotto sta ricevendo al botteghino.

La seconda scena post-credit che introduce Yoshi è un buon punto di partenza per ampliare e rinnovare il gruppo di personaggi, oltre alla probabile introduzione di Wario, già vociferata.

Inoltre, il mondo e i personaggi sono così vari che ci sono anche delle ottime basi per creare un seguito, anche con una storia abbastanza analoga, magari scritta un po’ meglio…

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The Old Man & the Gun – In fuga dalla noia

The Old Man & the Gun (2018) è un film scritto e diretto da David Lowery, autore indie che da qualche anno porta avanti una proficua collaborazione con la A24.

A fronte di un budget piuttosto sorprendente – addirittura 15 milioni di dollari – purtroppo è stato anche un flop commerciale: appena 17 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla The Old Man & the Gun?

Forrest Tucker è un rapinatore con una storia piuttosto particolare: in prigione praticamente per tutta la sua vita, è in fuga da due anni dopo una rocambolesca evasione. E il tutto alla veneranda età di 74 anni…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Old Man & the Gun?

Robert Redford in una scena di The Old Man & the Gun (2018) di David Lowery

Assolutamente sì.

Dopo A ghost story (2017) ero discretamente fiduciosa per questa pellicola, ma mai mi sarei aspettata che potesse piacermi così tanto. Ho apprezzato soprattutto il cambio di passo del regista, che ha abbandonato un taglio più marcatamente autoriale e concettuale, scegliendo invece di raccontare una storia più tridimensionale.

Il racconto di The Old Man & the Gun non solo è davvero ben gestito, con una messinscena pulita e puntuale, ma gode anche di un protagonista intrigante e di un taglio più leggero e godibile, nonostante non manchi di tematiche profonde e interessanti.

Insomma, fatevi un favore e guardatelo.

Il ladro gentiluomo

Robert Redford in una scena di The Old Man & the Gun (2018) di David Lowery

The day is still young.

La giornata è ancora lunga.

Mi ha piacevolmente colpito la sottile e gustosa ironia della pellicola: il protagonista è un ladro, ma anche un gentiluomo. Educato, gentile, mai violento, e con sempre un sorriso cordiale stampato in volto.

Fin da subito gli scambi con i manager delle banche e con le commesse raccontano tutta la sua piacevolezza e il divertimento che prova nel suo lavoro.

E infatti Forrest non ha alcun interesse né nei soldi né nel tempo passato in prigione: vuole solo e solamente vivere una vita spericolata, indipendentemente dalle conseguenze.

E infatti…

Il gusto del pericolo

Robert Redford in una scena di The Old Man & the Gun (2018) di David Lowery

Quando John Hunt parla con l’avvocato di Forrest, capisce la vera natura di questo criminale, con una frase in particolare:

It’s not about making a living. I’m just talking about living.

Non sto parlando di sopravvivere, ma di vivere.

E, proprio a sottolineare come per il protagonista sia solo un gioco, in entrambe le scene dell’insegnamento vediamo come sia lui stesso a provocarle, a scappare per farsi prendere, a non preoccuparsi se i soldi stanno volando via dalla macchina…

Allo stesso modo è lui stesso a volersi far catturare, mandando la banconota al detective, andandogli direttamente a parlare, al punto che Hunt, capendo le sue intenzioni, è quasi felice di non essere quello che mette fine al suo divertimento.

E non sarà certo neanche una donna a farlo…

Io ti salverò

Sissy Spacek in una scena di The Old Man & the Gun (2018) di David Lowery

Apparentemente Forrest sembra fare un passo indietro quando conosce Jewel.

La donna è evidentemente innamorata del suo fascino magnetico, ma, in diversi momenti, anche senza dire una parola, gli fa capire che non potrà vivere con lui se vorrà continuare con la sua carriera criminale.

E negli ultimi momenti del film sembra averlo davvero convinto – proprio quando Forrest sembrava già pronto alla sua prossima avventurosa evasione. Ma, quando esce di prigione, appare stanco, infelice, quasi annoiato.

E così, con il sorriso sulle labbra, si butta in una nuova avventura…

The old man and the gun

La bellezza del personaggio di Forrest è proprio nel suo voler essere protagonista di un infinito e spericolato gioco di ruolo.

Purtroppo, è un giocatore solitario: solo lui – e parzialmente il Detective Hunt – capisce veramente le regole della partita. E allora quando arrivano i poliziotti per arrestarlo alla fine, invece che consegnarsi, si mette in macchina e scappa.

Facciamo che eravate dei poliziotti e mi inseguivate?

Robert Redford in una scena di The Old Man & the Gun (2018) di David Lowery

Altro discorso per la pistola.

L’arma non ha mai un intento violento, è solo un oggetto di scena, un accessorio immancabile per ogni criminale che si rispetti. Insomma, come per i baffi e le cuffie, è solo uno dei tanti particolari del suo travestimento.

E diventa tutto ancora più metanarrativo quando, nel finale, Forrest scappa in groppa ad un cavallo, con addosso una sciarpa che sembra tanto il costume di un cowboy, a raccontare anche il passato attoriale dell’interprete stesso…