Rise of the Planet of the Apes (2011) di Rupert Wyatt – tradotto in Italia con il titolo poco lungimirante di L’alba del pianeta delle scimmie – è il primo film della saga prequel – reboot del cult Il pianeta delle scimmie (1968)
Will Rodman è un fisico che sta lavorando da anni su una medicina che potrebbe rivelarsi rivoluzionaria, sperimentandola proprio sulle scimmie…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Rise of the Planet of the Apes?
In generale, sì.
Non posso fare confronti con il classico del ’68 – non avendolo ad oggi visto – ma vi posso dire che Rise of the Planet of the Apes è un buonissimo film di fantascienza, pur con qualche inciampo lungo la strada.
Non è personalmente il titolo che preferisco di questo rilancio – apprezzo molto di più i successivi diretti da Matt Reeves – ma è comunque una visione piacevole con una costruzione abbastanza solida.
Insomma, ve lo consiglio.
Dalla parte delle scimmie
Un aspetto che mi ha sempre sorpreso di questa saga è come le scimmie siano dei protagonisti fondamentalmente positivi.
Al contrario, gli umani sono le vere bestie.
Non a caso il film si apre con una scena che mostra delle scimmie catturate per diventare cavie da laboratorio. Per poi, appena non sono più immediatamente utili, essere ingabbiate in luoghi deprimenti, per essere poi ripescate all’occorrenza.
In questo senso è particolarmente emblematica la frase pronunciata da Jacobs, quando Will cerca di farlo ragionare sui pericoli del 113:
Un protagonista positivo?
In questo senso, Will, il protagonista umano, non è proprio un personaggio positivo.
Infatti, per la maggior parte del tempo agisce principalmente per proprio interesse, anche se lo stesso è legato ai suoi affetti – di cui, casualmente, fa parte anche Cesare.
Ma la scimmia e Charles per certi versi sono anche le sue cavie da laboratorio, con cui Will sperimenta la sua invenzione, non potendo farlo altrove…
Allo stesso modo Will non sembra particolarmente interessato al deprimente destino delle scimmie, ma unicamente a Cesare – senza avere neanche in mente i suoi effettivi interessi.
Per fortuna, almeno sul finale accetta di lasciarlo libero.
Un personaggio difficile
Ma il vero protagonista è Cesare.
La seconda parte della pellicola l’ho particolarmente apprezzata proprio per questo: Cesare diventa definitivamente protagonista e il film si trasforma in un gustosissimo prison break.
E la regia è talmente abile nel riuscire a raccontare tutti i pensieri e le intenzioni del personaggio, senza che da loro venga pronunciata praticamente alcuna parola.
Al contempo il piano di Cesare è preciso e limpido, e va anche di pari passo con il suo processo di consapevolezza, la sua presa di coscienza di come rendere veramente liberi i suoi fratelli.
La stupidità umana
In Rise of the Planet of the Apes gli uomini non sono solo malvagi, ma profondamente stupidi.
Totalmente accecati dal loro desiderio di ricchezza e di potere, sottovalutato enormemente la minaccia potenziale che hanno fra le mani.
Sia all’inizio che alla fine non sono capaci né di contenere né di prevedere i comportamenti delle scimmie, e sul finale sembrano del tutto ignari della loro superiorità fisica…
E lo stesso vale anche per la ricerca scientifica stessa, totalmente guidata dal desiderio di guadagno personale, risultando approssimativi e disattenti nelle sperimentazioni, arrivando così a distruggersi da soli…
Andy Serkis Il pianeta delle scimmie
Cesare non è un pupazzo in CGI, ma creato grazie alla motion capture, tecnica con cui un attore reale dà le movenze al personaggio, che poi verrà ricoperto di CGI.
E chi poteva dare un’interpretazione così magistrale se non Andy Serkis?
L’attore è un vero professionista di questa tecnica, venendo unanimemente apprezzato ed acclamato per la sua ottima interpretazione di Gollum in tutti i film de Il Signore degli Anelli.
Ma bisogna fare anche un plauso a tutti i professionisti che hanno partecipato, anche per i personaggi secondari.
Scimmie Rise of the Planet of the Apes
Uno dei problemi principali quando si gestiscono personaggi in totale CGI è mostrarli in scene illuminate, quando tutte le possibili mancanze vengono alla luce, appunto.
Tuttavia, per essere un film del 2011, Rise of the Planet of the Apes se la cava piuttosto bene.
Oltre al perfetto character design delle scimmie, che le rende davvero espressive e eloquenti, complessivamente le stesse risultano credibili anche nelle scene finali, quelle più illuminate.
Ma nei seguiti si sceglierà, forse più saggiamente, di prediligere scene ben più oscure…
Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller è il terzo capitolo della saga cult di Shrek, nonché il film considerato più debole fra quelli prodotti finora per questo personaggio…
Con un budget leggermente superiore al precedente – 160 milioni –fu sempre un grande successo, ma non riuscì ad avvicinarsi alla soglia del miliardo come Shrek 2, con appena 813 milioni di incasso.
Di cosa parla Shrek Terzo?
Dopo essere riuscito a tornare in buoni rapporti con i genitori di Fiona, Shrek cerca una via d’uscita dalla soffocante vita di corte…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Shrek Terzo?
In generale, sì.
Per quanto Shrek Terzo manchi assolutamente della brillantezza dei precedenti, è complessivamente un capitolo piacevole, che riesce, pur con molta difficoltà, a rimanere sui binari della saga, cercando di introdurre qualche novità…
È anche il capitolo in cui si punta di più sull’ironia, con però, ancora una volta, un umorismo moltomeno interessante e originale rispetto a quello a cui ci aveva abituato fino a questo momento…
Insomma, se siete innamorati di Shrek, potreste amarlo quanto odiarlo…
Un nuovo ostacolo
Come ogni film di Shrek, anche in questo caso il protagonista si deve trovare davanti ad un ulteriore ostacolo che metta in discussione il suo status quo.
E, a fronte di tutte le possibili strade che si sarebbero potute intraprendere, si è preferito portare Shrek sui binari dell’uomo medio, ovvero alle medesime problematiche che affliggono i protagonisti della maggior parte delle sitcom e delle commedie romantiche.
Prima il matrimonio, poi i figli.
E purtroppo non si sono resi conto di quando questa scelta non faccia altro che allontanare il personaggio da sé stesso, mentre aveva potenzialmente la strada spianata per mettersi veramente alla prova, non tanto come padre, ma piuttosto come regnante.
Invece questa possibilità viene subito tolta dal tavolo.
La banalità
Per due film Shrek ci aveva stupito con delle location profondamente originali, incontri vincenti fra il vecchio e il nuovo.
Purtroppo, non si può dire lo stesso di Worcestershire.
La high school in stile medievale di per sé non è malvagia, ma personalmente ho visto video fanmade su Facebook più riusciti. Fra l’altro, un’idea veramente vista e rivista, poco originale, e che è stata replicata in tutte le salse anche troppe volte.
Al contempo portare Shrek in questo contesto così da teen movie l’ho trovato abbastanza fuori luogo per il personaggio, unicamente finalizzato all’inserimento di momenti di comicità spicciola e slapstick – alcuni anche vagamente indovinati, altri veramente poco interessanti…
E parlando di Artie…
La strada obbligata
Come per Shrek, anche Artie imbocca una strada obbligata dalla sceneggiatura.
Uno dei punti di forza di Shrek è sempre stato di riuscire a costruire i rapporti fra i personaggi e i loro archi evolutivi in breve tempo. In Shrek Terzo, anche per una narrazione estremamente spezzettata, l’evoluzione di Artie funziona fino ad un certo punto.
Infatti, se tutto sommato il personaggio riesce a compiere la sua maturazione e diventare più sicuro di sé, appare molto più forzato invece il fatto che riesca così facilmente a prendersi sulle spalle una responsabilità come quella di essere un re per un paese sconosciuto…
L’esasperante girl power
In Shrek Terzo sembrano improvvisamente essersi resi conto che Fiona era un personaggio più secondario del dovuto.
Indubbiamente la scena della rivolta delle principesse è la parte più iconica del film e di per sé non è neanche un’idea scadente, ma ho anche sempre avuto la sensazione che fosse qualcosa di molto raffazzonato, e che andasse persino a banalizzare il senso dell’evoluzione di Fiona.
Infatti il significato della sua emancipazione non era tanto quello di potersi salvare da sola – cosa di cui, come abbiamo detto, era capacissima di fare – ma più che altro di liberarsi da quella prigione mentale autoimposta dell’essere la principessa perfetta.
Al contrario qui le principesse sembrano rendersi conto di quanto sia stupido essere del tutto dipendenti dalla figura del principe, mostrando scene veramente interessanti come quella di Biancaneve, ma complessivamente un ragionamento molto più superficiale rispetto a quanto visto nel primo capitolo.
Il tema di fondo
Il tema di fondo di Shrek Terzo è fondamentalmente l’idea di emanciparsi dalla posizione sociale (auto)imposta.
Quindi si distribuisce la tematica comune di tutti e tre i film su più personaggi, idea che potrebbe essere anche complessivamente interessante, ma che in realtà ho trovato una scelta, arrivati a questo punto, francamente ridondante.
Nonostante questo, Azzurro non mi dispiace come villain.
Per quanto preferisca i precedenti antagonisti, recuperare un personaggio negativo ma non troppo esplorato del secondo film e renderlo un villain in tutto e per tutto è stata secondo me la scelta migliore di tutta la pellicola.
Tanto più che Azzurro si autoproclama il paladino della diversità, ma in realtà agisce per motivi puramente egoistici, ovvero riuscire a recuperare lo status sociale che gli è stato tolto, facendo leva sull’insoddisfazione di personaggi che avrebbe disprezzato fino al giorno prima…
Dawn of the Planet of the Apes (2014) di Matt Reeves è il secondo film della saga prequel reboot de Il pianeta delle scimmie (1968), sequel di Rise of the Planet of the Apes (2011).
Un capitolo che fu anche il più grande incasso dell’operazione: a fronte di un budget quasi raddoppiato (170 milioni), incassò ben 710 milioni di dollari.
Di cosa parla Dawn of the Planet of the Apes?
Dieci anni dopo Rise of the Planet of the Apes, Cesare ha costruito una realtà apparentemente solida e protetta per la sua tribù. E gli umani sembra che siano scomparsi…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Dawn of the Planet of the Apes?
Assolutamente sì.
Soprattutto se vi è piaciuto il primo film, non potete davvero perdervi questo secondo capitolo, dove finalmente la direzione passa a Matt Reeves – che, se ve lo foste dimenticato, è autore di quella meraviglia di The Batman(2022).
E si vede.
Le atmosfere oscure e piene di tensione, la recitazione – corporea e facciale – davvero sorprendente di Andy Serkis (Cesare) e Toby Kebbell (Koba) sono ingredienti imperdibili in una storia epocale e ricca di emozione.
Non mancano ancora tematichefondamentali – ambientalismo, fragilità umana – già accennate nel precedente capitolo, ma in questa occasione ancora meglio esplorate, a fronte di una sceneggiatura ben costruita.
Insomma, non ve lo potete perdere.
Dieci anni sono troppi?
Sulle prime devo dire che questa importante ellissi temporale di ben dieci anni mi ha lasciato leggermente stranita.
E così anche il drastico cambio di personaggi umani – che si ripeterà, fra l’altro, anche nel successivo War for the Planet of the Apes (2017) – di fatto rendendo debole ogni tipo di collegamento con la prima pellicola.
Ma alla fine ci ho ripensato.
Fin dall’inizio i veri protagonisti della pellicola sono le scimmie, non gli umani, che in questo film in particolare vengono resi più dei topoi, del tutto funzionali alla trama, più che degli effettivi personaggi tridimensionali.
Infatti, se di fatto i protagonisti della pellicola sono Cesare e Koba, i personaggi umani sono dei vettori per approfondire le tematiche della trama e creare una sorta di parallelo fra l’esperienza delle scimmie e quella umana…
Due esperienze, due emozioni
Lo scontro fra Koba e Cesare nasce dalle loro due esperienze opposte.
Nonostante infatti entrambi siano di fatto stati delle cavie per gli esperimenti umani, Koba si porta sulle spalle un’esperienza ben più dolorosa e drammatica, che non gli ha permesso di conoscere altro che la malvagità degli uomini – come spiega anche lo stesso Maurice.
Al contrario, Cesare è riuscito a venire a contatto, tramite Will, ad un lato meno negativo– anche se secondo me non positivo – dell’umanità e alle sue ambizioni.
E, proprio per questo, nonostante la sua ostilità iniziale, si apre infine ad un contatto proficuo con il genere umano.
E, proprio per una maggior lucidità mentale, Cesare si rende conto di quanto umani e scimmie non siano così diversi.
Non a caso, da entrambe le parti si vedono due realtà molto simili
Nel difficoltoso contatto con il genere umano, Cesare si dimostra tutto sommato – pur con qualche reticenza iniziale – aperto al contatto e all’arricchimento reciproco, arrivando a considerare addirittura Malcom un suoamico.
Anche perché lo stesso rappresenta il lato propositivo dell’umano che cerca di venire ad un accordo pacifico e rispettoso verso l’altro, prima di tutto assicurandosi con ogni mezzo di non venire meno ai patti, ma, anzi, proponendosi come supporto e aiuto.
Koba dawn of the planet of the apes
Al contrario, sia Carver che Koba rappresentano il lato antagonistico e distruttivo.
Entrambi infatti non solo non sono aperti al confronto, ma continuano a considerare l’altro come un nemico, senza mai provare a cambiare idea: se per Koba gli uomini sono dei mostri da distruggere, per Carver le scimmie non sono altro che bestie pericolose.
E non è un caso in questo senso che Carver sia ucciso proprio da Koba…
La profondità del tradimento
Perché Cesare uccide Koba?
Per comprenderlo, bisogna fare un passo ulteriore rispetto a quanto detto esplicitamente nella scena: Cesare dice all’ex-amico che non può risparmiarlo in quanto scimmia, perché Koba non è più una scimmia.
Quella che all’apparenza potrebbe sembrare semplicemente una scusa, in realtà rappresenta la profondità del tradimento del compagno: nella sua incapacità di ragionare, di riuscire a superare il suo odio intestino, di fatto Koba ha finito per diventare lui stesso umano.
Ed umano nel senso più negativo del termine: un uomo incapace di vedere con apertura mentale qualcuno di diverso da lui, incapace di distinguere le colpe del singolo con quelle della collettività, e del tutto concentrato su sé stesso…
Arrivando al punto di imbracciare armi umani – di cui, come si vede più volte, le scimmie non hanno alcun bisogno – sterminando il nemico senza alcuno scrupolo, anzi arrivando ad ingabbiarlo per un puro desiderio di vendetta.
E, soprattutto, sparando a suo fratello come un umano qualsiasi…
La fragilità umana
Anche se i film di fatto non lo raccontano in maniera esplicita, il punto di arrivo di questa saga dovrebbe essere lo sterminio della razza umana, per arrivare appunto a Il pianeta delle scimmie (1968).
Ma comunque il tema della fragilità umana è presente.
Anche oltre ad una linea di dialogo in cui gli uomini si rendono conto della fondamentale differenza fra loro e le scimmie – del tutto indipendenti da certe esigenze tutte umane, come l’elettricità e il calore – in generale è evidente quanto l’umanità siano dipendente dalle sue stesse creazioni.
Infatti, è bastato veramente poco perché gli umani si riducessero a poche sacche di sopravvissuti, destinati comunque all’inevitabile estinzione per l’incapacità di ricostruire quel mondo tanto comodo quanto necessario per la propria sopravvivenza.
War for the Planet of the Apes (2017) di Matt Reeves è l’ultimo (per ora) capitolo della saga reboot de Il pianeta delle scimmie.
Nonostante il riscontro commerciale fu buono, subì una battuta di arresto rispetto al precedente: con un budget di circa 150 milioni, incassò quasi 500 milioni.
Di cosa parla War for the Planet of the Apes?
Dopo il tradimento di Koba, la guerra è iniziata e Cesare dovrà prendere delle importanti decisioni…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere War for the Planet of the Apes?
Assolutamente sì.
War for the Planet of the Apes è un ottimo punto di arrivo per la storia di Cesare, scegliendo un nuovo taglio narrativo: il viaggio.
L’aspetto registico e interpretativo rimane sempre altissimo, con Matt Reeves e Andy Serkis che ancora una volta sono elementi imprescindibili per portare in scena un blockbuster di altissimo livello.
Un capitolo ancora più cupo e sofferto, che non vi potete perdere.
La ricerca della pace
Cesare manca dalla scena per buona parte dell’incipit.
Immergendoci in atmosfere alla Apocalypse Now (1979), scopriamo questa guerra autodistruttiva e insensata, in cui gli uomini sfidano la potenza delle scimmie, rimanendo inevitabilmente sopraffatti…
E dopo una lunga sequenza, Cesare riappare nella monumentalità interpretativa di Andy Serkis, che si dimostra come l’unico che cerca veramente la pace fra le forze in gioco, nel tentativo di preservare la sua tribù…
Ma ogni tentativo è inutile quando ci si trova davanti ad un nemico imperscrutabile come il Colonnello, che non si vuole fermare, il cui motore dell’azione è un principio che non si può sradicare…
Rimanere umani
Con l’uccisione della sua famiglia, Cesare rischia di ricadere nello stesso errore di Koba.
Ormai costretto ad imbracciare armi umane, ad essere molto più umano nei comportamenti di quanto avrebbe mai voluto, sceglie la via più immediata ed istintiva: la vendetta.
Ed è una vendetta necessaria.
Ma al contempo riesce a non cadere del tutto nell’errore di Koba, a non disprezzare tutta la razza umana per l’azione di un singolo. E questo proprio grazie all’incontro con la bambina, la cui presenza inizialmente lo disturba, ma che si rivelerà necessaria…
Nova è infatti una creatura docile e pura, anzi una creatura da proteggere, che fa parte di quella schiera di deboli e oppressi che Cesare si era proposto di salvare…
Un parallelismo doloroso
Per quanto non venga detto esplicitamente, è evidente che il campo di concentramento faccia riferimento ad una pagina molto buia del Novecento…
Le scimmie, le bestie, vengono schiavizzate per portare avanti il folle piano del Colonnello, rinchiuse in recinti senza copertura, in balia dei cambiamenti del clima, senza protezione, nutriti alla peggio come maiali.
Non manca nondimeno anche una metafora cristologica nella figura del Cesare crocifisso, che si prende sulle spalle tutti i dolori del suo popolo e ne diventa il Salvatore, resistendo di fronte ad ogni forma di ingiustizia.
Eppure, proprio Cesare è considerato sacrilego…
Nascondersi
Il Colonnello rappresenta il volto più estremo dell’umanità.
Incapace di mettersi davvero davanti alle sue colpe, derubrica il suo fallimento, il suo disastro ad una punizione divina posta sopra al suo capo come sfida ultima dell’umanità per la sua salvezza.
Secondo questa concezione, l’uomo è l’unica specie che ha il diritto di vivere sulla Terra, e per questo deve essere indubbiamente destinato a salvarla, per evitare che diventi il pianeta delle scimmie.
Tuttavia, il Colonnello non si rende conto che il suo stesso tentativo di salvezza si tradurrà solo in ulteriore guerra, in ulteriore distruzione, che porterà ancora una volta l’umanità ad essere distruttrice di sé stessa.
The War for the Plane of apes Il finale
Il finale è il vero momento di riscatto di Cesare.
Arrivato al letto di morte del suo nemico mortale, è messo davanti ad una scelta: proseguire fino in fondo con la sua vendetta, oppure defilarsi per sempre da questo conflitto, non volendone essere partecipe in alcun modo.
E Cesare sceglie la seconda.
Sceglie di non essere neanche per un momento l’esecutore della distruzione dell’umanità, anche se in quel momento è stata ricercata, di non cadere così in basso nel distruggere il nemico, quando lo stesso ci riesce benissimo da solo…
Psycho (1960) è il capolavoro della filmografia di Hitchcock, un film talmente iconico che influenzò inevitabilmente il genere di riferimento – l’horror – in maniera inaspettata…
Eppure al tempo, soprattutto dopo l’accoglienza tiepida di Vertigo(1958), la Universal era ben poco propensa ad investire in un altro film troppo serio, tanto che la pellicola venne finanziata dallo stesso Hitchcock, con un budget abbastanza limitato: appena 806 mila dollari – circa 8 milioni oggi.
E, inaspettatamente, fu il più grande successo commerciale del regista: ben 50 milioni di dollari di incasso – circa 500 milioni oggi – permettendo ad Hitchcock di diventare il terzo azionista della Universal.
Di cosa parla Psycho?
Marion Crane è una modesta impiegata, invischiata in una relazione che non sembra darle vere soddisfazioni. Tutto cambia quando si trova fra le mani una cospicua somma di denaro…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Psycho?
Ovviamente, sì.
Anche se devo ammettere che non è il mio titolo preferito di Hitchcock – prediligo comunque La finestra sul cortile(1954) – è la dimostrazione di come anche il film più povero possa regalare un’esperienza indimenticabile se nelle mani del giusto regista.
Non a caso Psycho è indubbiamente il picco artistico più consistente della filmografia del regista britannico, dove sperimenta in maniera davvero audace, al limite dello scioccante, evitando molte delle autocensure che aveva evidentemente applicato nei precedenti film…
Insomma, una pellicola imprescindibile.
Uno sguardo penetrante
Dopo gli avvincenti titoli di testa, che già ci immergono nelle atmosfere disturbanti della pellicola, lo sguardo dello spettatore penetra immediatamente la scena.
Ed è già voyeuristico.
Veniamo infatti introdotti ad una sequenza davvero scioccante per i canoni dell’epoca: una coppia che dialoga in uno squallido motel dopo un evidente incontro sessuale, entrambi più nudi di quanto fossero mai stati prima di questo momento i personaggi di Hitchcock.
Tuttavia, la scena ha un sapore fortemente malinconico.
La coppia è evidentemente insoddisfatta, non potendo altro che vivere questi momenti rubati, senza poter raggiungere la tanto agognata – soprattutto da Marion – accettazione sociale: il matrimonio.
Infatti, nonostante l’evidente erotismo della scena, la protagonista si riveste molto più in fretta rispetto al suo compagno, e cerca insistentemente di ricondurre la loro relazione ad una maggiore rispettabilità sociale: il pranzo con la sorella.
Ma è solo un breve sollievo:
Il matrimonio, almeno per ora, non s’ha da fare.
Un crimine di passione
Perché Marion ruba i soldi?
Nonostante la scena iniziale, nonostante il suo sguardo penetrante, Marion viene subito ricondotta ad un modello di donna rispettabile. Rispettabile quanto infelice, come ci racconta il dolore psicosomatico – l’emicrania – causata proprio dallo stress della sua situazione, la sua trappola.
Quindi, una donna da cui non ci si aspetterebbe un’azione simile.
E infatti la scelta di compiere il furto sembra immediata, senza una vera e propria logica: grazie ad una finezza di montaggio, Marion sembra uscire dall’ufficio ed entrare immediatamente nella stanza dove sta preparando la sua fuga.
E, nonostante qualche sguardo che indugia sulla busta dei soldi, il piano viene comunque messo in atto.
Quindi la motivazione è del tutto impulsiva, una scelta improvvisa per trovare il modo di sfuggire dalla sua trappola, che si può sbloccare appunto solo tramite i soldi, visti i numerosi debiti accumulati da Sam.
Tuttavia, da quel momento in poi le azioni di Marion diventano sempre più imprevedibili, sempre più puramente dettate dalla fretta, dall’irrazionalità, da questo slancio per sfuggire – e più in fretta possibile.
E non si può tornare indietro…
L’accompagnamento al patibolo
La figura del poliziotto è più interessante di quanto si possa pensare.
Soprattutto nella sua apparente illogicità.
L’agente è ancora una volta una figura estremamente voyeuristica – nel suo spiare dentro la macchina di Marion e guardarla dormire, violando uno spazio in un certo senso analogo a quello della scena d’apertura.
Ma è anche un personaggio particolarmente minaccioso.
Da notare in particolare l’anomalia nella rappresentazione del loro dialogo: Hitchcock evade il classico campo-controcampo, con solo Marion che guarda effettivamente fuori campo, mentre il poliziotto è rappresentato da una soggettiva anche piuttosto aggressiva di Marion, in particolare con un primissimo piano.
Così lo sguardo della protagonista cerca di fuggire, mentre il poliziotto la costringe ad essere punita.
Infatti, se il consiglio dell’uomo di dormire in un motel – come poi accadrà – potrebbe sembrare ironico a posteriori, in realtà è proprio indicativo del ruolo di questo personaggio: controllare che Marion non torni indietro, ma che vada dritta verso il patibolo.
Non a caso, il poliziotto resta immobile fino all’ultimo dall’altro lato della strada, osservando la donna che cambia maldestramente l’auto, agendo come spinta propulsiva alla sua fuga, ma senza cercare ulteriormente di parlarle.
E così Marion viene inghiottita dall’oscurità, mentre all’orizzonte i pali della luce sembrano delle croci…
Passaggio di consegne
Fino a questo momento, lo sguardo era una prerogativa di Marion.
Invece, all’arrivo all’hotel, Marion comincia impacciatamente a firmare il registro, con una soggettiva che sembra unicamente sua. Invece, quando la macchina da presa stacca, notiamo che anche Norman stava osservando il registro mentre la donna firmava.
Al contempo, Marion non si rende conto del pericolo, non si rende conto dell’indecisione dell’uomo nello scegliere la chiave della camera, andando infine a optare per la stanza N.1, proprio dopo aver notato la sua incertezza…
La più classica omosessualità
L’atteggiamento di Norman è comunque impacciato, molto timido, facendolo sembrare apparentemente innocuo.
La voce della Madre, invece, è rivelatoria della sua violenza.
La maternità mostrata è una maternità castrante, che rappresenta la visione molto ingenua e semplicistica che sia aveva ancora negli Anni Sessanta dell’omosessualità, derivata anche dalla visione freudiana.
L’omosessualità, secondo la vulgata, era derivata dall’incapacità di superare il rapporto con la madre, una sorta di Complesso di Edipo mancante del confronto con la figura paterna, che porta infine il bambino cresciuto a voler diventare la madre stessa.
Il tutto si concretizza nella frustrazione sessuale e nella misoginia.
Norman spia Marion mentre si cambia – fra l’altro spostando un quadro rappresentante una vicenda biblica estremamente erotica, Susanna e i Vecchioni.
Ma evidentemente questa visione non suscita nell’uomo quelle sensazioni che la madre, la società e lui stesso si aspettano da lui.
Infatti, se consideriamo la Madre come una voce della coscienza per Norman, le sue parole di disprezzo nei confronti di Marion rappresentano in realtà quello che la genitrice – e quindi Norman – vorrebbe che succedesse, ovvero che l’uomo avesse piacere ad intrattenersi con lei.
E da qui nasce la volontà omicida.
La doppia punizione
La morte di Marion è scioccante per più motivi.
Anzitutto, va contro tutte le regole dello star system dell’epoca, ovvero quella di mantenere in scena la diva fino alle battute finali del film. Ma, anche più importante, non scaturisce dalle azioni della protagonista, ma dai complessi dell’antagonista.
Infatti, l’iconica scena della doccia mima quell’incontro sessuale che non si può consumare e, al contempo elimina, distrugge quel corpo che fa scaturire la vergogna sociale di Norman.
Su un altro livello, è la prima parte della punizione di Marion.
Nonostante la protagonista si sia evidentemente pentita delle sue azioni e abbia tutta l’intenzione di rimediare, ormai è troppo tardi: è diventata un personaggio troppo problematico, una donna troppo fuori dagli schemi per non essere punita.
E tanto più il suo corpo viene raccontato come sporco, un rifiuto: sia per l’audace parallelismo fra il vortice dello scarico della doccia che si dissolve sul suo occhio, sia per la posizione ingombrante del suo cadavere, sia, soprattutto, per la scena successiva.
Una lunga sequenza che racconta la considerazione del personaggio di Marion – per la società e per Norman – ovvero come qualcosa da eliminare, qualcosa che ha lasciato macchie, sporcizia: va tutto pulito.
Un ossessivo Mac Guffin
I soldi sono l’ossessione di Psycho.
Il loro arrivo viene raccontato fin dalla prima scena, e, dalla loro apparizione nella sequenza successiva, sono sempre presenti, anche se scompaiono materialmente. E la macchina da presa indugia a più riprese su questo elemento, anche facendosi beffe dello spettatore.
Perché, alla fine, è solo un Mac Guffin.
I soldi fanno solamente partire la vicenda, ma non sono di fatto importanti come lo spettatore pensa e come i personaggi stessi credono: non sono il motivo effettivo per cui Marion muore, né appunto oggetto del desiderio di Norman.
E, infatti, nonostante la macchina da presa inquadri in maniera molto eloquente il giornale mentre Norman sta pulendo, lo stesso viene afferrato solo all’ultimo e gettato come un rifiuto qualunque nel bagagliaio della macchina…
Lo scioglimento del mistero
Lo sguardo è ancora protagonista nella seconda parte.
Nonostante infatti i protagonisti della vicenda siano molto più castigati – in particolare Lila, il totale opposto della sorella – il motore della vicenda è il desiderio di guardare, di penetrare la casa di Norman.
E, soprattutto, di vedere il volto di Norma Bates.
Questa ossessione è insistita per tutto il terzo atto, arrivando fino al climax finale, quando ancora una volta lo sguardo del volto ci è negato: la signora Bates è di spalle. E allora sta a Lila mostrare la verità, diventando una screaming queen ante-litteram…
E, ovviamente il film si chiude con l’inquietante sguardo di Norman direttamente in camera, direttamente nei nostri occhi…
Psycho slasher
Dal successo di Psycho nacquero moltissimi emuli, sia con le opere direttamente collegate – come i tre sequel e il remake shot-by-shot omonimo di Brian De Palma nel 1999 – sia con quelle più indirettamente derivative – come il cultAmerican Psycho(2000).
Ma, soprattutto, Psycho è considerato il progenitore del genere slasher.
Questo sottogenere horror ha inizio canonicamente con Halloween(1979), e con gli altri classici degli Anni Settanta – Ottanta, come Non aprite quella porta(1974) e Venerdì 13(1980), per poi essere parodiato da Scream (1996) negli Anni Novanta.
E la derivazione da Psycho si riscontra in particolare in tre elementi: il killer, l’ambientazione e la Final Girl.
L’antagonista dell’horror non è più il mostro, ma una persona – solitamente un uomo – che ha una storia familiare e personale complessa alle spalle, proprio come Norman.
Tuttavia, dal mostro di Hitchcock non eredita né l’apparente docilità di Anthony Perkins né la componente sessuale, avvicinandosi anzi più alla figura del mostro classico: un personaggio deformato o col volto nascosto, un reietto sociale, una persona che non si può salvare…
La sua arma è solitamente un’arma bianca – un coltello, la motosega, le cesoie – che non raramente si ricollegano anche allo status sociale o ad un particolare trauma infantile dell’antagonista.
L’ambientazione dello slasher è solitamente un luogo non protetto, privo della componente adulta che controlla, e dove i protagonisti – solitamente belli, bianchi e ricchi – possono fare sostanzialmente quello che vogliono.
Tuttavia, proprio l’ambientazione isolata, da cui non si può fuggire, dà un sapore di maggiore inquietudine e orrore alla storia…
Proprio come il Bates Motel.
Psycho final girl
E, soprattutto, la Final Girl.
La final girl è solitamente il personaggio femminile più esplorato, che si distingue dal resto del gruppo anche per una maggiore maturità e intelligenza, che le permette di rimanere viva fino alla fine.
Quindi un personaggio che eredita l’avvenenza di Marion, la risolutezza di Lila, e lo spirito investigativo di Sam.
In ultimo, la final girl ha l’obbiettivo di sconfiggere, ma soprattutto di smascherare il mostro, a volte aiutata da degli aiutanti maschili che prendono le parti del Sam del finale di Psycho, appunto.
Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson è il sequel delquasi omonimo film del 2018, con protagonista Miles Morale – l’altro Spiderman.
Un film che promette molto bene al botteghino: a fronte di un budget di circa 100 milioni, ha già raddoppiato i suoi costi di produzione, con 208 milioni di incasso nel primo weekend.
Candidature Oscar 2024 per Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023)
in neretto le vittorie
Miglior film d’animazione
Di cosa parla Spider-Man: Across the Spider-Verse?
Dopo più di un anno dall’incontro con lo Spider-Verse, Miles e Gwen stanno facendo i conti con i loro irrisolti problemi familiari…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Spider-Man: Across the Spider-Verse?
Assolutamente sì.
Spider-Man: Across the Spider-Verse compie diversi ed importanti passi avanti rispetto al precedente film – che era già ottimo: una tecnica artistica che si evolve in nuove direzioni, raccontando visivamente in maniera nuova e fresca i diversi universi, retta anche da una scrittura molto più consapevole.
Infatti, questo film nasce inizialmente come un unico prodotto, ma si è scelto successivamente di dividerlo in due parti. E, a fine visione, sono sicura che di questo capitolo non avreste tolto un minuto: un’introduzione potente e robusta per una storia monumentale.
Insomma, assolutamente imperdibile.
Ricominciamo da Gwen
Spider-Man: Across the Spider-Verse ricomincia, a sorpresa, da Gwen.
Il suo personaggio è quanto essenziale, quanto poco esplorato nel precedente capitolo. In questo caso, invece, domina la scena per la primissima parte della pellicola, ri-raccontando per certi versi – ma in maniera più approfondita – il trauma personale che la definisce come Spider Woman.
E da qui si sviluppa anche il dramma del rapporto non risolto col padre, che si esplica anche in un senso di forte solitudine, di necessità di trovare un’identità e di far parte di un gruppo – ovvero la Spider Society.
Ma con una scelta che la porta – e per non poco tempo – ad abbandonare il padre stesso…
I super problemi
La seconda parte del primo atto è invece dedicata a Miles.
Anche il giovane protagonista sta affrontando questioni non tanto dissimili da quelle di Gwen, anche se con un taglio narrativo decisamente molto più ironico – in funzione del finale, che invece raggiunge un picco drammatico non indifferente.
Ancora una volta, scopriamo Miles prima come Miles, e poi come Spiderman.
Un ragazzo che sta vivendo un momento di passaggio in realtà abbastanzatipicoper il suo personaggio: pensare a che tipo di vita costruirsi oltre alla sua identità segreta, a vivere il peso di rivelare la stessa ai genitori – soprattutto al padre.
Ma anche Miles si lascia momentaneamente il problema alle spalle, per unirsi alla Spider Society.
Un villain di contorno?
Spot ha un ruolo tutto particolare.
Inizialmente sembra veramente un villain puramente comico, il villain della settimana, che Spiderman sconfigge facilmente, per poi passare al prossimo super problema.
Ma lui stesso si ribella da questo ruolo, riuscendo invece a riscoprire i propri poteri come molto più interessanti di quanto aveva compreso finora. Purtroppo, le sue motivazioni sono molto banali: vendicarsi su Spiderman.
Per questo motivo nel terzo atto di fatto scompare, rimanendo solo come una minaccia nell’ombra, che aggrava ancora di piùuna situazione già di per sé assai spinosa…
Il problema del canone
Il vero nemico di Spider-Man: Across the Spider-Verse è Spiderman stesso.
Con un ottimo gioco metanarrativo, si racconta come tutti gli Spiderman, proprio per riuscire a mantenere intatto quello che volgarmente chiamiamo Spider-Verse, devono accettare e di fatto sottostare alle regole del canone.
In questo modo si giustifica come il personaggio, nelle sue varie incarnazioni cinematografiche – in particolare quelle della Sony – ripercorra bene o male le medesime tappe e affronti i medesimi problemi, pur con le dovute differenze.
Ma è questo il vero dramma.
Spiderman per essere tale è costretto ad affrontare anche traumi davvero sconvolgenti, chesolitamente riguardano la perdita degli affetti.
Per questo il personaggio di Miguel O’Hara è così tanto grigio: avendo vissuto sulla sua pelle cosa significa davveroandare contro il canone e vivere solamente per sé stessi, lo impone giustamente (?) anche a tutti gli altri.
Ma Miles è ancora troppo giovane, troppo inesperto – ancora una volta – e non è pronto ad affrontare un nuovo trauma in così poco tempo. Un trauma che, con ogni probabilità, lo porterebbe ad una distruzione della sua identità e a chiudersi in sé stesso.
E allora cos’è più importante?
Salvare sé stessi o salvare il multiverso?
Spider-Man: Across the Spider-Verse finale spiegazione
Il finale di Spider-Man: Across the Spider-Verse è piuttosto oscuro.
Quantomeno inizialmente Gwen ottiene un finale positivo: anche se scopre che per colpa sua il padre ha lasciato il lavoro da poliziotto, in questo modo non diventa capitano della polizia, non seguendo quindi la strada del canone che l’avrebbe portato alla morte.
Invece il finale di Miles è quasi macabro.
Finalmente pronto ad affrontare i suoi genitori per rivelare la sua identità segreta, il protagonista si confida con la madre, che sembra non capire di cosa stia parlando. E, se in un primo momento la situazione sembra credibile, minuto dopo minuto la verità comincia ad emergere…
Miles ha sbagliato universo, è finito in quello da cui deriva il ragno che l’ha morso, dove proprio per questo manca uno Spiderman. E non è neanche la cosa peggiore: Miles, perdendo il padre e non essendo morso dal ragno, è diventato un supercattivo, Prowler.
Ed è piuttosto credibile: nel primo film veniva raccontato quanto Miles fosse legato allo zio, quindi è altrettanto comprensibile che, in mancanza di un’altra strada, si sia lasciato sedurre dalla possibilità di essere super, ma dalla parte sbagliata…
Spider-Man: Across the Spider-Verse Andrew Garfield Donald Glover
Spider-Man: Across the Spider-Verse è il miglior racconto del multiverso di Spiderman portato finora al cinema.
La tecnica narrativa e artistica si arricchisce, portando nuovi e fantastici personaggi, ognuno definito da una propria estetica, peculiare e unica: dallo Spider Punk all’Avvoltoio di Età Rinascimentale.
Ma anche Gwen ha una propria identità visiva, quasi espressionista: una realtà molto sfumata,che cambia a seconda delle sue emozioni.
Un multiverso incredibilmente intelligente, che riesce anzitutto a portare un’ironia metanarrativa particolarmente indovinata:
Ma, soprattutto, sembra mettere finalmente un punto al rapporto fra live action e realtà animata nell’Universo Marvel-Sony.
Semplicemente, i personaggi in live action rimangono tali, non cambiano entrando nell’universo animato. E così il film si collega a tutti gli altri Spiderman della Sony, in maniera molto più organica rispetto a No Way Home (2021).
Ma il collegamento più importante è anche quello che potrebbe sfuggire: Donald Glover nei panni di Prowler, che molti potrebbero essersi dimenticati che è apparso – pur con un minutaggio limitato – in Spiderman: Homecoming (2016):
Quindi già al tempo sapevamo dell’esistenza di Miles Moralesnell’universo live action.
Quindi è probabile che questi due mondi – animato e live action – rimangano divisi – e che altrettanto probabilmente ci sarà un Miles Morales diverso in live action (nel già annunciato film) e un sequel di No Way Home, che sembra già essere in produzione.
Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard è stato il secondo tentativo di portare una storia spin-off nell’universo di Star Wars al cinema, dopo Rogue One (2016).E con risultati molto diversi…
Il giovane Han (non ancora Solo) è imprigionato dal pianeta Corellia, sotto lo stringente controllo di Lady Proxima. Ma ha forse trovato finalmente una via di fuga…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Solo?
Sì e no.
Solo non è un prodotto che mi sento di sconsigliare in toto, ma sicuramente non ve lo raccomando se vi è piaciuto Rogue One o se siete amanti di Star Wars: semplicemente, non è un film della saga.
È un generico film di fantascienza su cui hanno appiccicato alcuni elementi di Star Wars, con una scrittura assai banale, un protagonista che purtroppo non ha un’unghia del carisma di Harrison Ford e una storia nel complesso veramente poco appassionante…
Perché Solo è stato un flop?
Il flop di Solo è secondo me la coincidenza di diversi fattori.
Anzitutto, il periodo di uscita: a differenza di Rogue One, che arrivò in un momento di rinascita del brand, il mercato cinematografico nel 2018 era ormai saturo di Star Wars, con già cinque nuovi prodotti nel giro di pochi anni.
In secondo luogo, Solo partiva molto più svantaggiato: se il precedente spin-off era uscito dopo un film accolto abbastanza positivamente dal pubblico, questa pellicola arrivò dopo Gli ultimi Jedi (2017), prodotto che ancora oggi è incredibilmente divisivo per il pubblico.
In ultimo, forse più indirettamente, la situazione dei personaggi della trilogia originale non era delle più rosee: sia Luke che Han erano ormai morti per il canone, e in particolare Harrison Ford si era prestato controvoglia al ritorno nel personaggio.
E se a tutto questo si aggiunge la scarsa qualità della pellicola…
Per molti tratti, ho avuto la sensazione che Solo volesse copiare spudoratamente Rogue One, ma senza capirne i punti di forza.
Infatti, l’incipit è molto simile: una sorta di prologo, a cui segue un’ellissi temporale abbastanza ampia, che purtroppo diventa totalmente irrilevante vista banalità dello sviluppo del rapporto fra Han e Qi’ra.
Ma non è finita qui.
Anche peggio è come si compone il gruppo principale della storia: sia per l’introduzione di Chewbacca, totalmente out of character, ma soprattutto con la devastante debolezza delle motivazioni che portano Tobias ad accogliere Han nella sua squadra.
Basta un così veloce scambio di battute per far passare il personaggio dal voler condannare il protagonista a morte all’includerlo in una missione così importante e pericolosa?
Il mancato interesse
Una cosa che Rogue One aveva capito molto bene è quanto sia essenziale che la storia raccontata sembri importante allo spettatore.
Se ci pensate, tutti i prodotti cinematografici di Star Wars hanno come fine ultimo qualcosa di davvero importante – solitamente la salvezza della galassia – che riesce a coinvolgere lo spettatore all’interno di una dinamica imponente e fondamentale.
Invece, perché dovrebbe importarmi della storia di Solo?
Tutta la missione non sembra altro che una side quest molto diluita, un riempimento sentito come necessario per arrivare a due ore di film e per collegare infine tutti gli elementi che caratterizzano il personaggio di Han Solo.
E non è neanche credibile.
Un film di nicchia
Vi ricordate quando parlavamo di quanto fosse importante in Rogue One la scelta di eliminare tutti i personaggi in scena, per evitare buchi di trama incolmabili con la Trilogia Originale?
Solo non solo sbaglia in questo, ma fa gli stessi errori dei film successivi.
Andando a fare qualche ricerca, si scopre che il futuro di Q’ira dopo questa pellicola viene raccontato nell’Universo Espanso a fumetti, usciti, ovviamente, dopo La trilogia originale.
Prodotti di nicchia, per la maggior parte non conosciuti dal grande pubblico.
In questo modo, si dà per scontato che lo spettatore non abbia un cortocircuito mentale vedendo il personaggio sopravvivere e non apparire nei film successivi, visto che facilmente non conoscerà i fumetti.
In questo modo, come è stato per la seconda stagione di The Mandalorian, ma anche per la futura serie di Asoka, si allontana una buona fetta di pubblico, quegli stessi casual fan (come me) che hanno di solito una conoscenza limitata ai prodotti cinematografici.
E i risultati si vedono…
Star Wars?
E, nonostante questo, paradossalmente Solo è il film meno Star Wars che mi sia capitato di vedere in tempi recenti.
Evidentemente Ron Howard non ha la stessa eleganza e intelligenza per riuscire a rinnovare l’aspetto della saga di quella che ha dimostrato Gareth Edwards in Rogue One. Infatti, Solo presenta un’estetica molto generica, che non riesce a ricollegare visivamente la pellicola al brand, tranne per pochi elementi.
E, anche peggio, Han Solo non sembra sé stesso.
Per quanto Alden Ehrenreich si sia impegnato, non ha lo stesso carisma e iconicità di Harrison Ford, e quindi non riesce veramente a raccontare un personaggio più giovane e immaturo, portando una backstoryfrancamente neanche così interessante, anzi…
Inutili colpi di scena
Il finale di Solo vive di colpi di scena.
Ogni personaggio si scopre di avere un secondo, terzo, quarto obbiettivo o piano nascosto fino a questo momento, con una sequela di colpi di scena quasi nauseante, che sembra voler tenere lo spettatore con la bocca aperta per tutto il terzo atto.
Tuttavia, vuoi per la debolezza delle relazioni dei personaggi, vuoi per il poco interesse che la storia in generale mi ha suscitato, mi sono sentita veramente poco coinvolta, e più esasperata che sorpresa…
Intrigo internazionale (1959) – traduzione molto goffa del titolo originale North by Northwest – è una delle opere più note della filmografia di Hitchcock, nonché l’ultimoin cui lavorò con il suo attore feticcio, Cary Grant.
A fronte di un budget medio – 4,3 milioni di dollari, circa 45 oggi – incassò abbastanza bene:9,8 milioni di dollari (circa 102 oggi).
Di cosa parla Intrigo Internazionale?
Roger Thornhill è un agente pubblicitario che viene involontariamente coinvolto in uno scambio di persona e in un intrigo spionistico…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Intrigo Internazionale?
Assolutamente sì.
Intrigo Internazionale è uno dei titoli più interessanti della filmografia di Hitchcock, dove sperimenta in maniera particolarmente avvincente con il genere thriller, ma con importanti contaminazioni comiche e della spy story.
Una storia intrigante e piena di tensione, che mi ha ricordato molto la storia di Carl BarksPaperino e le spie atomiche (1951).
Non manca qualche piccolo inciampo sul finale, ma elegantemente camuffato da una regia intelligente e piuttosto indovinata, che mostra un Hitchcock perfettamente padrone della sua arte, proprio alle porte del suo capolavoro…
Lo strappo
L’incipit di Intrigo internazionale è magistrale.
Si apre con una lunga sequenza che ci introduce il personaggio: un agente pubblicitario piuttosto intraprendente, pienissimo di impegni e particolarmente carismatico. Piccole scene dal sapore comico, che fanno immergere lo spettatore in atmosfere apparentemente tranquille e quotidiane…
…per poi catapultarlo nel vivo dell’azione.
Mentre Roger sta serenamente intrattenendo la tavolata, la macchina da presa si muove improvvisamente, con uno scatto repentino, per mostrare un elemento della stanza che era rimasto fuori dalla scena fino a quel momento: due loschi individui che hanno adocchiato il protagonista.
Scene vertiginose
Così Roger si trova incastrato in una situazione da cui sembra impossibile uscire, nonostante cerchi continuamente di imporre la propria autorità.
Tuttavia, viene costretto ad una rocambolesca fuga in auto, dopo essere stato ubriacato forzatamente. E qui Cary Grant sfodera le sue incredibili capacità di attore comico, reggendo sulle spalle una scena particolarmente complessa, soprattutto considerando le tecniche disponibili al tempo.
Ma l’attore feticcio di Hitchcock riesce perfettamente a calibrare la situazione nella sua grottesca comicità, aiutato anche da abili movimenti di macchina, che Hitchcock già aveva già utilizzato nella scena analoga di Caccia al ladro (1955).
E non è finita qui.
Un Grant inedito
Forse volendo smorzare i toni dopo la tiepida accoglienza del ben più drammatico Vertigo(1958), in Intrigo Internazionale Hitchcock lascia ampio spazio alla recitazione comica.
Tuttavia, non è la solita comicità alla Hitchcock, quell’humour nerissimo che aveva avuto il suo picco in La congiura degli innocenti (1955): troviamo invece dinamiche più semplici, quasi da slapstick comedy.
Ed è qui che Cary Grant dà veramente il suo meglio.
Già molto esperto nel genere, l’attore riesce a muoversi con abilità sia nelle sequenze più drammatiche e di tensione, con il suo sguardo penetrante, sia nei momenti più apertamente comici, in particolare la spassosissima scena dell’asta.
Un’intrusione fondamentale
Una sequenza fondamentale, posta sul finale del primo atto, è quella dedicata allo svelamento dell’intrigo.
Ma solo allo spettatore.
Una breve scenetta in cui le menti dietro al fittizio George Kaplan raccontano il loro piano, fornendo una bussola chiara allo spettatoreper il seguito delle vicende. Una tecnica già utilizzata in Vertigo, che permette di continuare a seguire il protagonista nei suoi inciampi senza esasperare la tensione.
In questo modo, inoltre, si rende anche più interessante il momento di svolta in cui il personaggio diventa veramente attivo negli eventi.
Il motore necessario?
Sulle prime ho particolarmente apprezzato il personaggio di Eva.
Una scelta di casting piuttosto peculiare per Hitchcock, che si lascia alle spalle le bellezze più magnetiche di Grace Kelly quanto di Kim Novak, preferendo invece un’attrice come Eva Marie Saint, che funziona molto bene nel ruolo della donna intrigante.
Una donna di difficile lettura, che ricorda quello che sarà poi Janet Leigh in Psycho(1960).
Intorno alla stessa ho anche apprezzato il momento di indipendenza del protagonista, che diventa più furbo delle spie stesse, riuscendo momentaneamente a sbrogliarsi dall’intrigo in cui era stato coinvolto.
Ho invece meno apprezzato l’idea che Roger di leghi così profondamente ad Eva, tanto da rimettersi in gioco e rischiare davvero la propria vita per salvarla, volendo ovviamente portare all’happy ending romantico.
Una costruzione che ho trovato meno convincente rispetto ad altri prodotti di Hitchcock, che come sempre include l’elemento romantico, percepito evidentemente come necessario, ma che alla fine mi è parso abbastanza debole come motore della vicenda.
Anche se…
Intrigo Internazionale finale
Il finale di Intrigo Internazionale è uno dei più indovinati della filmografia di Hitchcock.
In una scena di incredibile tensione sul Monte Rushmore, quando sembra ormai che Eva sia destinata a morire, Roger la solleva e improvvisamente la scena si riforma in un contesto ben più intimo e accogliente: il treno.
Come creare un finale positivo e senza sbavature.
Intrigo internazionale titolo originale
Il titolo originale di Intrigo internazionale è North by Northwest.
Ma cosa significa?
Letteralmente significa Da nord a nordovest, facendo riferimento al percorso del protagonista: dal Palazzo delle Nazioni Unite (New York), al monte Rushmore (Sud Dakota).
Ma, secondo alcuni critici, lo stesso prende spunto da Amleto (2,2):
quindi rendendo il protagonista un eroe shakespeariano moderno.
Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman è un lungometraggio animato di produzione Sony, con protagonista l’Uomo Ragno in una veste inedita.
Un prodotto che ebbe maggior successo nel suo rilascio in streaming, a fronte di un riscontro economico non eccellente: con un budget di 90 milioni, incassò appena 375 milioni – meno del prodotto più debole della Marvel lo stesso anno, Antman and the Wasp.
Di cosa parla Spider-Man: into the Spider-Verse?
Miles Morales è un ragazzino di quattordici anni, che vive stressato dalle aspettative del padre poliziotto e nell’ammirazione dello zio, non sapendo quali strade prendere nella sua vita. Un incidente gli cambierà per sempre la vita…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Spider-Man: into the Spider-Verse?
Assolutamente sì.
Spider-Man: into the Spider-Verse è stata una grande sorpresa per molti, soprattutto dopo il recente successo dello Spiderman di Tom Holland, e quando il multiverso al cinema era ancora solo timidamente esplorato.
Io non lo vidi in sala – per colpa anche di una distribuzione piuttosto anomala in Italia – ma lo riscoprì grazie all’ottimo passaparola un paio di anni dopo.
E ne rimasi estremamente soddisfatta: un film veramente ben scritto, con una tecnica d’animazione pazzesca ed originale, che gioca fra l’altro in maniera perfetta con l’elemento metanarrativo.
Insomma, non ve lo potete perdere.
Un inizio (non) ridondante
Raccontare le origini di Spiderman non è affare da nulla.
La sua origin storyè nota tanto quanto quella di Batman, e raccontarla identica per l’ennesima volta poteva apparire incredibilmente ridondante e – di fatto – noioso. Per questo Spider-Man: into the Spider-Verse ha scelto la via più intelligente.
L’autoironia.
Collegandosi direttamente – ma non troppo – a Spiderman (2002) di Raimi, riassume in prima battuta la storia dello Spiderman più canonico, per poi passare a raccontare Miles prima di tutto come personaggio e, solo dopo, come l’Uomo Ragno.
Ma c’è di più.
Non il solito Spiderman
L’altro elemento di grande novità di Spider-Man: into the Spider-Verse è che Miles non è Peter Parker.
Anche se le origini sono simili, il fatto che non si tratti del medesimo personaggio permette di spaziare nella scoperta dipoteri altri oltre a quelli canonici dell’Uomo Ragno, e, soprattutto, di giocare in maniera davvero interessante con la figura di Peter Parker stesso.
Se infatti Miles si aspettava di avere come mentore il suo eroe del cuore, in realtà si trova in mezzo allo psicodramma di un Peter Parker nella sua versione più fallimentare, che ha preso tutte le scelte sbagliate nella vita.
Sapore di verità
L’altro elemento che ho particolarmente apprezzato è quanto Miles sia un eroe molto quotidiano.
Un aspetto che avevo già adorato in Spiderman: Homecoming (2017), prodotto però mancante – per ovvi motivi – di tutta la parte del primo approccio ai poteri del protagonista.
Una sezione invece presente sia in Spiderman (2002), sia in The Amazing Spider-Man (2012), ma che non mi aveva mai veramente soddisfatto.
In questo caso la scoperta delle nuove abilità non solo ha un taglio molto realistico e piacevole, ma è riuscita anche ad avvicinarmi emotivamente al protagonista, nella sua confusione per questa inedita situazione…
Scoprire sé stessi
A primo impatto il modo in cui Miles accetta i suoi poteri potrebbe apparire forzato.
In realtà, è perfettamente coerente col personaggio.
La figura di Spiderman è legata all’istinto e ai sensi ragneschi. Per questo è del tutto comprensibile che, per riuscire a diventare effettivamente l’Uomo Ragno, il protagonista debba riuscire a fare questo salto di fedee accettare istintivamente questi poteri come propri.
E, sempre per i motivi di cui sopra, ho amato il fatto che l’estetica del suo costume è perfettamente coerente con il suo personaggio e, soprattutto, che Miles non debba crearsi – come in The Amazing Spiderman – il costume da solo, ma solo renderlo suo.
Fantastici secondari
Uno dei punti di forza di Spider-Man: into the Spider-Verse sono le versioni alternative dell’Uomo Ragno.
Particolarmente vincente l’idea di portare in scena personaggi così tanto diversi da loro, ma pur sempre legati al canone. E un grande successo è stato anche scrivere così bene Spider-Woman, quando c’erano tutti i presupposti per renderla una Mary Sue…
Ma il mio preferito è sicuramente Spiderman Noir, la versione alternativa più iconica e rimasta nel cuore degli spettatori.
Parlando invece di Peni Parker…
Peni Parker Spider-Man: Into the Spider-Verse
Capisco tutto di Peni Parker.
Capisco la necessità di inserire un ulteriore personaggio femminile in un team principalmente maschile, di fare ancora una volta un passo verso il pubblico orientale…
Ma il suo personaggio è veramente l’unica cosa che non mi è piaciuta del film.
Oltre ad essere una versione troppo diversa dal personaggio di partenza, l’ho trovata davvero di troppo, non riuscendo a comunicarmi granché, se non un sincero fastidio…
Spider-Man: into the Spider-Verse animazione
Spider-Man: into the Spider-Verse è ricordato anche per la tecnica veramente rivoluzionaria.
Un incredibile incontro fra animazione 3D e 2D, in questo caso particolarmente azzeccata per rendere – anche metanarrativamente – la dimensione fumettistica.
Una boccata d’aria fresca all’interno di produzioni animate ormai abbastanza standardizzate, che ha aperto la porta anche ad altre interessanti sperimentazioni in questo senso.
Rogue One (2016) di Gareth Edwards è un film prequel spin-off di Star Wars.
Un progetto piuttosto ambizioso, facente parte dei piani iniziali della Disney di portare un prodotto di Star Wars all’anno – nel 2015 era uscitoIl risveglio della forza.
Galen Erso è un ex-scienziato al servizio dell’Impero, che viene scovato dalle forze imperiali per tornare a lavorare ad un certo progetto oscuro…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena vedere Rogue One?
Assolutamente sì.
Rogue One è indubbiamente il miglior prodotto concepito dopo la Trilogia Originale.
Il suo grande pregio è il riuscire a raccontare finalmente una storia diversadal solito coming of age di un membro sconosciuto della famiglia Skywalker, segretamente lo Jedi che salverà la Galassia – come è stato fatto, pur rimescolando le carte, con tutti gli altri prodotti della trilogia prequel e sequel.
Purtroppo, fa anche un po’ di tristezza vedere questo prodotto con la consapevolezza di quanto sarebbe arrivato dopo: una bellissima, ma falsa speranza della rinascita del brand…
Dove si colloca Rogue One?
Rogue One ha una collocazione molto precisa all’interno della timeline di Star Wars: si ambienta nei giorni immediatamente precedenti all’inizio di Una nuova speranza (1977).
Cominciare dal nulla
La bellezza del personaggio di Jyn è il suo percorso di maturazione.
Una ragazza già piuttosto adulta, che vive una sostanziale indifferenza, se non addirittura un antagonismo, per tutto quello che riguarda la Ribellione. E questo la porta a vivere solo per sé stessa, come una criminale qualunque.
Il cambio di passo è scatenato in particolare dal confronto con le due figure paterne che l’hanno portata al suo annullamento: Saw e il padre, Galen Erso.
Da entrambi si è sentita abbandonata e tradita, anche se per motivi diversi.
Viene così spinta ad un rincontro forzato, che però le permette di ricucire quelle ferite che l’avevano così profondamente colpita, comprendendo che invece entrambi si erano sacrificati e prodigati per la sua salvezza.
In particolare, vedendo il messaggio del padre, si riaccende in Jyn quel fuoco interiore da tempo sopito, che la fa diventare il protagonista più importante della Ribellione – senza il quale, di fatto, la vittoria contro l’Impero non sarebbe potuta avvenire.
Il buon fan service
Uno dei meriti maggiori di Rogue One è non solo il riuscire a raccontare una storia inedita, anche di andarsi a collocare perfettamente all’interno dell’universo di Star Wars.
Per quanto ci siano alcuni elementi ripescati dal canone di riferimento – il protagonista che ha un padre apparentemente malvagio, la presenza di uno Jedi, un robot a cui è affidata la linea comica del film – niente è forzato o eccessivo.
Inoltre, Gareth Edwards è riuscito ad aggiornare l’estetica della saga senza stravolgerla, ma apportando interessanti cambiamenti così che non sembrasse – come si è cercato di fare in altri film successivi – una sostanziale copia di quanto venuto prima.
Complessivamente i momenti di fanservice– se così vogliamo chiamarlo – rappresentano una porzione minuscola della pellicola, e sono comunque inseriti in maniera intelligente, con la funzione principalmente di contestualizzare la storia, più che di far emozionare i fan.
Inoltre, Rogue One racconta una storia effettivamente importante, che, invece che cambiare, arricchisce nel complesso la saga, andando a spiegare in maniera interessante e credibile un elemento che effettivamente poteva apparire forzato.
Ed è quasi ironico che abbiano usato lo stesso anche in L’ascesa di Skywalker pochi anni dopo…
Il domino
Rogue One è anche un film straziante.
È angosciante quanto dovuto vedere alla fine tutti i personaggi che muoiono.
Ma, appunto, non si poteva fare altrimenti: non si è voluto per questo film rischiare alcun tipo di forzatura, né di far sorgere domande per le quali, per ovvi motivi, non si sarebbe potuto dare una risposta.
In breve, se nessuno di questi personaggi appare nella Trilogia Originale, deve morire.
Tuttavia, l’eleganza di questo film sta non solo nel dare ad ognuno di loro una morte importante e che rimanga nella mente dello spettatore, ma anche nel saper concludere la pellicola con un aggancio al canonegeniale quanto rincuorante.