Vertigo (1958) – noto in Italia con un titolo ben più spoileroso – è una delle opere più importanti ed iconiche della filmografia di Hitchcock.
Un film dove questo regista cominciò davvero a sperimentare con l’elemento orrorifico, poco anni prima di approdare al suo capolavoro, Psycho (1960).
A fronte di un budget medio – 2,3 milioni di dollari, circa 26 oggi – incassò piuttosto bene:7,3 milioni di dollari – circa 27 milioni oggi.
Tuttavia, l’accoglienza da parte di pubblico e critica fu abbastanza tiepida, e la pellicola venne rivalutata solo successivamente.
Di cosa parla Vertigo?
John Ferguson è un poliziotto in pensione, che si è ritirata per la sua terribile paura delle altezze. E improvvisamente viene coinvolto in una storia piuttosto strana e terrificante…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Vertigo?
Assolutamente sì.
Vertigo è una delle sperimentazioni più interessanti della filmografia di Hitchcock, in cui riesce a costruire una tensione eccezionale, e a rendere lo stesso spettatore in qualche modo complicedelle vicende raccontate.
Un film in cui l’orrore, il surreale e il thriller psicologico si incontrano, per dare vita ad un’opera incredibilmente coinvolgente e piena di colpi di scena, dove niente è come sembra…
Insomma, non ve la potete perdere.
Via all’orrore
Un inizio improvviso, orrorifico, ma anche assai rivelatorio, ci immerge immediatamente in Vertigo.
Il sogno – ma anche il ricordo – di John nella fatidica notte in cui perse non solo un collega, ma anche la sua carriera da poliziotto. Una sequenza genuinamente angosciante, che ci racconta in pochi frame la profondità della fobia del protagonista.
Segue un quadretto domestico ben più sereno, dove i colori freddi e opprimenti dell’incipit vengono sostituiti da tinte più delicate e confortevoli, in particolare sul personaggio di Midge.
Ma la tranquillità della scena, che appare quasi comica, viene spezzata sul finale: quando John vuole dimostrare di poter superare la sua paura, un’inquadratura improvvisa ci svela la sua soggettivasulle altezze vertiginose fuori dalla finestra…
L’inspiegabile
Il tranello di Gavin – e della regia – è messo in scena alla perfezione.
Lo stesso prima viene introdotto a parole dal marito apparentemente preoccupato, poi Kim Novak riesce efficacemente a portare in scena questa donna malinconica e sfuggente, definita anche dai numerosi particolari del suo alter ego.
Come per Notorious (1946), infatti anche in questo caso Hitchcock mette in risalto i dettagli della scena, accentuando l’intensità delle inquadrature con delle enigmatiche soggettive, che riescono ancora di più ad immergere lo spettatore nella scena.
La donna impossibile
Di solito non sono una grande fan del cosiddetto instantlove.
Preferisco una costruzione più articolata della nascita dell’amore fra due personaggi, che sia basato su basi ben più solide del classico colpo di fulmine, a cui segue spesso uno sviluppo della relazione molto banale.
Nel caso di Vertigo è una scelta perfetta.
Hitchcock è riuscito a dirigere un’attrice già di una bellezza sconvolgente come Kim Novak, e a portarla in scena come la donna magnetica e irresistibile, di cui è impossibile non innamorarsi…
Per questo, la reazione del protagonista è del tutto giustificata.
Altrettanto Hitchcock abilmente riesce a distruggere questa immagine, distorcendo il volto della donna con un trucco che di per sé non la imbruttisce affatto, ma la spoglia di quel candore che la caratterizzava al momento dell’innamoramento, rendendola quasi irriconoscibile.
Il terzo atto è proprio dedicato alla ricostruzione del personaggio.
Dal momento che John si era innamorato di Madeleine per la sua folgorante bellezza, dimostra tutta la sua pericolosa ossessione nel voler toccare e vedere la stessa donna di cui si era innamorato, anche a discapito della felicità di Judy.
Una ricostruzione che è solo l’anticamera dell’inevitabile distruzione…
Giocare con lo spettatore
In Vertigo, forse più che in ogni altra sua pellicola, Hitchcock dialoga con lo spettatore.
Anzitutto perché alla fine lo stesso si rende conto che almeno due elementi della trama erano molto meno fondamentali di quanto sembrasse. In primo luogo, Midge, il cui aspetto è molto simile a quello di Kim Novak.
E infatti è proprio il suo personaggio ad instillare il seme del dubbio nello spettatore: e se la tanto cara e innocente amica di John fosse in realtà la stessa Madeleinesotto mentite spoglie?
E invece alla fine si rivela per quello che è: un personaggio sostanzialmente di contorno, che scompare dalla scena nel terzo atto.
Allo stesso modo Gavin non è altro che l’artefice dell’inganno per sbarazzarsi della moglie, con una trama in cui John è stato coinvolto come mero strumento. Quindi lo stesso personaggio innesca la trama e le conseguenze per John, ma, alla fine del secondo atto, scompare anche lui.
In ultimo Hitchcock sceglie di non affidare la rivelazione del mistero al colpo di scena finale, ma di rendere lo spettatore complice del tranello di Judy, mostrandolo in un momento di debolezza della stessa, che però viene nascosto al protagonista.
L’uomo che sapeva troppo (1956) è uno dei titoli più noti della filmografia di Hitchcock, nonché il remake del film omonimo che aveva diretto nel 1934.
A fronte di un budget medio – 1,2 milioni, circa 13 oggi – incassò tutto sommato molto bene: 11,3 milioni di dollari – circa 126 oggi.
Di cosa parla L’uomo che sapeva troppo?
Ben e la moglie Jo sono in vacanza in Marocco. Per via di una serie di avvenimenti, vengono coinvolti in un intrigo spionistico internazionale…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere L’uomo che sapeva troppo?
In generale, sì.
L’uomo che sapeva troppo è un titolo in parte atipico nella filmografia di Hitchcock, anzitutto per la famiglia protagonista, che ha un ruolo incredibilmente centrale nella pellicola – forse anche troppo…
Inoltre, nonostante forse la lunghezza appaia eccessiva, ha una perfetta costruzione del mistero e soprattutto della tensione, anche grazie a una coppia di attori fenomenali: oltre al già noto James Stewart, è il primo film che ho visto con Doris Day, semplicemente perfetta nella parte.
Insomma, dategli un’occasione.
Una coppia atipica
Un elemento che mi ha sorpreso de L’uomo che sapeva troppo è la coppia protagonista.
Solitamente – almeno per mia esperienza – al centro delle pellicole di Hitchcock vi è sempre un eroe maschile affiancato da un personaggio femminile, con cui andrà infine a formare una coppia – si può vedere ad esempio in Notorious (1946) e in La finestra sul cortile (1954).
In questo caso invece marito e moglie sono ugualmente motori della storia, anzi si alternano in questo ruolo. Ovviamente Ben è comunque più protagonista della moglie, ma non vi è un significativo sbilanciamento a suo favore.
Anzi, Jo è la prima ad accorgersi che c’è qualcosa di strano…
Un MacGuffin?
Hitchcock è famoso per l’uso del macguffin, in particolare nell’iconico caso di Psycho (1960).
Non so se Louis Bernard può essere considerato tale, ma vi si avvicina molto: inizialmente sembra un personaggio fondamentale della trama, probabilmente l’antagonista contro cui gli eroi si dovranno scontrare.
Ma poi, improvvisamente, esce di scena.
E così il motore dell’azione passa da lui alla coppia dei protagonisti, in particolare a Ben. Di conseguenza, se prima Bernard era l’uomo che sapeva troppo, adesso questo ruolo passa al dottore protagonista – e, in parte, alla moglie.
Nonostante, ironicamente, per buona parte della pellicola sappiano molto poco di quello che sta succedendo…
La costruzione della tensione
La costruzione della tensione mi ha convinto a metà.
Da una parte ho davvero apprezzato il percorso dei personaggi: persone comuni che si trovano coinvolte in una storia più grande di loro, costretti pure ad agire da soli. E così non mancano le false piste, le incomprensioni…
E, soprattutto, le situazioni di stallo.
Davvero magistrale la scena del teatro, in cui Jo si trova immobilizzata dalla paura e dall’indecisione, con davanti agli occhi il delitto che si sta per compiere, di cui lei è sostanzialmente complice…
E Doris Day è stata perfetta nel trasmettere lo struggimento di quel personaggio.
Al contempo, non ho del tutto gradito altre sequenze in questo senso.
Prima di tutto il malinteso con Ambrose Chappell, che crea una tensione eccessiva per essere solamente una parentesi che fa perdere tempo al protagonista, facendoci sospettare per tutto il tempo che lui sia il vero colpevole.
Avrebbe funzionato meglio se fosse stata una scena dal sapore comico.
Allo stesso modo, Hank, benché sia fondamentale, ha uno spazio eccessivo: il suo salvataggio personalmente mi è sembrato un allungamento sproporzionato della trama, saltando da momento di tensione a momento di tensione…
L’uomo che sapeva troppo finale
Il finale è il momento in cui Hitchcock riesce a soddisfarmi o a deludermi a fasi alterne.
Non ho apprezzato il momento quasi melenso in chiusura a Io ti salverò (1945) – che tagliava un momento registico perfetto – mentre mi è piaciuta di più la conclusione piena di tensione di Notorious.
In questo caso Hitchcock sceglie di chiudere la sua pellicola con un momento comico particolarmente indovinato, che scioglie la tensione che aveva dominato fino a quel momento la storia.
Ponyo sulla scogliera (2008) è uno dei film forse più particolari della filmografia di Miyazaki, che arrivò dopo un’assenza dagli schermi del maestro nipponico di ben quattro anni.
Ancora una volta si confermò il successo commerciale della sua produzione: a fronte di un budget di 34 milioni di dollari (circa 3,4 miliardi di yen), incassò 200 milioni in tutto il mondo.
In Italia è stato distribuito nel 2009 dalla Lucky Red.
Di cosa parla Ponyo sulla scogliera?
Il mago Fujimoto vive sott’acqua insieme alle figlie e medita di distruggere il mondo umano. Ma la figlia più grande, Brunilde, riesce a scappare al suo controllo…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Ponyo sulla scogliera?
In generale, sì.
Ammetto che questa pellicola è una di quelle che meno apprezzo della produzione di Miyazaki. Tuttavia, a differenza di Kiki – Consegne a domicilio (1989), in questo caso semplicemente non mi sento in target.
Infatti, Ponyo sulla scogliera è il prodotto più infantile di Miyazaki.
Un film che farà la felicità dei più piccoli, che sono gli assoluti protagonisti, anche per il punto di vista: nonostante, a livello più profondo, si possono intravedere delle tematiche ambientaliste per nulla scontate, lo sguardo della storia è proprio quello di un bambino.
Insomma, un modo per fare felici i vostri figli e nipoti.
ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.
Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.
Nel caso di Ponyo sulla scogliera il pericolo è altissimo.
Questo giudizio potrebbe apparire esagerato – e probabilmente lo è – ma per questa pellicola ho un particolare dente avvelenato con Cannarsi. Infatti Ponyo sulla scogliera fu uno dei primi film che guardai per ampliare la mia conoscenza di Miyazaki, al tempo molto limitata.
E fu anche il punto in cui mi sono bloccata per diversi anni.
Infatti, la pellicola si presta proprio ad un doppiaggio incredibilmente pedante e sinceramente insostenibile, che ha sicuramente fatto la felicità di Cannarsi – ma non la mia…
In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:
Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.
Una storia di tutti i giorni
Ponyo sulla scogliera è il primo film di Miyazaki con un taglio così quotidiano.
Nonostante sia presente l’elemento magico, il mondo reale è presente ed integrato in esso senza troppi sconvolgimenti.
Non abbiamo infatti un protagonista che si scontra con un mondo fantastico e segreto come ne La città incantata(2001), ma un taglio più simile a Il mio vicino Totoro(1988).
Tuttavia, in questo caso il mondo reale e quotidiano è molto più presente, al punto che lo scheletro narrativo è una piccola avventura che potenzialmente ogni bambino ha vissuto: trovare un animale in difficoltà, salvarlo e volerlo adottare.
Il film cerca continuamente di dare una maggiore importanza e peso alla storia raccontata – con il piano di Fujimoto e il destino di Ponyo – ma complessivamente è un elemento che rimane costantemente in sottofondo, senza che ci sia mai un conflitto davvero forte in scena.
E, al contempo, il punto di arrivo è sostanzialmente un ripristino della quotidianità, con l’eliminazione dell’elemento magico in Ponyo, senza che in realtà la protagonista abbia avuto un’evoluzione importante o delle prove da affrontare.
La componente educativa
Un elemento che mi ha sempre stranito di Ponyo sulla scogliera è la sua sezione educativa.
Tutta la sequenza in cui Ponyo, ormai umana, viene accolta nella casa di Sōsuke, lo stesso la guida nella scoperta del mondo umano. Ma le loro interazioni sembrano uscite da un libro per bambini in cui si spiega come funziona l’economia domestica…
E diventa ancora più strano nell’incontro con la donna e il bebè, con cui Ponyo riesce a comunicare, andando anche a scontrarsi con la madre, che le spiega sostanzialmente come funziona l’allattamento, proprio come farebbe una madre con sua figlia…
E paradossalmente questi elementi sembrano più importanti del destino di Ponyo stessa…
Il disastro felice
Forse l’elemento più interessante di Ponyo sulla scogliera è il racconto ambientalista.
In questo caso Miyazaki sceglie di rappresentare una natura solo apparentemente minacciosa, facendo riferimento ad un disastro naturale molto presente nella mente del pubblico giapponese: gli tsunami – di cui uno dei più terribili avvenne pochi anni dopo.
L’apparente disastro si trasforma in realtà in un momento di convivenza pacifica con l’elemento naturale, sia in un’occasione per la comunità per rincontrarsi. Infatti, nonostante la città sia letteralmente sommersa, non si parla mai di vittime o di perdite.
Il punto di vista è quello di un bambino, che riesce a divertirsi moltissimo dopo questa apparente catastrofe naturale…
Con Ponyo sulla scogliera Miyazaki sceglie di fare diversi cambiamenti sul lato artistico – e devo dire che non sempre mi convincono…
Il cambiamento più evidente è la rappresentazione degli ambienti esterni: mentre fino a questi sembravano come se fosse dei dipinti ad olio, in questo caso sembrano invece dei disegni fatti a matita:
Nonostante siano sempre sfondi pieni di particolari e cornici perfette per le azioni dei protagonisti, non apprezzo particolarmente questa evoluzione.
Allo stesso modo, anche se ne capisco i motivi, non apprezzo moltissimo la scelta di utilizzare linee molti fluide e morbide, con disegni poco particolareggiati, molto spesso abbozzando i personaggi, soprattutto Ponyo:
Secondo la stessa idea, dopo i fantastici risultati dei film precedenti, non mi ha entusiasmato la rappresentazione delle donne anziane, nonostante siano ben differenziate fra loro.
Ma ci si basa su modelli già esistenti:
Interessante però sia la rappresentazione di Fujimoto, in cui si applica un modello di volto femminile ad un personaggio maschile:
sia il fantastico character design e l’animazione di Granmamare:
Interessante anche la rappresentazione del mondo subacqueo, prima sperimentazione di Miyazaki in questo senso:
Tre anni dopo l’inizio della guerra dei Cloni, le forze separatiste rapiscono il Cancelliere Palpatine, e Obi-Wan e Anakin devono salvarlo. Ma niente è come sembra…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena Star Wars: La vendetta dei Sith?
Con mia grande sorpresa, sì.
Personalmente considero La vendetta dei Sith il film migliore della trilogia prequel, che riesce complessivamente a trattare con intelligenza la costruzione del finale della trilogia, e a ricollegarlo coerentemente con i film successivi.
Ovviamente non mancano alcune forzature e momenti di puro ed ingenuo fanservice, ma il film si salva sia per un visibile miglioramento nella recitazione di Hayden Christensen, sia per diversi momenti assolutamente iconici.
Insomma, potreste rimanerne soddisfatti.
I tre anni fondamentali
In questo capitolo conclusivo, finalmente sono riuscita ad apprezzare Anakin.
Il giovane Padawan non è più il personaggio totalmente immaturo e fortemente emotivo di Episodio II, ma uno Jedi ben più adulto e consapevole delle sue potenzialità.
Tuttavia, pur consapevole che il racconto dei tre anni fra questo film e il precedente è presente nella serie Clone Wars, durante la visione ho percepito ancora una volta un senso di vuoto.
Nonostante, infatti, come prodotto mi abbia soddisfatto, riguardandomi indietro avrei preferito una costruzione del tutto diversa della storia, che permettesse di arrivare ad un finale basato su solide fondamenta.
E questo si vede soprattutto nel punto focale della narrazione…
Una costruzione forzata?
Una critica spesso mossa nei confronti di questo film è la conversione fin troppo fulminea di Anakin al lato oscuro.
Io mi trovo in una posizione di mezzo.
Sicuramente la trasformazione del protagonista poteva essere costruita decisamente meglio, ma le colpe sono da attribuire principalmente ai film precedenti: nei primi due capitoli mancano basi ben più solide che raccontino non tanto il carattere turbolento di Anakin, ma il suo rapporto con Palpatine.
In La vendetta dei Sith per questo si è dovuti partire quasi da zero per costruire la loro relazione, con Darth Sidious che comincia ad avvelenare la mente di Anakin, facendo leva non tanto sulla sete di potere del protagonista, ma sulla sua paura per il destino Padmé.
Ed è anche qui il problema.
La scelta di passare al lato oscuro di Anakin è basata per la maggior parte sul salvare la donna amata, peccato che il loro rapporto sia molto più secondario in questa pellicola e non sia stato costruito così profondamente nei precedenti capitoli.
E così manca un vero coinvolgimento emotivo al riguardo…
Una maggior organicità
Finora mi era sempre mancata una buona gestione dell’elemento più iconico della saga di Star Wars, ovvero i combattimenti con le spade laser: solitamente gli stessi si perdevano all’interno del marasma della battaglia finale.
In questo caso invece sono presenti diversi duelli, ben distribuiti nel complesso della pellicola, con scene dal sapore epico e monumentale – aspetto che non sempre ho percepito nei primi due film.
Ovviamente, l’iconico duello fra Anakin e Obi-Wanè il punto più alto della pellicola.
Uno scontro in cui si percepisce davvero l’epicità e la monumentalità di questo momento storico, con l’avvincente cornice del pianeta lavico, che racconta già da solo la natura di Anakin e del lato oscuro: una potenza attraente, ma incredibilmente pericolosa.
Inoltre, per la prima volta mi è finalmente piaciuto il rapporto fra i due personaggi, che avevo invece trovato eccessivamente velenoso nei precedenti capitoli. Anche qui avrei preferito una migliore costruzione, che portasse davvero ad un doloroso momento di scontro, ma mi posso accontentare…
Trilogia prequel fanservice
Come per i precedenti capitoli, anche La vendetta dei Sith è un film schiavo del fanservice.
In questo caso però mi è sinceramente dispiaciuto vedere diversi momenti e diversi snodi narrativi che mancano di spiegazioni adeguate – o di spiegazioni in generale – lasciando diverse domande senza una risposta chiara.
Fra le tante, perché Padmé sceglie proprio quei nomi per i suoi figli? Qual è il senso dell’armatura di Anakin, così facilmente pronta all’occorrenza nel momento del bisogno?
Questioni di per sé non estremamente rilevanti, ma che sarebbero state ben più interessanti se spiegate adeguatamente…
Il castello errante di Howl (2004) è uno dei miei prodotti preferiti di Miyazaki, nonché di uno dei progetti più ambiziosi del maestro nipponico.
A fronte di un budget non particolarmente sostanzioso – 2,4 miliardi di yen, circa 24 milioni dollari – fu un incredibile successo commerciale, incassando 236 milioni di dollari. In Italia uscì nel 2005 e in DVD nel 2006, il primo film Ghibli distribuito dalla Lucky Red.
Di cosa parla Il castello errante di Howl?
Sophie è una modesta cappellaia di paese, che sembra non voler abbandonare il negozio di famiglia. Ma la sua vita prenderà una via inaspettata…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Il castello errante di Howl?
Assolutamente sì.
Ammetto che dopo una recente revisione de Il castello errante di Howl l’avevo un po’ rivalutato in negativo, per via di alcuni snodi di trama che mi sembravano poco chiari e comprensibili.
In realtà, rivedendolo, mi sono resa conto che, comprendendo la chiave di lettura, tutto assume un senso.
Oltre a questo è un superbo film di avventura, con un world building paragonabile per bellezza solo a La città incantata(2001), ma che prende strade nuove e anche più importanti, pur con temi comuni.
Insomma, non ve lo potete perdere.
ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.
Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.
Nel caso di Il castello errante di Howl è incredibilmente basso.
Come detto, questo fu il primo film distribuito dalla Lucky Red e anche il primo doppiaggio dello Studio Ghibli curato da Cannarsi. Proprio perché era agli inizi e non aveva neanche tutto questo potere decisionale, fece un lavoro incredibilmente accettabile.
Ovviamente non mancano gli arcaismi, i dialoghi che suonano a tratti artificiosi, ma niente che vi porterà a voler abbandonare la visione.
In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:
Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.
Un’origine modesta
L’incipit racconta anche solo visivamente il carattere della protagonista.
Una ragazza dall’aspetto e dai comportamenti molto riservati e modesti, che si scontra continuamente con il carattere e l’estetica molto più chiassosa delle altre donnedella sua vita, soprattutto la madre e la sorella.
In particolare la sorella, ragazza piacente e corteggiata da molti uomini, si oppone all’idea della sorella maggiore di rimanere per sempre ancorata al suo nido paterno, per condurre una vita riservata esenza grandi sorprese.
Per questo l’incontro con Howl è così sconvolgente.
Il mago è infatti un personaggio emotivo e travolgente, che trascina improvvisamente Sophie nella sua vita. Una vita fatta di fughe e di colpi di scena, in cui la protagonista sembra costantemente di star partecipando ad un gioco di cui tutti conoscono le regole, tranne lei.
Ovviamente Sophie è subito – comprensibilmente – folgorata, ma si lascia anche abbastanza facilmente l’accaduto alle spalle.
Una nuova maschera
Il primo incontro-scontro con la Strega delle Lande è tanto più determinante.
Sophie mostra abbastanza in fretta di non essere così tanto docile come potrebbe apparire, reagendo piuttosto fermamente alla scortesia della donna. Potrebbe sembrare che questo suo comportamento sia il motivo della maledizione…
…ma non è così.
La strega, così come Howl, è un personaggio sfacciato e pieno di se stesso, così altrettanto indifferente delle conseguenze delle proprie azioni. Per questo, avrebbe comunque punito Sophie per aver aiutato il suo nemico.
In realtà, questa maledizione è un’opportunità.
Sia in senso positivo che negativo.
In senso positivo, Sophie può cambiare vita: la protagonista non ci mette molto ad accettare la sua nuova condizione, e si rifugia in realtà abbastanza divertita dietro una serie di luoghi comuni e battute frizzanti che il suo nuovo aspetto le permette.
In senso negativo, Sophie ha una nuova maschera dietro cui nascondersi: anche se riesce comunque a mostrarsi più intraprendente e decisa nel suo agire, in qualche modo finisce per trovare anche un altro rifugio per il suo tanto agognato quieto vivere.
Per questo, Sophie non è tanto diversa da Howl.
Con queste nuove vesti da vecchietta innocua ma decisa, si ritaglia il suo spazio nella vita del mago, senza arrendersi mai neanche davanti alle proteste degli altri personaggi.
Ma è ancora una volta un’apparenza dietro cui nascondersi, per celare tutta la sua insicurezza e paura, che non a caso emerge di tanto in tanto, anzitutto col primo (ri)incontro con Howl, mentre sta cucinando…
Una sfacciata apparenza
Howl è un giovane favoloso.
All’apparenza è un uomo attraente e sicuro di sé, che si muove abilmente in tutte le situazioni della vita con anche una certa giocosità, fin dalla sua primissima apparizione quando si trova tampinato dagli sgherri della Strega delle Lande.
Questo aspetto viene ancora confermato, anche se in senso diverso, dalla sua attività segreta: scegliere di non allearsi per principio con il Re per combattere la guerra, ma boicottarla segretamente, mettendo in pericolo la sua stessa vita.
E proprio qui avviene il punto di svolta.
Da un errore apparentemente innocuo – una tinta per capelli andata male – Howl svela la sua prima insicurezza.
L’ossessione per la bellezza esteriore.
Infatti basta questo piccolo ostacolo per farlo crollare in una profonda depressione, tale da annientarlo completamente e fisicamente, oltre a mettere in pericolo anche chi gli sta intorno. E in questo momento la sfuriata di Sophie è più fondamentale di quanto sembri…
Una svolta inaspettata
Come un bambino imbronciato, Howl si chiude in camera sua.
Un contesto già in apparenza assai infantile– con molti giocattoli che ricordano quelli di Bō, il figlio di Yubaba, ne La città incantata – ancora più sottolineato dal suo non voler parlare e non accettare le cure di Sophie.
Tuttavia, Howl ha già imparato qualcosa.
Ha accettato almeno una parte del suo aspetto, scegliendo di non tingersi più – neanche successivamente – i capelli, ma mantenere il suo aspetto originale. Insomma, la sfuriata di Sophie contro la sua vanità incontrollata ha avuto un inaspettato effetto positivo.
Inoltre, da questo momento Howl comincia a fidarsi di Sophie.
Per quanto sia probabile che Howl abbia riconosciuto subito la ragazza appena se l’è trovata in casa, proprio la notte che torna dal combattimento la vede addormentata col suo vero aspetto, e cosìconferma il suo sospetto.
E per questo, consapevole della determinazione della protagonista, le affida una missione importante per riuscire ad affrontare faccia a faccia Madame Sullivan, non essendo capace lui stesso di fronteggiare le trappole della maga.
E infatti, in un gioco delle parti piuttosto intraprendente, Howl entra nel luogo che aveva da così tanto tempo avuto paura di penetrare.
Sia lui che Sullivan sono fin da subito consapevoli di star giocando – Howl sa che Sullivan l’ha riconosciuto – ma è l’unico modo per cui il mago riesce finalmente a dire alla sua ex-maestra che non vuole prendere parte a questa guerra.
Ovviamente la maga non si arrende così facilmente, e cerca di insidiarlo con diverse e spaventose illusioni, in cui lui rischia inevitabilmente di soccombere, se non fosse ancora una volta per l’intervento di Sophie.
La lenta trasformazione
La prova del palazzo è un punto di svolta anche per Sophie.
È infatti il primo momento in cui la protagonista esprime apertamente i suoi sentimenti felici, che la fanno ritornare improvvisamente al suo vero aspetto. Aspetto che è per tutto il tempo sotto gli occhi di tutti, ma che lei è l’unica a non voler accettare.
Dal rientro al castello, Sophie comincia piano piano ad abbandonare la sua maschera, ringiovanendo lentamente, ma visibilmente:
Da questo momento Howl comincia sempre di più a mostrare il suo amore e la sua riconoscenza verso la ragazza: non solo col trasloco le dà una stanza tutta per sé, ma con lo stesso ricrea la casa natale della protagonista.
Ma il picco è il rifugio nella natura.
Il mago le fa questo meraviglioso regalo, che la fa scoppiare di felicità, facendola ritornare improvvisamente al suo aspetto reale. Nella stessa occasione Sophie prova anche ad esternare le sue paure, e Howl le risponde con forza per rassicurarla, ma riuscendo solo a farla rinchiudere di nuovo in se stessa.
Il momento effettivo è quando Sophie si rende conto delle intenzioni di Howl.
Quando infatti la protagonista accetta finalmente l’amore del mago, accetta di essere amata nonostante non sia bella, e quando altresì la paura la domina definitivamente, si ribella ai suoi stessi timori e prende in mano la situazione.
E ritorna definitivamente al suo aspetto.
Distruzione e costruzione
Pur armata di grande determinazione sulle prime, Sophie è un personaggio umano, che quindi può sbagliare.
Anzitutto la protagonista accetta la sua vera forma, anzi sceglie di prenderne una nuova: regalare la sua treccia a Calcifer, e cambiando del tutto aspetto. Ed è anche il primo momento di distruzione di Howl, tramite il castello stesso, che rappresenta questa apparenza dietro a cui il mago continua a nascondersi.
Ma l’inseguimento non va a buon fine.
Questo momento di apparente sconfitta – Sophie è convinta di aver ucciso Howl gettando l’acqua su Calcifer – in realtà è il momento della rivelazione. Grazie all’anello che l’amato le aveva regalato, la ragazza riesce a trovare Howl, scoprendo il suo segreto.
Sophie capisce così come salvare il mago da se stesso, ridonandogli quella vera natura che ha cercato di fuggire per tutta la vita – ovvero il suo cuore. E Howl è ancora più felice quando vede Sophie nella sua splendida, migliore forma.
La strega delle lande spiegazione
Nel terzo atto, le azioni della Strega delle Lande e Heel, il cane di Madame Sullivan sono apparentemente incomprensibili.
In realtà, sono facilmente spiegabili.
La Strega delle Lande ha vissuto tutta la vita con un solo obbiettivo: possedere Howl – le interpretazioni sul come vuole possederlo le lascio alla vostra immaginazione.
E neanche quando è privata dei suoi poteri, non si arrende.
Cerca infatti giocosamente di boicottare Howl, in modo da indebolirlo e potersene impossessare. Per questo dà in pasto l’insetto spione a Calcifer – che viene annientato e non può più proteggere la casa.
Infatti per questo il castello viene preso di mira, portando Howl a tornare e ad intestardirsi nel difenderlo, ma essendo anche in costante difficoltà.
E infatti alla fine riesce a prendere possesso del cuore.
Strega delle lande il castello errante di Howl
Perché Howl non la caccia?
Ci possono essere varie motivazioni, ma una in particolare è la più comprensibile: come Chihiro in La città incantata, Howl ha la capacità di vedere la vera natura delle persone – e non solo.
Per questo si rende conto che la Strega, ormai senza poteri, non può fargli del male e che non ha neanche effettive cattive intenzioni: è semplicemente ossessionata, ma anche pronta ad arrendersi per il bene di Howl stesso.
Heel il castello errante di Howl
Per lo stesso motivo, Howl non caccia Heel.
Per quanto abbia paura di Sullivan, Howl è anzitutto sicuro di essere protetto dalla sua magia e da Calsifer, quindi accetta quasi giocosamente di avere la maga alle calcagna – avendo fra l’altro la testa su tutt’altro obbiettivo.
Ma, soprattutto, Howl capisce le vere intenzioni del cagnolino, che è naturalmente riconoscente a Sophie, di cui ha visto la natura generosa e temeraria, e che per questo non vuole boicottare – e infatti non lo fa.
Il castello errante di Howl rapa
Una storia molto secondaria è quella di Testa di Rapa.
Un personaggio apparentemente molto di contorno, in realtà fondamentale in molti momenti: dopo che Sophie l’ha salvato, le fornisce un aiuto per camminare, le trova una casa e le recupera anche lo scialle.
E, oltre alla tenerissima scenetta in cui la aiuta col bucato, è il personaggio che di fatto salva la vita a tutti i personaggi quando stanno per cadere in un dirupo, mettendosi lui stesso in pericolo…
E, proprio in quel momento, Sophie gli dimostra finalmente affetto e lui può tornare alla sua vera forma così da fermare la guerra, pur dovendo accettare un amore non ricambiato…
Anche dal punto di vista artistico, Il castello errante di Howl è uno dei prodotti che più apprezzo della filmografia di Miyazaki.
Insieme a Yubaba, Sophie nella sua versione anziana è uno dei migliori visi anziani gestiti nella filmografia del maestro, ricchissimo di particolari e con delle animazioni stupefacenti:
Nonostante per i personaggi di Howl e Sophie – da giovane – Miyazaki utilizza dei modelli piuttosto standardizzati, senza particolari note di merito, non manca una cura particolare nei dettagli e nell’uso delle ombre, oltre che nel loro cambiamento durante il film:
Ma uno dei punti più alti è sicuramente la rappresentazione degli ambienti, sia esterni che interni.
Il castello in particolare è pieno zeppo di particolari, sia nella sua visione esterna che interna, sopratutto nei momenti di distruzione e cambiamento:
Così mi ha sempre fatto sognare la bellezza e la profondità con cui Miyazaki è riuscito a raccontare visivamente gli spazi esterni, in particolare la città reale:
Ma forse quello che mi piace di più di questo film è la rappresentazione del cibo e soprattutto dei personaggi che lo mangiano:
La congiura degli innocenti (1955), traduzione piuttosto evocativa del titolo originale The trouble with Harry, è uno dei prodotti meno noti e anche più atipici– ma tipici insieme – della filmografia di Hitchcock.
A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 1,2 milioni di dollari, circa 13,5 oggi – incassò tutto sommato abbastanza bene:3,5 milioni, circa 39 oggi.
Di cosa parla La congiura degli innocenti?
Durante una battuta di caccia, il capitano Wiles pensa di aver ucciso un uomo. Ma è solo l’inizio di un’incredibile avventura…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere La congiura degli innocenti?
Dipende.
La congiura degli innocenti è un film veramente particolare, che racconta un lato meno esplorato della filmografia di Hitchcock, pur sempre presente in sottofondo nei suoi prodotti precedenti: l’humor nero, in questo caso apertamente surreale.
Davanti al ritrovamento di un cadavere, ci si aspetterebbe una certa reazione dai personaggi di Hitchcock. In realtà, per vari motivi che vengono svelati durante la pellicola, le varie figure che si susseguono hanno delle reazioni imprevedibili, ma incredibilmente sensate…
Insomma, se vi piace il genere, lo adorerete.
The trouble with harry
Se non avete mai visto La congiura degli innocenti, vi consiglio caldamente di guardarlo in lingua originale.
Infatti la pellicola si basa su un’ironia piuttosto sagace, originata per la maggior parte da giochi di parole spesso intraducibili. Inoltre, senza conoscere il titolo originale, si perde il senso della conclusione.
Insomma, per apprezzarlo appieno, non rischiate!
Un omicidio inaspettato
Dopo un paio di inquadrature funzionali a raccontare l’ambiente – una minuscola comunità rurale – ci viene immediatamente introdotta la vicenda, con il simpatico Capitano che si accorge di aver ucciso un uomo.
Un evento che in altre circostanze avrebbe portato ad un picco drammatico, in questo caso porta ad una prima scenetta comica, dal sapore molto surreale: tutti gli abitanti della città – ad eccezione dello sceriffo e della bottegaia – passano vicino al cadavere.
E ognuno di questi sembra essere fondamentalmente disinteressato o per nulla preoccupato, ma ognuno con una motivazione chiara che verrà rivelata più avanti.
Oggetti (e personaggi) di valore
Durante la pellicola diversi oggetti passano di mano in mano, ognuno con un valore preciso.
Le scarpe di Harry, il coniglio morto, l’album da disegno…
Ed insieme agli oggetti, si muovono anche i personaggi, le cui vicende si intrecciano in maniera inaspettata e sorprendente, con un susseguirsi di gustosissimi colpi di scena, che rivelano a mano a mano tutti gli elementi della vicenda.
Così l’incontro fra il Capitano e Sam porta al dialogo con Jennifer e allo scoprire l’identità di Harry, il consumarsi dell’appuntamento fra il Capitano e Miss Gravely alla vera natura del delitto, e a un continuo sotterrare e dissotterrare il corpo…
Di conseguenza, anche la colpa – e così il motore dell’azione – passa da personaggio in personaggio.
Prima il Capitano che deve nascondere il delitto, poi Miss Gravely che deve discolparsi, infine Sam che deve sposarsi. Ma proprio alla fine, quando quest’ultimo diventa responsabile dell’ennesimo – e per fortuna ultimo – dissotterramento del corpo, riesce a ricompensare tutti per il loro silenzio.
Infatti, invece che tenersi entrambi i premi per sé – la nuova moglie e i soldi dalla vendita dei dipinti – sceglie di premiare ognuno dei personaggi, come una sorta di premio di partecipazione per averlo aiutato nel suo obbiettivo.
Che l’ironia continui!
Soprattutto sul finale, la colonna sonora stessa racconta la natura del film.
I temi più tipici che facevano da cornice sonora ai classici thriller alla Hitchcock, vengono smorzati da delle tonalità più scanzonate. Così, l’ironia nerissima – ma nondimeno gustosa – che domina la scena sembra poter finire da un momento all’altro.
Infatti, sul finale viene introdotto un elemento di disturbo, lo sceriffo che cerca di fare luce sulla storia e, in maniera quasi metanarrativa, rovinare la festa e mettere fine all’ironia della storia.
Al punto che lo spettatore non solo non vuole che i personaggi vengano puniti, ma pretende che si mantenga fino alla fine il taglio umoristico che finora aveva dominato. E per fortuna la vicenda si chiude come si è aperta, e con una chiosa piuttosto simpatica:
Dieci anni dopo Episodio I, Anakin è un giovane Padawan pieno di dubbi, e che non riesce a smettere di pensare a Padmé…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Star Wars: L’attacco dei cloni?
Dipende.
Nonostante complessivamente abbia apprezzato un pochino di più questo capitolo rispetto al precedente, non mi ha lasciato un buon sapore in bocca. In questo film infatti si intraprende definitivamente la via più banale e meno interessante per raccontare un personaggio essenziale come Anakin.
Tuttavia, perlomeno il film dedica uno spazio importante ad Obi-Wan, con una storyline complessivamente interessante – soprattutto nel complesso della loredi Star Wars. Non un elemento che riesce a risollevare il mio entusiasmo, ma sicuramente meglio della noia che mi ha procurato il primo capitolo…
Insomma, se volete affrontare la trilogia prequel fino in fondo, dovete passare anche di qua.
Manca un pezzo?
Cominciando L’attacco dei cloni, ho avuto un senso di vuoto.
Mi è stata sostanzialmente confermata la sensazione che Episodio I sia un prodotto sprecato, almeno per quanto riguarda la caratterizzazione del protagonista – che era l’elemento centrale nella trilogia originale.
Infatti, Anakin ci racconta tutte le sue problematiche e i suoi dilemmi solamente a parole, affrontando anche questioni piuttosto importanti – il sentirsi pronto all’essere un maestro ma non poterlo diventare, il suo sentirsi sottovalutato…
Insomma, l’idea alla base di questo capitolo centrale era di mostrare una maturazione – anche negativa – del personaggio, in particolare attraverso il tentativo di ricongiungimento tanto desiderato con la madre.
Tuttavia, neanche in questo caso a mio parere si è fatto centro: mi viene onestamente da chiedermi cosa servisse questa costruzione estremamente melodrammatica, se non a portare, ancora una volta, alla più banale caratterizzazione del personaggio come spietato e schiavo delle emozioni.
Rimango insomma dell’idea che manchi un pezzo fondamentale, che permettesse di rendere veramente tridimensionale questo importantissimo personaggio, che è stato fondamentalmente rovinato da una scrittura poco indovinata e da una recitazione molto approssimativa.
Tanto più che di fatto Anakin non è altro che un ragazzino, pieno di emozioni e incapace di canalizzarle correttamente. Ormai purtroppo con questo capitolo mi sono arresa all’idea che questa sia la strada scelta, ma non posso che soffrire la mancanza di un approccio ben più profondo e vincente…
Un amore senza basi
Per lo stesso motivo di cui sopra, la storia d’amore è monca.
Era evidente che Lucas avesse bisogno di questa relazione per giustificare quanto successo dopo, ma si è dimenticato di introdurla. Infatti, mi vengono i brividi anche solo a pensare che l’innamoramento sia sbocciato quando Anakin era ancora un bambino…
Ho percepito la volontà di Lucas di togliere questo pensiero dalla mente dello spettatore: all’inizio Padmé vede Anakin ancora come un bambino. Tuttavia, questo elemento si mette facilmente da parte davanti all’evidente insistenza del ragazzo – e nient’altro…
Al contempo, ho trovato del tutto ingiustificata la reazione della ragazza quando il futuro Darth Veder le racconta di aver sterminato un intero villaggio, anche di innocenti, evidente foreshadowingdella sua malvagità.
Un elemento chiarissimo allo spettatore, non pervenuto per Padmé…
Per fortuna c’è Obi-Wan
Ma, nonostante tutto, Episodio II mi è piaciuto più del precedente.
Oltre al fatto che la trama politica sembra molto meno fine a sé stessa e già più interessante, ho trovato anche piuttosto intrigante la storyline di Obi-Wan, con la sua caccia al mistero – e ai cloni – piena di tensione e di colpi di scena.
Forse uno degli elementi più vincenti della trilogia prequel è stato infatti il riuscire ad approfondire questo personaggio – che aveva uno screentimepiuttosto limitato in Una nuova speranza e – finora – un passato assai misterioso.
Al contempo però ho poco apprezzato il continuo e costante contrasto, quasi velenoso, fra Obi-Wan e il suo Padawan: ne comprendo la funzione, ne comprendo i fini, ma mi sembra ancora una volta scegliere la via più facile e banale…
Sempre alla fine…
Come per il precedente, tutta l’azione è concentrata nel finale.
E ancora una volta mi sono trovata davanti ad un lungo ed impegnativo combattimento conclusivo, che ho trovato personalmente sempre troppo dispersivo e troppo lungo, risvegliando il mio interesse effettivamente solo negli ultimi momenti.
In particolare, con lo scontro fra Yoda e Doku.
Uno duello davvero emozionante e pieno di colpi di scena, che riporta al centro della scena uno dei miei personaggi preferiti – Yoda – che purtroppo arriva dopo una sequela combattimenti molto meno soddisfacenti, financo ridicoli pensando al comportamento di Anakin…
Candidature Oscar 2024 per Guardiani della Galassia Vol. 3(2023)
in neretto le vittorie
Migliori effetti speciali
Di cosa parla Guardiani della Galassia Vol. 3?
Subito dopo lo Speciale di Natale, i Guardiani si trovano nella loro base, ma improvvisamente una nuova minaccia fa capolino…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Guardiani della Galassia Vol. 3?
In generale, sì.
Guardiani della Galassia Vol. 3 è un film fatto davvero apposta per i fan – dell’MCU, ma soprattutto del brand. Al punto che, per godere appieno della visione, è quantomai necessario vedere lo Speciale di Natale rilasciato nel 2022: la vicenda prende le mosse proprio da lì.
In generale, è un film che lavora moltissimo sul lato emotivo, con l’evidente intenzione – purtroppo per ovvi motivi – di chiudere dignitosamente tutti i personaggi, rischiando però in molti punti di forzare certe caratterizzazioni…
Ma, se siete fan dei Guardiani, ve ne innamorerete.
Il protagonista assente?
Una particolarità di Guardiani della Galassia Vol. 3 è il cambio di protagonista.
Nonostante infatti si cerchi di dare più o meno spazio a tutti, il centro emotivo non è più Star Lord, ma Rocket e il suo passato. Tuttavia, il personaggio è assente dalla scena per la maggior parte della pellicola, vivendo solamente nei flashback.
Una storia piuttosto dolorosa, che ridimensiona il personaggio e lo porta su binari meno esplorati finora, con un’inedita crudeltà che domina la scena – pur perfettamente nascosta grazie ad una tecnica registica estremamente abile.
Per quanto mi sia profondamente emozionata nel veder raccontare la sua storia – che ha toccato tutti i tasti giusti – d’altra parte un po’ mi è dispiaciuto vedere così poco in scena quel Rocket a cui ero abituata finora, uno dei miei personaggi preferiti dei Guardiani…
Ma ho comunque apprezzato che la missione della pellicola fosse il suo complesso e intricatissimo salvataggio, preferendola ad una narrazione più tipica con il villain di turno da sconfiggere – soprattutto per il collegamento emotivo che è riuscito a creare.
E a questo proposito…
Il villain nelle retrovie
Adam Warlock, interpretato dalla stella nascente Will Poulter, era stato venduto se non come il villain principale, sicuramente come una figura importante nel film.
E invece è tutto il contrario.
Un personaggio che è stato quasi sicuramente riscritto e di gran lunga ridimensionato, diventando una sorta di antagonista di contorno, con una caratterizzazione piuttosto abbozzata ed un arco evolutivo altrettanto debole.
Per quanto non avrei personalmente voluto che fosse più centrale nella scena – anzi, l’avrei direttamente eliminato – mi dispiace per l’attore, per cui questo film doveva essere probabilmente un punto di svolta per la sua carriera…
Ma parlando del vero villain…
Un villain per ogni occasione
Ho decisamente apprezzato l’Alto Evoluzionario.
Come nel precedente capitolo, Gunn ha scelto di scrivere un villain che fosse profondamente legato ad uno dei personaggi. E questo carattere così altalenante, che passa da una finta docilità ad una rabbia distruttiva, unito al suo totale disinteresse per il valore della vita, ai miei occhi l’ha avvicinato ad un altro villain importantissimo dell’MCU.
Thanos.
Anche se ovviamente l’Alto Evoluzionario non ha la medesima profondità ed importanza, presenta la stessa malvagità giustificata del villain della Saga dell’Infinito, in questo caso nel ruolo di un dio generoso quanto vendicativo. E l’ottima performance di Chukwudi Iwuji ha fatto il resto.
I secondari al centro
Dovendo dire addio per sempre ai suoi personaggi, James Gunn ha voluto dare ad ognuno un proprio arco evolutivo ed una conclusione.
L’esempio più evidente è Mantis.
Personaggio introdotto come secondario in Guardiani della Galassia Vol. 2, con un ruolo da protagonista nello speciale, Mantis ha un’evoluzione essenziale quanto brusca: viene emotivamente più approfondita, diventando al contempo anche quasi aggressiva.
Inoltre, si scopre come i suoi poteri possano essere essenziali non solo come supporto emotivo per il gruppo, ma anche all’interno degli stessi combattimenti e delle intrusioni. E da quello ne deriva il suo finale: l’inizio di un viaggio per riscoprire sé stessa.
Drax è un discorso a parte.
Il suo personaggio di per sé non ha un cambiamento significativo, anzi rimane per certi versi troppo uguale a sé stesso. Infatti, la sua comicità è fondamentalmente sempre identica: indubbiamente divertente ma, arrivati al terzo film, non ugualmente brillante come poteva apparire all’inizio…
Ma la parte importante è il suo finale: al pari di Star Lord, anche Drax capisce che è il momento di fermarsi, non essere più Il Distruttore, ma un padre per la nuova famiglia che si è creato. E, anche se è fin troppo didascalica, è comunque una conclusione che mi è parsa coerente e che ho nel complesso apprezzato.
Un protagonista indebolito?
In questo capitolo, Star Lord è un personaggio estremamente legato all’emotività.
Sia per il salvataggio di Rocket – di cui è il principale motore – sia per la relazione con Gamora. Se per certi versi la sua rappresentazione è forse troppo melensa e il suo rapporto con l’ex-compagna troppo insistente, probabilmente non si poteva fare diversamente.
Infatti, Peter aveva mostrato fin da subito un interesse per una ragazza che faticava anche solo ad accettarlo nella sua vita, con un rapporto, soprattutto sulle prime, assai antagonistico – in particolare da parte di Gamora – che si risolveva solo alla fine del secondo capitolo.
Tuttavia, ho personalmente apprezzato la conclusione.
Gunn ha scelto saggiamente di non abbassarsi alle dinamiche più tipiche da commedia romantica, con un ricongiungimento amoroso sul finale, magari costruito in maniera pure poco credibile e interessante.
Si mostra invece come Gamora ritorni ad un’altra famiglia, quella che ha ritrovato in questa realtà, e che non deve per forza di nuovo legarsi né a Quill né ai Guardiani – e trovando come loro una inaspettata nuova forma.
Ci saranno altri film sui guardiani della galassia?
All’indomani dell’uscita di Guardiani della Galassia Vol. 3, la maggior parte degli attori ha chiuso le porte a future partecipazioni alla saga.
Zoe Saldana (Gamora) non ha dimostrato ulteriore interesse per l’MCU – e, essendo legata all’estremamente redditizio brand di Avatar, non ne ha francamente neanche bisogno…
Dave Bautista (Drax) ha scelto una via più drammatica per la sua carriera – recentemente come protagonista di Army of the Dead (2021) e Bussano alla porta (2022). Gli altri due personaggi – Mantis e Nebula – per quanto interessanti, non sono così tanto di richiamo da farli riapparire né in singolo né in gruppo.
Come se non bastasse, Sean Gunn, fratello del regista, non solo interpreta l’ex-ravager Kraglin, ma dà anche le movenze a Rocket – e non è da sottovalutare la sua eventuale, ma quasi scontata, assenza…
Quindi è l’ultimo film sui Guardiani?
Secondo me, per tutti i motivi di cui sopra, sì.
E questo anche perché questo brand è troppo legato alla figura di James Gunn, che nel prossimo futuro avrà decisamente molte e altre gatte da pelare…
Tuttavia, rimane la questione Star Lord – che, a quanto pare, ritornerà. Visto l’andamento di carriera di Chris Pratt, che avuto i suoi momenti più economicamente interessanti solo legandosi a grandi brand, non mi stupisce che abbia stretto un altro accordo con l’MCU.
Ma, per quali prodotti, è ancora un grande mistero…
Dove si colloca Guardiani della Galassia 3?
Come i precedenti capitoli di Guardiani della Galassia, anche il terzo film della saga è totalmente autonomo.
E, nonostante sembri che siano passati solo pochi mesi da Guardiani della Galassia(2014), il film si colloca nel 2024, quindi sia dopo Endgame (2019), sia dopo lo Speciale di Natale.
Caccia al ladro (1955) è uno dei titoli meno noti di Hitchcock, che si differenzia dal resto della sua produzione anche per non avere al centro della trama un omicidio, ma una serie di furti.
Con un budget abbastanza contenuto – 2,5 milioni di dollari, circa 28 milioni oggi – ebbe un riscontro buono, ma abbastanza contenuto: circa 9 milioni di dollari – circa 100 milioni oggi.
Di cosa parla Caccia al ladro?
Una serie di furti terrorizza la Costa Azzurra, e tutti i sospetti riconducono all’ex topo di appartamento, John Robie. Ma lui si dichiara innocente…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Caccia al ladro?
In generale, sì.
Anche se non la considero personalmente una delle opere più brillanti della produzione hitchcockiana, è un film incredibilmente piacevolee intrigante, grazie soprattutto al magnetismo dei due attori protagonisti, Cary Grant e Grace Kelly.
Forse l’elemento che mi ha meno convinto è lo scioglimento della vicenda: con una costruzione del mistero e della tensione tale da tenere lo spettatore incollato allo schermo, la rivelazione finale l’ho trovata un po’ sbrigativa…
Ma comunque ve lo consiglio.
E un urlo squarciò la scena…
L’inizio di Caccia al ladro mi ha piuttosto sorpreso.
Mentre stavo seguendo, anche leggermente annoiata, gli infiniti titoli di testa, mi aspettavo un’apertura che mantenesse la stessa atmosfera languida e serena. Niente di più sbagliato: un urlo terribile squarcia la scena, e ci immerge subito nella tensione della storia.
Un susseguirsi di momenti rapidissimi, che ci permettono di inquadrare perfettamente la scena e la situazione, con i diversi furti che terrorizzano la Costa Azzurra. In chiusura, un articolo di giornale ci introduce il protagonista, John Robie – nomen omen – ex-galeotto.
E uno splendido aggancio visivo – il gatto nero che vediamo sia sul tetto, sia sul divano del protagonista – accompagna all’effettiva introduzione protagonista, di cui sappiamo già moltissimo senza che sia ancora entrato in scena.
E, anche quando appare, il suo atteggiamento, osservatore e schivo, lo avvicina alla figura del felino. Ma subito mostra anche la furbizia di una volpe, riuscendo ad orchestrare un’abilissima fuga, articolata in diversi ed imprevedibili – per noi e la polizia – colpi di scena.
Una MacGuffin?
Dopo La finestra sul cortile (1954), Hitchcock tornò a lavorare con Grace Kelly, scrivendole un personaggio anche più interessante rispetto al precedente film.
Forse anche troppo.
Francie è una coprotagonista che viene introdotta a piccolissimi passi: prima appare come misteriosa donna che osserva il protagonista in spiaggia, poi riappare alla cena dell’hotel, rimanendo in silenzio per molto tempo…
Non so se fosse effettivamente nelle intenzioni di Hitchcock, ma portare in scena un personaggio così enigmatico, ma anche fortemente intraprendente – da ogni punto di vista – me l’ha resa fin da subito il principale sospettato per il nuovo Gatto.
Soprattutto per la intrigantissima e perfettamente orchestrata scena dell’inseguimento in macchina, che si conclude con il primo colpo di scena: Francie conosce la vera identità di John.
Ma la vera rivelazione…
Una rivelazione poco interessante
Nonostante, ripensandoci a posteriori, effettivamente ha perfettamente senso che Danielle sia la colpevole, il finale mi è risultato poco soddisfacente.
Infatti, nonostante tutta la costruzione sia coerente e logica, con anche il colpo di scena sul fatto che sia una donna – come nessuno aveva prima sospettato – e con anche la creazione di una tensione perfetta sul finale…
…non si lascia abbastanza spazio per raccontare meglio la rivelazione, magari facendo anche un puntuale riepilogo di tutti gli indizi che hanno portato a smascherarla, un racconto del suo destino e delle sue intenzioni.
Insomma, sarei rimasta più soddisfatta se avessero meglio approfondito l’elemento centrale della trama…
La città incantata (2001) è forse l’opera più famosa di Hayao Miyazaki, parte di quello che io considero il terzetto delle meraviglie – insieme a La principessa Mononoke(1997) e il successivo Il castello errante di Howl(2004).
Fu anche uno dei maggiori successi del maestro nipponico: con un budget di appena 19 milioni di dollari, ne incassò quasi 400 – raddoppiando il successo del film precedente. In Italia venne distribuito prima nel 2003 e poi nuovamente nel 2014, con un nuovo doppiaggio.
Di cosa parla La città incantata?
Chihiro è una bambina di appena 10 anni che sta viaggiando verso la sua nuova casa. Ma nel viaggio il padre sbaglia strada, e la protagonista si trova coinvolta in un’incredibile avventura…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere La città incantata?
Assolutamente sì.
Non vi nascondo che sono personalmente molto legata a questa pellicola – anche solo per il fatto che è il primo prodotto di Miyazaki che ho visto. Ma nondimeno è un film veramente fantastico, uno dei punti più alti di tutta la produzione del regista.
Un’avventura piuttosto articolata, con tanti personaggi, ma che agiscono all’interno di spazi ben precisi, e senza mai far sembrare il film troppo pesante da guardare – come era stato invece per La principessa Mononoke.
Insomma, non ve lo potete perdere.
ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.
Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.
Nel caso di La città incantata dipende.
Sono abbastanza sicura di averlo visto per la prima volta – e negli anni successivi – con il primo doppiaggio del 2003, curato da un’altra casa di produzione e non – vivaddio! – da Cannarsi.
E infatti è un buon doppiaggio.
Il problema è che nel 2014 la palla è passata alla Lucky Red, e quindi a Cannarsi. Ho rivisto la pellicola quando è stata ridistribuita nel 2022 al cinema, con credo il doppiaggio del 2014 – a meno che Cannarsi non ci abbia di nuovo rimesso le mani.
Ed è un doppiaggio da incubo, da cui vi consiglio di stare lontani.
In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:
Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.
La città incantata titolo originale
La traduzione del titolo de La città incantata è piuttosto particolare.
Infatti, se sostanzialmente la totalità dei titoli precedenti di Miyazaki era traducibile alla lettera – e così è stato fatto – in questo caso era un’impresa ben più complessa.
Se ci si pensa un attimo, il titolo italiano non ha molto senso.
Anzitutto, la storia non è ambientata in una città, ma principalmente in una sorta di centro benessere. Inoltre, in italiano incantata ha un’accezione più che altro positiva, favolistica, mentre in questo caso sarebbe meglio usare il termine stregata.
Il titolo originale è 千と千尋の神隠し, letteralmente La sparizione causata dai kami di Sen e Chihiro.
Se è in generale la prima parte è abbastanza comprensibile – effettivamente la protagonista, che avrà i due nomi indicati, è scomparsa – meno chiara è la seconda parte.
I kami sono divinità o spiriti venerati dalla religione shintoista – e alcuni sono presenti effettivamente nella storia. Ma, più in generale, l’espressione kamikakushi contenuta nel titolo indica la sparizione improvvisa di una persona, che si presuppone essere rapita dalle divinità.
Non a caso, in inglese ha il titolo più attinente di Spirited away.
Una protagonista perfettamente umana
Chihiro è forse la protagonista meglio scritta della produzione di Miyazaki.
Inizialmente viene presentata come una ragazzina anche piuttosto timida, insicura e paurosa, ma anche dotata di idee molto forti, che però non riesce a farsi ascoltare. In realtà, le sue proteste iniziali verso i genitori raccontano una delle sue più importanti qualità.
L’abilità di guardare oltre l’apparenza.
Questa capacità si rifletterà nelle diverse prove che dovrà affrontare e che hanno tutte come sottofondo l’idea di capire la vera natura di qualcuno o qualcosa, mentre tutti gli altri si lasciano abbagliare solo dalla pura apparenza.
E l’altra qualità imprescindibile della protagonista è la sua perseveranza.
Nonostante si trovi in una situazione di effettivo pericolo per la propria vita – ed è per questo evidentemente spaventata – Chihiro non si lascia mai abbattere: riesce a seguire le indicazioni di Haku ed arrivare a Kamaji, con cui insiste testardamente per avere un lavoro, tanto da mettersi in gioco in prima persona.
E proprio davanti alla perseveranza e al coraggio della protagonista, l’inquietante e burbero yōkai la aiuta.
Chihiro e Yubaba
E questa sua implacabile tenacia si vede ancora meglio nell’incontro con Yubaba.
Chihiro fino a questo momento è stata maltrattata, e, come se non bastasse, in questa scena le viene cucita la bocca, viene fisicamente aggredita da questa inquietante ed enorme donna, che minaccia – ancora una volta – la sua stessa vita e quella dei suoi genitori.
Ma ancora una volta la protagonista non si arrende, ma continua a inseguire il suo obbiettivo.
E a che prezzo…
La città incantata nome
Il modo in cui Yubaba ruba il nome alla protagonista è incomprensibile se non si conosce il giapponese.
Fondamentalmente il nome Chihiro in giapponese è scritto 千尋, quindi con due kanji – i caratteri della lingua giapponese. Yubaba ruba alla protagonista uno dei due, ovvero 尋, lasciando solo 千, che da solo si legge appunto Sen.
Il significato è piuttosto semplice: la strega sottrae il nome a chi sigla un patto con lei, quindi rubando l’identità del malcapitato, così da renderlo più obbediente – e, soprattutto, incapace di scappare…
Yubaba Kamaji folklore giapponese
Come la maggior parte dei personaggi fantastici presenti nel film, Yubaba e Kamaji sono ispirati al folklore giapponese.
Yubaba prende il nome dalla creatura di riferimento, ovvero 山姥, la Yama-uba: una mostruosa strega con i capelli spettinati, il kimono stracciato e che si nutre di carne umana.
Invece il nome Kamaji è molto esplicito: 釜爺 significa vecchio della caldaia ed è un tsuchigumo, ovvero un uomo dalla forma di ragno, animale che simboleggia l’operosità e l’abilità, ed indica anche un umano che vive sottoterra.
Le due prove
Nella parte centrale del film, Chihiro viene messa davanti a due prove.
La prima ha al centro il Dio del Fiume, travestito da Spirito del cattivo odore, ovvero una creatura il cui corpo è composto da sporco e spazzatura. Yubaba costringe la protagonista ad occuparsene, cercando di punirla.
Ma proprio per la sua capacità di guardare oltre, Chihiro – come in realtà già Yubaba – capisce che questo spirito non è quello che sembra, e cerca di aiutarlo a ritrovare il suo vero aspetto, eliminando tutta la spazzatura che lo ricopre.
Questo episodio è fra la sfida e la burla – il Dio si congratula con lei e poi scappa via ridendo, piuttosto divertito. Ma è anche il primo momento in cui Sen guadagna un po’ di rispetto dagli altri personaggi.
E, soprattutto, acquisisce un oggetto fondamentale.
Mentre tutti i dipendenti sono abbagliati dall’oro lasciato dal dio, Chihiro si ritrova fra le mani un 苦団子, Niga-Dango: il dango è una sorta di gnocco di riso, che però in questo caso ha un sapore disgustoso – niga significa amaro.
Questo strumento è un elemento chiave per la prova successiva: Sen capisce che questo boccone disgustoso permette di liberare chi lo mangia di tutto quello che lo ricopre e con cui si nasconde, per svelarne la vera natura.
Per questo in primo luogo lo utilizza per aiutare Haku, facendoglielo mangiare quando è in fin di vita: in questo modo inconsapevolmente Chihiro libera il ragazzo sia dal sigillo che aveva rubato da Zeniba – e che lo faceva star male – sia dal demone che Yubaba usava per controllarlo.
La città incantata senza volto
Ma il momento fondamentale è lo scontro con Senza Volto.
Uno spirito piuttosto sofferente, che è privo di un’identità, e che cerca di trovarne una incorporando proprio altre persone, di cui prende l’aspetto e la voce. E riesce a tentarle proprio offrendo loro quello che desiderano.
Ma Chihiro non è così superficiale.
La protagonista non ha bisogno dell’eccesso di ricchezza che lo spirito le offre, motivo per cui lo stesso impazzisce e non desidera altro che possederla. Ma ancora una volta Sen capisce la vera natura di chi ha davanti e lo libera tramite il dono fattogli dal Dio.
Senza Volto Dio Del fiume folklore giapponese
La misteriosa figura di Senza Volto è di fatto un’invenzione del film, ma la maschera è un riferimento alla forma di teatro giapponese 能, nō, caratterizzato da movimenti lenti e dei testi aperti all’interpretazione dello spettatore.
Il significato del Dio del fiume è un po’ più complesso: questo spirito non ha un nome, ma Yubaba lo descrive come 名のある川の主, ovvero Signore di un fiume famoso. Allo stesso modo in La principessa Mononoke, il Dio Cinghiale, Nago, veniva definito Signore di una famosa montagna.
Riprendendo quindi la lettura ambientalista tipica delle opere di Miyazaki, entrambi potrebbero rappresentare delle divinità naturali che sono state corrotte dalla pressante presenza umana e dall’inquinamento che ne è derivato.
L’ultimo atto
Nella sua corsa verso il finale, Chihiro viene accompagnata da due figure che hanno perso il loro aspetto naturale: Bō, il figlio di Yubaba trasformato in topo, e Yu-Bird, uno dei servi di Yubaba, che diventa un uccellino.
Particolarmente interessante è l’arco evolutivo del bambino: inconsapevolmente imprigionato in una stanza, soffocato dalle coccole e dalle attenzioni della madre, si trova infine nella condizione di poter esplorare il tanto temuto mondo esterno.
Sicuramente il momento di passaggio è quando la Yubaba non lo riconosce, shock che porta il personaggio a voler essere così indipendente da non accettare neanche il passaggio sulla spalla di Chihiro quando sono scesi dal treno.
All’arrivo alla casa di Zeniba, la situazione è molto più tranquilla di quanto ci si aspettasse.
Come altri personaggi prima di lei, la strega ha compreso la natura fondamentalmente buona di Chihiro, che, invece di tenersi per sé il prezioso sigillo, ha intrapreso un importante viaggio per venire a restituirglielo e scusarsi, evidentemente perché pensava fosse la cosa giusta.
Proprio lì Senza Volto trova il suo posto nel mondo, e si scopre che i due piccoli accompagnatori di Chihiro potevano già da tempo tornare al loro aspetto originale, ma hanno preferito continuare a mantenere questa forma per portare a termine la loro missione.
Ovvero, aiutare la protagonista.
Haku la città incantata
Ma il momento di passaggio fondamentale è con Haku.
Chihiro riesce a portare a termine la sua missione più importante: permettere ad Haku di ritrovare il suo nome, proprio grazie alla loro connessione, che ha permesso loro di salvarsi vicendevolmente la vita in più occasioni.
In realtà già da prima Haku era in parte riuscito a liberarsi dal giogo di Yubaba, proprio grazie all’uccisione dello spirito che lo controllava: si vede molto bene che, nel confronto successivo che ha con la strega, il ragazzo ha un atteggiamento del tutto diverso.
La città incantata finale
Nel finale, Chihiro riesce a superare efficacemente l’ultima provadi Yubaba, dimostrando ancora una volta di essere più acuta di quanto gli altri personaggi si aspettassero da lei.
L’ultima sequenza è apparentemente paradossale.
Infatti, Chihiro rincontra i suoi genitori, che evidentemente non si ricordano nulla, e torna indietro rivivendo il viaggio dell’andataapparentemente con le stesse dinamiche e sentimenti.
Ma tante cose sono cambiate.
Anche se Chihiro comunque è ancora una bambina spaventata e impacciata, ha capito molte cose su sé stessa, ha compreso la potenza delle sue qualità, e quanto sia prezioso essere gentili e corretti con gli altri.
Insomma, una maturazione invisibile, ma fondamentale.
Bambino la città incantata
Il figlio di Yubaba, Bō, è ispirato a Kintaro, un personaggio mitologico raccontato come un bambino dotato di forza sovrumana, e che secondo alcune versioni era stato proprio cresciuto da Yama-uba.
Sia Yubaba che Zeniba hanno degli shikigami, degli spiriti servitori: la prima, fra gli altri, il già citato Yu-Bird, mentre la sorella gli spiriti a forma di pezzi di carta.
La città incantata è uno dei punti più alti nell’evoluzione artistica di Miyazaki.
Anzitutto, per il lavoro fatto su Chihiro, personaggio che riprende il modello usuale per i volti più giovani, ma lo arricchisce di particolari, dandogli un’inedita profondità:
Inoltre, la protagonista è un personaggio incredibilmente espressivo, anche in maniera macchiettistica, ma nondimeno efficace:
Inoltre, in questa pellicola si trova il momento più alto nella rappresentazione dei volti anziani, con Yubaba, con un livello di dettagli e cura delle ombre semplicemente perfetto:
E anche in questo caso si continua con la rappresentazione delle donne con nuovi particolari, riuscendo a distinguerle in maniera abbastanza netta:
Ovviamente fantastica la rappresentazione di tutte le creature magiche, in particolare Yubaba, con la sua espressività esplosiva, e Haku nella sua versione drago:
Senza contare ovviamente la grande originalità nella rappresentazione degli ambienti, sempre ricchissimi di particolari e mai banali:
E, in ultimo, l’evoluzione essenziale nel rappresentare i cibi, che avrà il suo picco nel successivo Il castello errante di Howl: