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The Substance – Poca sostanza

The Substance (2024) di Coralie Fargeat è un film horror vincitore della Miglior Sceneggiatura al Festival di Cannes 2024.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – appena 17.5 milioni di dollari – si prospetta già un ottimo successo commerciale.

Di cosa parla The Substance?

Elisabeth Sparkle è una ex-star del cinema ormai caduta nel dimenticatoio. Ma forse un’altra occasione per ricominciare è possibile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Substance?

Demi Moore in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

Dipende.

Nel complesso The Substance è un buon film horror con un cast veramente azzeccato e in splendida forma, che riesce altrettanto bene ad essere un film denuncia della fragilità dello star system, grazie anche ad un ottimo uso del body horror.

Tuttavia sul finale la pellicola vanifica in parte gli sforzi fatti fino a quel momento e l’aspettativa creata nello spettatore, con diversi inciampi di scrittura e con una struttura tematica che finisce per diventare ridondante e estremamente prevedibile.

Però, andandoci con le giuste aspettative, può essere una visione piacevolissima.

Declino

Demi Moore in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

Elizabeth è arrivata al capolinea.

Già il prologo racconta perfettamente il declino della sua carriera: la sfolgorante stella sulla Walk of Fame è prima oggetto di grande interesse dal pubblico, che però col tempo diventa progressivamente sempre più indifferente, calpestandola, insozzandola e rovinandola.

Allo stesso modo il racconto visivo del corridoio che dovrebbe mostrare la sua sfolgorante carriera televisiva si trasforma invece in una passerella della vergogna, del progressivo spegnersi della bellezza della protagonista, ultimo residuo di un’epoca ormai tramontata.

L’apice di questo drammatico climax è ovviamente l’involontario incontro con Harvey, personaggio raccontato dalla regia subito come repellente e chiassoso, elemento confermato anche dalla scena immediatamente successiva, in cui divora in maniera davvero disgustosa un piatto di crostacei…

…mentre liquida con indifferenza la protagonista, perché non ha più quel quid che le serve per essere interessante.

Ma non è finita qui.

Bozzolo

Elizabeth rinasce come da un bozzolo.

Particolarmente brillante il racconto del kit di The Substance, che non lascia nessun dubbio sul funzionamento della sostanza riuscendo così a costruire una solida mitologia, che tornerà molto utile nel prosieguo della pellicola.

E con la nascita del clone assistiamo alla prima prova di un body horror come non lo vedevamo da tanto tempo, indubbiamente debitore di classici del genere come La mosca (1986) e The Thing (1982), ma riuscendo ad essere assolutamente al passo con i tempi.

Demi Moore in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

In questa fase particolarmente importante è stata la scelta di un cast così capace di mostrarsi nudo in scena con tutte le sue imperfezioni, creando un contrasto molto angosciante fra il corpo non più desiderabile di Elizabeth e la frizzante bellezza giovanile di Sue.

E allora è il momento di riprendersi il proprio posto.

Inizio

Margaret Qualley in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

Elizabeth può cominciare da capo…

…un’altra vita infelice.

La protagonista infatti sembra del tutto incapace di accettare l’idea di allontanarsi da un mondo così ingiusto e rapace, pronto a nutrirsi fino all’osso delle star del momento, per poi liberarsene senza vergogna quando non fanno più notizia…

…ricominciando la propria scalata dallo stesso punto di trent’anni prima: un corridoio vuoto e pieno di promesse, in cui viene posta la prima pietra di un folgorante successo di pubblico, dopo che la carriera della vecchia sé è stati rimossa e dimenticata nel giro di un pomeriggio.

Demi Moore in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

Ed è proprio davanti a questa sfolgorante occasione che Sue comincia sempre di più ad odiare la sua matrice, disprezzandola per essere così imperfetta, inadatta, non riuscendo più a vederci se stessa, ma solo un ingombrante ricordo da lasciarsi alle spalle.

E proprio in questa ottica Elizabeth comincia a divorarsi da sola, a succhiare tutto il possibile dalla sua matrice e prendendone sempre più il posto – con una parabola non dissimile dallo stesso comportamento che lo star system ha avuto nei suoi confronti.

E, proprio nell’ultimo atto, The Substance fallisce.

Corpo

Demi Moore in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

Al centro di The Substance vi è il corpo.

Un corpo continuamente mostrato nella sua perfezione e imperfezione, nella sua bellezza e bruttezza, un corpo pronto a tradirci, a farci sfigurare, a farci desiderare da un mondo che pretende una perfezione eterna, pena una rovina repentina e irreprensibile.

E proprio del suo corpo, continuamente messo alla berlina, Elizabeth ha un disgusto sempre più crescente, tanto che le basta pochissimo per decidere di non farsi più vedere fuori casa in questo aspetto vergognoso, così lontano invece dalla sua nuova versione.

E proprio Sue è lo spettro che la perseguita, che odia per la sua avventatezza, ma di cui non può fare a meno…

…concetti chiarissimi, limpidi e spiegati senza bisogno di parola alcuna, che, per motivi incomprensibili, devono essere invece esplicitati proprio nel momento in cui Elizabeth accetta finalmente l’idea di liberarsi di quella odiosa copia…

…andando a vanificare un’ottima costruzione simbolica che funzionava benissimo da sola.

Ridondante

In questo senso, meglio funziona la sequenza successiva alla morte di Elizabeth, in cui Sue sceglie finalmente di liberarsi dal peso del suo passato per brillare finalmente come la star di un tempo

…finendo invece per essere perseguitata da un corpo che le si rivolta contro.

E purtroppo nel finale Coralie Fargeat sembra incapace di portare in scena qualcosa di effettivamente nuovo e interessante, di evadere o di arricchire il canovaccio classico e prevedibile su cui si è basata, puntando invece tutto su un body horror indubbiamente d’effetto…

Margaret Qualley in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

…ma che sembra, infine, l’unico elemento di effettivo interesse di The Substance, a fronte di uno scioglimento veramente banale in ogni sua parte, dalla caccia a Frankenstein in chiave splatter fino al totale decomporsi del corpo di Elisabeth sopra la sua amata stella, per essere dimenticata il giorno dopo.

Ovvero, lo stesso identico concetto espresso all’inizio.

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Animazione Avventura Fantastico Fantasy Film Horror

Coraline – Dall’altra parte

Coraline (2009) di Henry Selick, noto anche col titolo piuttosto ingannevole di Coraline e la porta magica, è un classico dell’animazione in stop-motion.

A fronte di un budget medio per un film d’animazione – 60 milioni di dollari – e una produzione lunga tre anni, non è stato un grande successo commerciale alla sua uscita: 125 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Coraline?

Coraline è una ragazzina che si è appena trasferita in un noioso sobborgo e cerca di riempire le giornate. Ma c’è qualcuno che ha proprio qualcosa di perfetto per lei…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Coraline?

Coraline in una scena di Coraline e la porta magica (2009) di Henry Selick

Assolutamente sì.

Per quanto la pellicola cerchi di ammorbidire moltissimo i toni del romanzo di Gaiman, una favola horror che al tempo mi terrorizzò profondamente, proprio per il suo ribaltare le aspettative nel raccontare un mondo incantato che in realtà nasconde un orrore agghiacciante.

Inoltre, rimane un ottimo esempio di tecnica passo uno, per uno studio di animazione – Laika Entertainment – che oltre a questa pellicola non ha mai avuto purtroppo molta fortuna, anche per i costi e i tempi produttivi piuttosto impegnativi.

Ma anche per questo è da riscoprire.

Noia

La bambola di Coraline in una scena di Coraline e la porta magica (2009) di Henry Selick

Coraline vive la più grande maledizione per una ragazzina.

La noia.

La casa stessa sembra infatti un’estensione della grigia personalità dei suoi genitori, totalmente concentrati sul proprio lavoro da non poterle concedere alcuna attenzione, nemmeno riuscire a mettere in tavola un pasto allettante.

Ovviamente questa è la visione dagli occhi ingenui e di fatto capricciosi della protagonista, che in questo prima fase ha una visione molto limitata del mondo e delle sue sfumature: l’unica cosa giusta per lei sarebbe essere al centro del mondo.

E questo l’Altra Madre lo sa molto bene…

Esca

Coraline coi finti genitori in una scena di Coraline e la porta magica (2009) di Henry Selick

La porta è l’esca perfetta.

Dopo essere rimasta delusa davanti ad un muro di mattoni noioso come tutto il resto, Coraline viene attirata nella notte a riscoprire invece una realtà che è esattamente come lei vorrebbe fosse: un passaggio verso un luogo da scoprire, con meraviglie ad ogni angolo…

…create appositamente secondo i suoi desideri.

Coraline attraversa la porta in una scena di Coraline e la porta magica (2009) di Henry Selick

E la sua ingenuità iniziale è proprio non rendersi conto di quanto tutto sia troppo perfetto, di quanto quegli inquietanti occhi bottone raccontino una realtà artefatta, una facciata creata ad arte per attirarla nella trappola.

In questa prima notte infatti l’attrattiva è un pasto talmente godurioso e soverchiante che Coraline neanche riesce a finire quello che ha nel piatto che lo stesso le viene subito sostituto con una pietanza ancora più appetitosa…

Coraline nel giardino in una scena di Coraline e la porta magica (2009) di Henry Selick

…in un mondo dove lei è al centro di tutto, dove il giardino è un’esplosione di colori meravigliosi e creature che sembra uscite da una fiaba, non ultimo il dolcissimo papà che ha modellato la natura per corrispondere all’unico, vero oggetto del desiderio.

Coraline stessa.

Equilibrio

Coraline è consapevole di dover equilibrare il parallelismo fra i due mondi.

Per questo non carica immediatamente la scena di tutti i personaggi, ma divide la scoperta del mondo magico in due tranche: la prima focalizzata unicamente sui genitori e su Coraline, e la seconda sui personaggi secondari totalmente riscritti.

In linea generale, i mediocri teatranti in pensione del mondo reale diventano invece degli irresistibili portatori di meraviglie nell’altro mondo, in cui Coraline diventa spettatrice di spettacoli da sogno.

Ma davanti al massimo punto emotivo, in cui Coraline finalmente accarezza la possibilità di vivere in questo mondo dei sogni per sempre, finalmente la Madre si rivela per quella che è: una riscrittura moderna della strega di Hansel e Gretel.

E proprio da qui il controllo sembra scivolare dalle dita di Coraline, che si trova non più ospite, ma prigioniera di un mondo che comincia a crollare su se stesso, svelando la sua totale illusione proprio nella limitatezza dei suoi confini.

Per questo l’ultimo atto è così fondamentale.

Fuga

l'Altra madre in una scena di Coraline e la porta magica (2009) di Henry Selick

Sconfiggere l’Altra Madre è un passaggio fondamentale per la maturazione di Coraline.

E, per questo, deve essere orchestrato al meglio.

Infatti, per riuscire a far immergere adeguatamente lo spettatore nell’ultimo atto, è necessario definirne chiaramente le  coordinate: Coraline non può entrare o uscire a suo piacimento dall’Altro Mondo, ma secondo la volontà dell’Altra Madre…

…che però non controlla totalmente la porta stessa, da cui in prima battuta Coraline scappa, per poi tornare sui suoi passi quando scopre che i genitori sono stati rapiti dalla Madre, il ricatto estremo per avere nuovamente la sua attenzione.

E così il pericolosissimo gioco con la Madre è in realtà il momento di passaggio in cui finalmente Coraline smette di essere una bambina egoista che pensa solo a se stessa, e sceglie invece di mettersi in gioco per salvare la propria famiglia e gli altri sfortunati bambini.

Ed è un climax splendido.

Frantumato

Il viaggio di Coraline nel finale è una riscoperta dell‘Altro Mondo mentre crolla su se stesso.

La magia sbiadisce poco a poco per lasciare spazio a dei meri fantocci incapaci di avere una propria volontà, che o sono grottesche vittime della volontà della Madre, o estensione della sua personalità…

E qui troviamo una messinscena piuttosto caricata dal punto di vista orrorifico, particolarmente funzionante nella riproposizione di Bobinsky, il cui corpo è letteralmente composto dai diabolici topolini…

Coraline e Wybie  in una scena di Coraline e la porta magica (2009) di Henry Selick

…fino alla destrutturazione totale dell’Altro Mondo, che si riduce a mere linee nere su uno pagina bianca, che compongono la ragnatela della Madre nella sua forma primaria, quella del ragno.

E così il sogno diventa incubo, e finalmente Coraline comprende la limitatezza della sua visione, accettando invece una famiglia che non può esaudire subito i suoi desideri, ma può veramente amarla senza pretendere altro da lei.

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Il sesto senso – Precipizio

Il sesto senso (1999) è stato non solo il punto di svolta per la carriera M. Night Shyamalan, ma anche per il genere tutto.

A fronte di un budget abbastanza importante – fra i 40 e i 55 milioni – è stato un enorme successo commerciale: 672 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Il sesto senso?

Cole è un bambino molto timido e vittima di un continuo e crudele bullismo. Eppure, non è neanche quello il suo problema più grande…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il sesto senso?

Haley Joel Osment in una scena de Il sesto senso (1999) di M. Night Shyamalan

Assolutamente sì.

Al tempo de Il sesto senso Shyamalan si trovava senza saperlo su un precipizio: un film veramente ottimo che lo lanciò come autore di punta del genere, ma che nel tempo si rivelò invece l’antipasto prima di crearsi una nomea non proprio felice, portando ad una serie di prodotti molto meno indovinati.

Anche in questo caso non mancano gli elementi che lo hanno reso più o meno felicemente celebre, che però, pur con qualche semplificazione sul finale assolutamente perdonabile, risultano incredibilmente funzionali a creare un horror indimenticabile.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Rimorso

Bruce Willis in una scena de Il sesto senso (1999) di M. Night Shyamalan

Come si scoprirà solo nel finale, Malcom è tormentato da un profondo rimorso.

Raccontato come professionista che ha votato tutta la sua vita ad aiutare i suoi pazienti, anche a discapito della felicità del suo matrimonio, proprio nel momento in cui potrebbe finalmente vivere i frutti dei suoi sforzi, finisce invece vittima degli stessi.

E forse in questo contesto la sua angoscia più importante non è tanto il doloroso colpo in pancia per mano di uno dei suoi ex pazienti, ma piuttosto la consapevolezza di non aver aiutato un bambino che si era totalmente affidato a lui, facendo diventare un adulto inquieto.

E se quello sparo sembra solo una piccola macchina su un curriculum immacolato…

Finzione

Haley Joel Osment in una scena de Il sesto senso (1999) di M. Night Shyamalan

Cole è vittima di una finzione di sua stessa fattura.

Essendo già di per sé un ragazzino molto timido ed insicuro, il peso del suo segreto lo spinge ancora di più a cercare di fingersi un bambino normale, anche per proteggere la madre, già abbastanza addolorata dalla perdita della genitrice e dall’abbandono del marito.

Haley Joel Osment in una scena de Il sesto senso (1999) di M. Night Shyamalan

E proprio in questo contesto si inseriscono gli ingenui teatrini in cui, in cambio di denaro, il protagonista finge di avere alle spalle delle solide amicizie, e non di essere solo la vittima preferita del bullismo dei suoi compagni di classe.

E infatti, il vero orrore non è tanto il  vedere i fantasmi…

Adulto

Haley Joel Osment e Bruce Willis in una scena de Il sesto senso (1999) di M. Night Shyamalan

Cole deve crescere troppo in fretta.

Una grande eleganza della messinscena è di non abusare delle più classiche tecniche del jump scare o simili, spesso utilizzate per nascondere una scrittura poco pensata e incapace di riuscire effettivamente a spaventare lo spettatore.

Invece il senso di angoscia della pellicola è causato proprio dai problemi che questi fantasmi portano avanti, spesso questioni fin troppo impegnative persino per un adulto – suicidio, violenza domestica, abusi – figuriamoci per un bambino di appena nove anni.

Haley Joel Osment e Toni Collette in una scena de Il sesto senso (1999) di M. Night Shyamalan

E tanto basta per creare un orrore piuttosto raffinato, che riesce forse un po’ semplicisticamente a dissiparsi quando, grazie a Malcom, il protagonista finalmente affronta questi spettri e le loro richieste, in modo che possano morire in pace.

E proprio su questa china arriviamo allo scioglimento.

Dialogo

Haley Joel Osment e Bruce Willis in una scena de Il sesto senso (1999) di M. Night Shyamalan

Entrambi i protagonisti devono riuscire a comunicare.

Malcom crede di vivere in un matrimonio ormai finito, in cui Anna gli è ormai indifferente, anzi si è già impegnata con altri uomini, che il marito cerca di scalzare senza mai intervenire direttamente, senza mai riuscire ad affrontare la questione faccia a faccia.

Ma la presa di consapevolezza della sua vera condizione, che rappresenta anche l’ottimo colpo di scena finale, chiude finalmente questo capitolo della sua vita, in cui è riuscito a salvare un altro bambino potenzialmente problematico e, per consiglio dello stesso, il suo stesso matrimonio.

Allo stesso modo, Cole vive nel costante timore di rivelare il suo sesto senso alla madre, per paura di non essere creduto o, ancora peggio, di ferirla irrimediabilmente e spezzare il loro importante quanto fragile rapporto.

Ma è proprio rendendo possibile il dialogo che Lynn non riesce ad avere con la madre defunta che Cole riallaccia i rapporti con la genitrice, che finalmente riesce ad accettare la perdita di un affetto tanto importante, e a ricostruire il rapporto con un figlio che credeva di poter più capire.

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Avventura Film Horror Thriller Tri West

MaXXXine – Dobbiamo continuare?

MaXXXine (2024) è il terzo capitolo della saga di Maxine diretta da Ti West con protagonista Mia Goth, qui anche nel ruolo di produttrice.

A fronte di un budget simile ai precedenti – 1 milione di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 22 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla MaXXXine?

Dici anni dopo X, Maxine è effettivamente una star di Hollywood, ma non come avrebbe desiderato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere MaXXXine?

Mia Goth in una scena di MaXXXine (2024) è il terzo capitolo della saga di Maxine

Dipende.

MaXXXine è con ogni probabilità un sequel creato unicamente per via dell’ottimo sodalizio artistico fra il regista e la sua attrice protagonista e, più in generale, del grande successo di pubblico che i film precedenti avevano goduto.

E, proprio per questo, è un film senza particolare mordente, che manca quasi del tutto della struttura tematica caratteristica dei precedenti capitoli, non volendo essere niente di più che la conclusione della storia di Maxine.

Ma, nel complesso, può essere apprezzabile

Gabbia

Mia Goth in una scena di MaXXXine (2024) è il terzo capitolo della saga di Maxine

Maxine si è intrappolata da sola.

Rimanendo del tutto sorda agli avvertimenti dieci anni prima di Pearl, la protagonista si è gettata inconsapevolmente nel mondo del cinema per adulti, finendo per esserne definita e, apparentemente, precludendosi ogni possibile strada per il vero successo.

E la sua persona ne risulta talmente svalutata che, persino davanti ad un provino effettivamente meritevole come quello che si vede all’inizio del film, l’unico interesse della produzione è valutare la grandezza del suo seno.

Mia Goth in una scena di MaXXXine (2024) è il terzo capitolo della saga di Maxine

Generalmente parlando, tutta la pellicola racconta Maxine come un personaggio senza futuro, definito da un passato che cerca in tutti i modi di allontanare da sé, scegliendo di rimanere consapevolmente sola, unicamente focalizzata sul raggiungimento del proprio obbiettivo…

…e nient’altro.

Minaccia

Maxine è costantemente minacciata…

…ma riesce a fuggire inconsapevolmente il pericolo.

La storia del Night Stalker rimane infatti sostanzialmente sullo sfondo, con la protagonista che ascolta solo distrattamente le notizie alla TV, incosciente riguardo alla minaccia in agguato, di cui ancora non sa di essere il principale obbiettivo.

Mia Goth in una scena di MaXXXine (2024) è il terzo capitolo della saga di Maxine

Infatti, il suo evitare la scena mondana e il pericolo che la stessa cela, non è dettato dalla prudenza, ma piuttosto da uno stacanovismo piuttosto peculiare in cui Maxine sente di dover dare il massimo per raggiungere il successo.

E così davanti a lei sfilano le future vittime del padre, che vengono giustiziate una ad una, diventando inconsapevoli esche per Maxine stessa, che invece rimane fuggevole e inafferrabile…

Solidarietà

Mia Goth in una scena di MaXXXine (2024) è il terzo capitolo della saga di Maxine

Uno dei timidi tentativi del film di approfondire la sua protagonista si rivela non del tutto riuscito.

Ti West vorrebbe riscrivere positivamente Maxine, facendola partire da uno stato di totale egocentrismo – in cui il suo unico interesse è il raggiungimento del sogno – e facendole abbracciare invece un senso di giustizia e solidarietà umana sul finale.

Mia Goth in una scena di MaXXXine (2024) è il terzo capitolo della saga di Maxine

Un’amara presa di consapevolezza della verità delle parole di Pearl, e una presa di coscienza dell’angoscioso presente, molto più complesso di quanto aveva immaginato, che la porta infine ad affrontare i fantasmi del suo passato, anzi ad arricchirsi tramite gli stessi.

E anche qui…

Sogno

Maxine realizza il suo sogno?

MaXXXine vorrebbe in qualche maniera ricalcare il finale di Pearl, ma riportandolo molto più con i piedi per terra: la protagonista si rende conto del regalo che le sta facendo il padre, rendendola una figura drammatica e orrorifica dentro e fuori dal grande schermo.

E allora la sua mente viaggia verso un futuro luminoso, in cui viene incondizionatamente celebrata, tanto da arrivare alla produzione di un film biografico sulla sua interessantissima vita, raggiungendo finalmente quello status di star tanto ricercato.

Ma nella realtà si torna nella penombra della roulotte, in cui Maxine ripete a se stessa di essere una star, ma questa volta consapevole della fumosità della sua recente popolarità, che le porterà solo un’attenzione passeggera, rimanendo sempre sul pericoloso precipizio dell’oblio.

Un tema estremamente attuale, ma decisamente meno pungente rispetto ai due capitoli precedenti…

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90s A classic horror experience Avventura Film Horror

The Blair Witch Project – Un film nel tempo

The Blair Witch Project (1999) di Daniel Myrick e Eduardo Sánchez è un cult dell’horror, considerato uno spartiacque per il genere.

A fronte di un budget minuscolo – 60 mila dollari, circa 113 mila oggi – è stato un successo commerciale senza precedenti: 248 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla The Blair Witch Project?

Un gruppo di cinque ragazzi si avventura nella foresta di Blair e scompare senza lasciare traccia. Tre anni dopo, assistiamo alla registrazione che ci rivela un’oscura verità…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Blair Witch Project?

Dipende.

Per quanto mi riguarda è difficile giudicare questo prodotto al di fuori del contesto in cui uscì: molto del suo fascino servirà dalla campagna marketing che fece credere al pubblico che si trattasse di una storia e la poca conoscenza della tecnica foundfootage al grande pubblico.

Tuttavia, a tanti anni di distanza, dopo anche la rinascita del genere con Paranormal activity, potrebbe non fare lo stesso effetto, nonostante in senso generale sia un discreto film di intrattenimento.

Insomma, a voi la scelta.

Aspettativa

The Blair Witch Project si basa su due fattori.

L’aspettativa e la mancanza.

Una tecnica semplice quanto funzionale – già sperimentata, fra gli altri, in Non aprite quella porta (1974) è di creare un certo tipo di attesa nel pubblico, che conosce già la conclusione della storia, ma non i dettagli del suo svolgimento.

In questo modo, assistendo alla iniziale ingenuità dei personaggi, al loro progressivo immergersi in un orrore incomprensibile e sconosciuto, il film riesce a toccare le giuste corde per creare una tensione facilmente coinvolgente.

Ma non è tutto.

Mancanza

The Blair Witch Project è, forse neanche del tutto consapevolmente, un film molto furbo.

Potendo contare su budget minuscolo, non si può permettere di mettere in scena sostanzialmente nulla degli orrori che racconta, ma riesce comunque a tenere sulle spine lo spettatore grazie ad un astuto uso della mancanza.

Sostanzialmente, meno il film ci fa vedere, più noi vogliamo vedere, e ci intrappola sostanzialmente in questa sorta di circolo vizioso in cui non possiamo fare a meno di stare attaccati allo schermo proprio in attesa di una rivelazione visiva…

…che, paradossalmente, non arriverà mai davvero.

Credibilità

Per quanto sulla carta fosse un progetto vincente, vi è un aspetto su cui non poteva sbagliare.

La credibilità.

Per riuscire a soddisfare le aspettative di un pubblico che in parte credeva onestamente di star vedendo una storia vera, era necessario che le immagini mostrate fossero assolutamente credibili e, così, coinvolgenti.

E da questo punto di vista non posso che promuovere la pellicola.

L’utilizzo della camera a mano è ben pensato, riuscendo tutto sommato anche a rendere credibile il fatto che non venga mai spenta, e così anche la costruzione della tensione fra il gruppo che li porta a dividersi internamente fra isteria e orrore.

Plauso anche agli attori protagonisti, che sono veramente riusciti a risultare verosimili nel mostrare la loro alternanza si emozioni: dalla totale inconsapevolezza, alla confusione, alla terrificante claustrofobia, del sentirsi intrappolati contro ogni logica, braccati da un nemico incomprensibile…

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80s A classic horror experience Avventura Film Grottesco Horror

Nightmare – Un orrore per gioco

Nightmare (1984) di Wes Craven, noto anche col titolo di Nightmare – Dal profondo della notte, è il capostipite della fortunatissima saga omonima.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 1.1 milioni di dollari, 3.3 oggi – è stato un enorme successo commerciale: 25 milioni in tutto il mondo – circa 75 oggi.

Di cosa parla Nightmare?

Tina Gray si risveglia da un brutto sogno in cui era inseguita da una misteriosa figura col volto ustionato. Ma è davvero solo un sogno?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Nightmare?

Heather Langenkamp (Sandy) in una scena di Nightmare - Dal profondo della notte (1984) di Wes Craven

Assolutamente sì.

Già prima di rivoluzionare il cinema horror con Scream (1996), Wes Craven si dimostrava una voce fuori dal coro all’interno di un genere purtroppo destinato all’inevitabile saturazione.

Uno slasher che non vuole esserlo, che si spoglia di tutta la drammaticità tipica del genere e rimescola le carte in tavola, impreziosito da un humour grottesco davvero irresistibile – e, per questo, diverso da quanto visto finora.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Visione

Robert Englund (Freddy Krueger) in una scena di Nightmare - Dal profondo della notte (1984) di Wes Craven

Nessuno crede ai protagonisti…

…nemmeno loro stessi.

In un incipit per certi versi simile a Non aprite quella porta (1974), Freddy Krueger prepara le sue terribili armi e si mette all’inseguimento di Tina, mostrando fin da subito il suo fare giocoso, quasi surreale…

…che si distacca del tutto dal grande gioco delle soggettive di Halloween (1978) e di Venerdì 13 (1980) – e di Psycho (1960) a suo tempo.

Heather Langenkamp (Sandy) in una scena di Nightmare - Dal profondo della notte (1984) di Wes Craven

Un nemico fin da subito visibile, che non cerca in alcun modo di nascondere il suo mostruoso aspetto né le sue intenzioni omicide, vincendo proprio grazie all’incredulità dei personaggi, che ne negano l’esistenza praticamente fino alla fine. 

E proprio la sua natura onirica offre il fianco a sperimentazioni davvero sorprendenti.

Morte

Robert Englund (Freddy Krueger) in una scena di Nightmare - Dal profondo della notte (1984) di Wes Craven

Un elemento piuttosto tipico del genere slasher è la passerella della morte.

Un sequenza immancabile di omicidi di tutti i personaggi della pellicola, fino alla final girl, ma che già in Venerdì 13 mostrava la sua limitatezza in sperimentazioni non particolarmente brillanti, e che rischiavano già di diventare ripetitive…

…ma che avranno maggior fortuna artistica proprio grazie a Wes Craven negli Anni Novanta.

Ma già in Nightmare il regista dimostrava la sua particolare inventiva.

Vivendo come personaggio fra due mondi – reale e onirico – Krueger non si limita a squarciare le membra delle sue vittime, ma, piuttosto, se ne inventa sempre una nuova: farli sprofondare nel letto che diventa la loro tomba, affogarli in una vasca, farli volteggiare sulle pareti…

…e, la mia preferita, farli crollare in un pozzo di sangue.

Attiva

Heather Langenkamp (Sandy) in una scena di Nightmare - Dal profondo della notte (1984) di Wes Craven

Sally è una final girl piuttosto particolare.

Solitamente questo tipo di personaggio, soprattutto nelle prime fasi del genere, doveva essere molto vicino allo spettatore: posseduta da un terrore indicibile davanti al killer di turno, ma abbastanza intelligente da reagire, pur spesso in maniera ben poco programmatica.

Un fulgido esempio è sicuramente Laurie in Halloween.

Heather Langenkamp (Sandy) in una scena di Nightmare - Dal profondo della notte (1984) di Wes Craven

Al contrario, la scream queen di Nightmare è un personaggio incredibilmente attivo, la prima che comprende la vera natura del suo nemico e che cerca di coinvolgere gli altri nel suo piano per strapparlo dal mondo dell’incubo, e, così, sconfiggerlo.

Tuttavia rimane comunque un personaggio con i piedi per terra per la totale e continua fallibilità del suo piano, particolarmente nel finale…

Inception?

Robert Englund (Freddy Krueger) in una scena di Nightmare - Dal profondo della notte (1984) di Wes Craven

Nightmare è tipico e atipico insieme.

Una tendenza del genere che non si risparmia è il finale sostanzialmente aperto, in cui il nemico non è veramente sconfitto, aprendo le porte ad una sequela infinita di sequel potenziali per una storia ancora tutta da raccontare.

Allo stesso modo, non manca anche l’antefatto che definisce la natura del killer, pur in questo caso facendo sembrare questo film quasi il sequel di uno slasher con protagonista la madre di Sandy, Marge.

Ma la particolarità del film sta proprio nel suo finale.

Sandy diventa una sorta di Alice nel paese delle meraviglie: come la protagonista di Carroll si lasciava alle spalle il mondo onirico chiosando Siete solo un mazzo di carte, allo stesso modo la final girl di Craven volta le spalle a Krueger, togliendoli importanza e così, almeno apparentemente, vincendo su di lui.

In realtà, quasi come il finale di Inception (2011), la protagonista crede solo di essere nel mondo reale, ma invece sembra essere intrappolata in una nuova versione dell’incubo, in cui la macchina brandizzata di Krueger la trascina via sotto gli occhi di una Marge apparentemente ignara, che viene afferrata alle spalle…

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2022 Avventura Dramma familiare Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film Horror Tri West

Pearl – Una ragazza e il suo sogno

Pearl (2022) di Ti West, è il prequel di X (2022), uscito lo stesso anno, in questo caso parzialmente co-scritto dall’attrice protagonista Mia Goth.

A fronte di un budget simile al precedente – 1 milione di dollari – ha avuto un riscontro similare: quasi 10 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Pearl?

Tornando cinquant’anni indietro, scopriamo l’origine della violenza cieca del killer del primo film…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Pearl?

Mia Goth in una scena di Pearl (2022) di Ti West, sequel di X: A sexy horror story (2022)

Assolutamente sì.

Arrivata alla visione del secondo capitolo carica di aspettative, non sono stata per niente delusa: Pearl riprende ed amplia il discorso di X, esplorando un tema sociale particolarmente attuale, anche se in un contesto sociale lontano nel tempo.

Un Ti West, fra l’altro, molto onesto con sé stesso: pur affrontando un tema più impegnativo, mantiene una scrittura ed una messinscena semplice e diretta, portatrice di un messaggio piuttosto immediato, ma non per questo banale.

Ma, ancora una volta, ve lo lascio scoprire.

Sogno

Mia Goth in una scena di Pearl (2022) di Ti West, sequel di X: A sexy horror story (2022)

Pearl è una ragazza piena di sogni.

Fin dall’inizio appare immersa nella sua fantasia di cavalcare le scene di Hollywood e così di evadere l’arida realtà in cui è costretta, che infatti irrompe bruscamente nel suo sogno nelle vesti della severa figura della madre, che fin da subito cerca di distruggere le sue speranze.

E lo scontro fra questi due personaggi non è tanto diverso da quello fra Pearl e Maxine nel primo capitolo: un antagonismo apparentemente distruttivo, in realtà dovuto a cause più profonde, fra l’amarezza del presente e la cautela per il futuro.

Mia Goth in una scena di Pearl (2022) di Ti West, sequel di X: A sexy horror story (2022)

La madre infatti cerca di portare Pearl lontano da quello che un tempo era il suo sogno – rappresentato dai vestiti non più indossati – che ormai ha compreso essere impossibile, cercando di proteggerla da insidie a cui la figlia sembra completamente cieca.

Perché della realtà Pearl vede solo una parte.

Fuga

La protagonista è alla ricerca del suo posto nel mondo…

…quello che le appartiene per diritto.

Infatti fin da subito Pearl deve essere la protagonista della scena, deve essere la star, arrivando a punire in maniera molto infantile chiunque sembri mettersi sul suo cammino persino un’innocente oca che fa capolino in scena, curiosa del suo spettacolo.

E ogni ostacolo è dato in pasto al fedele coccodrillo, il quale, ancora di più rispetto al primo film, può essere letto come rappresentazione di una società solo apparentemente alleata della protagonista nel raggiungimento del suo sogno.

Mia Goth in una scena di Pearl (2022) di Ti West, sequel di X: A sexy horror story (2022)

Così nella fuga in città Pearl ritorna finalmente nel suo luogo dei sogni, il cinema, che rappresenta perfettamente il dualismo della pellicola: uno splendido spettacolo di danza preceduto da un angosciante spaccato della guerra ancora in corso.

E proprio qui Pearl dovrebbe trovare la sua via di fuga…

Brandello

Mia Goth in una scena di Pearl (2022) di Ti West, sequel di X: A sexy horror story (2022)

Il ragazzo senza nome del cinema è solo una delle tante illusioni di Pearl.

Nient’altro che un brandello di un mondo irraggiungibile, pari il piccolo fotogramma che la protagonista conserva gelosamente sulla via di casa, che inaspettatamente porta anche alla prima effettiva realizzazione del suo sogno…

…ma non più in uno spettacolo cinematografico, ma in una scena erotica – proprio come il porno amatoriale che lo stesso uomo dei sogni le farà vedere di nascosto – e con un fantoccio che rappresenta l’amante proibito che la protagonista è ancora restia ad accogliere.

Ma Pearl è stanca di tutte queste illusioni.

Di fronte alla possibilità concreta di fuggire dalla tediosa esistenza della fattoria, la protagonista comincia effettivamente a disfarsi di quanto la potrebbe ostacolare, prima di tutto l’odioso peso del padre, una delle principali cause della caduta in disgrazia della famiglia.

Ma in realtà la sua prima vittima è la madre, che cerca ancora più bruscamente di riportarla con i piedi per terra, utilizzando la sua sfortunata sorte come monito di quello da cui la figlia dovrebbe stare lontana, piuttosto che abbracciare così ingenuamente.

Ma ormai nessuno può fermare Pearl.

Spettro

Pearl vorrebbe lasciarsi tutto alle spalle, ma non può.

Non davvero.

Lo ben dimostra il sogno in cui Pearl è diventata una star di successo, rovinato dalla inquietante presenza degli spettri del suo passato, maliziosamente presenti fra il pubblico con il volto deturpato dalle colpe della protagonista.

Comincia così una corsa inarrestabile verso l’occasione che le cambierà la vita, in cui persino un ragazzo che solo esprime una comprensibile inquietudine nei confronti dello strano comportamento di Pearl diventa inevitabilmente vittima della sua furia.

E allora, non dovrebbe essere ora si vincere?

Perdere

Mia Goth in una scena di Pearl (2022) di Ti West, sequel di X: A sexy horror story (2022)

L’audizione non è una semplice audizione.

Rappresenta invece il momento in cui Pearl mette alla prova il sogno che le è stato venduto, per cui ha letteralmente dato via ogni parte della sua vita, e dal quale ora si sente finalmente di dover essere premiata.

E invece la realtà torna ulteriormente a bussare alla sua porta, mettendola davanti ad un mondo dove non basta essere bravi, ma dove bisogna anche essere nel posto giusto al momento giusto, dove è necessaria anche la faccia giusta

E con questa amara realizzazione, finalmente Pearl diventa onesta con sé stessa, intraprendendo un intenso dialogo col fantasma del marito, spettro sempre presente anche in precedenza, considerato come l’ostacolo invalicabile per la realizzazione del sogno.

E così, eliminato l’ultimo testimone, non resta che ricostruire un’altra facciata, quella della famiglia perfetta…se non fosse che il cibo in tavola è marcio, due dei convitati sono in putrefazione, e la reazione del marito ritornante è di puro orrore…

…davanti al volto sfigurato della protagonista, che forza un sorriso perfetto, che però gradualmente si scioglie in lacrime di profondo dolore.

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Venerdì 13 – Il manuale della banalità

Venerdì 13 (1980) di Sean S. Cunningham è considerato fra i film fondativi del genere slasher.

A fronte di un budget piccolissimo – mezzo milione di dollari, circa 2 milioni oggi – è stato un enorme successo commerciale: 40 milioni di dollari in tutto il mondo (circa 152 oggi).

Di cosa parla Venerdì 13?

1958, New Jersey. Due animatori di un campo estivo vengono brutalmente assassinati da una figura misteriosa. E quindici anni dopo l’orrore sembra pronto a ripetersi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Venerdì 13?

I protagonisti in una scena di Venerdì 13 (1980) di Sean S. Cunningham

Dipende.

Personalmente ho trovato Venerdì 13 un film veramente tedioso, privo di mordente, niente più che una passerella di omicidi che cerca di buttare molto fumo negli occhi allo spettatore per nascondere la sua inconsistenza di fondo.

D’altra parte, se siete particolarmente fan del cinema slasher, troverete in questa pellicola tutti gli stilemi tanto amati del genere nella loro forma primigenia, che aspettavano solo di essere esasperati all’interno dei suoi sequel e nel filone in generale.

La scelta sta a voi.

Punto di vista

I protagonisti in una scena di Venerdì 13 (1980) di Sean S. Cunningham

Uno degli pochi elementi che ho apprezzato della pellicola è l’uso della soggettiva.

Per quanto non si tratti di niente di nuovo – la tecnica era già stata ampiamente sperimentata in Halloween (1978), e pure con effetti migliori – tuttavia riesce nel tentativo di farti immergere nella storia, diventando quasi complice dell’omicidio iniziale.

Il primo omicidio di Venerdì 13 (1980) di Sean S. Cunningham

E infine questa tecnica, che pure alla lunga è talmente esasperata da diventare poco credibile, nondimeno permette di far sentire l’inquietante presenza del killer in scena, in quanto la soggettiva è ormai quasi un’esclusiva del suo personaggio.

Il problema è il resto…

Scatto

Uno dei punti più bassi della pellicola è la recitazione.

Finché gli attori protagonisti devono sostenere il ruolo di adolescenti spensierati ed unicamente concentrati sul loro costante desiderio sessuale, diventando quasi indistinguibili l’uno dall’altro, tutto sommato presentano una recitazione discreta…

…ma, quando si tratta di portare in scena emozioni più complesse, di mostrare il puro terrore davanti alla morte, è come guardare una mano invisibile che schiocca le dita e li fa passare in un attimo da uno stato di tranquillità ad una paura devastante, risultando il meno credibili possibile.

Betsy Palmer in una scena di Venerdì 13 (1980) di Sean S. Cunningham

Che sia cattiva direzione o cattive capacità interpretative è difficile dirlo, soprattutto visto che invece l’interpretazione dell’unica attrice di qualche valore, ovvero Betsy Palmer nei panni della terribile signora Voorhees, è in parte sporcata da un leggero overacting

…ma, nel complesso, riesce a funzionare come rivelazione finale del film.

Ma nel frattempo…

Ritmo

Un grande problema di Venerdì 13 è il ritmo.

La storia è incredibilmente ripetitiva, non racconta sostanzialmente nulla per la maggior parte del tempo, particolarmente nel lunghissimo atto centrale, che cerca un minimo di costruire la tensione con dei piccoli indizi del pericolo in agguato – come il serpente…

…ma che infine è solamente una sequenza interminabile di personaggi trucidati in maniera sempre più creativa, a volte proprio per il loro essere promiscui – tema incredibilmente classico all’interno del genere – a volte per puro spettacolo.

Il finale Venerdì 13 (1980) di Sean S. Cunningham

E, anche se il vero motivo dell’assassino non è per nulla banale, anzi cerca, come tanti altri film simili – specificatamente Non aprite quella porta (1974), da cui sostanzialmente saccheggia il colpo di scena – di dare un ulteriore significato alla furia omicida del killer…

…ma che, alla lunga, risulta solo stancante, soprattutto considerando quanto il film sia derivativo – rubando, non per ultimo, la colonna sonora a Psycho (1960) – quanto il finale sia sorprendentemente aperto, spunto per una serie sequel che posso solo immaginare…

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Il robot selvaggio – L’inevitabile caduta

Il robot selvaggio (2024) di Chris Sanders è un film d’animazione a tecnica mista tratto dal libro omonimo di Peter Brown.

A fronte di un budget medio – 78 milioni di dollari – ha aperto abbastanza positivamente il primo weekend: 35 milioni nei soli Stati Uniti.

Di cosa parla Il robot selvaggio?

ROZZUM è un robot creato appositamente per assistere gli umani. Ma cosa succederebbe se invece finisse in un ambiente selvaggio e ostile?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il robot selvaggio?

Assolutamente sì.

Con Il robot selvaggio stiamo scrivendo la storia dell’animazione, che aveva già cominciato la sua rivoluzione artistica con Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) – e il suo sequel – e poi con Il gatto con gli stivali 2, portando – si spera – la Dreamworks ad orientarsi finalmente verso orizzonti più interessanti.

L’unico elemento – forse inevitabile – che penalizza la pellicola è il percorrere una storia fin troppo tipica e prevedibile, che inizialmente si dimostra davvero fuori dagli schemi, ma che nel finale si riduce ad un esito fin troppo favolistico, e che secondo me non si integra in maniera ottimale con il tono generale del film.

Ma non per questo ve lo potete perdere.

Ostile

Roz precipita in un ambiente ostile.

Pur con tutte le buone intenzioni, il robot protagonista si deve scontrare con un ambiente per cui non è stato programmato, ma che cerca di piegare a quella che è per lei l’unica visione possibile: cliente effettivi e clienti potenziali.

Ma in un mondo profondamente dilaniato da odi interni, definito dalla legge del più forte, la divisione è ben diversa: l’io che domina incontrastato si scontra costantemente con un perpetuo nemico – che può essere chiunque, persino appartenere alla stessa specie, financo alla stessa famiglia.

E lo stesso incontro con Beccolustro si articola in una paradossale dinamica di distruzione che previene la distruzione: se un Roz stermina accidentalmente un nucleo familiare, in realtà ne salva il suo componente più debole, che sarebbe stato destinato ugualmente alla morte.

E da questo strano incidente si sviluppa un discorso molto peculiare sulla maternità…

Maternità

Il robot selvaggio racconta una maternità realistica…

…che raramente si ritrova in prodotti pensati per un pubblico così giovane.

L’incontro insperato con il neonato Beccolustro farebbe subito pensare all’innesco di una dinamica affettiva di imprinting da entrambe le parti – soprattutto per come viene caricato emotivamente il momento del primo incontro…

…e invece Roz si limita a continuare per la sua esistenza incredibilmente binaria, in cui un pulcino incapace di esprimere direttamente i suoi bisogni, e che si limita solo a seguirlo incessantemente, non può essere suo cliente.

Ed è in questo contesto che entra in gioco il modello di Codarosa.

L’opossum si presenta con un peso emotivo e materiale sulle spalle: la nuova cucciolata, il nuovo carico di figli non voluti, ma semplicemente capitati, che si trova a dover gestire controvoglia, sperando in più di potersene sbarazzare.

E con il suo scambio con Roz finalmente la maternità si spoglia di quella idealizzazione che ha infestato decenni di animazione, portando in scena invece una madre imperfetta, che sceglie di prendersi cura di un bambino solo perché le circostanze lo richiedono.

Ma, non per questo, risulta un una figura negativa. 

Semplicemente, impreparata.

Imparare

La maturazione dei protagonisti è interconnessa.

L’apprendimento di Roz si articola in una presa di consapevolezza del mondo in cui si trova immersa, riuscendo infine a comprendere le sfumature del reale: come Fink può essere doppiogiochista e al contempo un amico fedele, così anche Paddler può essere egocentrico quanto altruista.

E questa evasione graduale dal binarismo iniziale permette a Roz di esprimersi non più solo tramite modelli prestabiliti, ma di diventare un’inaspettata mente creativa, il cui primo passo è proprio il battezzare il suo figlioccio non con un nome in serie, ma con un affettuoso nomignolo.

Al contrario, Beccolustro cresce per imitazione.

Nel suo racconto quasi crudele della genitorialità, Il robot selvaggio mette in scena una dinamica ormai fin troppo nota: la prole che ha come primo contatto con il mondo il genitore, che considera come unica fonte di verità e di conoscenza e che, di conseguenza, imita senza controllo.

Una dinamica che si traduce in una serie di gag di passaggio in cui Beccolustro dimostra di aver vissuto fin troppo a stretto contatto con Roz, imitandone pedissequamente i comportamenti in maniera piuttosto bizzarra, diventando inevitabilmente un emarginato sociale.

Ma questa forte vicinanza è proprio il punto focale del loro rapporto.

Distacco

Roz e Beccolustro devono trovare il loro posto nel mondo.

Le loro maturazioni sono talmente contigue da rendersi di fatto interdipendenti: come l’oca non può ancora volare e nuotare con le proprie zampe, così il robot non riesce a lasciare vivere il proprio figlio adottivo al di fuori del suo campo visivo.

Un rapporto quasi soffocante che paradossalmente gode molto della rivelazione sulla vera storia di Roz e del rivoltarsi di Beccolustro: un distacco brusco ma necessario per accompagnare il protagonista verso la propria indipendenza.

E la bellezza del loro rapporto sta proprio nel riuscire ad aiutarsi anche in vista di una separazione forse definitiva, che dovrebbe sancire la chiusura di questa breve parentesi nella vita di entrambi, dopo il quale ognuno potrà tornare ai suoi ruoli programmati.

Ma un ragionamento del genere sarebbe andato bene alla vecchia Roz, quella pronta a tornare alla prima occasione alla sua fabbrica, ma che invece ora è molto restia ad abbandonare questa realtà che l’ha definita più di quanto si potesse immaginare.

Ma c’è qualcun altro che potrebbe voler decidere per lei…

Unione

L’atto conclusivo de Il robot selvaggio è quello che mi ha lasciato più dubbi.

Risulta a mio parere molto convincente la linea narrativa che definisce definitivamente la maturazione di Roz nel suo confronto e scontro con un sistema in cui non si riconosce più, ma per il quale risulta molto attraente per il patrimonio di informazioni di cui involontariamente si fa portatrice.

Un sistema che ben si concretizza nell’unico effettivo villain della pellicola, ovvero Vontra, un viscido essere meccanico pronto ad irretire Roz con le sue parole, capace di ragionare solamente su due possibilità: la collaborazione del bersaglio o la sua distruzione.

Ed è proprio qui l’elemento che mi ha meno convinto.

Come avevo ampiamente apprezzato una rappresentazione crudele quanto realistica della natura selvaggia, al contempo questa risoluzione molto classica – ma, secondo me, poco adatta ai toni usati fino a questo momento – de l’unione da la forza l’ho trovato veramente poco incisiva.

Allo stesso modo, il finale mi ha lasciato una certa amarezza, soprattutto a fronte di un sequel già programmato e che potrebbe potenzialmente ridurre Il robot selvaggio all’ennesimo franchise di successo che viene snaturato con i suoi poco utili capitoli successivi…

Ma spero davvero di sbagliarmi.

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00s Avventura Back to....teen! Commedia Commedia romantica Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Film Teen Movie

She’s the man – Bloccati in un genere

She’s the man (2006) di Andy Fickman è un teen movie con protagonista Amanda Bynes, ispirato all’opera shakespeariana La dodicesima notte.

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 20 milioni di dollari – non ha avuto un grande riscontro al botteghino: circa 57 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla She’s the man?

Viola è una bravissima giocatrice di calcio, limitata da un unico fattore: essere una femmina. E per questo cercherà vie alternative per riscattarsi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere She’s the man?

Amanda Bynes e Channing Tatum in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Assolutamente sì.

She’s the man è uno di quei teen movie veramente da riscoprire, che riuscirono in tempi non sospetti ad aggiungere qualcosa di nuovo ad un genere che ha invece la tendenza a ripetersi, anticipando le tendenze future.

Infatti all’interno di una commedia molto leggera e spensierata, è inserita un’importante riflessione sui ruoli di genere, rimessi pesantemente in discussione, cercando il più possibile di evadere modelli e personaggi tipizzati che solitamente affollano questo tipo di film.

Insomma, da riscoprire.

Definizione

Amanda Bynes in una scena in spiaggia di She's the man (2006) di Andy Fickman

L’incipit di She’s The Man è fondamentale.

Fin da subito la protagonista è presentata come personaggio piuttosto peculiare, soprattutto in quel periodo: non la classica ragazza sfigata che deve trovare la sua identità, ma piuttosto un incontro fra diversi elementi che raramente si vedono integrati nella protagonista di un teen movie.

Amanda Bynes in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Ovvero, una ragazza piuttosto sicura di sé e già coinvolta in una relazione romantica – di cui tra l’altro sembra tenere le redini – e, al contempo, un maschiaccio, in quanto più orientata verso interessi stereotipicamente maschili.

Una presentazione fondamentale per arrivare al primo punto di rottura della pellicola: non solo l’eliminazione della squadra di calcio, ma l’umiliazione di non essere considerata al pari della squadra maschile – sminuendo per estensione la stessa protagonista…

…e portando di conseguenza al distacco dal sistema e da Justin, da cui si sente ugualmente tradita.

Seminato

Sulla carta, la protagonista ha una sola alternativa possibile.

Ovvero, la proposta dalla madre, che nasconde molto goffamente il suo sollievo per la cancellazione della squadra, sperando che la figlia arrivi finalmente ad abbracciare invece un modello femminile piuttosto classico, che la protagonista sembra rigettare in toto.

Amanda Bynes in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Invece, il destino sembra essere dalla parte di Viola, suggerendole una strada alternativa, perfettamente apparecchiata per essere percorsa: assorbire in tutto e per tutto il modello maschile e colmare il vuoto lasciato dal fratello – altro personaggio in fuga da un modello imposto.

E già da qui la pellicola comincia un discorso piuttosto interessante…

Modello

Amanda Bynes in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Il modello maschile è fin da subito messo in discussione.

Come spesso questi film raccontano stereotipi femminili piuttosto ridondanti, in questo caso invece la situazione si ribalta, portando in scena una visione piuttosto ingenua e stereotipata del mondo maschile, ridotto ad uno uno stock di dinamiche incredibilmente stereotipiche.

Infatti la protagonista, nel suo allentamento per diventare un maschio credibile, cerca di imitare una serie di comportamenti che lei considera rappresentativi del mondo maschile, ma che invece via a via si riveleranno solamente la superficie di un una cultura machista unicamente dannosa.

Amanda Bynes in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Ma sono dei modelli fragili.

Infatti, fin dalla sua prima entrata in scena nelle nuove vesti, la protagonista risulta fuori luogo e forzata – in maniera molto ironica, visto che i primi personaggi maschili che incontra corrispondono perfettamente, almeno dal punto di vista estetico, allo stereotipo del maschio alpha.

E invece queste figure hanno molto da raccontare…

Successo

Amanda Bynes e Laura Ramsey in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

La chiave del successo di Viola è cangiante.

Da una parte, la protagonista risulta attraente agli occhi di Olivia proprio perché non rispecchia realmente il modello maschile che vorrebbe incarnare, ovvero del maschio potente, dall’emotività inscalfibile e che non può e non deve mai ammettere le sue debolezze.

Al contrario Viola, che rappresenta invece le aspettative sociali del femminile, può permettersi di mostrarsi deboli e di discutere di determinati argomenti stereotipicamente propri del genere di appartenenza, risultando nella sua diversità decisamente interessante.

Amanda Bynes e Channing Tatum in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Al contrario per il mondo maschile Viola risulta inizialmente solo respingente, anzi estremamente fuori luogo proprio per i suoi comportamenti eccessivi e forzati, che la riducono ad una macchietta con cui nessuno vuole avere a che fare.

E quindi infine l’unico modo per avere l’attenzione del microcosmo maschile è di mettere in scena un assurdo teatrino in cui non solo le sue amiche si prestano per interpretare le sua vecchie fiamme, ma in cui la stessa Monique diventa l’elemento di conferma per il nuovo status di dongiovanni di Viola.

Ma è solo la condizione necessaria per realizzare il suo sogno.

Traguardo

She’s the man riesce ad evitare un errore molto comune in questo tipo di film.

Ovvero, la fastidiosa tendenza a semplificare eccessivamente il percorso di maturazione della protagonista, presupponendo in un certo senso che la stessa non debba fare un particolare sforzo per raggiungere il suo obbiettivo.

In questo caso invece, per quanto Viola sia indiscutibilmente talentuosa, si deve comunque scontrare con un una realtà – il calcio maschile – in cui inizialmente non risulta vincente, venendo così relegata alle riserve.

Così la via del miglioramento si articola in una dinamica piuttosto classica: lo scambio di favori fra due personaggi – molto popolare nell’ambito enemy to lovers – in cui Viola aiuta Duke a conquistare Olivia in cambio di un allenamento intensivo.

E su questo punto c’è da fare un discorso a parte…

Interiore

Amanda Bynes in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Il tema della bellezza interiore non è niente di nuovo per il genere.

Solitamente però viene articolato in una narrazione piuttosto banale di competizione fra due modelli di femminilità: la mean girl superficiale ed egoista, e la ragazza sfigata e intelligente – un esempio molto classico è lo scontro fra Taylor e Laney in She’s all that.

Invece all’interno di She’s the man vengono presentati più modelli femminili possibili, e nessun personaggio viene condannato solamente per appartenere ad uno o l’altro, ma piuttosto per la propria insista natura di villain.

Amanda Bynes e Channing Tatum in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

In questo senso, sia Monique e Olivia rappresentano due modelli di iperfemminilità

…ma solamente la prima è un personaggio negativo, proprio perché si dimostra fin dall’inizio superficiale e arrogante, prendendo fra l’altro parte al duo maleficio con Malcom, che cerca infine di umiliare e punire la protagonista per il proprio tornaconto personale.

Aspetto

Channing Tatum in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Viola non si innamora di Duke per il suo aspetto.

Solitamente in una dinamica in cui la protagonista emarginata si innamora di un ragazzo impossibile, l’attrazione in prima battuta è dovuta all’aspetto fisico, e solo in secondo luogo alla personalità effettivamente interessante dello stesso – come in Un compleanno da ricordare (1984).

Invece all’inizio Viola non è attratta da Duke, ma lo diventa nel corso della pellicola quando comincia a conoscerlo come persona, soprattutto al di là di quello stereotipo castrante che il ragazzo cerca in tutti i modi di evadere, mostrando invece il suo lato più fragile e sensibile.

Una fragilità che si può in questo senso direttamente ricollegare alla pesantezza delle aspettative sociali: come Duke sente di dover aderire ad un modello, così la sua difficoltà nell’accettarlo lo porta ad essere estremamente insicuro nell’approcciarsi alla sua ragazza dei suoi sogni.

Ma ci sono delle relazioni che semplicemente non sono fatte per esistere.

Equivoci

L’atto centrale mette in luce tutte le difficoltà relazionali.

Una classica commedia degli equivoci, che però intraprende anche nuove strade per raccontare e definire i personaggi, in particolare i due villain, Monique e Justin: entrambi dimostrano un atteggiamento possessivo e ossessivo, derivato dal loro non avere più il controllo su relazioni ormai finite.

Ed entrambi sono la miccia si risse scatenate per il medesimo motivo, che, per una volta, non sono esclusiva del maschile, ma coinvolgono nella scena immediatamente successiva anche il femminile, che si scontra nel bagno del country club.

Ma altrettanto immaturi sono anche i personaggi positivi.

Impossibilitati ad avere in breve tempo le relazioni dei loro sogni, i protagonisti ricorrono ad una serie di sotterfugi e illusioni autoindotte per ottenerli: così Viola cerca di spingere Duke lontano da Olivia e più verso sua sorella, mentre Olivia strumentalizza Duke per avere le attenzioni di Sebastian.

Ma la maturazione dei personaggi sta proprio nel comprendere i limiti di queste dinamiche – a cominciare dall’appuntamento fallimentare fra Olivia e Duke – scegliendo infine la via più diretta e semplice per mostrare il loro interesse nei confronti delle loro fiamme…

…anche se così si creano non poche incomprensioni che portano all’atto finale.

Rivelazione

L’atto finale è scatenato dall’arrivo di un elemento inaspettato.

Ovvero, il vero Sebastian che fa capolino in scena.

Così il momento dello scioglimento, solitamente dedicato al ballo scolastico, vede invece come protagonista la partita di calcio, in cui la commedia degli equivoci si scatena nella sua forma più pura, con Sebastian che prende involontariamente parte al match fondamentale per la sorella.

Un equivoco nell’equivoco che porta infine alle diverse rivelazioni, in cui i fratelli Hastings mostrano tutta la loro sfrontatezza nell’esibire l’unico elemento che sembra convincere effettivamente il pubblico del loro genere si appartenenza: i tratti sessuali primari e secondari.

Amanda Bynes e Channing Tatum in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Ma questo non basta per sciogliere tutti i nodi.

Le vere sfide per Viola sono ancora tutte da giocare: prima la vittoria morale nei confronti di Justin – e di tutto quello che rappresenta – non lasciandosi intimidire dalle parole di umiliazione con cui il suo ex-ragazzo cerca di farle sbagliare il gol decisivo.

E, infine, l’effettiva conquista di Duke, che accetta la lezione fondamentale del film: andare oltre le apparenze e ossessioni per avvicinarsi a persone che ci desiderano realmente per quello che siamo, e non per quello che rappresentiamo.