Categorie
Avventura David Fincher Drammatico Film Thriller

The Game – Un inganno poco credibile

The Game (1997) di David Fincher è un thriller psicologico con protagonista Michael Douglas. Una pellicola per così dire minore e un po’ meno conosciuta di questo cineasta, ma che vale la pena di riscoprire.

A fronte di un budget di circa 70 milioni di dollari, fu un discreto flop: appena 109 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla The Game?

Nicholas è un businessman piuttosto sgradevole, con un tragico passato alle spalle. La sua vita ha una svolta quando il fratello lo coinvolge in un programma particolare, un gioco fatto su misura per lui…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare The Game?

Michael Duglas in una scena di The Game (1997) di David Fincher

In generale, sì.

The Game era uno dei pochi film di Fincher che non avevo mai visto – e che sinceramente neanche conoscevo. La visione è stata complessivamente piacevole, grazie ad una tensione e ad una componente orrorifica ben gestita.

Sono invece rimasta meno convinta dello scioglimento della vicenda, che mi è sembrato per certi versi troppo sbrigativo e mancante di tutti gli elementi necessari – ma ammetto che potrei anche non averlo capito fino in fondo.

Tuttavia, rimane comunque una pellicola da riscoprire.

L’attore perfetto

Michael Duglas in una scena di The Game (1997) di David Fincher

Quando si sceglie il cast di una pellicola, la sfida più ardua è riuscire a trovare un attore che riesca veramente a rispecchiare, anche solo a primo impatto, il protagonista che abbiamo in mente.

Nel caso di The Game, Michael Douglas è semplicemente perfetto.

Un attore che sto riscoprendo negli ultimi anni e che risulta impeccabile ogni volta che interpreta un personaggio sgradevole e scorbutico – qui come anche nel classico di Joel Schumacher Un giorno di ordinaria follia (1993). E in questo caso era fondamentale che trasmettesse questa sensazione per tutta la pellicola.

Ma per me Douglas è un attore talmente straordinario che nel finale riesce a convincermi anche quando il suo personaggio si ammorbidisce, accettando lo scherzo ai suoi danni e la lezione che ne ha potuto trarre.

Ma in questo elemento si annida per me il principale problema del film.

Un inganno a strati

Michael Duglas in una scena di The Game (1997) di David Fincher

L’impalcatura narrativa della pellicola è basata su un inganno talmente stratificato che è impossibile scoprire la verità. Quando si costruisce questo tipo di narrazione, sono due gli elementi da tenere in conto: le sensazioni che trasmettiamo allo spettatore e un efficace scioglimento del mistero.

Per quanto riguarda la tensione che il film vuole trasmettere, mi ha tenuto facilmente attaccata allo schermo, mentre vedevo il mistero sempre più fitto e angosciante che travolgeva il protagonista.

Per quanto riguarda lo scioglimento, invece…

Uno scioglimento poco convincente

Michael Duglas in una scena di The Game (1997) di David Fincher

Il racconto di The Game mi ha ricordato per certi versi Yes Man (2008), anche se in una veste ovviamente più drammatica.

In realtà, come tante commedie di quel tipo di inizio Anni Duemila, mi aspettavo un tipico scioglimento in cui il protagonista rifletteva sulle sue scelte di vita, diventando una versione migliore di sé stesso. Ed in effetti è quello che succede: Nicolas da questa traumatica esperienza decide di cambiare vita, appunto.

Tuttavia, a me non ha convinto.

Le reazioni dei personaggi sono veramente poco credibili: il protagonista si è trovato coinvolto in uno scherzo – se così vogliamo dire – veramente traumatico, e che lo segnerà per tutta la vita – e non in senso positivo. E nel finale, nonostante un attimo prima fosse pronto a suicidarsi, accetta con fin troppa leggerezza tutta la situazione.

E infatti io mi aspettavo un plot twist finale che ci rivelasse che il gioco non era ancora finito…

Categorie
Antman Avventura Azione Cinecomic Comico Drammatico Fantascienza Film MCU

Antman and the Wasp – Un piccolo pasticcio

Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed è il sequel di Antman (2015), che vede il ritorno del personaggio dopo il suo coinvolgimento in Civil war (2016).

Un film che incassò abbastanza bene, ma che confermò il poco interesse per questo personaggio: a fronte di un budget di circa 150 milioni di dollari, ne incassò appena 622 in tutto il mondo.

Di cosa parla Antman and the Wasp?

Due anni dopo Civil war, Scott è agli arresti domiciliari e ha apparentemente tagliato i rapporti con la famiglia Pym. Ma qualcosa di inaspettato sta per succedere…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena guardare Antman and the Wasp?

Scott Lang e Hope Pym in una scena di Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed

In generale, sì.

Anche se secondo me è meno riuscito rispetto al primo capitolo, rimane comunque un buon prodotto di intrattenimento.

Il principale problema è la trama molto meno lineare e molto più pasticciata, con diverse (forse troppe) storyline e diversi personaggi. E, in particolare, fa una cosa che personalmente non sopporto: inserire più nemici nello stesso film.

Ma, a parte questo, non è un prodotto che vi sconsiglio, anzi.

Una buona retcon

Janet Pym in una scena di Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed

L’incipit del film riprende le fila di Antman, e in particolare lo spunto narrativo di Janet, la moglie di Hank Pym, dispersa nell’Universo Quantico.

Tuttavia, per ovvi motivi, ha dovuto in parte riraccontarla.

Anche se la storia è fondamentalmente uguale, vengono aggiunti dettagli fondamentali e, soprattutto, viene finalmente rivelato il volto del personaggio, che nel primo film era stato del tutto nascosto allo spettatore.

Un caso di una retcon fatta bene.

Ancora più vicino

Scott Lang in una scena di Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed

Per rendere ancora più simpatico e affabile, in Antman and the Wasp Scott viene ancora caratterizzato per essere la vittima buona della situazione.

Nonostante il pubblico sappia che il protagonista è un eroe che ha combattuto per una giusta causa – la propria libertà – viene comunque punito. E oltretutto, dimostra anche di voler sottostare alla sua punizione.

E il suo essere costretto a mettersi in pericolo – e rischiare di perdere per sempre la figlia – lo rende ancora più vicino allo spettatore.

Un pasticcio di villain

Ghost in una scena di Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed

Invece di mettere in scena una trama lineare come nel primo, questa pellicola tende a perdersi in una trama molto più dispersiva, appunto.

Di fatto, la trama di base è molto semplice: i personaggi devono arrivare da un punto ad un altro per completare una missione. Tuttavia, gli vengono continuamente messi contro degli ostacoli e degli imprevisti.

E, se questa scelta da una parte tiene continuamente alta la tensione, dall’altra alla lunga può apparire fastidiosa e ridondante. Tanto più che gli ostacoli sono rappresentati dai due antagonisti.

Sonny in una scena di Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed

E ce n’è almeno uno di troppo.

Se già non apprezzo le storie con due antagonisti, ancora meno le apprezzo con due personaggi così poco interessanti. Da una parte il solito villain tormentato dal suo passato, dall’altra il classico stereotipo del boss criminale.

E non fatemi cominciare sul livello della recitazione…

Sempre peggio

 Hope Pym in una scena di Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed

Con Antman and the Wasp siamo vicini al picco di bruttezza della gestione dei personaggi femminili della MCU, rappresentato da Captain Marvel (2019) prima e la famosa scena del girl power in Endgame (2019) dopo.

E il personaggio di Wasp, se possibile, riesce persino a peggiorare.

Hope in questa pellicola diventa definitivamente una Mary Sue, non riuscendo ad essere in nessun modo interessante o appassionante, o anche solo lontanamente un personaggio in cui identificarsi.

Un po’ di respiro

Davanti a questi evidente difetti, la pellicola riesce comunque a non risultare una visione pesante grazie alla comicità indovinata.

I momenti comici sono tanto più riusciti perché prendono in giro cliché del genere stesso: da Scott che ridicolizza i travestimenti tipici del genere – col classico cappellino e occhiali da sole – allo scambio finale con Woo.

Momenti cominci ben pensati e soprattutto ben posizionati, che lasciano respirare lo spettatore in un film che risulta molto più drammatico del precedente, ma che decide comunque di non prendersi più di tanto sul serio.

Dove si colloca Antman and the Wasp?

Rispetto al primo capitolo, Antman and the Wasp dipende molto di più dall’universo MCU.

La pellicola è infatti esplicitamente collegata a Civil war (2016), di cui è due anni successiva: si ambienta quindi nel 2018. Rispetto agli eventi successivi, è contemporaneo ad Infinity War (2018) e si conclude proprio con lo snap.

Fa parte della Fase Tre ed è – insieme a Captain Marvel (2019) – uno dei due film di intermezzo fra Infinity War e Endgame.

Categorie
Antman Avventura Azione Cinecomic Commedia Fantascienza Film Heist movie MCU

Antman – Un eroe piccolo piccolo

Antman (2015) di Peyton Reed è la origin story dell’eroe omonimo, interpretato da Paul Rudd, in forma di heist movie. Uno dei prodotti minori della Marvel, solitamente meno considerato nel panorama complessivo dell’universo MCU.

E infatti si cercò di renderlo il più importante possibile da Civil war (2016) a Endgame (2019).

Ma i risultati commerciali parlarono da soli: nonostante rientrò ampiamente nel budget (519 milioni di dollari di incasso contro 150 milioni di spesa), fu uno degli incassi minori della produzione, confrontandoli anche con altre origin story come Doctor Strange (2016) o addirittura Captain Marvel (2019).

Di cosa parla Antman?

Scott Lang è appena uscito di prigione dopo aver violato i segreti di una grande multinazionale. Mentre fa fatica a conciliare lavoro e famiglia, viene coinvolto in una rapina piuttosto inusuale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Antman?

In generale, sì.

Anche per la sua semplicità, considero Antman uno dei prodotti della Marvel meglio riusciti, che veramente ha poche sbavature e una costruzione della trama assolutamente funzionale e funzionante.

Inoltre, ha il vantaggio di poter essere guardato anche come un film a sé stante, senza dover conoscere più di tanto del resto del mondo MCU: solamente per pochi elementi si ricollega alla trama complessiva della realtà cinematografica cui appartiene.

Inoltre, è un film davvero simpatico e piacevole.

Empatizzare con l’eroe

Un elemento di forza di Antman è come costruisce il protagonista.

Scott Lang viene inizialmente presentato come un personaggio negativo: un carcerato che si picchia con gli altri detenuti. Ma già da lì comincia l’ammorbidimento: a sorpresa si scopre che quel combattimento non aveva un sottofondo antagonistico, ma quasi giocoso.

Già da qui capiamo che il nostro eroe è una persona amabile e benvoluta da tutti.

Subito dopo scopriamo un altro elemento fondamentale della sua storia: è andato in prigione, ma ci è andato per motivi del tutto nobili, ovvero insidiare una multinazionale. Fondamentalmente un elemento di ammirazione: Scott è un uomo molto intelligente, ma che non si lascia schiacciare dagli oppressori un tema molto ben voluto sopratutto in ambito statunitense.

E l’inserimento della figlia è il colpo finale.

Una perfetta checklist

Altrettanto ben fatta è la costruzione della trama.

La storia del film segue una serie di step fondamentali e perfettamente funzionali. Dopo l’introduzione del protagonista, questo viene coinvolto nel piano della rapina e tutta la parte centrale si allena, mostrando i suoi miglioramenti e quanto sia fallibile e vicino allo spettatore.

Ma, prima dello scontro finale, il protagonista si scontra con una sorta di mini boss, ovvero Falcon. Con questa scena non solo si contestualizza il personaggio nel futuro Civil War (2016) prima e Infinity War (2018) e Endgame (2019) dopo, ma sopratutto si mostra come il suo allentamento abbia dato effettivamente dei frutti.

A questo punto lo spettatore si fida del protagonista e delle sue capacità.

E così si può arrivare al conflitto finale.

Una regia indovinata

A quasi dieci anni di distanza, ho trovato Antman ancora molto efficace sia dal punto di vista della regia che degli effetti speciali – anche più del più recente Wakanda Forever (2022).

La regia è chiara e coinvolgente anche nelle scene più dinamiche, quando l’eroe si muove in maniera fulminea negli spazi, tenendo alta la tensione e al contempo utilizzando una CGI (ancora) molto credibile.

Allo stesso modo, ho davvero apprezzato la sottile ironia di mostrare le vicende che avvengono nel microcosmo ingrandite, e come appaiono invece ridicole ad un occhio umano, sopratutto nella parte finale.

Un banale villain

Il villain di Antman è fra gli elementi più deboli della pellicola.

Tuttavia, niente di sorprendente: come aveva già visto per Black Panther (2018) e riflettendo sulla prevedibilità, è molto tipico delle pellicole supereroistiche – e dell’MCU in particolare – mettere in scena antagonisti molto banali e ridondanti, che tendenzialmente non devono oscurare la figura dell’eroe.

In questo caso il villain non è neanche uno dei peggiori, ma pensandoci a posteriori appare quasi ridicolo sia nell’aspetto che nella caratterizzazione: il volto ricorda la durezza del giovane Luthor in Smallville (2001 – 2011) e riprende gli atteggiamenti da cattivo spietato di tanti suoi simili in prodotti analoghi.

E diventa quasi esilarante quando mette in scena un certo tipo di mentalità guerrafondaia tipica di certi ambienti statunitensi…

L’insipidezza di Wasp

Sulla figura di Hope bisogna spendere due parole in più.

Un problema della Marvel per tanto tempo sono stati i personaggi femminili messi in scena: molto spesso stereotipi su gambe – ve la ricordate Black Widow agli inizi? – fino a ricadere nella figura della Mary Sue con Captain Marvel. Insomma, tendenzialmente i personaggi femminili sono secondari, insipidi e spesso persino insopportabili.

Non arriverei a dire che Hope sia una delle peggiori, tuttavia è davvero un pessimo personaggio femminile: non ha veramente niente di interessante da raccontare, è del tutto definitiva nel rapporto col padre ed è talmente fastidiosa che non si capisce cosa Scott ci veda in lei – a parte la bellezza, ovviamente.

Per fortuna che questa tendenza si sta risolvendo in tempi recenti, con personaggi come Ms. Marvel, She Hulk e Kate Bishop in Hawkeye – a prescindere dalla qualità dei prodotti.

Dove si colloca Antman?

Per quanto sia un film abbastanza indipendente, Antman ben si contestualizza nell’MCU per elementi interni alla pellicola.

Il personaggio viene introdotto in questo film, per poi essere ampiamente coinvolto nel film successivo – e maxi evento – Civil War (2016), a cui si collega direttamente, ed è una delle tre origin story – insieme a Spiderman Homecoming (2017), Doctor Strange (2016) – che introduce personaggi poi protagonisti della fine della saga del Multiverso.

È l’ultimo film della Fase 2 e si ambienta poco prima di Civil War, quindi fra il 2015 e il 2016.

Categorie
Avventura Azione Cult rivisti oggi David Fincher Drammatico Film Giallo Noir Thriller

Seven – La (non) commedia

Seven (1995) di David Fincher è la seconda pellicola da lui diretta, ma quella che lo lanciò effettivamente come regista – dopo il dimenticatissimo Alien³ (1992). Un thriller che divenne un cult per tanti motivi, fra cui la totale follia e crudezza della storia, oltre all’incredibile finale…

A fronte di un budget abbastanza risicato (appena 30 milioni di dollari), incassò tantissimo: 327 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Seven?

Il Detective Mills è stato appena riassegnato ad una nuova divisione, sotto la guida del saggio detective William Somerset. E da subito si occuperà di un caso veramente senza precedenti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Seven?

Morgan Freeman in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Assolutamente sì.

Seven è un cult non per caso: oltre ad una regia piuttosto sperimentale e variegata e alle ottime prove attoriali, la storia è incredibilmente coinvolgente, piena di colpi di scena, anche non poco disturbanti – pur non scadendo mai nel gore.

Una pellicola davvero imperdibile, da vedere sapendone il meno possibile, pur con qualche trigger alert. Infatti, nonostante il film non contenga scene effettivamente disturbanti, racconta nondimeno delle dinamiche non poco inquietanti, che potrebbero non farvi dormire la notte.

Ma ne vale davvero la pena.

Un tragico viaggio

Brad Pitt in una scena di Seven (1995) di David Fincher

David Fincher si ispira evidentemente al viaggio ultraterreno dantesco, che viene fra l’altro continuamente citato all’interno della pellicola. Al punto che in una scena si vedono anche le splendide litografie di Gustave Dorè, che illustrarono il capolavoro della nostra letteratura.

Con la grande differenza che il viaggio di Dante era una commedia in quanto – secondo le parole dello stesso autore – aveva un lieto fine, con la redenzione del protagonista e, infine, la visione di Dio. Al contrario, il viaggio di Mills è tragico in ogni suo aspetto.

Ma per questo si crea un interessante parallelismo.

Detective Mills in Seven

Mills è un personaggio superbo e pieno di rabbia, una rabbia incontrollabile.

E, per questo, è insalvabile.

Per tutto il tempo si vuole mettere prepotentemente in gioco, in prima linea, ignorando le regole o anche il semplice buonsenso, del tutto insensibile agli ammonimenti di Somerset. Un personaggio che si sente superiore a tutti gli altri, che è convinto di sapere il fatto suo e che vive il caso in maniera davvero impetuosa e superficiale.

Morgan Freeman e Brad Pitt in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Ad ogni occasione si arrende davanti agli inganni apparentemente più insolvibili del killer, vuole a tutti i costi prendere in mano il caso, si rifiuta di seguire gli ammonimenti del suo collega e irrompe prepotentemente nella casa di John Doe – una sorta di foreshadowing di quello che poi succederà nel finale.

E la sua superbia si vede in particolare nel dialogo con John Doe, in cui è del tutto sicuro di averlo finalmente in pugno e per questo cerca di umiliarlo.

In realtà lo sta solo sottovalutando.

Brad Pitt in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Allo stesso modo Dante era un personaggio afflitto da un grande peccato capitale, anche se diverso da quello di Mills: la lussuria.

Per questo il suo viaggio, soprattutto quello purgatoriale, serviva per metterlo davanti ai sette peccati capitali, da cui si liberava salendo ogni cornice. In particolare passava attraverso il fuoco purificatore della lussuria con grande paura, ma riuscendo infine ad essere liberato da ogni peccato.

Invece, anche se a Mills viene data la possibilità di domare il suo peccato, fallisce.

William Somerset in Seven

Il Detective Somerset dovrebbe essere la guida per Mills.

Un personaggio disilluso, che vuole sottrarsi all’angoscia della vita di poliziotto in una realtà così violenta e degradata. È l’unico davvero consapevole di quello che sta accadendo, che capisce la natura seriale del caso e che riesce davvero ad orientarsi all’interno della rete di indizi del killer.

William è un personaggio saggio e riflessivo, che per tutto il film cerca di tenere a bada ed educare l’irriverente Mills, che invece si vuole buttare subito sul caso e nell’azione. Il suo gesto in extremis di salvare il suo giovane compagno e non far vincere John Doe, però, va in fumo.

Morgan Freeman in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Al contempo William è l’unico che davvero capisce il killer.

Come John Doe cerca continuamente di esaltarsi nella figura di prescelto, superuomo, salvatore e punitore, il detective cerca insistentemente di ridimensionarlo, di riportarlo alla sua natura strettamente umana, anche e soprattutto agli occhi di Mills.

La sua figura può essere facilmente paragonata a quella di Virgilio nella Commedia: una guida saggia e autorevole che conduce l’eroe nel suo viaggio, che lo protegge e lo assiste, riuscendo vittoriosamente nella sua missione.

Purtroppo, il finale per William non è altrettanto favorevole.

E, forse anche per questo, decide infine di non andare in pensione…

John Doe in Seven

La forza di John Doe è il suo annullamento.

Il motivo per cui questo killer è così sfuggente è perché distrugge totalmente la sua persona, in primo luogo spellandosi le dita per evitare di lasciare impronte digitali, poi privandosi di un nome – John Doe è il termine poliziesco per indicare un uomo non identificato – e, infine, riducendo sé stesso ad un semplice peccatore.

La missione di John Doe – che sia quella data da Dio o la sua personale – è quella di ripulire almeno in parte il mondo della sporcizia che lo domina, una bruttura così profonda che ormai fa parte dell’assoluta normalità.

Kevin Spacey in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Ed è per questo che, in parte, l’operato di John Doe è inattaccabile: prende di mira veramente quello che da alcuni può essere considerato il peggio della società – l’avvocato colluso, lo spacciatore, la prostituta… – come lo stesso personaggio sottolinea.

Ma in questo peggio è anche lui coinvolto: non tanto dalla superbia, ma dall’invidia che il personaggio ammette di provare nei confronti di Mills, nei confronti della sua vita normale che, nel dover portare avanti la sua missione, si è totalmente precluso.

Kevin Spacey in Seven

Kevin Spacey in una scena di Seven (1995) di David Fincher

In questo senso è emblematica la scena dell’arresto: dopo che John Doe si è presentato trionfalmente agli occhi dei due detective, viene ridotto a terra, quindi si lascia abbassare ad un livello più terreno, e poi alza gli occhi verso Mills.

E qui mostra la sua apparentemente invidia, costretto a guardare dal basso chi gli sta sopra, in condizione di inferiorità dove spesso sono ridotte le anime purganti, in particolare quelle dei superbi – il suo vero peccato.

Il casting del killer di Seven fu piuttosto travagliato, anche per la natura del prodotto.

David Fincher in prima battuta avrebbe voluto Ned Beatty, per la sua incredibile somiglianza con lo Zodiac Killer – o il suo identikit – fra l’altro con un interessante foreshadowing per la carriera dello stesso Fincher, che tornò più di dieci anni dopo con Zodiac (2007).

Tuttavia l’attore rifiutò, affermando che la sceneggiatura del film era la cosa più diabolica che avesse mai letto.

Kevin Spacey in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Seguirono diversi tentativi di casting, fra cui quello di Kevin Spacey, che venne però inizialmente rifiutato perché richiedeva un cachet troppo elevato.

Per questo inizialmente le scene con il killer vennero girate da un attore ignoto, ma in poco tempo si scelse di rimpiazzarlo e venne nuovamente negoziato il contratto di Spacey, che girò le sue scene nel giro di soli dodici giorni.

Lo stesso attore scelse appositamente di non essere inserito né nel marketing né nei titoli di testa del film, così da rendere veramente funzionale il colpo di scena finale.

Heath Leadger

Un elemento metanarrativo di grande interesse, che rendeva senza nome il killer per lo spettatore stesso, proprio a ricalcare il suo aspetto anonimo e non riconoscibile, quasi invisibile – come era stato sia per il killer dello Zodiaco quando per l’ancora misterioso attentatore D. B. Cooper.

Entrambi casi reali di criminali che vinsero per il loro aspetto anonimo.

Un aspetto di grande interesse che venne ripreso in maniera pedissequa dal Joker di Heath Ledger in Il cavaliere oscuro (2008): un criminale molto intelligente, ma senza nome e senza identità.

Categorie
Akira Animazione Animazione giapponese Avventura Azione Cult rivisti oggi Distopico Drammatico Fantascienza Film Futuristico Recult

Akira – Tutto nacque, tutto morì

Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo è uno dei più grandi cult – forse il più grande – del cinema animato nipponico. Un’opera complessa, che affronta tematiche anche abbastanza tipiche della fantascienza moderna, ma con una profondità di riflessione inarrivabile.

Con un budget abbastanza contenuto (700 milioni di yen, circa 5 milioni di dollari), incassò molto bene: 1.5 miliardi di yen, circa 50 milioni di dollari.

Di cosa parla Akira?

In un futuro ucronico, in cui la terza guerra mondiale ha distrutto Tokyo, la Neo Tokyo è nel totale degrado, dominata da bande di criminali motociclisti. Uno di questi, Tetsuo, si scontra con uno strano bambino…

Vi lascio lo splendido trailer per il 30° anniversario per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Akira?

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Assolutamente sì.

Akira è un film davvero imperdibile, e non solo per la splendida scrittura e animazione, ma soprattutto per la profonda riflessione che costruisce, che può lasciare interdetti ad una prima visione, ma che acquisisce un chiaro significato dopo un’attenta riflessione (e revisione).

Uno dei quei prodotti che non possono mancare nel proprio bagaglio cinematografico, anche se non si è mai messo piede nel cinema orientale.

Tutto nacque da una bomba

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Il punto di partenza di Akira è la bomba atomica.

Infatti la primissima scena del film mostra lo scoppio di una bomba che distrusse, nell’ucronia del film, la città di Tokyo – con un parallelismo molto netto fra i drammatici eventi di Hiroshima. E così anche il punto di arrivo – o di partenza – della Terza Guerra Mondiale.

Un racconto che sembra molto lontano da noi ma che, al tempo dell’uscita della pellicola – e soprattutto del manga originale – non lo era per niente. Negli Anni Ottanta infatti la Guerra Fredda e la conseguente paura dell’Atomica – che si era visto esistere e poter essere utilizzata – era ancora molto reale.

Kuwata in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Quindi sarebbe stato tanto improbabile immaginare un mondo in cui la bomba atomica era derivata da sperimentazioni umane – già emerse dalla drammatica pagina della storia nipponica dell’Unità 731 – e che questa avrebbe portato ad un terzo conflitto mondiale?

Di fatto, Akira non era un’ucronia, ma una realtà possibile.

Volevo rievocare un Giappone come quello in cui ero cresciuto, dopo la seconda guerra mondiale, con un governo in difficoltà, un mondo in ricostruzione, pressioni politiche esterne, un futuro incerto e una banda di ragazzini abbandonati a sé stessi, che combattono la noia correndo con le moto.

Katsuhiro Ōtomo

Il superuomo

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

E se la bomba atomica fosse l’uomo stesso?

L’atomica – nella realtà, quanto nella finzione fantascientifica – è un esempio chiarissimo di quanto la creatività umana e la sua hybris possa essere totalmente distruttiva. Per questo Akira riprende il tema classico della creazione che sfugge dal controllo del suo creatore, ma la amplia in una direzione del tutto nuova.

In questo caso, l’uomo che, tramite l’uso immorale della scienza, non riesce a controllare sé stesso.

Ed è tanto più problematico quando un potere del genere viene dato – o risvegliato, per meglio dire – ad una persona divorata dal risentimento e dal senso di inferiorità. Quasi fino all’ultimo Tetsuo si atteggia come una persona potente, inarrestabile e al di sopra di tutti gli altri – come ben testimonia il suo sedersi sul trono dello Stadio e mettersi un mantello per darsi un’aura regale.

Cos’è Akira?

Akira in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

La figura di Akira può essere letta su più livelli.

Nel contesto più materiale della pellicola, era solamente l’esperimento effettivamente riuscito della creazione di un superuomo, che poi si era rivoltato contro lo stesso creatore, distruggendo un’intera città – che sia volontariamente o involontariamente, non è dato saperlo.

A livello più astratto, Akira è un’energia vitale e primordiale dell’uomo, che lo eleva dal suo stato bestiale e lo rende capace dell’inimmaginabile. Anche se l’uomo non è riuscito fisicamente – per ora – a modificare sé stesso, è stato in grado di modellare il mondo a sua immagine e funzione, costruendo tutto quello di cui aveva bisogno.

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Il passo successivo era proprio quello di rendersi pari ad un dio, capace di avere poteri sovrannaturali, ma che in qualche modo erano sempre presenti nel suo potenziale.

Ma la bellezza di Akira sta anche nel non banalizzarsi su questo concetto, ma ampliarlo mettendo in scena una distruzione che è al contempo una creazione stessa. Un dualismo che si vede bene nella scena finale, quando lo scienziato dice:

È come se stessimo assistendo alla nascita dell’Universo.

Cosa succede nel finale di Akira?

Kiyoko in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Il finale di Akira si apre a diverse interpretazioni.

Quando i tre bambini si trovano in presenza di Akira si inginocchiano come alla presenza di un dio, e decidono di salvare Tetsuo dalla morte certa, mentre il suo corpo non gli risponde più e lo sta fondamentalmente distruggendo.

Tuttavia, allo stesso modo sono consapevoli che, seguendo Akira, non potranno più tornare indietro.

Secondo la mia personale interpretazione, nel finale tutti perdono la loro forma materiale e umana, riducendosi ad un forma atomica e in qualche modo rinascendo con Akira, in un modo (per il momento) incomprensibile all’essere umano.

Come Akira cambiò il mondo

A cura di Carmelo

Prima di Akira, gran parte degli occidentali credeva che l’animazione giapponese consistesse in cartoni animati televisivi come Speed racer (1967-68), roba per bambini tecnicamente frettolosa e malamente doppiata.

Ma il regista Katsuhiro Ōtomo (autore in precedenza del monumentale manga omonimo) diede invece a questa epica dispotica un intreccio complesso, violenza grafica, immagini allucinate, umorismo nero.

Così una colonna sonora ipnotica e ricca di percussioni, un’attenzione artigianale al dettaglio, è un dialogo perfettamente sincronizzato ricco di assorte meditazioni sull’ evoluzione, l’illuminazione e la distruzione di massa. 

Kuwata in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Quando esplose Akira, la civiltà si era sgretolata, ma quando esplose akira (anch’esso il 16 luglio 1988, data della prima cinematografica) la sua onda d’urto aprì la strada ad anime di altissimo livello come La città incantata (2001) e Ghost in the shell (1995) e fissò tutt’un tratto un nuovo importante standard nell’arte dell’animazione.

E già solo l’impegno produttivo è testimone di questa rivoluzione: il primo caso di collaborazione tra più studi di animazione di queste proporzioni, con 1.300 animatori provenienti da 50 studi diversi al lavoro su un unico progetto. Inoltre, si utilizzarono una serie di tecniche piuttosto innovative all’epoca per l’uso della CGI e del doppiaggio.

Insomma, con l’uscita di questo film inizia l’ascesa dell’animazione giapponese.

Le citazioni di Akira

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Le citazioni e omaggi ad Akira nei prodotti successivi si sprecano.

Uno dei più interessanti è l’evidente omaggio della serie cult Stranger things: oltre ai vari riferimenti visivi, la storia di Eleven e come messa in scena nelle sue dinamiche – soprattutto nella quarta stagione – ricorda tantissimo quella di Akira per quanto riguarda la parte degli esperimenti sui bambini e lo scopo degli stessi.

Anche i poteri di Tetsuo inizialmente sono molto simili.

Un altro riferimento degno di nota – e che racconta molto bene l’importanza di Akira nel panorama occidentale – si trova nella puntata L’astuccio del cacciatore (4×12) di South Park: la citazione all’anime cult viene affiancata a riferimenti ad altre pellicole importantissime per il genere, 2001: Odissea nello spazio (1968) e Terminator (1984).

Ma è in primo luogo Akira a citare un cult della fantascienza: la Neo Tokyo del film non è altro che una versione nipponica della Los Angeles di Blade Runner (1982), di cui ricorda le atmosfere…

Come Akira cambiò il mondo

A cura di Carmelo

Prima di Akira, gran parte degli occidentali credeva che l’animazione giapponese consistesse in cartoni animati televisivi come Speed racer (1967-68), roba per bambini tecnicamente frettolosa e malamente doppiata.

Ma il regista Katsuhiro Ōtomo (autore in precedenza del monumentale manga omonimo) diede invece a questa epica dispotica un intreccio complesso, violenza grafica, immagini allucinate, umorismo nero.

Così una colonna sonora ipnotica e ricca di percussioni, un’attenzione artigianale al dettaglio, è un dialogo perfettamente sincronizzato ricco di assorte meditazioni sull’ evoluzione, l’illuminazione e la distruzione di massa. 

Kuwata in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Quando esplose Akira, la civiltà si era sgretolata, ma quando esplose akira (anch’esso il 16 luglio 1988, data della prima cinematografica) la sua onda d’urto aprì la strada ad anime di altissimo livello come La città incantata (2001) e Ghost in the shell (1995) e fissò tutt’un tratto un nuovo importante standard nell’arte dell’animazione.

E già solo l’impegno produttivo è testimone di questa rivoluzione: il primo caso di collaborazione tra più studi di animazione di queste proporzioni, con 1.300 animatori provenienti da 50 studi diversi al lavoro su un unico progetto. Inoltre, si utilizzarono una serie di tecniche piuttosto innovative all’epoca per l’uso della CGI e del doppiaggio.

Insomma, con l’uscita di questo film inizia l’ascesa dell’animazione giapponese.

Le citazioni di Akira

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Le citazioni e omaggi ad Akira nei prodotti successivi si sprecano.

Uno dei più interessanti è l’evidente omaggio della serie cult Stranger things: oltre ai vari riferimenti visivi, la storia di Eleven e come messa in scena nelle sue dinamiche – soprattutto nella quarta stagione – ricorda tantissimo quella di Akira per quanto riguarda la parte degli esperimenti sui bambini e lo scopo degli stessi.

Anche i poteri di Tetsuo inizialmente sono molto simili.

Un altro riferimento degno di nota – e che racconta molto bene l’importanza di Akira nel panorama occidentale – si trova nella puntata L’astuccio del cacciatore (4×12) di South Park: la citazione all’anime cult viene affiancata a riferimenti ad altre pellicole importantissime per il genere, 2001: Odissea nello spazio (1968) e Terminator (1984).

Ma è in primo luogo Akira a citare un cult della fantascienza: la Neo Tokyo del film non è altro che una versione nipponica della Los Angeles di Blade runner (1982), di cui ricorda le atmosfere…

Categorie
2022 Avventura Commedia nera Dramma storico Drammatico Film Humor Nero Martin McDonagh Nuove Uscite Film Oscar 2023 Surreale

Gli spiriti dell’isola – La piccola guerra

Gli spiriti dell’isola (2022) di Martin McDonagh – traduzione piuttosto maldestra del titolo originale The Banshees of Inisherin – è uno dei più importanti film candidati agli Oscar 2023, oltre ad essere una delle maggiori sorprese di quest’anno.

A fronte di un budget piuttosto risicato – appena 20 milioni di dollari – ha prevedibilmente incassato davvero poco: appena 33 milioni di dollari in tutto il mondo (finora).

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Gli spiriti dell’isola (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior regista
Miglior attore protagonista a Colin Farrell
Miglior attore non protagonista a Brendan Gleeson
Miglior attore non protagonista a Barry Keoghan
Miglior attrice non protagonista a Kerry Condon
Migliore colonna sonora
Miglior sceneggiatura originale
Miglior montaggio

Di cosa parla Gli spiriti dell’isola?

1923, Irlanda. L’amicizia fra Pádraic e Colm si interrompe improvvisamente, per volontà del secondo, che si rifiuta addirittura di parlargli. E la sua ottusità raggiunge livelli inaspettati…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gli spiriti dell’isola?

Colin Farrell in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Assolutamente sì.

Gli spiriti dell’isola è un film particolarissimo, e neanche facilmente digeribile – complice l’umorismo veramente nerissimo e la profonda angoscia che lascia a visione conclusa. Una di quelle pellicole incredibili in cui, da un momento all’altro, riesci a passare da una risata fragorosa ad un totale ammutolimento.

Ma, proprio per questo, un film assolutamente da recuperare.

Il titolo originale è The Banshees of Inisherin.

Inisherin è semplicemente il luogo dove è ambientata la vicenda, mentre per le banshee bisogna fare un discorso a parte.

Il film dà abbastanza per scontata la conoscenza di tale figura mitologica, ma in realtà è meno diffusa di quanto si potrebbe pensare. Per esempio, io non conoscevo la mitologia specifica, ma le reinterpretazioni della serie tv Teen wolf e del videogame The Witcher 3.

La banshee è una creatura leggendaria dei miti irlandesi e scozzesi, la quale, a seconda delle tradizioni, ha un’accezione positiva o negativa. In generale, si tratta di una figura mitologica legata alla morte.

È infatti invisibile agli occhi degli esseri umani, se non quando questi sono prossimi al decesso, mostrandosi avvolta in un pesante velo, piangendo o addirittura gridando davanti all’inevitabile trapasso.

Sotto la superficie

Colin Farrell e Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Apparentemente Gli spiriti dell’isola racconta la storia di un’amicizia finita, che prende delle vie sempre più surreali e grottesche per via dell’ottusità di Colm.

In realtà, la pellicola racconta molto di più.

L’indizio visivo principale viene mostrato quando, all’inizio del film, Pádraic vede una colonna di fumo che rappresenta i lontani disordini della Guerra Civile. E la stessa colonna di fumo la vede quando dà fuoco alla casa del suo amico.

E proprio in questo parallelismo si racchiude il vero significato del film.

Colin Farrell e Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Proprio parallelamente alla storia principale della pellicola, si svolgono gli avvenimenti della Guerra Civile Irlandese. La stessa scoppiò a seguito della Guerra d’Indipendenza Irlandese, che portò ad un trattato di pace con l’Impero Britannico.

Un trattato che, però, non venne accettato da tutti.

E, nonostante diversi tentativi di rappacificamento delle parti, scoppiò una guerra drammaticamente sanguinosa, dove si trovano a combattere l’uno contro l’altro amici e persino fratelli, tutto per l’ottusità, da entrambe le parti, di non voler arrivare ad un compromesso.

Il picco avvenne negli ultimi momenti del conflitto, quando ci furono il maggior numero di vittime e diversi incendi alle case dei nemici.

Vi suona familiare?

Gli spiriti dell’isola è sostanzialmente una Guerra Civile Irlandese in piccolo.

L’ottusità e le cinque dita

Colin Farrell e Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Il perpetuarsi del conflitto è quasi del tutto dettato dall’ottusità di Colm, che si rifiuta insistentemente di riallacciare i rapporti con il suo amico.

E proprio la sua ottusità viene ben rappresentata dalla minaccia – e realizzazione – dell’amputazione delle dita, che si presta a diverse interpretazioni. Andando infatti ad indagare le intenzioni del regista, la stessa può essere ricollegata ad una paura atavica dell’artista: perdere lo strumento della sua arte.

Tuttavia Colm concretizza questa realtà volontariamente, quasi a volersi togliere ogni possibilità di diventare veramente l’artista che sogna di essere, ricordato nei secoli, in una sorta di perversa spirale autodistruttiva.

Ma, più semplicemente, può essere letta come rappresentazione di quanto Colm creda nella distruzione del rapporto con Pádraic.

Umani

Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

La forza de Gli spiriti dell’isola è di riuscire a raccontare, pur nella sua follia, una vicenda profondamente umana.

Colm e Pádraic hanno due caratteri totalmente opposti, ed è anche in qualche misura comprensibile che il più vecchio dei due non abbia voglia di perdere altro tempo con il più giovane e la sua insopportabile stupidità. Andandosi, fra l’altro, del tutto ad isolare in un contesto già molto isolato.

E le dinamiche con cui i due personaggi si relazionano appaiono vere e profonde, anche quando virano sul lato più surreale e grottesco.

La scena che mi ha più colpito è quella in cui Pádraic viene colpito dal poliziotto, e Colm lo raccoglie da terra e conduce il suo carro fino a casa. In quel momento di apparente calma e riconciliazione, Pádraic scoppia in un pianto sommesso ma profondamente sofferto, un pianto nostalgico per qualcosa di apparentemente irrisolvibile.

La morte

Barry Keoghan in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Gli spiriti dell’isola parla non solo di amicizia e conflitto, ma anche e soprattutto di morte.

E il titolo ne è indizio fondamentale.

La banshee più facilmente identificabile è ovviamente Mrs. McCormick, che appare proprio come la vecchia megera, l’uccellaccio che prevede – e augura – la morte. In realtà, come abbiamo visto, queste figure mitologiche non sono altro che osservatrici e cassandre, quindi si limitano ad annunciare la morte imminente.

E il titolo non indica una sola banshee, ma diverse banshee.

Colin Farrell e Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

In questo caso si aprono più interpretazioni: si potrebbe considerare come banshee tutti i membri della comunità dell’isola, che vedono chiaramente lo scoppio del conflitto con le sue nefaste conseguenze.

Oppure, più sottilmente, si potrebbero considerare banshee gli animali stessi, che sono parte dominante della scena in diverse occasioni, testimoni silenziosi del dramma in atto.

Da notare anche l’interessante foreshadowing sul destino nefasto di Dominic: fin dall’inizio il ragazzo tiene in mano uno strumento di morte, il bastone che serve per raccogliere i cadaveri caduti in acqua, dove infatti morirà.

E lo stesso bastone, dopo la sua morte, sarà in mano a Mrs. McCormick…

Categorie
Accadde quella notte... Avventura Dramma storico Drammatico Film Notte degli Oscar

12 anni schiavo – Un insopportabile pietismo

12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen è un dramma storico che fu confezionato appositamente per colpire il cuore dell’Academy, portandosi infatti a casa tre statuette – fra cui il Miglior film – e nove nomination.

Una discreta delusione per un regista che si era dimostrato molto capace…

Come la maggior parte dei film di questo regista, costò pochissimo – appena 22 milioni di dollari -ma, proprio per la sua rilevanza a livello internazionale, incassò benissimo: 187 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla 12 anni schiavo?

New York, 1841. Salomon è un uomo nero libero, che lavora come violinista e vive felicemente con la sua famiglia. Una serie di coincidenze sfortunate lo porteranno ad essere rapito e ridotto in schiavitù per più di un decennio.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere 12 anni schiavo?

Chiwetel Ejiofor in una scena di 12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen

È molto difficile rispondere oggettivamente per un prodotto che non ti è piaciuto.

Personalmente, non è un film che consiglierei.

Nonostante riesca tutto sommato a raccontare il complesso dell’esperienza dello schiavismo in maniera piuttosto completa, non è particolarmente interessante come dramma storico né presenta qualche riflessione sul tema di qualche rilevanza.

Insomma, se riuscite a farvi commuovere e coinvolgere da una storia molto lacrimevole e fatta apposta per far piangere lo spettatore, che tratta in maniera abbastanza superficiale il tema dello schiavismo, guardatelo.

Ma non fatevi grande aspettative.

12 anni?

Chiwetel Ejiofor in una scena di 12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen

Uno dei più grandi problemi della pellicola è la sua incapacità di far sentire il passare del tempo.

Ci sono molti modi per riuscire a raccontare il tempo che passa, ma 12 anni schiavo ci prova una sola volta – e secondo me anche fallendo. Verso la fine del secondo atto, Salomon e gli altri schiavi di Epps vengono mandati a lavorare in un’altra piantagione.

A quel punto vi è un’evidente ellissi temporale: al loro ritorno non solo Patsey ha partorito la figlia del suo padrone, ma la stessa ha già qualche anno di età. Tuttavia, questo passaggio di qualche anno non si percepisce per nulla nella pellicola, che per quel tratto sembra coprire giusto qualche mese.

Allo stesso modo, anche accettando questa ellissi, nella pellicola in generale non sembrano passati più di quattro o cinque anni.

Non avere più nulla da dire

Chiwetel Ejiofor in una scena di 12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen

Verso il terzo atto ho avuto la terrificante sensazione che il film non avesse più niente da raccontare.

Ormai aveva raccontato sia il rapimento, il primo periodo di schiavismo, il secondo periodo. Mancava solamente il climax narrativo – che in realtà appare molto anti-climatico – per far piangere lo spettatore e infine lo scioglimento della vicenda.

E infatti tutta la parte finale l’ho trovata incredibilmente insipida, inutilmente allungata, e del tutto mancante di qualcosa di interessante da raccontare.

Un pietismo smisurato

Chiwetel Ejiofor e Lupita Nyong'o in una scena di 12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen

Il climax drammatico di 12 anni schiavo è per me anche il punto più basso e meno interessante del film.

Servirebbe teoricamente a concludere la storia di Patsey e Epps, a portarla ad un apice drammatico, con una scena strappalacrime. Io invece per tutto il tempo non ho avuto alcun moto di simpatia o di coinvolgimento per quello che succedeva in scena.

E non sono una che ha problemi a farsi commuovere, anzi.

Vedevo solamente una costruzione fatta apposta per farmi piangere, senza che i personaggi mi fossero stati adeguatamente costruiti, ma sembrandomi solamente delle figure bidimensionali in scena.

L’unica stella

Michael Fassbender in una scena di 12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen

Una grave perdita della pellicola è l’utilizzo di Michael Fassbender.

Fra tutti gli attori mi è sembrato l’unico veramente valido – e non a caso è anche l’attore feticcio del regista. Nonostante la scrittura del suo personaggio, come detto, manca di qualsiasi tipo di profondità, questo fantastico attore si è indubbiamente impegnato nel suo ruolo.

Al contrario, non sono mai rimasta colpita né dall’interpretazione di Chiwetel Ejiofor nei panni del protagonista, né, sopratutto, da Lupita Nyong’o – che ho trovato di gran lunga più convincente in Us (2019). Entrambi gli attori mi sono semplicemente sembrati assorbiti nella recitazione al limite del lacrimevole della pellicola, costruita appositamente per entrare nel cuore dell’Academy.

E, purtroppo, riuscendoci.

12 anni schiavo meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar del 2014 vengono ricordati principalmente per il cosiddetto Ellen selfie:

Una foto che venne postata su Twitter ed ebbe il record di retweet sulla piattaforma. Un semplice scatto che identificò il cambiamento ormai evidente delle star che cominciavano a postare autonomamente contenuti virali sui propri spazi social – con buona pace dei paparazzi.

Quell’anno il grande vincitore fu Gravity (2013) di Alfonso Cuarón: 10 candidature e ben 7 vittorie. Altrettante candidature ebbe American Hustle (2013) di David O. Russell, che sembrava ormai lanciato per Il lato positivo (2012) – ma che alla fine si rivelò un fuoco di paglia.

Ma alla fine la vittoria per Miglior film andò a 12 anni schiavo.

E per me in questo caso possiamo parlare di Oscar rubato.

Ancora una volta emerse il grande valore politico di questi premi, a discapito della qualità, sopratutto dal momento che nella stessa categoria erano candidati prodotti di altissima qualità come Her (2013) e The Wolf of Wall Street (2013).

Categorie
Animazione Animazione giapponese Avventura Azione Distopico Drammatico Fantascienza Film Futuristico Giallo L'essenziale oriente

Metropolis – Riscrivere un classico

Metropolis (2001) di Rintarō è un lungometraggio animato nipponico, ispirato al classico della cinematografia omonimo del 1927.

Come la maggior parte dei prodotti di questo tipo, ebbe un costo sostanzioso (¥1.5 miliardi) e un incasso misero (¥ 100 in Giappone e 4 milioni di dollari in tutto il mondo).

Di cosa parla Metropolis?

Il giovane Kenichi e lo zio Shunsaku Ban sono sulle tracce in uno scienziato criminale, che sembra coinvolto in uno strano progetto che ha come mandante il misterioso Duke Red…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Metropolis?

Una scena di Metropolis (2001) di Rintarō

Assolutamente sì.

Oltre a racchiudere al suo interno concetti di grande interesse e profondità, Metropolis riesce anche ad essere una pellicola piacevolissima, con una costruzione intrigante e una regia piena di fascino.

Si viene infatti facilmente coinvolti in dinamiche anche piuttosto semplici, ma in una costruzione della storia e della mitologia davvero avvincenti.

Un recupero obbligato.

Vivere di contrasti

Una scena di Metropolis (2001) di Rintarō

Metropolis è una pellicola che vive di contrasti.

Lo stile di animazione è piuttosto peculiare, e sembra molto più tipico di prodotti rivolti ad un pubblico infantile – per certi versi mi hanno ricordato i disegni del classico per ragazzi Tintin.

Tuttavia, la regia e l’animazione sono in questo senso davvero sorprendenti, riuscendo a mettere in contrasto la delicatezza dei disegni dei protagonisti con la crudezza dei temi trattati.

Non mancano infatti diverse scene di morte e violenza, anche piuttosto esplicite – fra tutte la morte di Pero, con la testa spappolata per terra. E così, più in generale, la trattazione dei robot, uccisi continuamente senza pietà e trattati alla stregua di schiavi.

Un contrasto piuttosto peculiare, che non mi aspettavo.

Una regia sorprendente

Una scena di Metropolis (2001) di Rintarō

La regia è stato l’elemento forse più sorprendente della pellicola.

Una messinscena piuttosto variegata, che gioca molto sui già detti contrasti, con un uso magistrale delle luci e della costruzione della tensione. Particolarmente avvincente sono le scene di duello, con piccoli tocchi registici che riescono a tenere per tutto il tempo col fiato sospeso.

Una regia inoltre che lascia profondamente respirare il mondo trattato, vivendo di tantissimi particolari e scene piene di vita.

Raccontare il mondo

Una scena di Metropolis (2001) di Rintarō

Quando si vuole raccontare un mondo nuovo, soprattutto se complesso e intricato, si possono percorrere diverse strade.

Metropolis sceglie una strategia simile a quella de La compagnia dell’Anello (2001): inserire piccole ma significative didascalie all’interno dei dialoghi stessi dei personaggi, che permettono allo spettatore di muoversi con facilità all’interno del mondo raccontato.

E, anche di più, costruendo molto bene la mitologia e i misteri del film, svelandoli a poco a poco allo spettatore quanto ai protagonisti stessi, che si vedono fin da subito interrogare sulle questioni principali della storia, rimanendo all’oscuro per la maggior parte della pellicola.

Il mito della Torre di Babele

Il mito della Torre di Babele è più volte citato all’interno della pellicola.

Una costruzione che si perde nella leggenda, ma che in generale – metaforicamente parlando – racconta la superbia umana nel voler sfidare i suoi limiti e gli dei in particolare.

In Metropolis questa metafora è riletta intrecciandosi col tema sempreverde della fantascienza moderna: la macchina che si rivolta – e supera – il suo creatore, in maniera anche simile a Ghost in the shell (1995).

Così il Duca Red vuole superare i limiti umani mettendo a capo della sua creazione un superumano, capace di controllare ogni arma e ogni elemento, così da poter distruggere ogni cosa, per – secondo la sua folle idea – ricreare e migliorare.

Il confronto con Metropolis (1927)

Nonostante Metropolis sia un film a sé stante, non mancano ovviamente i riferimenti all’opera originale di Fritz Lang.

Oltre alla costruzione della città simile – sempre distinta in tre livelli – in entrambe le pellicole si cita il mito di Babele, ed in entrambe un’enorme torre domina la città.

Altrettanto simile è la scena della rivolta e in generale la rappresentazione della classe più umile e dei robot trattati come schiavi: sicuramente l’ispirazione è la famosissima scena degli operai che vanno al lavoro, muovendosi quasi come automi.

In ultimo, una citazione visiva: la scena del risveglio di Tima avviene con le stesse dinamiche del risveglio della Maria-robot nel film del 1927:

Categorie
Accadde quella notte... Avventura Dramma storico Drammatico Film Notte degli Oscar Spy story

Argo – Un egocentrico vittimismo

Argo (2012) di Ben Affleck è un film che racconta un’importante operazione top secret della CIA, diventata nota a quasi vent’anni di distanza.

Un film che avevo già visto al tempo, ma forse con una visione troppo ingenua…

Una pellicola che incassò molto bene (232 milioni di dollari a fronte di un budget 44 milioni), anche grazie alle sue tre vittorie agli Oscar.

Di cosa parla Argo?

Durante la Rivoluzione Islamica del ’79, in Iran un gruppo di rivoluzionari assalta l’Ambasciata Statunitense e prende come ostaggi più di 60 persone. Solo 6 riescono a fuggire, ma uscire dal paese non è così semplice…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Argo?

Ben Affleck e Alan Arkin in una scena di  Argo (2012) di Ben Affleck

In generale, sì.

Da un punto di vista strettamente qualitativo, è un prodotto veramente valido, che riesce con poche mosse indovinate a tenerti sulle spine, soprattutto sul finale. Tuttavia, vedendolo dopo tanti anni, mi rendo conto di quanto possa risultare un film quasi ridicolo al di fuori del panorama statunitense, perché è davvero ubriaco di un certo tipo di mentalità.

E, sopratutto in tempi recenti, è decisamente meno digeribile.

La tensione equilibrata

Uno dei punti di forza della pellicola è indubbiamente la costruzione della tensione.

La tensione nella pellicola è costante, sopratutto nelle battute finali. I protagonisti sono costantemente in pericolo, la situazione potrebbe deragliare da un momento all’altro, e si gioca tutto sul filo dei secondi.

La pellicola riesce a mantenere un giusto equilibrio in questo senso, senza mai scadere nel cattivo gusto del ciclo Alta tensione di Italia 1, riuscendo al contempo a catturare costantemente l’attenzione dello spettatore.

Il protagonista indovinato

Ben Affleck in una scena di  Argo (2012) di Ben Affleck

Un altro meccanismo della trama piuttosto indovinato è la caratterizzazione del protagonista.

Il film gioca con lo spettatore, che in prima battuta si fida dei personaggi in scena, facenti parte di uno degli organi di governo più importanti al mondo. Ma, in un attimo, il protagonista li smentisce, facendo capire di essere diametralmente più abile e intelligente.

E da quel momento lo spettatore ha piena fiducia in lui.

Stemperare

John Goodman e Alan Arkin in una scena di  Argo (2012) di Ben Affleck

La piccola parte centrale dedicata alla costruzione del falso film mi ha sorpresa.

Permette allo spettatore prendersi una breve pausa dalla grande tensione rappresentata dalla vicenda in toto, con risvolti piuttosto divertenti, grazie sopratutto all’irresistibile coppia Alan Armani e John Goodman.

E infatti questi due personaggi escono fondamentalmente di scena nel terzo atto, riapparendo solamente nelle battute finali per chiudere la vicenda.

L’egocentrismo

Il problema principale della pellicola – di cui sinceramente mi ero dimenticata – è quanto sia fortemente filo-statunitense e, di fatto, rappresentante il grottesco egocentrismo del paese di provenienza.

Anzitutto, anche se si dedica ampio spazio al racconto della situazione storica dell’Iran, mai all’interno della pellicola i personaggi si interrogano sulle colpe degli Stati Uniti per la situazione politica iraniana – e, per estensione, per quella che stanno vivendo.

Il focus è tutto sul costante senso di pericolo dei personaggi, che sono le vittime assolute della situazione stessa.

E qui si trova il difetto più importante.

Auspicabile

Vedendo la pellicola e ad una visione più ingenua, potrebbe risultare quasi realistica la caratterizzazione dei personaggi iraniani.

In realtà la stessa, per quanto indubbiamente funzionale alla trama, è del tutto negativa e polarizzata, e nel senso peggiore possibile. I nemici sono per la quasi totalità minacciosi, rumorosi, violenti.

Sembrano odiare i personaggi – e gli statunitensi in genere – quasi senza un motivo. Senza che mai si racconti effettivamente le radici di questa avversione e i dolori che questo popolo dovette soffrire anche per colpa degli Stati Uniti, senza mai problematizzare la situazione raccontata.

E, guardando The Hurt Locker (2008), è abbastanza evidente come la rappresentazione potesse essere più auspicabilmente onesta…

Argo meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar del 2013 furono piuttosto interessanti per diversi motivi.

Fu la prima volta che gli Oscar vennero chiamati effettivamente The Oscars, e non The Academy Awards, per venire incontro alla denominazione divenuta ormai comune.

Il film che vinse Miglior film, per la prima volta dopo 30 anni, non venne candidato anche per la regia.

Ma gli Oscar 2013 vennero ricordati sopratutto per il capitombolo di Jennifer Lawrence, che quell’anno vinse l’Oscar per Miglior Attrice non protagonista per Il lato positivo (2012):

I film che ottennero le maggiori candidature furono Lincoln (2012) di Spielberg (12 candidature) e Vita di Pi (2012) di Ang Lee (11 candidature). Ma nessuno dei due vinse come Miglior film: la vittoria andò appunto a Argo.

Si meritava di vincere?

La risposta è un po’ diversa dal solito: Argo non si meritava forse di vincere, ma era l’unica pellicola che avrebbe potuto farlo, per i motivi di cui sopra. Forse uno dei momenti nella storia dell’Academy in cui emerse maggiormente lo stampo politico e profondamente statunitense della cerimonia…

Categorie
Animazione Animazione giapponese Avventura Drammatico Fantascienza Film Giallo L'essenziale oriente Surreale Thriller Uncategorized

Paprika – Il potere dell’incubo

Paprika (2006) di Satoshi Kon è l’ultimo lungometraggio animato diretto da questo visionario regista, autore di splendidi prodotti dal sapore onirico come l’indimenticabile Perfect blue (1997).

A fronte di un budget molto esiguo (300 milioni di yen, circa 2,6 milioni di dollari), incassò meno di un milione in tutto il mondo.

Niente di sorprendente, visto il tipo di prodotto.

Di cosa parla Paprika?

In un futuro non troppo lontano, il DC Mini, dispositivo che permette di vedere i propri sogni, viene rubato. E il mistero è piuttosto fitto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Paprika?

Assolutamente sì.

Se avete visto l’opera prima di Satoshi Kon – Perfect blue – avete un’idea del tipo di film che vi troverete davanti. In questo caso il regista gioca a carte scoperte, introducendoci in una storia che fin dalle prime battute gioca profondamente con l’elemento onirico.

Un prodotto che lavora per sottrazione, in cui è facile perdersi.

Ma che vale assolutamente la pena di scoprire.

Il doppio

Una delle maggiori tematiche di Paprika è il doppio.

La maggior parte dei personaggi in scena vivono di doppi: Paprika e Chiba, Tokita e Himuro, Konakawa e il misterioso amico del suo passato. E in qualche modo ogni personaggio si definisce tramite la sua controparte.

Anzitutto Tokita, un bambinone geniale che si sente fondamentalmente incompreso, ma che ricerca la sua controparte in Himuro, a cui assomiglia anche fisicamente. Con il suo perduto amico vorrebbe ritrovare una connessione che sembra ormai recisa, ma che lui sente ancora molto vicina.

In questo senso interessante il parallelismo fra il caos della casa di Himuro e lo stesso nella casa di Tokita: anche se con giocattoli diversi, il comportamento infantile è sempre lo stesso.

Discorso più complesso quello riguardo al Detective Konakawa.

L’uomo sembra costantemente vittima di sé stesso – come ben testimonia il sogno ricorrente in cui viene aggredito da personaggi con la sua faccia – e in qualche modo sente di aver ucciso un suo alter ego, una parte di sé, ovvero il suo vecchio amico venuto a mancare.

In realtà, prendendo consapevolezza della sua mancanza, Konakawa riesce a riabbracciare quella parte di sé e del suo passato che aveva insistentemente seppellito.

Paprika e Chiba

Ma lo sdoppiamento più profondo è quello fra Paprika e Chiba.

Paprika è una ragazza frizzante e piacevole, che si veste di colori brillanti; al contrario Chiba è una donna molto più austera e riflessiva, caratterizzata da colori più scuri e spenti. Le due sono in qualche modo una la parte dell’altra, anche se si presentano come sostanzialmente indipendenti.

E infatti molto spesso Chiba si scontra con il suo alter ego, cercando di sottometterlo, ma riuscendo a raggiungere la sua forma completa solamente quando davvero lo assorbe, lo accetta dentro di sé, diventando un essere capace di sconfiggere Tokita.

E proprio quella scena offre un ulteriore spunto.

La pluralità dell’uomo

Oltre al doppio, in Paprika si racconta la pluralità dell’individuo.

Abbastanza rivelatorio in questo senso il momento in cui Paprika entra nel famoso quadro rappresentante la sfida di Edipo, e prende le vesti della Sfinge. La Sfinge è già di per sé un essere che racchiude una pluralità – donna, leone e uccello – che ben si riassume nel famoso indovinello:

Chi è contemporaneamente bipede, tripede e quadrupede?

Ovvero l’uomo, all’interno delle diverse fasi della sua vita.

E infatti troviamo diversi riferimenti a questa pluralità all’interno del film, a cominciare proprio da Tokita, più volte definito un genio nel corpo di un bambino, ma in particolare nella scena sopracitata in cui Chiba accetta Paprika dentro di sé e diventa un neonato, poi una ragazza, fino a diventare una donna.

L’inviolabilità del sogno

Le motivazioni di Tokita sono meno banali di quanto potrebbero apparire.

Se apparentemente potrebbe sembrare che abbia un sogno di potenza tipico del più classico villain, in realtà a guidarlo effettivamente sono i suoi più profondi principi, che riguardano l’inviolabilità del mondo del sogno.

Come ben spiega fin dalla sua prima apparizione, il Presidente è profondamente contrario a questa volontà di onnipotenza dell’uomo, che cerca di controllare qualcosa che dovrebbe essere assolutamente incontrollabile, perché in qualche modo irrazionale.

E solo in seguito sogna di impossessarsi del potere dell’onirico.

La potenza dell’onirico

L’elemento onirico è esplosivo, strabordante, inarrestabile.

Ed è ben rappresentato dalla parata in continua espansione, in cui ogni personaggio prima o poi viene coinvolto. Una parata che non ha delle regole, che sembra avere una vita propria e che raccoglie ogni tipo di elemento fantastico, anche il più surreale e inimmaginabile.

E questo potere fa davvero gola a Tokita, che riesce progressivamente a superare la sua disabilità in vari modi – trasformando le sue gambe in radici, prendendo il possesso del corpo di Osanai e infine esplodendo nel suo massimo potenziale all’interno del sogno finale.

Chi è Paprika?

Se volessimo semplificare molto, potremmo dire che Paprika è semplicemente l’alter ego onirico di Chiba.

Ma Paprika è molto più di questo.

Come vediamo fin dall’inizio, è una figura che non vive assolutamente in funzione di Chiba – anche se forse è Chiba stessa che l’ha creata. Anzi, è un personaggio del tutto autonomo, che riesce a muoversi all’interno delle varie realtà – non solamente quelle oniriche – e in qualche modo essere sempre presente.

Possiamo semplicemente dire che è un elemento virtuale?

Non proprio.

Paprika è quasi come se fosse un’entità, che vive all’interno del sogno e si muove liberamente all’interno dello stesso, potendo trasformarsi a suo piacimento. Un elemento oltre la realtà più materiale, un fantasma inafferrabile e indefinibile.

Cosa rappresenta la bambola?

L’elemento più enigmatico del film è l’inquietante bambolina che si vede per la prima volta a casa di Himuro, che ha sul comodino anche una foto che la rappresenta.

Un personaggio che non parla mai, se non scoppiando nella risata zuccherina sul finale, quando diventa gigantesca. A livello materiale, probabilmente non è né più né meno che una bambola, che Himuro e Tokita avevano visto all’interno del parco di divertimenti abbandonato.

A livello simbolico, può essere facilmente letta come la rappresentazione del sogno stesso, il sogno delirante che trasforma degli elementi della realtà, magari anche appartenenti alla sfera infantile, in qualcosa di assurdo e mostruoso.