Categorie
Akira Animazione Animazione giapponese Avventura Azione Cult rivisti oggi Distopico Drammatico Fantascienza Film Futuristico Recult

Akira – Tutto nacque, tutto morì

Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo è uno dei più grandi cult – forse il più grande – del cinema animato nipponico. Un’opera complessa, che affronta tematiche anche abbastanza tipiche della fantascienza moderna, ma con una profondità di riflessione inarrivabile.

Con un budget abbastanza contenuto (700 milioni di yen, circa 5 milioni di dollari), incassò molto bene: 1.5 miliardi di yen, circa 50 milioni di dollari.

Di cosa parla Akira?

In un futuro ucronico, in cui la terza guerra mondiale ha distrutto Tokyo, la Neo Tokyo è nel totale degrado, dominata da bande di criminali motociclisti. Uno di questi, Tetsuo, si scontra con uno strano bambino…

Vi lascio lo splendido trailer per il 30° anniversario per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Akira?

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Assolutamente sì.

Akira è un film davvero imperdibile, e non solo per la splendida scrittura e animazione, ma soprattutto per la profonda riflessione che costruisce, che può lasciare interdetti ad una prima visione, ma che acquisisce un chiaro significato dopo un’attenta riflessione (e revisione).

Uno dei quei prodotti che non possono mancare nel proprio bagaglio cinematografico, anche se non si è mai messo piede nel cinema orientale.

Tutto nacque da una bomba

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Il punto di partenza di Akira è la bomba atomica.

Infatti la primissima scena del film mostra lo scoppio di una bomba che distrusse, nell’ucronia del film, la città di Tokyo – con un parallelismo molto netto fra i drammatici eventi di Hiroshima. E così anche il punto di arrivo – o di partenza – della Terza Guerra Mondiale.

Un racconto che sembra molto lontano da noi ma che, al tempo dell’uscita della pellicola – e soprattutto del manga originale – non lo era per niente. Negli Anni Ottanta infatti la Guerra Fredda e la conseguente paura dell’Atomica – che si era visto esistere e poter essere utilizzata – era ancora molto reale.

Kuwata in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Quindi sarebbe stato tanto improbabile immaginare un mondo in cui la bomba atomica era derivata da sperimentazioni umane – già emerse dalla drammatica pagina della storia nipponica dell’Unità 731 – e che questa avrebbe portato ad un terzo conflitto mondiale?

Di fatto, Akira non era un’ucronia, ma una realtà possibile.

Volevo rievocare un Giappone come quello in cui ero cresciuto, dopo la seconda guerra mondiale, con un governo in difficoltà, un mondo in ricostruzione, pressioni politiche esterne, un futuro incerto e una banda di ragazzini abbandonati a sé stessi, che combattono la noia correndo con le moto.

Katsuhiro Ōtomo

Il superuomo

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

E se la bomba atomica fosse l’uomo stesso?

L’atomica – nella realtà, quanto nella finzione fantascientifica – è un esempio chiarissimo di quanto la creatività umana e la sua hybris possa essere totalmente distruttiva. Per questo Akira riprende il tema classico della creazione che sfugge dal controllo del suo creatore, ma la amplia in una direzione del tutto nuova.

In questo caso, l’uomo che, tramite l’uso immorale della scienza, non riesce a controllare sé stesso.

Ed è tanto più problematico quando un potere del genere viene dato – o risvegliato, per meglio dire – ad una persona divorata dal risentimento e dal senso di inferiorità. Quasi fino all’ultimo Tetsuo si atteggia come una persona potente, inarrestabile e al di sopra di tutti gli altri – come ben testimonia il suo sedersi sul trono dello Stadio e mettersi un mantello per darsi un’aura regale.

Cos’è Akira?

Akira in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

La figura di Akira può essere letta su più livelli.

Nel contesto più materiale della pellicola, era solamente l’esperimento effettivamente riuscito della creazione di un superuomo, che poi si era rivoltato contro lo stesso creatore, distruggendo un’intera città – che sia volontariamente o involontariamente, non è dato saperlo.

A livello più astratto, Akira è un’energia vitale e primordiale dell’uomo, che lo eleva dal suo stato bestiale e lo rende capace dell’inimmaginabile. Anche se l’uomo non è riuscito fisicamente – per ora – a modificare sé stesso, è stato in grado di modellare il mondo a sua immagine e funzione, costruendo tutto quello di cui aveva bisogno.

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Il passo successivo era proprio quello di rendersi pari ad un dio, capace di avere poteri sovrannaturali, ma che in qualche modo erano sempre presenti nel suo potenziale.

Ma la bellezza di Akira sta anche nel non banalizzarsi su questo concetto, ma ampliarlo mettendo in scena una distruzione che è al contempo una creazione stessa. Un dualismo che si vede bene nella scena finale, quando lo scienziato dice:

È come se stessimo assistendo alla nascita dell’Universo.

Cosa succede nel finale di Akira?

Kiyoko in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Il finale di Akira si apre a diverse interpretazioni.

Quando i tre bambini si trovano in presenza di Akira si inginocchiano come alla presenza di un dio, e decidono di salvare Tetsuo dalla morte certa, mentre il suo corpo non gli risponde più e lo sta fondamentalmente distruggendo.

Tuttavia, allo stesso modo sono consapevoli che, seguendo Akira, non potranno più tornare indietro.

Secondo la mia personale interpretazione, nel finale tutti perdono la loro forma materiale e umana, riducendosi ad un forma atomica e in qualche modo rinascendo con Akira, in un modo (per il momento) incomprensibile all’essere umano.

Come Akira cambiò il mondo

A cura di Carmelo

Prima di Akira, gran parte degli occidentali credeva che l’animazione giapponese consistesse in cartoni animati televisivi come Speed racer (1967-68), roba per bambini tecnicamente frettolosa e malamente doppiata.

Ma il regista Katsuhiro Ōtomo (autore in precedenza del monumentale manga omonimo) diede invece a questa epica dispotica un intreccio complesso, violenza grafica, immagini allucinate, umorismo nero.

Così una colonna sonora ipnotica e ricca di percussioni, un’attenzione artigianale al dettaglio, è un dialogo perfettamente sincronizzato ricco di assorte meditazioni sull’ evoluzione, l’illuminazione e la distruzione di massa. 

Kuwata in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Quando esplose Akira, la civiltà si era sgretolata, ma quando esplose akira (anch’esso il 16 luglio 1988, data della prima cinematografica) la sua onda d’urto aprì la strada ad anime di altissimo livello come La città incantata (2001) e Ghost in the shell (1995) e fissò tutt’un tratto un nuovo importante standard nell’arte dell’animazione.

E già solo l’impegno produttivo è testimone di questa rivoluzione: il primo caso di collaborazione tra più studi di animazione di queste proporzioni, con 1.300 animatori provenienti da 50 studi diversi al lavoro su un unico progetto. Inoltre, si utilizzarono una serie di tecniche piuttosto innovative all’epoca per l’uso della CGI e del doppiaggio.

Insomma, con l’uscita di questo film inizia l’ascesa dell’animazione giapponese.

Le citazioni di Akira

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Le citazioni e omaggi ad Akira nei prodotti successivi si sprecano.

Uno dei più interessanti è l’evidente omaggio della serie cult Stranger things: oltre ai vari riferimenti visivi, la storia di Eleven e come messa in scena nelle sue dinamiche – soprattutto nella quarta stagione – ricorda tantissimo quella di Akira per quanto riguarda la parte degli esperimenti sui bambini e lo scopo degli stessi.

Anche i poteri di Tetsuo inizialmente sono molto simili.

Un altro riferimento degno di nota – e che racconta molto bene l’importanza di Akira nel panorama occidentale – si trova nella puntata L’astuccio del cacciatore (4×12) di South Park: la citazione all’anime cult viene affiancata a riferimenti ad altre pellicole importantissime per il genere, 2001: Odissea nello spazio (1968) e Terminator (1984).

Ma è in primo luogo Akira a citare un cult della fantascienza: la Neo Tokyo del film non è altro che una versione nipponica della Los Angeles di Blade Runner (1982), di cui ricorda le atmosfere…

Come Akira cambiò il mondo

A cura di Carmelo

Prima di Akira, gran parte degli occidentali credeva che l’animazione giapponese consistesse in cartoni animati televisivi come Speed racer (1967-68), roba per bambini tecnicamente frettolosa e malamente doppiata.

Ma il regista Katsuhiro Ōtomo (autore in precedenza del monumentale manga omonimo) diede invece a questa epica dispotica un intreccio complesso, violenza grafica, immagini allucinate, umorismo nero.

Così una colonna sonora ipnotica e ricca di percussioni, un’attenzione artigianale al dettaglio, è un dialogo perfettamente sincronizzato ricco di assorte meditazioni sull’ evoluzione, l’illuminazione e la distruzione di massa. 

Kuwata in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Quando esplose Akira, la civiltà si era sgretolata, ma quando esplose akira (anch’esso il 16 luglio 1988, data della prima cinematografica) la sua onda d’urto aprì la strada ad anime di altissimo livello come La città incantata (2001) e Ghost in the shell (1995) e fissò tutt’un tratto un nuovo importante standard nell’arte dell’animazione.

E già solo l’impegno produttivo è testimone di questa rivoluzione: il primo caso di collaborazione tra più studi di animazione di queste proporzioni, con 1.300 animatori provenienti da 50 studi diversi al lavoro su un unico progetto. Inoltre, si utilizzarono una serie di tecniche piuttosto innovative all’epoca per l’uso della CGI e del doppiaggio.

Insomma, con l’uscita di questo film inizia l’ascesa dell’animazione giapponese.

Le citazioni di Akira

Tetsuo in una scena di Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo

Le citazioni e omaggi ad Akira nei prodotti successivi si sprecano.

Uno dei più interessanti è l’evidente omaggio della serie cult Stranger things: oltre ai vari riferimenti visivi, la storia di Eleven e come messa in scena nelle sue dinamiche – soprattutto nella quarta stagione – ricorda tantissimo quella di Akira per quanto riguarda la parte degli esperimenti sui bambini e lo scopo degli stessi.

Anche i poteri di Tetsuo inizialmente sono molto simili.

Un altro riferimento degno di nota – e che racconta molto bene l’importanza di Akira nel panorama occidentale – si trova nella puntata L’astuccio del cacciatore (4×12) di South Park: la citazione all’anime cult viene affiancata a riferimenti ad altre pellicole importantissime per il genere, 2001: Odissea nello spazio (1968) e Terminator (1984).

Ma è in primo luogo Akira a citare un cult della fantascienza: la Neo Tokyo del film non è altro che una versione nipponica della Los Angeles di Blade runner (1982), di cui ricorda le atmosfere…

Categorie
2022 Avventura Commedia nera Dramma storico Drammatico Film Humor Nero Martin McDonagh Nuove Uscite Film Oscar 2023 Surreale

Gli spiriti dell’isola – La piccola guerra

Gli spiriti dell’isola (2022) di Martin McDonagh – traduzione piuttosto maldestra del titolo originale The Banshees of Inisherin – è uno dei più importanti film candidati agli Oscar 2023, oltre ad essere una delle maggiori sorprese di quest’anno.

A fronte di un budget piuttosto risicato – appena 20 milioni di dollari – ha prevedibilmente incassato davvero poco: appena 33 milioni di dollari in tutto il mondo (finora).

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Gli spiriti dell’isola (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior regista
Miglior attore protagonista a Colin Farrell
Miglior attore non protagonista a Brendan Gleeson
Miglior attore non protagonista a Barry Keoghan
Miglior attrice non protagonista a Kerry Condon
Migliore colonna sonora
Miglior sceneggiatura originale
Miglior montaggio

Di cosa parla Gli spiriti dell’isola?

1923, Irlanda. L’amicizia fra Pádraic e Colm si interrompe improvvisamente, per volontà del secondo, che si rifiuta addirittura di parlargli. E la sua ottusità raggiunge livelli inaspettati…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gli spiriti dell’isola?

Colin Farrell in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Assolutamente sì.

Gli spiriti dell’isola è un film particolarissimo, e neanche facilmente digeribile – complice l’umorismo veramente nerissimo e la profonda angoscia che lascia a visione conclusa. Una di quelle pellicole incredibili in cui, da un momento all’altro, riesci a passare da una risata fragorosa ad un totale ammutolimento.

Ma, proprio per questo, un film assolutamente da recuperare.

Il titolo originale è The Banshees of Inisherin.

Inisherin è semplicemente il luogo dove è ambientata la vicenda, mentre per le banshee bisogna fare un discorso a parte.

Il film dà abbastanza per scontata la conoscenza di tale figura mitologica, ma in realtà è meno diffusa di quanto si potrebbe pensare. Per esempio, io non conoscevo la mitologia specifica, ma le reinterpretazioni della serie tv Teen wolf e del videogame The Witcher 3.

La banshee è una creatura leggendaria dei miti irlandesi e scozzesi, la quale, a seconda delle tradizioni, ha un’accezione positiva o negativa. In generale, si tratta di una figura mitologica legata alla morte.

È infatti invisibile agli occhi degli esseri umani, se non quando questi sono prossimi al decesso, mostrandosi avvolta in un pesante velo, piangendo o addirittura gridando davanti all’inevitabile trapasso.

Sotto la superficie

Colin Farrell e Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Apparentemente Gli spiriti dell’isola racconta la storia di un’amicizia finita, che prende delle vie sempre più surreali e grottesche per via dell’ottusità di Colm.

In realtà, la pellicola racconta molto di più.

L’indizio visivo principale viene mostrato quando, all’inizio del film, Pádraic vede una colonna di fumo che rappresenta i lontani disordini della Guerra Civile. E la stessa colonna di fumo la vede quando dà fuoco alla casa del suo amico.

E proprio in questo parallelismo si racchiude il vero significato del film.

Colin Farrell e Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Proprio parallelamente alla storia principale della pellicola, si svolgono gli avvenimenti della Guerra Civile Irlandese. La stessa scoppiò a seguito della Guerra d’Indipendenza Irlandese, che portò ad un trattato di pace con l’Impero Britannico.

Un trattato che, però, non venne accettato da tutti.

E, nonostante diversi tentativi di rappacificamento delle parti, scoppiò una guerra drammaticamente sanguinosa, dove si trovano a combattere l’uno contro l’altro amici e persino fratelli, tutto per l’ottusità, da entrambe le parti, di non voler arrivare ad un compromesso.

Il picco avvenne negli ultimi momenti del conflitto, quando ci furono il maggior numero di vittime e diversi incendi alle case dei nemici.

Vi suona familiare?

Gli spiriti dell’isola è sostanzialmente una Guerra Civile Irlandese in piccolo.

L’ottusità e le cinque dita

Colin Farrell e Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Il perpetuarsi del conflitto è quasi del tutto dettato dall’ottusità di Colm, che si rifiuta insistentemente di riallacciare i rapporti con il suo amico.

E proprio la sua ottusità viene ben rappresentata dalla minaccia – e realizzazione – dell’amputazione delle dita, che si presta a diverse interpretazioni. Andando infatti ad indagare le intenzioni del regista, la stessa può essere ricollegata ad una paura atavica dell’artista: perdere lo strumento della sua arte.

Tuttavia Colm concretizza questa realtà volontariamente, quasi a volersi togliere ogni possibilità di diventare veramente l’artista che sogna di essere, ricordato nei secoli, in una sorta di perversa spirale autodistruttiva.

Ma, più semplicemente, può essere letta come rappresentazione di quanto Colm creda nella distruzione del rapporto con Pádraic.

Umani

Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

La forza de Gli spiriti dell’isola è di riuscire a raccontare, pur nella sua follia, una vicenda profondamente umana.

Colm e Pádraic hanno due caratteri totalmente opposti, ed è anche in qualche misura comprensibile che il più vecchio dei due non abbia voglia di perdere altro tempo con il più giovane e la sua insopportabile stupidità. Andandosi, fra l’altro, del tutto ad isolare in un contesto già molto isolato.

E le dinamiche con cui i due personaggi si relazionano appaiono vere e profonde, anche quando virano sul lato più surreale e grottesco.

La scena che mi ha più colpito è quella in cui Pádraic viene colpito dal poliziotto, e Colm lo raccoglie da terra e conduce il suo carro fino a casa. In quel momento di apparente calma e riconciliazione, Pádraic scoppia in un pianto sommesso ma profondamente sofferto, un pianto nostalgico per qualcosa di apparentemente irrisolvibile.

La morte

Barry Keoghan in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Gli spiriti dell’isola parla non solo di amicizia e conflitto, ma anche e soprattutto di morte.

E il titolo ne è indizio fondamentale.

La banshee più facilmente identificabile è ovviamente Mrs. McCormick, che appare proprio come la vecchia megera, l’uccellaccio che prevede – e augura – la morte. In realtà, come abbiamo visto, queste figure mitologiche non sono altro che osservatrici e cassandre, quindi si limitano ad annunciare la morte imminente.

E il titolo non indica una sola banshee, ma diverse banshee.

Colin Farrell e Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

In questo caso si aprono più interpretazioni: si potrebbe considerare come banshee tutti i membri della comunità dell’isola, che vedono chiaramente lo scoppio del conflitto con le sue nefaste conseguenze.

Oppure, più sottilmente, si potrebbero considerare banshee gli animali stessi, che sono parte dominante della scena in diverse occasioni, testimoni silenziosi del dramma in atto.

Da notare anche l’interessante foreshadowing sul destino nefasto di Dominic: fin dall’inizio il ragazzo tiene in mano uno strumento di morte, il bastone che serve per raccogliere i cadaveri caduti in acqua, dove infatti morirà.

E lo stesso bastone, dopo la sua morte, sarà in mano a Mrs. McCormick…

Categorie
Accadde quella notte... Avventura Dramma storico Drammatico Film Notte degli Oscar

12 anni schiavo – Un insopportabile pietismo

12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen è un dramma storico che fu confezionato appositamente per colpire il cuore dell’Academy, portandosi infatti a casa tre statuette – fra cui il Miglior film – e nove nomination.

Una discreta delusione per un regista che si era dimostrato molto capace…

Come la maggior parte dei film di questo regista, costò pochissimo – appena 22 milioni di dollari -ma, proprio per la sua rilevanza a livello internazionale, incassò benissimo: 187 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla 12 anni schiavo?

New York, 1841. Salomon è un uomo nero libero, che lavora come violinista e vive felicemente con la sua famiglia. Una serie di coincidenze sfortunate lo porteranno ad essere rapito e ridotto in schiavitù per più di un decennio.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere 12 anni schiavo?

Chiwetel Ejiofor in una scena di 12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen

È molto difficile rispondere oggettivamente per un prodotto che non ti è piaciuto.

Personalmente, non è un film che consiglierei.

Nonostante riesca tutto sommato a raccontare il complesso dell’esperienza dello schiavismo in maniera piuttosto completa, non è particolarmente interessante come dramma storico né presenta qualche riflessione sul tema di qualche rilevanza.

Insomma, se riuscite a farvi commuovere e coinvolgere da una storia molto lacrimevole e fatta apposta per far piangere lo spettatore, che tratta in maniera abbastanza superficiale il tema dello schiavismo, guardatelo.

Ma non fatevi grande aspettative.

12 anni?

Chiwetel Ejiofor in una scena di 12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen

Uno dei più grandi problemi della pellicola è la sua incapacità di far sentire il passare del tempo.

Ci sono molti modi per riuscire a raccontare il tempo che passa, ma 12 anni schiavo ci prova una sola volta – e secondo me anche fallendo. Verso la fine del secondo atto, Salomon e gli altri schiavi di Epps vengono mandati a lavorare in un’altra piantagione.

A quel punto vi è un’evidente ellissi temporale: al loro ritorno non solo Patsey ha partorito la figlia del suo padrone, ma la stessa ha già qualche anno di età. Tuttavia, questo passaggio di qualche anno non si percepisce per nulla nella pellicola, che per quel tratto sembra coprire giusto qualche mese.

Allo stesso modo, anche accettando questa ellissi, nella pellicola in generale non sembrano passati più di quattro o cinque anni.

Non avere più nulla da dire

Chiwetel Ejiofor in una scena di 12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen

Verso il terzo atto ho avuto la terrificante sensazione che il film non avesse più niente da raccontare.

Ormai aveva raccontato sia il rapimento, il primo periodo di schiavismo, il secondo periodo. Mancava solamente il climax narrativo – che in realtà appare molto anti-climatico – per far piangere lo spettatore e infine lo scioglimento della vicenda.

E infatti tutta la parte finale l’ho trovata incredibilmente insipida, inutilmente allungata, e del tutto mancante di qualcosa di interessante da raccontare.

Un pietismo smisurato

Chiwetel Ejiofor e Lupita Nyong'o in una scena di 12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen

Il climax drammatico di 12 anni schiavo è per me anche il punto più basso e meno interessante del film.

Servirebbe teoricamente a concludere la storia di Patsey e Epps, a portarla ad un apice drammatico, con una scena strappalacrime. Io invece per tutto il tempo non ho avuto alcun moto di simpatia o di coinvolgimento per quello che succedeva in scena.

E non sono una che ha problemi a farsi commuovere, anzi.

Vedevo solamente una costruzione fatta apposta per farmi piangere, senza che i personaggi mi fossero stati adeguatamente costruiti, ma sembrandomi solamente delle figure bidimensionali in scena.

L’unica stella

Michael Fassbender in una scena di 12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen

Una grave perdita della pellicola è l’utilizzo di Michael Fassbender.

Fra tutti gli attori mi è sembrato l’unico veramente valido – e non a caso è anche l’attore feticcio del regista. Nonostante la scrittura del suo personaggio, come detto, manca di qualsiasi tipo di profondità, questo fantastico attore si è indubbiamente impegnato nel suo ruolo.

Al contrario, non sono mai rimasta colpita né dall’interpretazione di Chiwetel Ejiofor nei panni del protagonista, né, sopratutto, da Lupita Nyong’o – che ho trovato di gran lunga più convincente in Us (2019). Entrambi gli attori mi sono semplicemente sembrati assorbiti nella recitazione al limite del lacrimevole della pellicola, costruita appositamente per entrare nel cuore dell’Academy.

E, purtroppo, riuscendoci.

12 anni schiavo meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar del 2014 vengono ricordati principalmente per il cosiddetto Ellen selfie:

Una foto che venne postata su Twitter ed ebbe il record di retweet sulla piattaforma. Un semplice scatto che identificò il cambiamento ormai evidente delle star che cominciavano a postare autonomamente contenuti virali sui propri spazi social – con buona pace dei paparazzi.

Quell’anno il grande vincitore fu Gravity (2013) di Alfonso Cuarón: 10 candidature e ben 7 vittorie. Altrettante candidature ebbe American Hustle (2013) di David O. Russell, che sembrava ormai lanciato per Il lato positivo (2012) – ma che alla fine si rivelò un fuoco di paglia.

Ma alla fine la vittoria per Miglior film andò a 12 anni schiavo.

E per me in questo caso possiamo parlare di Oscar rubato.

Ancora una volta emerse il grande valore politico di questi premi, a discapito della qualità, sopratutto dal momento che nella stessa categoria erano candidati prodotti di altissima qualità come Her (2013) e The Wolf of Wall Street (2013).

Categorie
Animazione Animazione giapponese Avventura Azione Distopico Drammatico Fantascienza Film Futuristico Giallo L'essenziale oriente

Metropolis – Riscrivere un classico

Metropolis (2001) di Rintarō è un lungometraggio animato nipponico, ispirato al classico della cinematografia omonimo del 1927.

Come la maggior parte dei prodotti di questo tipo, ebbe un costo sostanzioso (¥1.5 miliardi) e un incasso misero (¥ 100 in Giappone e 4 milioni di dollari in tutto il mondo).

Di cosa parla Metropolis?

Il giovane Kenichi e lo zio Shunsaku Ban sono sulle tracce in uno scienziato criminale, che sembra coinvolto in uno strano progetto che ha come mandante il misterioso Duke Red…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Metropolis?

Una scena di Metropolis (2001) di Rintarō

Assolutamente sì.

Oltre a racchiudere al suo interno concetti di grande interesse e profondità, Metropolis riesce anche ad essere una pellicola piacevolissima, con una costruzione intrigante e una regia piena di fascino.

Si viene infatti facilmente coinvolti in dinamiche anche piuttosto semplici, ma in una costruzione della storia e della mitologia davvero avvincenti.

Un recupero obbligato.

Vivere di contrasti

Una scena di Metropolis (2001) di Rintarō

Metropolis è una pellicola che vive di contrasti.

Lo stile di animazione è piuttosto peculiare, e sembra molto più tipico di prodotti rivolti ad un pubblico infantile – per certi versi mi hanno ricordato i disegni del classico per ragazzi Tintin.

Tuttavia, la regia e l’animazione sono in questo senso davvero sorprendenti, riuscendo a mettere in contrasto la delicatezza dei disegni dei protagonisti con la crudezza dei temi trattati.

Non mancano infatti diverse scene di morte e violenza, anche piuttosto esplicite – fra tutte la morte di Pero, con la testa spappolata per terra. E così, più in generale, la trattazione dei robot, uccisi continuamente senza pietà e trattati alla stregua di schiavi.

Un contrasto piuttosto peculiare, che non mi aspettavo.

Una regia sorprendente

Una scena di Metropolis (2001) di Rintarō

La regia è stato l’elemento forse più sorprendente della pellicola.

Una messinscena piuttosto variegata, che gioca molto sui già detti contrasti, con un uso magistrale delle luci e della costruzione della tensione. Particolarmente avvincente sono le scene di duello, con piccoli tocchi registici che riescono a tenere per tutto il tempo col fiato sospeso.

Una regia inoltre che lascia profondamente respirare il mondo trattato, vivendo di tantissimi particolari e scene piene di vita.

Raccontare il mondo

Una scena di Metropolis (2001) di Rintarō

Quando si vuole raccontare un mondo nuovo, soprattutto se complesso e intricato, si possono percorrere diverse strade.

Metropolis sceglie una strategia simile a quella de La compagnia dell’Anello (2001): inserire piccole ma significative didascalie all’interno dei dialoghi stessi dei personaggi, che permettono allo spettatore di muoversi con facilità all’interno del mondo raccontato.

E, anche di più, costruendo molto bene la mitologia e i misteri del film, svelandoli a poco a poco allo spettatore quanto ai protagonisti stessi, che si vedono fin da subito interrogare sulle questioni principali della storia, rimanendo all’oscuro per la maggior parte della pellicola.

Il mito della Torre di Babele

Il mito della Torre di Babele è più volte citato all’interno della pellicola.

Una costruzione che si perde nella leggenda, ma che in generale – metaforicamente parlando – racconta la superbia umana nel voler sfidare i suoi limiti e gli dei in particolare.

In Metropolis questa metafora è riletta intrecciandosi col tema sempreverde della fantascienza moderna: la macchina che si rivolta – e supera – il suo creatore, in maniera anche simile a Ghost in the shell (1995).

Così il Duca Red vuole superare i limiti umani mettendo a capo della sua creazione un superumano, capace di controllare ogni arma e ogni elemento, così da poter distruggere ogni cosa, per – secondo la sua folle idea – ricreare e migliorare.

Il confronto con Metropolis (1927)

Nonostante Metropolis sia un film a sé stante, non mancano ovviamente i riferimenti all’opera originale di Fritz Lang.

Oltre alla costruzione della città simile – sempre distinta in tre livelli – in entrambe le pellicole si cita il mito di Babele, ed in entrambe un’enorme torre domina la città.

Altrettanto simile è la scena della rivolta e in generale la rappresentazione della classe più umile e dei robot trattati come schiavi: sicuramente l’ispirazione è la famosissima scena degli operai che vanno al lavoro, muovendosi quasi come automi.

In ultimo, una citazione visiva: la scena del risveglio di Tima avviene con le stesse dinamiche del risveglio della Maria-robot nel film del 1927:

Categorie
Accadde quella notte... Avventura Dramma storico Drammatico Film Notte degli Oscar Spy story

Argo – Un egocentrico vittimismo

Argo (2012) di Ben Affleck è un film che racconta un’importante operazione top secret della CIA, diventata nota a quasi vent’anni di distanza.

Un film che avevo già visto al tempo, ma forse con una visione troppo ingenua…

Una pellicola che incassò molto bene (232 milioni di dollari a fronte di un budget 44 milioni), anche grazie alle sue tre vittorie agli Oscar.

Di cosa parla Argo?

Durante la Rivoluzione Islamica del ’79, in Iran un gruppo di rivoluzionari assalta l’Ambasciata Statunitense e prende come ostaggi più di 60 persone. Solo 6 riescono a fuggire, ma uscire dal paese non è così semplice…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Argo?

Ben Affleck e Alan Arkin in una scena di  Argo (2012) di Ben Affleck

In generale, sì.

Da un punto di vista strettamente qualitativo, è un prodotto veramente valido, che riesce con poche mosse indovinate a tenerti sulle spine, soprattutto sul finale. Tuttavia, vedendolo dopo tanti anni, mi rendo conto di quanto possa risultare un film quasi ridicolo al di fuori del panorama statunitense, perché è davvero ubriaco di un certo tipo di mentalità.

E, sopratutto in tempi recenti, è decisamente meno digeribile.

La tensione equilibrata

Uno dei punti di forza della pellicola è indubbiamente la costruzione della tensione.

La tensione nella pellicola è costante, sopratutto nelle battute finali. I protagonisti sono costantemente in pericolo, la situazione potrebbe deragliare da un momento all’altro, e si gioca tutto sul filo dei secondi.

La pellicola riesce a mantenere un giusto equilibrio in questo senso, senza mai scadere nel cattivo gusto del ciclo Alta tensione di Italia 1, riuscendo al contempo a catturare costantemente l’attenzione dello spettatore.

Il protagonista indovinato

Ben Affleck in una scena di  Argo (2012) di Ben Affleck

Un altro meccanismo della trama piuttosto indovinato è la caratterizzazione del protagonista.

Il film gioca con lo spettatore, che in prima battuta si fida dei personaggi in scena, facenti parte di uno degli organi di governo più importanti al mondo. Ma, in un attimo, il protagonista li smentisce, facendo capire di essere diametralmente più abile e intelligente.

E da quel momento lo spettatore ha piena fiducia in lui.

Stemperare

John Goodman e Alan Arkin in una scena di  Argo (2012) di Ben Affleck

La piccola parte centrale dedicata alla costruzione del falso film mi ha sorpresa.

Permette allo spettatore prendersi una breve pausa dalla grande tensione rappresentata dalla vicenda in toto, con risvolti piuttosto divertenti, grazie sopratutto all’irresistibile coppia Alan Armani e John Goodman.

E infatti questi due personaggi escono fondamentalmente di scena nel terzo atto, riapparendo solamente nelle battute finali per chiudere la vicenda.

L’egocentrismo

Il problema principale della pellicola – di cui sinceramente mi ero dimenticata – è quanto sia fortemente filo-statunitense e, di fatto, rappresentante il grottesco egocentrismo del paese di provenienza.

Anzitutto, anche se si dedica ampio spazio al racconto della situazione storica dell’Iran, mai all’interno della pellicola i personaggi si interrogano sulle colpe degli Stati Uniti per la situazione politica iraniana – e, per estensione, per quella che stanno vivendo.

Il focus è tutto sul costante senso di pericolo dei personaggi, che sono le vittime assolute della situazione stessa.

E qui si trova il difetto più importante.

Auspicabile

Vedendo la pellicola e ad una visione più ingenua, potrebbe risultare quasi realistica la caratterizzazione dei personaggi iraniani.

In realtà la stessa, per quanto indubbiamente funzionale alla trama, è del tutto negativa e polarizzata, e nel senso peggiore possibile. I nemici sono per la quasi totalità minacciosi, rumorosi, violenti.

Sembrano odiare i personaggi – e gli statunitensi in genere – quasi senza un motivo. Senza che mai si racconti effettivamente le radici di questa avversione e i dolori che questo popolo dovette soffrire anche per colpa degli Stati Uniti, senza mai problematizzare la situazione raccontata.

E, guardando The Hurt Locker (2008), è abbastanza evidente come la rappresentazione potesse essere più auspicabilmente onesta…

Argo meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar del 2013 furono piuttosto interessanti per diversi motivi.

Fu la prima volta che gli Oscar vennero chiamati effettivamente The Oscars, e non The Academy Awards, per venire incontro alla denominazione divenuta ormai comune.

Il film che vinse Miglior film, per la prima volta dopo 30 anni, non venne candidato anche per la regia.

Ma gli Oscar 2013 vennero ricordati sopratutto per il capitombolo di Jennifer Lawrence, che quell’anno vinse l’Oscar per Miglior Attrice non protagonista per Il lato positivo (2012):

I film che ottennero le maggiori candidature furono Lincoln (2012) di Spielberg (12 candidature) e Vita di Pi (2012) di Ang Lee (11 candidature). Ma nessuno dei due vinse come Miglior film: la vittoria andò appunto a Argo.

Si meritava di vincere?

La risposta è un po’ diversa dal solito: Argo non si meritava forse di vincere, ma era l’unica pellicola che avrebbe potuto farlo, per i motivi di cui sopra. Forse uno dei momenti nella storia dell’Academy in cui emerse maggiormente lo stampo politico e profondamente statunitense della cerimonia…

Categorie
Animazione Animazione giapponese Avventura Drammatico Fantascienza Film Giallo L'essenziale oriente Surreale Thriller Uncategorized

Paprika – Il potere dell’incubo

Paprika (2006) di Satoshi Kon è l’ultimo lungometraggio animato diretto da questo visionario regista, autore di splendidi prodotti dal sapore onirico come l’indimenticabile Perfect blue (1997).

A fronte di un budget molto esiguo (300 milioni di yen, circa 2,6 milioni di dollari), incassò meno di un milione in tutto il mondo.

Niente di sorprendente, visto il tipo di prodotto.

Di cosa parla Paprika?

In un futuro non troppo lontano, il DC Mini, dispositivo che permette di vedere i propri sogni, viene rubato. E il mistero è piuttosto fitto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Paprika?

Assolutamente sì.

Se avete visto l’opera prima di Satoshi Kon – Perfect blue – avete un’idea del tipo di film che vi troverete davanti. In questo caso il regista gioca a carte scoperte, introducendoci in una storia che fin dalle prime battute gioca profondamente con l’elemento onirico.

Un prodotto che lavora per sottrazione, in cui è facile perdersi.

Ma che vale assolutamente la pena di scoprire.

Il doppio

Una delle maggiori tematiche di Paprika è il doppio.

La maggior parte dei personaggi in scena vivono di doppi: Paprika e Chiba, Tokita e Himuro, Konakawa e il misterioso amico del suo passato. E in qualche modo ogni personaggio si definisce tramite la sua controparte.

Anzitutto Tokita, un bambinone geniale che si sente fondamentalmente incompreso, ma che ricerca la sua controparte in Himuro, a cui assomiglia anche fisicamente. Con il suo perduto amico vorrebbe ritrovare una connessione che sembra ormai recisa, ma che lui sente ancora molto vicina.

In questo senso interessante il parallelismo fra il caos della casa di Himuro e lo stesso nella casa di Tokita: anche se con giocattoli diversi, il comportamento infantile è sempre lo stesso.

Discorso più complesso quello riguardo al Detective Konakawa.

L’uomo sembra costantemente vittima di sé stesso – come ben testimonia il sogno ricorrente in cui viene aggredito da personaggi con la sua faccia – e in qualche modo sente di aver ucciso un suo alter ego, una parte di sé, ovvero il suo vecchio amico venuto a mancare.

In realtà, prendendo consapevolezza della sua mancanza, Konakawa riesce a riabbracciare quella parte di sé e del suo passato che aveva insistentemente seppellito.

Paprika e Chiba

Ma lo sdoppiamento più profondo è quello fra Paprika e Chiba.

Paprika è una ragazza frizzante e piacevole, che si veste di colori brillanti; al contrario Chiba è una donna molto più austera e riflessiva, caratterizzata da colori più scuri e spenti. Le due sono in qualche modo una la parte dell’altra, anche se si presentano come sostanzialmente indipendenti.

E infatti molto spesso Chiba si scontra con il suo alter ego, cercando di sottometterlo, ma riuscendo a raggiungere la sua forma completa solamente quando davvero lo assorbe, lo accetta dentro di sé, diventando un essere capace di sconfiggere Tokita.

E proprio quella scena offre un ulteriore spunto.

La pluralità dell’uomo

Oltre al doppio, in Paprika si racconta la pluralità dell’individuo.

Abbastanza rivelatorio in questo senso il momento in cui Paprika entra nel famoso quadro rappresentante la sfida di Edipo, e prende le vesti della Sfinge. La Sfinge è già di per sé un essere che racchiude una pluralità – donna, leone e uccello – che ben si riassume nel famoso indovinello:

Chi è contemporaneamente bipede, tripede e quadrupede?

Ovvero l’uomo, all’interno delle diverse fasi della sua vita.

E infatti troviamo diversi riferimenti a questa pluralità all’interno del film, a cominciare proprio da Tokita, più volte definito un genio nel corpo di un bambino, ma in particolare nella scena sopracitata in cui Chiba accetta Paprika dentro di sé e diventa un neonato, poi una ragazza, fino a diventare una donna.

L’inviolabilità del sogno

Le motivazioni di Tokita sono meno banali di quanto potrebbero apparire.

Se apparentemente potrebbe sembrare che abbia un sogno di potenza tipico del più classico villain, in realtà a guidarlo effettivamente sono i suoi più profondi principi, che riguardano l’inviolabilità del mondo del sogno.

Come ben spiega fin dalla sua prima apparizione, il Presidente è profondamente contrario a questa volontà di onnipotenza dell’uomo, che cerca di controllare qualcosa che dovrebbe essere assolutamente incontrollabile, perché in qualche modo irrazionale.

E solo in seguito sogna di impossessarsi del potere dell’onirico.

La potenza dell’onirico

L’elemento onirico è esplosivo, strabordante, inarrestabile.

Ed è ben rappresentato dalla parata in continua espansione, in cui ogni personaggio prima o poi viene coinvolto. Una parata che non ha delle regole, che sembra avere una vita propria e che raccoglie ogni tipo di elemento fantastico, anche il più surreale e inimmaginabile.

E questo potere fa davvero gola a Tokita, che riesce progressivamente a superare la sua disabilità in vari modi – trasformando le sue gambe in radici, prendendo il possesso del corpo di Osanai e infine esplodendo nel suo massimo potenziale all’interno del sogno finale.

Chi è Paprika?

Se volessimo semplificare molto, potremmo dire che Paprika è semplicemente l’alter ego onirico di Chiba.

Ma Paprika è molto più di questo.

Come vediamo fin dall’inizio, è una figura che non vive assolutamente in funzione di Chiba – anche se forse è Chiba stessa che l’ha creata. Anzi, è un personaggio del tutto autonomo, che riesce a muoversi all’interno delle varie realtà – non solamente quelle oniriche – e in qualche modo essere sempre presente.

Possiamo semplicemente dire che è un elemento virtuale?

Non proprio.

Paprika è quasi come se fosse un’entità, che vive all’interno del sogno e si muove liberamente all’interno dello stesso, potendo trasformarsi a suo piacimento. Un elemento oltre la realtà più materiale, un fantasma inafferrabile e indefinibile.

Cosa rappresenta la bambola?

L’elemento più enigmatico del film è l’inquietante bambolina che si vede per la prima volta a casa di Himuro, che ha sul comodino anche una foto che la rappresenta.

Un personaggio che non parla mai, se non scoppiando nella risata zuccherina sul finale, quando diventa gigantesca. A livello materiale, probabilmente non è né più né meno che una bambola, che Himuro e Tokita avevano visto all’interno del parco di divertimenti abbandonato.

A livello simbolico, può essere facilmente letta come la rappresentazione del sogno stesso, il sogno delirante che trasforma degli elementi della realtà, magari anche appartenenti alla sfera infantile, in qualcosa di assurdo e mostruoso.

Categorie
Animazione Animazione giapponese Avventura Drammatico Film L'essenziale oriente Thriller

Perfect blue – Il sogno proibito

Perfect blue (1997) di Satoshi Kon è un lungometraggio animato di produzione nipponica, dalle forti tinte thriller, quasi horror. Un film che mi ha profondamente sorpreso, vedendolo totalmente a scatola chiusa.

A fronte di un budget contenuto (90 milioni di YEN, circa 700 mila dollari), incassò circa lo stesso, con una distribuzione mista fra cinema e TV anche negli anni successivi.

Di cosa parla Perfect blue?

Mima è una idol, parte del gruppo di J-pop CHAM!, che decide di cambiare carriera e diventare un’attrice. Una scelta più dolorosa del previsto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Perfect blue?

Assolutamente sì.

Perfect blue è una sorpresa continua, con una costruzione magistrale che coinvolge passo passo lo spettatore in un vortice di follia, in cui ci si ritrova totalmente spaesati davanti ad un intrecciarsi fra realtà e finzione semplicemente sconvolgente…

Il racconto di una realtà lontana dall’immaginario occidentale, in maniera dolorosamente realistica, oltre ad essere incredibilmente avanguardistica nella rappresentazione della figura femminile, soprattutto in una società restrittiva come quella nipponica…

Il fenomeno delle idol è stato (ed è tuttora) piuttosto controverso in Giappone quanto in Corea del Sud.

Si tratta solitamente di adolescenti che hanno un boom di popolarità – solitamente passeggero – come attrici, modelle, ma, soprattutto, cantanti. Il loro successo non è tanto per il loro talento, ma per il loro aspetto fisico, che curano spasmodicamente.

Il pubblico di riferimento delle idol è principalmente maschile e sente di avere un rapporto molto personale con i loro idoli, anche proprio al di là della loro bravura.

L’aggancio ingannevole

Guardare Perfect blue a scatola chiusa è davvero un’esperienza.

A primo impatto sembra un film molto innocuo, con una storia raccontata dal punto di vista ingenuo e dolcissimo della protagonista, che si fa trascinare inevitabilmente in una nuova vita e una nuova carriera, fiduciosa e totalmente ignara delle conseguenze.

Il primo tassello dell’orrore è la scoperta del sito La stanza di Mima, che svela come la protagonista sia fondamentalmente vittima di stalking continuo e ossessivo, il cui colpevole è in realtà stato già rivelato dalle primissime sequenze.

E il film poteva già essere angosciante così.

Ma è solo il primo passo.  

Una storia a tre

La storia di Perfect blue solo apparentemente ha due attori principali – la vittima e l’antagonista. In realtà è articolata in un terzetto di personaggi, le cui identità vengono rivelate a mano a mano.

E che soprattutto si scambiano le vesti e i ruoli in maniera imprevista.

L’ossessione

Mamoru Uchida – o Me-Mania – è apparentemente l’unico vero antagonista del film.

Il suo aspetto grottesco è già di per sé indicativo della sua personalità, e il suo ruolo da stalker lo rende l’antagonista perfetto: un uomo profondamente innamorato non tanto di Mima, ma dell’immagine idealizzata che coltiva nella sua mente.

Infatti, come all’inizio il diario che scrive della sua idol è basato su eventi reali, più la pellicola procede e più le frasi sul sito raccontano i pensieri che Mamouru vorrebbe che la ragazza provasse, nel totale disprezzo della Mima falsa.

Perché la vera Mima, con cui dialoga continuamente, non farebbe mai certe cose…

Il pentimento

Rumi è apparentemente la prima e più importante alleata di Mima.

In realtà si trasforma in poco tempo nel suo peggior incubo, nutrito dall’ossessione della donna nel voler proteggere la figura della protagonista. Ma Mima non è obbediente, non sceglie le vie più sicure per mantenere intatta la sua bellezza e purezza agli occhi del pubblico.

Nonostante tutti i tentativi di Rumi.

E allora la donna si perde in un delirante tentativo di ristabilire l’ordine, sentendosi per estensione colpita dalle scelte di Mima, in cui rivede profondamente sé stessa. E così sceglie infine di prenderne il posto, come la vera Mima, il vero idolo del pubblico.

La vergogna

Mima è il primo nemico di sé stessa.

È molto più ossessionata dalla sua immagine di quanto è disposta ad ammettere, perennemente perseguitata dal suo stesso fantasma, che alla fine si concretizza nella figura di Rumi e nella sua ossessione.

Ed è tanto più interessante quanto la protagonista non è davvero vergognosa di per sé, non è a disagio né il suo personaggio è umiliato per le sue scelte. Anzi, si sente molto più libera, uscita dall’opprimente seminato di idol.

Infatti, il problema è esterno.

L’icona intoccabile

Con trame di questo tipo, sarebbe stato veramente facile prendere la via sicura dell’umiliare il personaggio femminile per le sue scelte, raccontarlo come vittima di una società in cui l’ipersessualizzazione è la chiave del successo.

Invece è esattamente il contrario.

In Perfect blue Mima si sente libera e sicura delle sue scelte, prendendo anche strade inaspettate e socialmente poco accettabili, in cui racconta in maniera sconvolgente e spregiudicata la sua sessualità.

Ed è davvero potente in questo senso la scena dello stupro, che dovrebbe essere drammatica e straziante, ma che in realtà è ben contestualizzata dallo scambio fra Mima e l’attore che la starebbe violentando sul set.

E si rivela infine una scena davvero potente perché mostra le vere capacità di Mima al di fuori dell’opprimente ruolo della idol.

Cosa significa il titolo di Perfect blue?

A primo impatto il titolo potrebbe far riferimento ad un concetto in realtà proprio della lingua inglese, in cui solitamente il termine blue viene associato alla tristezza, come quella della protagonista della pellicola.

In realtà in giapponese il colore blu fa riferimento alla purezza e all’energia femminile, il punto di arrivo proprio delle figure delle idol.

Categorie
2022 Avventura Dramma storico Film Horror Thriller

The Menu – Un piatto (quasi) perfetto

The Menu (2022) di Mark Mylod è un thriller-horror che ha fatto abbastanza parlare di sé verso la fine del 2022. Non ho potuto vederlo in sala, ma l’ho recuperato in streaming, dopo che mi era stato ampiamente consigliato.

E non ne sono rimasta delusa.

Davanti ad un budget abbastanza contenuto di 30 milioni di dollari, ha avuto incassi medi: 76 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla The Menu?

Tyler porta l’affascinante Margot ad un’esperienza culinaria esclusiva del noto chef stellato. Ma la situazione fin da subito appare disturbante…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Menu?

Anya Taylor-Joy e Nicolas Hoult in una scena di The Menu (2022) di Mark Mylod

In generale, sì.

È un film che ho trovato piacevole e complessivamente ben fatto, che non mi ha solo convinto per un elemento della trama un po’ scricchiolante…

Ma nel complesso è una pellicola assolutamente godibile, un thriller con un taglio decisamente elegante e fascinoso, con attori di primo livello.

L’esperienza esclusiva

Ralph Finnes in una scena di The Menu (2022) di Mark Mylod

Nonostante in diversi punti la pellicola presenti un taglio più corale, la protagonista è assolutamente fondamentale e funzionale per lo spettatore.

Anche se la situazione iniziale è già abbastanza esplicativa da sé, sono le sue occhiate, le sue soggettive che sottolineano due elementi essenziali per la costruzione della tensione: la barca che si allontana e la porta che si chiude.

Proprio ad indicare come questa esperienza sia talmente esclusiva che esclude ogni tipo di via di fuga.

Il pubblico sbagliato

Anya Taylor-Joy e Nicolas Hoult in una scena di The Menu (2022) di Mark Mylod

Margot è fin da subito messa in un rapporto antagonistico con Tyler, che rappresenta uno dei personaggi peggiori che definiscono il mondo della cucina gourmet: l’esaltato superficiale, che si beve qualsiasi cosa che lo chef gli propone.

Al contrario la protagonista è continuamente contraria a questo eccessivo sperimentalismo e cucina concettuale, che non permette davvero di godersi l’esperienza del cibo.

Anya Taylor-Joy e Nicolas Hoult in una scena di The Menu (2022) di Mark Mylod

Ma è una mosca bianca all’interno di una varietà di personaggi secondari che raccontano il pubblico tipico di questo tipo di esperienze: gli arroganti raccomandati, i ricchi annoiati, i critici snob, e via dicendo.

Tutti personaggi che sono il motivo dell’insoddisfazione dello chef, che vorrebbe forse degli adepti al pari dei suoi cuochi, che vivono profondamente l’esperienza che vuole portare in tavola.

Fino ad arrivare agli estremi.

Ma qui nasce il problema.

Il problema della morte

Ralph Fiennes in una scena di The Menu (2022) di Mark Mylod

L’unico elemento che proprio non mi ha convinto del film è la gestione della morte, la cui inevitabilità viene annunciata fin troppo presto.

Sarebbe stato meglio, secondo me, tenerla in sottofondo, abbastanza evidente da tenere alta la tensione, ma senza rivelarla fino alla fine. Il film avrebbe funzionato comunque, facendo giusto qualche aggiustamento.

Inoltre, non sono riuscita a trovare credibile questa totale sottomissione degli altri chef a Slowik, elemento per cui vengono poste delle buone basi, ma per cui avrei preferito una costruzione più profonda e convincente.

Il piano di Margot

Anya Taylor-Joy e Ralph Fiennes in una scena di The Menu (2022) di Mark Mylod

Nel finale, Margot riesce effettivamente a salvarsi tramite un piccolo trucco.

Fondamentalmente il suo piano per scappare è di giocare allo stesso gioco dello Chef, invece che andargli contro direttamente come gli altri personaggi – e lei stessa fino a poco prima. Così lo riporta con i piedi per terra, comportandosi come si comporterebbe effettivamente in un ristorante, mandando indietro il piatto e chiedendo di portare a casa gli avanzi – come tipico negli Stati Uniti.

E evidentemente Slowik preferisce essere trattato in questa maniera reale, che essere inutilmente e superficialmente esaltato – o non considerato.

E così infatti Margot guadagna la sua libertà

Categorie
Animazione Animazione giapponese Avventura Azione Cinecomic Drammatico Fantascienza Film Futuristico Giallo L'essenziale oriente Recult

Ghost in the shell – La profondità travestita

Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii è un lungometraggio animato giapponese, uno dei più grandi cult dell’animazione orientale. Un prodotto che si cercò in seguito di riportare sullo schermo con il live action omonimo del 2017, che fu sommerso dalle critiche.

A fronte di un budget abbastanza contenuto di appena 2 milioni di dollari (330 milioni di yen), incassò comunque pochissimo (circa 10 milioni), ma divenne col tempo un cult, rientrando per così dire nelle spese grazie agli incassi dell’home video (43 milioni in tutto).

Un ringraziamento speciale a Carmelo, senza cui questa recensione non avrebbe potuto esistere.

Di cosa parla Ghost in the shell?

In un futuro lontano ma probabile, l’uomo si è sempre di più fuso con le macchine. Ma le divisioni politiche sono sempre le stesse…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ghost in the shell?

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Assolutamente sì.

Ghost in the shell è un film incredibile da ogni punto di vista.

Il reparto tecnico e artistico è di una bellezza che lascia senza fiato, sia nelle animazioni perfette, nei disegni e nel character design meravigliosamente pensato.

Inoltre, questa pellicola è di fatto una riflessione profonda e filosofica travestita da film action e cyberpunk. Una serie di concetti che magari non arriveranno immediatamente alla prima visione, ma che sono frutto di una scrittura profondamente immensa.

Non un film, ma un’esperienza.

Tutto cambia…

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Il mondo raccontato in Ghost in the shell è assolutamente visionario, se non anche molto probabile.

Da anni i futurologi ipotizzano un futuro neanche troppo lontano in cui l’uomo vivrà sempre più compenetrato con la tecnologia.

Ma, all’interno di mondo in cui anche una macchina può essere considerata un essere vivente, l’umanità cerca di conservare la sua identità tramite l’anima, o il ghost – o il concetto della stessa – quello scintillio di consapevolezza che distingue l’uomo dalla mera macchina.

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Un concetto su cui la pellicola si interroga continuamente, in primo luogo attraverso il personaggio di Motoko, che sente di avere un’anima, si sente umana solamente perché viene trattata come tale.

Ma la risposta al suo dilemma arriva in un certo senso tramite Project 2051: un essere senza un corpo, senza un’anima, che esiste solo virtualmente, ma che ha acquisito consapevolezza, ambendo allo status di essere vivente al pari degli uomini.

E, allora, cosa è l’uomo e cos’è la macchina?

…niente cambia

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Davanti all’immensità di questi cambiamenti e avanzamento tecnologici, l’uomo non cambia la sua natura.

Continuano le divisioni politiche in un intricato gioco di potere che mi ha ricordato per molti versi 1984 (1949) e L’uomo nell’alto castello (1962). Con la sola differenza che la tecnologia avanza più veloce dell’uomo stesso, diventando sostanzialmente incontrollabile.

Un elemento alla base di tutta la fantascienza moderna: la macchina che si rivolta contro il suo stesso creatore.

Fermarsi

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Una particolarità della pellicola è che si ferma continuamente.

Diverse manciate di secondi dedicate a soffermarsi su splendide sequenze di grande potenza visiva e artistica, impreziosite da musiche lente e sibilline che raccontano un mondo lontano, eppure così vicino alla contemporaneità.

E gli infiniti momenti in cui ci si arresta, senza una parola, ad osservare i personaggi in inquadrature che sembrano delle opere d’arte.

E una continua e intensa riflessione, che tocca tantissimi concetti e li riesce organicamente a riflettere all’interno di pellicola che si propone come action, ma che di action ha ben poco.

Riflettiamo su Ghost in the shell

All’interno della pellicola si riprendono diversi concetti filosofici di grande interesse e profondità – che ho tentato di spiegare nella mia umile ignoranza.

L’angoscia singolarizzante

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Uno dei concetti più forti della pellicola si riassume nella cosiddetta angoscia singolarizzante di Heidegger.

Un processo di consapevolezza dell’uomo di fronte al nulla, in cui prova una profonda angoscia davanti alla possibilità di un’esistenza inautentica, in cui non può emergere, ma rimanere parte di una massa indistinta.

E questo lo spinge invece verso una singolarizzazione, ovvero una ricerca di un’identità che lo distingua dagli altri

Mokoto in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Questo concetto ben si articola nella lunga riflessione di Motoko.

Insieme a Batou, la protagonista riflette su quanto, nonostante sia forse uno degli esseri più avanzati e con l’accesso ad un numero virtualmente illimitato di informazioni, senta comunque di non aver espresso il suo pieno potenziale e che lo stesso sia lì, a portata di mano, ma irraggiungibile.

E questo sarà possibile in certa misura fondendosi con Project 2051, e creando qualcosa di nuovo e teso verso un miglioramento e un’evoluzione davvero soddisfacente.

E parlando di evoluzione…

Il darwinismo

Mokoto e Project 2051 in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Tutto il monologo di Project 2051 a Motoko è un riferimento alla teoria darwinista.

All’interno della teoria di Darwin l’evoluzione umana (o di una specie in questo caso) si articola in una serie di cambiamenti, per cui il cambiamento più forte e adatto all’ambiente è quello che domina.

All’interno del suo monologo il Puppet Master racconta come il miglioramento della specie e dell’individuo segua la strada del cambiamento, ma anche del sacrificio, in cui gli elementi devono unirsi per sopravvivere e raggiungere una condizione superiore.

La via di Damasco

 Project 2051 in una scena di Ghost in the shell (1995) di Mamoru Oshii

Il percorso della protagonista può anche essere associato a La via di Damasco, riguardante la conversione di San Paolo.

Prima di essere un discepolo di Cristo, il santo era un persecutore di cristiani per mano dei giudei gli ebrei della sinagoga. Un giorno una luce lo fece cadere da cavallo e l’uomo sentì la voce di Cristo, che gli chiedeva perché perseguitava lui e i cristiani.

Così avvenne la sua conversione.

Allo stesso modo Motoko, dopo aver perseguitato Project 2501, si connette alla sua coscienza e si fa convincere dalle sue parole a cambiare idea e ad abbracciare la sua visione – e la sua essenza.

Così come San Paolo accetta Cristo dentro di sé, così la protagonista accetta quello che prima pensava essere il suo nemico.

Il problema del live action di Ghost in the shell

A cura di Carmelo

Nel 2017 si cercò di produrre un live action della storia, con risultati disastrosi sotto ogni punto di vista.

Oltre alle accuse (dovute) di whitewashing – che compromisero per un certo periodo la carriera di Scarlett Johansson – il film fu un disastro di critica e pubblico.

E per ottimi motivi.

Anzitutto, le grafiche e scenografie sono pacchiane e fastidiose a livello visivo: ologrammi giganti futuristici a scopo pubblicitario – lontani anni luce da quelli di classe di Blade Runner (1982) – e luci epilettiche.

L’americanizzazione

Scarlett Johansson in una scena di Ghost in the shell (2017) di Rupert Sanders

Ma la mancanza più grave è la voluta americanizzazione dell’anime di Masamune Shirow per renderlo fruibile al pubblico medio americano.

In questo senso, la filosofia e personalità dei personaggi sono ridotti a frasi da baci perugina, con alcuni personaggi resi delle pure macchiette che si vedono per tre minuti scarsi solo per aiutare i protagonisti.

E l’antagonista, a differenza dell’anime, è il villain stereotipato e scialbo che si trova in quasi tutti i film di fantascienza e cyberpunk.

Così la storia d’amore tra i personaggi è ridicola e scontata, con un sentimentalismo smielato fra personaggi inesistenti nel manga (con un loro perché narrativo), che ricordano la brutta versione di Io Robot (2004) con Will Smith.

Scarlett Johansson in una scena di Ghost in the shell (2017) di Rupert Sanders

Per fortuna che hanno inserito Takeshi Kitano, attore nipponico, messo lì per ricordare che il film si basa su un Manga, ovvero una forma d’arte orientale.

E cercando sempre di attirare il pubblico dei fan, è stata inserita una gran quantità di fanservice piuttosto fastidioso, che serve solamente per far godere i fan del manga – ma che a me ha dato solo fastidio.

Le scene violente, diventate iconiche nel Manga, sono state o censurate o trasformate in versione PEGI 6, risultando in una comicità involontaria.

Scarlett Johansson in una scena di Ghost in the shell (2017) di Rupert Sanders

Secondo questo stesso concetto, le logiche narrative più che ricordare Ghost in the Shell ricordano la brutta versione di Dragon Ball (in particolare la storia dei Cyborg C18 e C17).

L’importante messaggio dell’anime è ridotto ad una esaltazione dell’umanità in pieno stile qualunquista simil Adriano Celentano.

Insomma, se fosse stato un film cyberpunk generalista qualsiasi, sarebbe rimasto sulla soglia del guadabile.

Ma, avendo come titolo Ghost in the shell, non è assolutamente accettabile.

Categorie
Accadde quella notte... Avventura Azione Drammatico Film Film di guerra Notte degli Oscar

The Hurt Locker – La guerra infinita

The Hurt Locker (2010) di Kathryn Bigelow è un film di guerra, vincitore di diversi premi Oscar nel 2010, fra cui Miglior Regia e Miglior Film. Viste queste premesse, mi aspettavo un prodotto imbevuto del classico patriottismo statunitense.

Niente di più sbagliato.

Davanti ad un budget molto contenuto – circa 15 milioni di dollari – incassò abbastanza bene: 49 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla The Hurt Locker?

Iraq, 2004. Un nuovo capo della squadra di artificieri si inserisce a fatica all’interno di un contesto già di per sé molto teso…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare The Hurt Locker?

Decisamente sì.

The Hurt Locker è un film che mi ha davvero sorpreso: davanti al genere di appartenenza e alla vittoria agli Oscar, come detto mi aspettavo un film premiato per essere del tutto in linea con il pensiero guerrafondaio molto diffuso negli Stati Uniti.

Al contrario, mi sono trovata davanti ad un racconto profondamente vero, che non vuole portare in scena una storia di eroi e di nemici. Invece, racconta dinamiche sofferte e genuine, con un taglio quasi documentaristico che rende lo spettatore incredibilmente partecipe.

Tuttavia devo ammettere che, visto il genere, la visione non è stata del tutto leggera, complice anche la ripetitività delle dinamiche raccontate – ma che è dovuta ad uno specifico motivo.

Ma ne vale comunque la pena.

Cosa significa hurt locker?

Hurt locker è un termine slang nato in ambito militare: originariamente indicava un luogo particolarmente pericoloso con risvolti imprevedibili.

In seguito, al di fuori dell’ambito militare, ha acquisito il significato di luogo particolarmente doloroso, da cui l’espressione to be put in a hurt locker, che significa proprio essere in una situazione di grave dolore e disagio.

Un protagonista (a)tipico

La caratterizzazione di Will, il protagonista, è tipica e atipica assieme.

Se da una parte rappresenta un facile topos narrativo (in contesto bellico e non) del nuovo arrivato che si dimostra come uno scavezzacollo che mette in pericolo il team per la sua avventatezza, al contempo non è per nulla scontato.

Infatti per tutto il tempo i personaggi vivono una profondissima tensione in tutte le situazione di estremo pericolo, il protagonista dimostra dei nervi d’acciaio e un totale sprezzo per il pericolo.

Ma non è un valore.

Will, per sua stessa ammissione, è totalmente alienato dalla sua vita e dalle situazioni che vive, l’unico modo in cui può effettivamente affrontare un certo tipo di momenti e portare termine la missione.

Né nemici, né eroi

The Hurt Locker non vuole in alcun modo raccontare una guerra fatta di eroi e di nemici.

Nessuno dei personaggi dimostra in alcun modo un attaccamento patriottico alla sua missione, ma al contrario la pellicola racconta quanto sia estenuante ed angosciante la vita al fronte. Infatti in ogni momento si rischia la vita, in ogni momento ci si sente circondati da minacce e mai veramente al sicuro.

Al contempo il nemico non è mai raccontato come tale: non vediamo mai sanguinosi terroristi né vittime lacrimevoli – come tipico del genere – ma semplicemente esseri umani. Moltissime comparse che fanno da sfondo, come spettatori silenziosi e potenzialmente minacciosi, e che raccontano una realtà illeggibile ma profondamente vera.

La ripetitività dovuta

Per molti versi, The Hurt Locker non ha una trama.

È presente indubbiamente un filo conduttore, ma la struttura narrativa è più che altro quella di un insieme di episodi più o meno auto conclusivi.

Ma per un ottimo motivo.

Una struttura che in realtà serve a raccontare l’estenuante ripetitività del lavoro del soldato, all’interno di una guerra che sembra non finire mai. E infatti la conclusione è esplicativa in questo senso…

The Hurt Locker meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar del 2010 furono piuttosto interessanti per diversi motivi.

La prima vittoria di una regista donna – proprio per The Hurt Locker – e la prima candidatura di Jennifer Lawrence, che cominciava a farsi conoscere ad Hollywood per Un gelido inverno (2011).

Inoltre, dopo tanto tempo, si ritornò a dieci candidature per Miglior film.

The Hurt Locker aveva molti importanti sfidanti – fra gli altri Avatar (2009), Up (2010) e Bastardi senza gloria (2009). Tuttavia mi sento di dire che l’Oscar in questo caso è ampiamente meritato.

Un film che riesce a raccontare in maniera così interessante e genuina la guerra in Iraq quando questa era ancora in corso, mostrandone un lato non sempre raccontato dai media e dalla propaganda politica, meritava indubbiamente di essere premiato.

Un proposta interessante per una regista di grande interesse, che si occupò successivamente anche di Zero Dark Thirty (2012) per raccontare l’uccisione di Osama bin Laden, e per cui ricevette un’altra candidatura.