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Ritorno al bosco dei 100 acri – Una favola di concetto

Ritorno al bosco dei 100 acri (2018) di Marc Forster è un prodotto ispirato ai racconti per l’infanzia di Winnie the Pooh e Christopher Robin.

Un film che cercava fare breccia nella nostalgia degli adulti, sia di agganciare un nuovo pubblico di bambini. Riuscendoci in parte: davanti ad un budget intorno al 70 milioni, ebbe un buon riscontro di 197 milioni di incasso.

Tuttavia, forse non era quello che si aspettavano. Infatti, in quel periodo uscirono due film analoghi, Paddington (2014) e il seguito, Paddington 2 (2017), costati pure meno e che per questo furono decisamente più redditizi: rispettivamente 282 milioni e 227 milioni.

Di cosa parla Ritorno al bosco dei 100 acri?

Christopher Robin deve abbandonare i suoi amici del bosco dei 100 acri per andare in collegio, esperienza che lo segnerà per sempre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ritorno al bosco dei 100 acri?

Ewan McGregor in una scena di Ritorno al bosco dei 100 acri (2018) di Marc Forster

In generale, sì.

La pellicola ha molti punti forti, che lo rendono un film molto piacevole da guardare, con diversi momenti strappalacrime, oltre ai dolcissimi personaggi del bosco. Un film con una trama semplice e lineare, quasi prevedibile, ma che in molti punti scalda davvero il cuore.

Tuttavia, è un film che consiglio di guardare senza pensarci troppo: ad un’analisi più approfondita il film risulta difettoso in più punti, in particolare con una struttura narrativa un po’ traballante e tematiche più adatte ad un pubblico molto adulto che di bambini…

Inghiottiti dal lavoro

Ewan McGregor in una scena di Ritorno al bosco dei 100 acri (2018) di Marc Forster

Il racconto del padre di famiglia che non si occupa adeguatamente dei figli e che li stressa per raggiungere il loro meglio è un topos narrativo molto tipico di questo tipo di film, fin da Mary Poppins (1964).

Tuttavia, in questo caso è raccontato in maniera forse più pesante del necessario: solitamente si associa questo tipo di racconto alla perdita dei sogni infantili e della spensieratezza una volta giunti alla vita adulta, ad uso e consumo del target infantile.

Invece in Ritorno al bosco dei 100 acri il protagonista è schiavo della retorica capitalista del col duro lavoro raggiungerai tutto quello che vorrai. Un tema drammaticamente attuale, che può essere facilmente comprensibile per un pubblico molto adulto, mentre potrebbe aver solo confuso un pubblico infantile.

Il bambino non protagonista

Forse un altro malus per la ricezione di questo film è stata proprio la mancanza di un protagonista infantile. Per due terzi della pellicola il personaggio principale è l’adulto che vuole tornare bambino, non il bambino stesso.

E, come detto, un adulto con dinamiche adulte, poco interiorizzabili da un pubblico infantile.

Infatti, il film e le sue tematiche dialogano non tanto con il sogno infantile della spensieratezza, ma al contrario con l’idea di dover tenere insieme un’azienda, fare il proprio lavoro e non rovinare la vita agli altri. E infatti, la risoluzione del problema, che cerca di scardinare un classismo di fondo della società, è un elemento poco chiaro per un bambino,

E poco importa se in parte la figlia del protagonista porta l’idea risolutiva.

Perché lei stessa è l’elemento più difettoso.

Il personaggio infantile

Quella che dovrebbe essere la protagonista del film, è in realtà catapultata al centro della scena sul finale per risolvere la situazione, senza che però il suo personaggio sia stato adeguatamente costruito, dando allo spettatore la possibilità di essere coinvolta con la sua storia.

Infatti, Madeline dovrebbe avere un’evoluzione durante il film per ritrovare la sua spensieratezza infantile, ma succede tutto troppo improvvisamente e senza dare il tempo al personaggio di respirare.

E questo è dovuto ad una struttura narrativa traballante, che sembra voler rispettare una serie di step obbligati di questo tipo di film, ma mancando di una robusta struttura che li tenga insieme.

Una scelta ottima…ma poco credibile

Personalmente ho davvero apprezzato la scelta di rendere i personaggi del bosco come bambole di pezza, realizzati in maniera molto credibile e che riescono a riprendere i caratteri dei personaggi originali, ma riuscendo anche ad adattarli al tono del film.

E la maggior parte dei loro discorsi toccano veramente nei punti giusti, e mi hanno sinceramente commosso.

Tuttavia, questa scelta è purtroppo poco credibile quando i personaggi del bosco dei 100 acri escono dal bosco stesso. La dinamica dovrebbe essere alla Toy Story, ovvero che si fingono delle bambole di pezza rimanendo immobili.

Ma questo succede troppo poco spesso e così troppo poco spesso gli altri personaggi umani si rendono conto della loro vera natura. I momenti in cui succede sono funzionali alla narrazione, ma per molto tempo del film io non riuscivo a credere a quello che vedevo in scena.

Perché Ritorno al bosco dei 100 acri non fu un grande successo?

Fra il 2014 e il 2018 sembra che fosse il grande momento dei buddy movie con un adulto e un orsetto.

Eppure, nessuno di questi fu un grandissimo successo: come detto quello che ne uscì meglio fu proprio la duologia di Paddington, che fu anche quella che costò di meno.

Anche peggio fu la produzione di Vi presento Christopher Robin (2017), che fu un flop al botteghino.

Nel caso de Ritorno al bosco dei 100 acri si trattò di un film ben più ambizioso, con un attore capace e quasi il doppio di Paddington. Un prodotto che però non riuscì particolarmente a distinguersi, azzeccando poco il target di riferimento e forse definendo la conclusione di un trend che era ormai saturo.

Lode a Ewan McGregor

Ewan McGregor è un attore che apprezzo moltissimo.

Soprattutto perché è uno di quegli interpreti magnifici che in ogni produzione ci mettono veramente impegno. Anche quando si trova in produzioni che non richiedono particolari doti interpretative e che, negli ultimi tempi, hanno portato a risultati spesso deludenti.

Partendo dal tentativo di rilancio di Trainspotting, che ha avuto un riscontro economico non particolarmente entusiasmante, il flop di Doctor Sleep (2019) e poi quello di Birds of prey (2020).

In particolare quest’ultimo è stato per me un film mediocrissimo, oltre che con la campagna di marketing e la distribuzione meno azzeccata nella storia del cinema. E comunque anche in quello McGregor ha fatto del suo meglio.

E così anche ne Ritorno al bosco dei 100 acri ha recitato per la maggior parte delle scene da solo in scena, riuscendo a dare un’interpretazione sempre convincente.

Non proprio una cosa da tutti.

Ed è veramente un peccato che il maggior successo che questo attore abbia avuto recentemente è stato con quella mediocrata di Obi-Wan...

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eXistenZ – Are we still in the game?

eXistenZ (1999) è uno dei film minori di Cronenberg, che alla fine degli Anni Novanta e con decisamente meno budget raccontava un mondo non tanto dissimile da quello di Ready Player One (2018).

Il tutto, sempre con lo stile inconfondibile del regista.

Davanti ad un budget comunque non risicato (30 milioni di dollari), incassò, come tipicamente nella sua produzione, appena 2,8 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla eXistenZ?

In un mondo futuristico, le console di videogiochi sono diventate biologiche e si attaccano direttamente al corpo dei giocatori. In occasione dell’anteprima del nuovo gioco, la vita di Allegra Geller, la designer del videogioco, viene attentata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere eXistenZ?

Jude Law in una scena di eXistenZ (1999) di David Cronenberg

In generale, sì.

Personalmente è il film della produzione di Cronenberg che mi hanno meno convinto. In generale l’ho trovata una pellicola che, togliendo il suo principale elemento di fascino, è abbastanza sottotono.

Al contempo, è anche uno di quei prodotti che, se siete veramente innamorati dell’estetica di Cronenberg e della sua fantascienza corporea, è probabile che vi piaccia molto. Tuttavia, manca del mordente dal punto di vista tecnico (pochi elementi di effetti speciali materiali) e di profondità narrativa.

Raccontare un videogioco…a metà

Jennifer Jason Leigh in una scena di eXistenZ (1999) di David Cronenberg

Un elemento non propriamente a mio parere ben sfruttato è quello della realtà del videogioco.

Per quanto complessivamente la storia sia credibile, pecca nella verosimiglianza del racconto dei cosiddetti NPC (Non Player Characters), ovvero quei personaggi dei videogiochi con cui il giocatore interagisce ma che sono di fatto dei bot.

Non so quanto fosse profonda la conoscenza del regista al riguardo e quanto di fatto gli interessasse, ma avendo in mente altri prodotti con storie analoghe mi è personalmente dispiaciuta questa mancanza. Più che altro sembra che i protagonisti siano immersi in una sorta di storia di spy story piuttosto intricata, più che all’interno di un effettivo videogioco.

Così il fatto che tutti i personaggi fossero a modo loro dei giocatori è indubbiamente funzionale alla narrazione, ma poco credibile sempre nel contesto videoludico: il videogiocatore vive per essere il protagonista, non il personaggio secondario.

Insomma, da questo punto di vista si poteva fare decisamente di meglio.

La costruzione a scatole cinesi

Willem Dafoe in una scena di eXistenZ (1999) di David Cronenberg

La costruzione a scatole cinesi, per cui non si sa mai quando i personaggi sono nella realtà e quando nel videogioco, l’ho trovato al contrario molto interessante. Ed è un elemento che funziona così bene anche perché il contrasto fra illusione e realtà è il pane quotidiano di Cronenberg fin da Videodrome (1983).

Di fatto i personaggi (e di conseguenza anche lo spettatore) non hanno mai la sicurezza di essere nella realtà vera, ma al contrario si perdono in diversi livelli di realtà virtuale, in un labirinto da cui sembra impossibile uscire.

E per lo stesso motivo il cliffhanger finale l’ho trovato anche molto indovinato.

Ancora il corpo

Jude Law in una scena di eXistenZ (1999) di David Cronenberg

In questa pellicola ho poco apprezzato gli effetti speciali e la gestione della corporeità in generale.

Per come è messo in scena, per certi versi questo film mi è sembrato il sogno di un feticista, sia per i game pod, che sono accarezzati e trattati quasi sessualmente (e infatti sembrano quasi dei seni), ma soprattutto la bioporta.

Fra tutti i modi in cui avrebbero potuto mostrarle, chissà come mai le bioporte hanno una forma così caratteristica e sono proprio vicino al fondo schiena, oltre ad essere penetrati da un elemento dalla forma così fallica.

E soprattutto il modo in cui il gamepod è preparato per essere inserito nella bioporta.

Signor Cronenberg, anche meno.

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Triangle of sadness – Siamo tutti uguali

Triangle of sadness (2022) è l’ultima opera di Ruben Östlund, regista svedese che ha conquistato per la seconda volta la Palma d’Oro a Cannes, dopo averla già vinta col precedente The Square (2017).

Un film che è passato fondamentalmente sotto silenzio, e che in Italia si è cercato di vendere come un film molto divertente. In realtà è una pellicola devastante, e per diversi motivi. E non a caso, davanti ad un budget risicatissimo (13 milioni di euro), ha incassato comunque pochissimo: per ora, appena 7 milioni.

E non potrei essere meno sorpresa.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Triangle of sadness (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior regista
Migliore sceneggiatura originale

Di cosa parla Triangle of sadness?

Carl e Yaya sono due modelli, che si trovano a gestire la loro insidiosa relazione, sullo sfondo di una crociera di lusso che prende una piega inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Triangle of sadness?

Harris Dickinson in una scena di Triangle of Sadness (2022) di Ruben Östlund, palma d'ora al Festival di Cannes 2022

È complicato.

Io di mio l’ho trovato un film davvero incredibile, fra i migliori usciti quest’anno. Ma, al di là del mio apprezzamento personale e del grande valore artistico e politico della pellicola, è potenzialmente una pellicola che molti potrebbero profondamente odiare.

Diciamo che se non riuscite a ritrovarvi in una humor nerissimo, che gioca moltissimo sulle battute paradossali e al limite dell’angosciante, potrebbe darvi solo fastidio. È un film da cui bisogna lasciarsi davvero rapire, con tutto il suo devastante significato.

Se vi sentite pronti, guardatelo.

Prologo

Harris Dickinson in una scena di Triangle of Sadness (2022) di Ruben Östlund, palma d'ora al Festival di Cannes 2022

Una volta conclusa la pellicola, la prima parte dedicata ai due apparenti protagonisti potrebbe apparire fondamentalmente inutile alla storia.

In realtà, tutta la prima parte, se la si guarda con attenzione, è un gigantesco foreshadowing del terzo atto del film. Infatti all’inizio Yaya racconta come la relazione con Carl non sia frutto dell’amore, ma di un rapporto di mutuo vantaggio.

Anche se non viene spiegato esplicitamente, è probabile che si intenda che, come Yaya ottenga maggiore attenzione potendo pubblicizzare la sua relazione con un bel ragazzo come Carl, così Carl possa vivere della luce di lei.

E così la ragazza racconta come l’unico modo in cui può uscire dal lavoro sfiancante del mondo della moda è quello di diventare una moglie trofeo per qualcun altro, idealmente Carl.

Così nel terzo atto Carl stesso diventa il marito trofeo di Abigail, sempre in una relazione non amorosa, ma di vantaggio: la donna può intrattenersi con un ragazzo piacente, mentre quello stesso ragazzo può avere un vantaggio sociale nella loro piccola comunità.

Incomprensione

Sunnyi Melles in una scena di Triangle of Sadness (2022) di Ruben Östlund, palma d'ora al Festival di Cannes 2022

Uno degli elementi principali della pellicola è la totale incomprensione della classe sociale più agiata verso la realtà del mondo.

Il momento più agghiacciante in questo senso è quando Vera costringe tutto l’equipaggio della nave a scendere dallo scivolo della nave e a farsi un bagno.

Dal suo (apparente) punto di vista, in questo modo avviene una giocosa inversione dei ruoli. In realtà è solo una donna potente che ha fatto uso del suo potere per utilizzare i suoi sottoposti come preferisce.

Altrettanto graffiante la scena in cui la coppia anziana che vende bombe raccoglie candidamente la mina antiuomo, e la donna chiede

È una delle nostre?

A seguito di un dialogo anche più agghiacciante avvenuto prima fra la coppia e i due protagonisti, in cui i due raccontano candidamente e in maniera così paradossale da essere esilarante, di come i loro affari siano stati guastati dagli stupidi tentativi dell’ONU di evitare spargimenti di sangue.

Ma è un mondo fragile e illusorio.

Fragilità

Vicki Berlin Tarp, Dolly Earnshaw de Leon e Charlbi Dean Kriek in una scena di Triangle of Sadness (2022) di Ruben Östlund, palma d'ora al Festival di Cannes 2022

Una volta sbarcati sull’isola, i sistemi della società si azzerano, principalmente per mano di Abigail. Infatti la donna, una volta pescato il polpo, si rende subito conto del valore del suo operato, e ne sfrutta tutto il vantaggio.

E, anche se Paula cerca immediatamente di ridimensionarla, i bisogni primari sono così pressanti che il nuovo ordine viene subito stabilito.

Ed è tanto più evidente da dove nasceva la scintilla di questa nuova idea quando Abigail si trova improvvisamente seduta su un piccolo tesoro di acqua e cibo tanto desiderato, e a malincuore (e pure ingiustamente) deve cederlo a chi non ha nessun motivo di averlo.

E questo porta anche ad un’interessante riflessione sulla fragilità della società capitalista: basta davvero così poco per stravolgerla e mettere di nuovo al primo posto chi di fatto porta un vero valore alla società?

A quanto pare, sì.

Angoscia

Come detto, se si riesce ad essere coinvolti con l’umorismo del film, può risultare incredibilmente divertente.

Io personalmente raramente mi sono divertita così tanto.

Tuttavia, è una risata angosciante, che ti fa ridere solo superficialmente, ma che, se si ragiona veramente sul significato dei dialoghi e delle scene, è incredibilmente angosciante – fra l’altro, con molto spesso una regia che gioca molto sul contrasto fra l’incredibilmente divertente e il drammaticamente devastante.

Due fra tutte: i discorsi surreali di Dimitry e del capitano Thomas, assolutamente spassosi che fanno però da sottofondo ad inquadrature particolarmente tragiche degli ospiti della nave impauriti.

Anche di più quando Dimitry discute concitato con Paola e Nelson accusando quest’ultimo di essere un pirata, mentre vediamo Theresa, una donna disabile che non ha più nessuno ad aiutarla, impotente nella scialuppa.

E la regia stessa spesso sacrifica la più basilare grammatica della messa in scena per farci immergere nei personaggi e nelle loro espressioni.

A volte inserendo degli effettivamente elementi di disturbo nella scena, che servono a sottolineare la drammaticità di fondo, come l’insopportabile mosca quando Carla e Yaya discutono sulla nave.

Una società di simboli

Molto interessante è stato rappresenta la società della ricca borghesia come basata su un sistema di simboli in cui viene dato un valore più di rappresentanza che economico.

Così i due ricconi, Dimitry e Jarmo, cercano di pagare il loro ingresso nella scialuppa offrendo orologi di lusso. Così Carl è particolarmente contento quando trova un profumo fra i detriti. E tanto più grottesco quando Dimitry ritrova il corpo della moglie e la cosa più importante è recuperare i gioielli dal suo cadavere.

Cosa succede nel finale di Triangle of Sadness?

Il finale di Triangle of sadness è molto ambiguo, ma la dinamica è del tutto chiara: mentre Yaya offre ad Abigail di diventare la sua assistente, la donna si rende conto di come uscire dalla piccola società che si è creata la depotenzierà, ma, soprattutto, la riporterà in un mondo ingiusto e castrante.

Per me quindi quel colpo è stato calato.

E per lo stesso motivo Carl, il personaggio più vicino a comprendere il dramma di Abigail, alla fine sta forse cercando di correre in aiuto alla fidanzata. Oppure alla donna prima che abbia un risvolto violento.

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2022 Avventura Azione Comico Commedia nera Drammatico Film Giallo Horror Humor Nero Scream - Il secondo rilancio Scream Saga Thriller

Scream 5 – Just another requel

Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett rappresenta il secondo e più recente rilancio della saga omonima, presa in mano da due giovani registi emergenti, dopo la triste dipartita di Wes Craven.

Una riproposizione del brand che, nonostante poche e contenute sbavature, riesce a riportare in scena un cult ormai nato quasi 30 anni fa e che è sempre riuscito a riproporsi e ad adattarsi ai nuovi tempi.

E con Scream 5 lo fa quasi con la stessa freschezza di Scream 4 (2011).

Tuttavia, in questo caso fu anche un successo commerciale: con un budget molto più contenuto del precedente (21 milioni contro 40 milioni di dollari) e con un incasso anch’esso contenuto, tuttavia portando complessivamente ad un film molto redditizio: 140 milioni dollari in tutto il mondo.

E infatti è già pronto il sequel, Scream 6 (2023).

Di cosa parla Scream 5?

Dopo 30 anni dall’inizio della scia di sangue di Woodsboro, la saga ricomincia nella stessa città, con questa volta due nuove protagoniste, Tara e Sam, perseguitate dal loro passato legato agli eventi del primo film…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scream 5?

Jenna Ortega in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Per quanto mi riguarda, assolutamente sì.

Scream 5 è un fresco e piacevole rilancio della saga, riuscendo ad adeguarsi ai nuovi gusti, ma mantenendo gli schemi classici dell’horror slasher e della saga in generale. La grande novità della pellicola è che, a differenza degli altri film, dove di solito si instaurava un dialogo metanarrativo con il film stesso, in questo caso il dialogo è con lo spettatore.

Una bella scelta che riesce a rinnovare la colonna portante della saga.

Inoltre gli elementi degli scorsi film sono utilizzati con maggiore consapevolezza e capacità, in maniera pure superiore a Scream 4, che comunque io avevo apprezzato, ma che forse come punto debole aveva proprio il rimettere troppo in scena i vecchi personaggi.

Qui è tutto perfettamente equilibrato.

Un nuovo horror

Jenna Ortega in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Ask me about Hereditary! Ask me about It follows!

Chiedimi di Hereditary! Chiedimi di It follows!

Il primo passo che il film doveva fare era riuscire a rimettersi in contatto con il nuovo pubblico e il nuovo gusto in fatto di horror. Non essendo fan dell’horror mainstream contemporaneo e quindi conoscendone poco, avevo paura di rimanere spaesata.

E invece il film ha voluto sorprendermi.

Quando a Tara nella prima scena viene chiesto quale sia il suo film horror preferito, lei risponde molto candidamente Babadook (2014), elogiando anche la profondità del racconto e della trama. E così dopo continua citando altro horror autoriale come The Witch (2015), Hereditary (2018) e It follows (2014).

Così si racconta un panorama del cinema horror davvero mutato, dove i film autoriali non sono più così tanto di nicchia, ma riescono anzi ad incontrare il gusto di un pubblico più ampio, e in generale ad essere elogiati, come viene fatto anche nel film.

Una scelta davvero azzeccata.

Dialogare col pubblico

Jack Quaid in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Real Stab movies are meta slasher whodunits, full stop

Un vero film di Stab è uno slasher metanarrativo di stampo giallo, fine.

Come anticipato, la grande novità del film è il dialogo fra il film e il pubblico.

Il punto centrale del film è come gli stessi registi fossero consapevoli che ci sarebbero state molte critiche nei confronti della loro pellicola da parte dei nostalgici, che avrebbero voluto rivedere una riproposizione della trilogia originale.

E infatti questa è la tendenza generale di molte riproposizioni di cult (horror e non), fra cui l’esempio più evidente è sicuramente Halloween, che utilizza ancora schemi narrativi dei primi slasher, gli stessi che Scream derideva negli Anni Novanta.

E gli stessi killer infatti sono dei fan incalliti di Stab, che vogliono creare una storia vera da utilizzare per un sequel degno di questo nome.

Anche se in certi momenti risulta eccessivo da questo punto di vista, è davvero interessante includere nel film un discorso così vero e attuale, anticipando appunto le stesse critiche del film, anche a fronte dell’insuccesso di Scream 4, che era molto innovativo rispetto all’originale.

La regola del prevedibile

Ghostface in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Uno dei punti forti del primo Scream era la sua prevedibilità.

Davanti ad un pubblico abituato all’idea che il killer non è mai la persona più prevedibile, Scream scelse come uno dei killer proprio la persona più prevedibile. In Scream 5 praticamente dall’inizio sentiamo la soluzione del mistero dalla bocca di Dwight:

Never trust love interest

Mai fidarsi del proprio fidanzato

e infatti uno dei killer è Richie, il ragazzo di Sam, come fra l’altro le sottolinea proprio nel momento della sua rivelazione. Fra l’altro scelta eccellente castare un attore come Jack Quaid, conosciuto in questo periodo soprattutto per il suo remissivo personaggio di Hughie in The Boys.

E sempre Dwight aggiunge:

The first victim always has a friend group that the killer is a part of

La prima vittima ha sempre un gruppo di amici di cui il killer fa parte

E infatti l’altro killer è Amber, che sembra anche il personaggio che, paradossalmente, più si preoccupa della salute di Tara.

Inserire l’originale con il nuovo

Melissa Barrera in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Come detto, Scream 5 riesce in maniera pure migliore di Scream 4 ad aggiornare effettivamente le protagoniste del film, che sono davvero al centro della scena e della storia.

Mi è piaciuta particolarmente Tara: Jenna Ortega, non comunque alla sua prima esperienza e pronta ad esplodere con la prossima serie tv Wednesday, è riuscita a portare in scena in maniera davvero convincente tutto il dolore fisico e reale del suo personaggio.

Mi ha leggermente meno convinto il personaggio di Sam, che viaggia pericolosamente sul filo del trash: il fatto che veda il padre Billy Loomis che la incita a fare quello che fa nel finale, dove sfoga la sua furia omicida, è un elemento che potrebbe facilmente sfuggire di mano, sopratutto in un sequel.

Ben organico invece l’inserimento di Sidney e Gale, che sono solo delle spalle dei protagonisti che riescono ad arricchire il racconto e ad aiutare i personaggi a risolvere il mistero con la loro esperienza passata, ma senza mai rubare la scena alle protagoniste.

Ed era ora di passare la fiaccola.

Una nuova regia

Marley Shelton in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

La regia di Scream 5 mi ha piacevolmente sorpreso.

Uno degli elementi più piacevoli della saga è sempre stata la regia molto ispirata e con non pochi guizzi, fin da Scream (1996). E uno degli elementi più importanti da gestire sono sempre state le morti e la violenza, riuscendo sempre a renderle spettacolari e quasi artistiche.

Altrettanto bene riesce questa coppia di autori a portare una regia interessante e con non pochi momenti di rara eleganza. Anzitutto, l’uso del sangue, che ho trovato veramente magistrale, andando non poche volte a creare quasi dei quadri grotteschi e drammaticamente splendidi da osservare.

Ma la sequenza che mi ha davvero colpito è stata quella riguardante la morte di Judy e del figlio Wes. La genialità nasce quando al telefono Ghostface dice alla donna

Ever seen the movie Psycho?

Hai mai visto Psycho?

e poi si stacca con un’inquadratura eloquente sulla doccia che si sta facendo Wes, che è una delle inquadrature iconiche della famosa scena della doccia di Psycho (1960), appunto. Fra l’altro, come viene anche raccontato in Scream 4, il capolavoro di Hitchcock è considerato fra i capostipiti del genere slasher.

E si prosegue con una lunghissima sequenza in cui la camera gioca continuamente con lo spettatore, con Wes che apre e chiude infiniti sportelli dietro ai quali ci aspetteremmo di vedere il killer che sappiamo essere in casa.

Puoi essere più metanarrativo di così?

Ghostface in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Stop fucking up my ending

Basta rovinare il mio finale

Nonostante non sia l’elemento principale, la metanarrativa e la consapevolezza dei protagonisti degli schemi del film stesso che stanno vivendo è presente, e pure fatta bene.

L’unica sbavatura che mi sento di segnalare è che tutto questo elemento avrebbe dovuto essere nelle mani di Mindy, la quale da un certo punto in poi prende le redini di questo discorso come erede spirituale di Randy.

E infatti è la stessa che diventa la protagonista della scena più metanarrativa del film: Mindy che grida a Randy in Stab di girarsi che ha il killer alle spalle, mentre lo stesso grida la medesima cosa a Jamie Lee Curtis in Halloween, mentre Mindy stessa ha alle spalle il killer.

Ed è la stessa che anche racconta la questione dei requel, ovvero di remakesequel che effettivamente abbondano in questo periodo e che, in un certo senso è pure Scream 5. E quando siamo alle porte del terzo atto, ovvero quello della rivelazione, Mindy istruisce Amber di cosa non fare per non essere uccisa dal killer, con anche diversi finti colpi di scena sull’identità del killer.

Con la stessa Amber che annuncia l’inizio dell’ultimo atto del film:

Welcome to act three

Benvenuti nel terzo atto
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Il pasto nudo – Oltre al sogno

Il pasto nudo (1991) è uno dei film di Cronenberg più complesso e particolare, dove in parte si allontana dalla sua estetica più tipica, riuscendo al contempo ad inserire i suoi elementi iconici.

Una pellicola tratta dall’omonimo romanzo di William S. Burroughs, ispirato anche alle circostanze della stesura dell’opera stessa. Una pellicola molto complessa, con al centro uno dei temi cari a Cronenberg, ovvero il controllo mentale, già raccontato in Videodrome (1986).

Questo film fu un altro flop terrificante: davanti ad un budget di 17 milioni, ne incassò appena 2,6 in tutto il mondo.

Ma in questo caso basta veramente vedere il film per capire perché.

Di cosa parla Il pasto nudo?

Bill è un disinfestatore, che rimane progressivamente sempre più intossicato dal suo stesso veleno. Comincia così un viaggio fra il sogno e l’orrore, coinvolto in un intrigo spionistico internazionale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena guardare Il pasto nudo?

Peter Weller in una scena di Il pasto nudo (1991) di David Cronenberg

Dipende.

Vale indubbiamente la pena di guardarlo, ma non è detto che vi piaccia: dovete avere già di vostro la volontà di lasciarvi rapire da un contesto del tutto surreale e volutamente enigmatico, dove solo ogni tanto troverete degli sprazzi di realtà…

Preparatevi insomma ad una pellicola davvero complessa, che, come esperienza, potrei paragonare a The Lighthouse (2021).

Tuttavia, un trigger alert è dovuto: è un film legato molto agli insetti, di cui la maggior parte sono evidentemente finti. Tuttavia, ci sono un paio di scene in cui ci sono veri o sembrano tali. In generale, non è mai un bello spettacolo se siete sensibili sull’argomento…

Vi ho avvertiti.

Il contrasto della messinscena

Peter Weller in una scena di Il pasto nudo (1991) di David Cronenberg

Il taglio registico è del tutto particolare, in primo luogo per Cronenberg, che però ha sapientemente deciso di utilizzare in scena un’estetica tipica del periodo in cui è ambientata la pellicola.

Fra l’altro calcando la mano sui colori pastello e il jazz leggero di sottofondo, rendendola una pellicola dal sapore hitchcockiano, solo più ammorbidito e surreale.

Ed è un contrasto devastante sia con quello che succede in scena, sia nelle esplosioni proprie di Cronenberg, in particolare nella sequenza agghiacciante in cui Clark Nova sbrana ferocemente la macchina da scrivere nemica.

Un taglio estetico che è riuscito paradossalmente a rendermi ancora più inquieta.

Dov’è la realtà?

Peter Weller in una scena di Il pasto nudo (1991) di David Cronenberg

Sarebbe molto semplicistico dire che il protagonista sia semplicemente preda del delirio indotto dalla droga e dal veleno, anche se questa interpretazione sarebbe suggerita dai momenti in cui sembra squarciare il velo del sogno e piombare nella realtà.

In particolare, quando la macchina da scrivere è una effettiva macchina da scrivere e quando gli amici del protagonista lo vengono a trovare e vedono che quella che tiene nel sacco non è una macchina da scrivere, ma un sacco di droghe.

Tuttavia è tanto più meraviglioso, per immergersi davvero nella pellicola, non tentare di andare a spiegare realisticamente tutti gli elementi del film, finendo per uscirne pazzi – peggio dei protagonisti. Insomma, in qualche modo questo delirio della droga ha portato Bill a vedere quello che è veramente il mondo che lo circonda.

Costruzioni perfette

In questa pellicola non vi è un uso massiccio degli effetti visivi, ma, quando questo accade, sono costruzioni drammaticamente perfette. La macchina da scrivere nella sua forma insettoide è perfettamente integrata nella scena e sembra vera, tanto più quando cade a pezzi. Altrettanto indovinato sono l’enorme insetto e l’alieno con cui Bill dialoga, anche nella sua forma di macchina da scrivere.

Un’estetica molto tipica della fantascienza Anni Settanta-Ottanta, in particolare Star Wars, ma molto meno pupazzoso.

Mentre ancora una volta trovo che anche questo film, come per Videodrome, sia difettoso per gli effetti speciali umani.

Personalmente ho trovato così poco credibile e posticcio Yves Cloquet nella forma insettoide che possiede Kiki, che la scena non mi ha trasmesso per nulla l’effetto orrorifico e di sorpresa che avrebbe dovuto provocarmi.

Cosa succede nel finale?

Il finale è ovviamente aperto alle interpretazioni, ma la mia preferita è quella secondo la quale Bill è totalmente caduto nella sua allucinazione, ma nella stessa rivive la morte della moglie. E alla fine piange perché si rende conto di quello che è effettivamente successo e della pazzia in cui è caduto.

Un momento di drammatica consapevolezza.

La vera storia di Il pasto nudo

La storia è quanto più vicina alla vera vita di William Burroughs, l’autore di Il pasto nudo, di quanto si possa pensare.

Infatti William Burroughs uccise davvero accidentalmente la moglie con lo stesso metodo, era un disinfestatore e davvero cadde nel circolo della droga, che lo portò a scrivere la sua opera, vivendo per un periodo a Tangeri, in Marocco, la cosiddetta International zone.

E la storia venne scritta dall’autore che neanche si rendeva conto di star scrivendo, vivendo per un certo periodo proprio in una sorta di città come quella del film, abitata da mostri e creature.

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Avventura Cinema per ragazzi Comico Commedia Commedia nera Film Giallo Horror Satira Sociale Scream - Il primo rilancio Scream Saga

Scream 4 – Now streaming

Scream 4 (2011) è il quarto capitolo della saga omonima, arrivato a più di dieci anni di distanza da Scream 3, che chiude la trilogia originale.

L’ultimo film del compianto Wes Craven, che ci ha lasciato in eredità un prodotto che non solo era al passo coi tempi, ma che anticipava alcune dinamiche della società stessa.

Questo film ebbe un budget abbastanza sostanzioso (40 milioni), ma non ebbe il grande riscontro che ci si aspettava, con solo 97 milioni di dollari di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Scream 4?

A dieci anni dalle vicende di Scream 3, si torna a Woodsboro, con un cast di protagonisti rinnovato, che rappresentano la nuova generazione. Fra queste anche la cugina di Sidney, Jill, che dovrà cercare di riappacificarsi con la famosa parente, mentre la scia di omicidi sembra di nuovo prendere piede…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scream 4?

Ghostface in una scena di Scream 4 (2011) di Wes Craven

Assolutamente sì.

Per quanto mi riguarda, Scream 4 è il miglior film della saga, secondo solamente al primo capitolo.

Riesce con grande freschezza a riportare in scena le dinamiche tipiche fin dal primo film, riuscendo ad aggiornarle al nuovo decennio, con anche delle grandi novità che rompono gli schemi classici.

Un film dove l’elemento horror diventa quasi comico a suo modo, mettendosi in linea con l’horror più violento che andava di moda in quel periodo, ovvero quello della saga di Saw, che al tempo ancora furoreggiava (e che infatti è pure citata nel film). Ma senza mai scadere nel torture porn.

Insomma, da recuperare assolutamente.

Questo inizio ha troppi livelli

Lucy Hale in una scena di Scream 4 (2011) di Wes Craven

You gotta have an opening sequence that blows the door off

La sequenza iniziale deve essere qualcosa di incredibile

L’inizio di Scream 4 credo che sia una delle cose più geniali mai concepite nel cinema horror.

Si comincia con un inizio che sembra l’effettivo inizio del film, in cui fra l’altro la pellicola si mette in linea con tutte le novità sia del genere, sia della società di dieci anni dopo: Facebook, i cellulari, le nuove saghe di successo come Saw.

Ed è la classica sequenza iniziale in cui le due ragazze in casa da sole sono le prime vittime di Ghostface (o di qualsiasi altro killer in uno slasher).

Tuttavia, il film ci catapulta in un altro inizio, che sembra ancora quello vero, con una coppia di ragazze che stava vedendo Stab 6, andando poi a screditarne la validità, perché banale e ripetitivo. Ma una delle due difende la saga per essere diversa dal solito che esce, e a sorpresa accoltella l’amica perché parla troppo.

E questo è l’inizio di Stab 7.

E poi si arriva all’effetto inizio del film che è di fatto quello che sembrava l’inizio all’inizio, in un meraviglioso cortocircuito mentale che ho semplicemente adorato.

Essere drammaticamente attuali

Ghostface in una scena di Scream 4 (2011) di Wes Craven

The killer should be filming the murders

Il killer dovrebbe filmare i suoi omicidi

La grande novità di questa pellicola è l’idea che il killer ora sia sostanzialmente un vlogger, quando questa era ancora una realtà emergente nella nascente cultura di internet e dei social.

Oltre ad essere un elemento di grande freschezza, che raggiunge un interessante apice nel finale, è una questione drammaticamente attuale anche oggi: senza andare a scavare troppo nel torbido, sappiate solo che, in tempi recenti, dei terroristi hanno fatto cose simili.

Ma più in generale, quello che al tempo sembrava una cosa strana o comunque molto nuova, è diventata quasi la quotidianità nel nostro tempo, anche prendendo strade diverse, con vlogger che spopolano su TikTok.

In questo senso, da capogiro lo scambio fra Sidney e Robbie:

– You film your entire high school experience and what, post it on the net?
– Everybody’ll doing it someday, Sid.

Registri la tua intera vita del liceo e poi che fai, lo posti su internet? – Tutti lo faranno in futuro, Sid.

Vecchi moventi, nuovi moventi

Emma Roberts in una scena di Scream 4 (2011) di Wes Craven

You have your 15 minutes, now I want mine!

Hai avuto il tuo momento di gloria, ora è il mio turno!

La genialità del finale sta nel fatto di riprendere un movente simile del primo Scream, ma al contempo riuscendo a renderlo molto più attuale per il suo tempo. Nel primo film la vera radice del movente era la vendetta personale, in questo caso è l’invidia e il desiderio di essere al centro della scena.

Un sentimento tanto più comprensibile oggi, quando la popolarità sembra sempre dietro l’angolo e a portata di mano, tanto è semplice prendere in mano un cellulare e diventare, anche solo per poco tempo, famosi sui social.

In questo caso eravamo ancora all’inizio di questa ubriacatura di popolarità, ma non di meno questo sentimento esisteva.

Come infatti dice la stessa Jill:

We all live in public now, we’re all on the internet

Siamo tutti esposti oggi, siamo tutti su internet

Saper funzionare, 10 anni dopo

Una scena di Stab in una scena di Scream 4 (2011) di Wes Craven

You forgot the first rule of remakes, Jill. Don’t fuck with the original.

Hai dimenticato la regola più importante dei remake, Jill. Non puoi fottere l’originale

Un elemento che mi ha sempre dato da pensare di Scream è il personaggio di Sidney e in generale la volontà di creare una storia tutta in continuità, con il rischio di fare gli stessi errori della saga di Saw, che è andata inutilmente ad incartarsi. E, anche per questo, avevo paura di trovarmi davanti ad una trama ripetitiva.

Ovviamente, non potevo più sbagliarmi.

Sidney è un personaggio che funziona sempre, proprio perché è un personaggio femminile che funziona e che non ricade nella dinamica da Mary Sue. È una giovane donna con tante fragilità, ma che sa sempre rimettersi in piedi, affermare la sua posizione e lottare senza mai arrendersi contro Ghostface.

E in una maniera sempre credibile.

La violenza comica

The kills gotta be way more extreme

Le uccisioni devono essere molto più estreme

Le morti nel film sono tanto estreme da diventare quasi comiche per la loro originalità: abbiamo i poliziotti uccisi con un coltello piantato nel cervello, una ragazza con le budella fuori, tantissimo sangue, fino ad arrivare alla mia preferita:

La madre di Jill uccisa alle spalle col coltello che passa attraverso la buca delle lettere.

Ed è proprio una risposta ad un tipo di cinema e di violenta orrorifica inaugurata proprio da Saw, che fra l’altro non sono mai riuscita ad apprezzare. E infatti non potrei più essere d’accordo con quello che si dice all’inizio del film:

It’s not scary, it’s gross. I hate all that torture porn shit.

Non fa paura, è imbarazzante. Odio tutto quella merda di torture porn.

Il casting pazzesco di Scream 4

Una delle cose che più mi hanno sorpreso è quanto siano riusciti a castare praticamente tutti gli attori più famosi e popolari delle serie tv e film mainstream dall’inizio degli Anni 2000 fino circa a metà del decennio successivo.

Anzitutto Lucy Hale, che interpreta una delle due ragazze di Stab 6, e che era appena sbocciata come star per Pretty Little Liars. Poi Kristen Bell, la voce di Gossip Girl fino al 2011 e che interpreta una delle due ragazze in Stab 7.

Fra le protagoniste, Hayden Panettiere, che interpreta Kirby, che io ricordo soprattutto per Malcolm in the middle, ma che al tempo era molto conosciuta per la serie Heroes. E poi ovviamente Emma Roberts, che bivacchiava fra molti prodotti teen di secondo livello come Wild Child (2008).

Nota di merito anche alla presenza di Adam Brody, attore amatissimo al tempo per O.C. e che qui interpreta uno dei poliziotti, oltre a Rory Culkin, fratello del ben più famoso Macaulay Culkin, che qui interpreta Charlie, uno dei due Ghostface.

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2022 Avventura Azione Comico Commedia Dramma familiare Fantascienza Fantasy Film Oscar 2023

Everything everywhere all at once – Forse troppo

Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche è un film totalmente surreale, che riesce ad unire il genere fantascientifico e fantastico con il dramma familiare.

Un prodotto tanto creativo e profondo tanto, per certi versi, difettoso.

Il film è stato un successo di pubblico incredibile, sopratutto al botteghino statunitense: a fronte comunque di un budget non irrisorio di 25 milioni di dollari, è arrivato ad incassare ben 140 milioni in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Everything everywhere all at once (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior regista
Migliore sceneggiatura originale

Miglior attrice protagonista a Michelle Yeoh
Miglior attore non protagonista a Ke Huy Quan
Migliore attrice non protagonista a Jamie Lee Curtis

Migliore attrice non protagonista a Stephanie Hsu
Miglior montaggio
Migliori costumi
Migliore colonna sonora
Miglior canzone originale

Di cosa parla Everything everywhere all at once?

Evelyn è una donna immigrata che si spacca la schiena dietro alla gestione della sua lavanderia a gettoni e della sua complicata famiglia. Un giorno viene improvvisamente contattata da un uomo che dice di venire da un altro universo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Everything everywhere all at once?

Michelle Yeoh in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Dipende.

Everything everywhere all at once è uno di quei classici film che spaccano il pubblico: è in effetti un prodotto particolarissimo, neanche facilissimo da seguire, ma che, se siete ben disposti, vi entrerà nel cuore.

Insomma, se state cercando un film che è un’esplosione di creatività e di pura estetica, che cerca di trasmettere dei profondi messaggi sulla vita e sulla famiglia, riuscendo anche ad essere discretamente divertente, potrebbe fare per voi.

Se invece non siete propensi ad accettare un film che dà più valore al messaggio e all’estetica che alla trama di per sé, potreste genuinamente odiarlo.

Essere disastrosamente creativi…

Stephanie Hsu in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

La creatività e l’estetica di questo film è non solo ammirabile, ma davvero sensazionale.

Sopratutto con i diversi costumi e aspetti di Joy, riesce a sperimentare e a portare in scena veramente di tutto, con una varietà e una cura del suo personaggio che mi ha fatto veramente impazzire.

Al contempo, anche se le idee raccontate magari non sono il massimo dell’originalità, ma anzi pescano a piene mani da cult come Matrix, i registi riescono comunque a sbizzarrirsi parecchio.

Sopratutto particolarmente divertenti sono i trampolini, anche se ammetto che ho riso meno dei miei compagni in sala (e forse anche di voi), per certe battute.

Insomma, per me l’umorismo è vincente fintanto che non scade nello slapstick.

…ma dimenticarsi del resto

Michelle Yeoh e Jamie Lee Curtis in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Per quanto un film possa essere incredibilmente creativo e artistico, non può dimenticarsi di avere una struttura narrativa, a meno che non voglia lanciare una corrente cinematografica che si ribella alle strutture narrative stesse (e non credo sia questo il caso).

Penso sia più probabile che questa coppia di fantasiosi ma anche talentuosi registi si sia trovata con un’ottima idea fra le mani, ma non sono stati in grado di esplicarla efficacemente in una struttura narrativa.

Infatti sembra che la trama parta in un certo senso immediatamente, senza neanche una introduzione effettiva che porti ad un secondo atto, che si espanda disordinatamente fino ad un finale che è pure efficace, ma che non arriva in maniera organica.

Non del tutto da buttare, ma un pochino più di ordine e di idee chiare avrebbe indubbiamente giovato al film.

La spirale dell’autodistruzione

Stephanie Hsu in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Uno dei punti fondamentali del film è il racconto di questo senso di fallimento e del volersi del tutto annullare.

Volendo andare a leggere più drammaticamente il black bagel, è possibile che si volesse raccontare in maniera anche un po’ più scanzonata la depressione e probabilmente anche il suicidio.

Joy sembra infatti volersi lasciare totalmente travolgere da questo senso di inadeguatezza e di fallimento.

È invece la madre, Evelyn, che accetta infine il suo fallimento, di essere la sua versione peggiore possibile, ma comunque di riuscire ad apprezzare la bellezza di quel poco che ha e di tutto il valore che può avere anche solo stare con suo marito, cosa che in altri universi di successo non ha.

Un finale quasi da commedia, ma ben contestualizzato e che ti scalda il cuore.

Contro il sogno americano

Michelle Yeoh in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Due elementi mi hanno particolarmente colpito della pellicola: la scelta della protagonista e il racconto del sogno americano.

Anzitutto, particolarmente raro vedere come protagonista di un film con elementi anche action una donna di mezza età, con anche la sua controparte di Deirdre, interpretata da un’esplosiva Jamie Lee Curtis.

Altrettanto dissacrante il fatto che la realizzazione personale della protagonista, almeno in potenza, non avvenga negli Stati Uniti, la terra promessa, ma in patria. Anzi, la scelta di immigrare negli Stati Uniti è quello che l’avrebbe portata più alla povertà e alla poca realizzazione.

Una certa novità in un panorama recente che racconta di come gli immigrati negli Stati Uniti che hanno solo da guadagnare nella nuova situazione: basta guardare Shang-chi e la leggenda dei dieci anelli (2021) e Red (2022) per capire la tendenza.

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Scream 3 – Una rara conclusione

Scream 3 (2000) di Wes Craven è il terzo capitolo della saga omonima, che chiude quella che potremmo chiamare la trilogia originale, che venne poi ripresa nel 2011 con Scream 4 e poi ancora nel 2022 con Scream 5.

Il capitolo che, insieme al successivo, ebbe il maggiore budget della saga: ben 40 milioni, ben ricompensato da un incasso complessivo di 161 milioni di dollari.

Di cosa parla Scream 3?

Dopo gli avvenimenti del precedente film, Sidney vive in una vita appartata, nascosta da tutti, per paura di essere di nuovo presa di mira da Ghostface. Tuttavia l’incubo non è finito, con anche la scoperta del passato misterioso della madre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

https://www.youtube.com/watch?v=tyABaaJCRRs&ab_channel=GhostfaceItalia

Vale la pena di vedere Scream 3?

Jenny McCarthy in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

Assolutamente sì.

Per quanto mi riguarda, il terzo capitolo di Scream è anche più interessante del precedente, con una costruzione più mirata e pensata, che è riuscita ad evitare un importante scivolone nel trash, pur esplorando il topos piuttosto tipico di scoperta del passato oscuro dei personaggi, che invece ha una risoluzione semplice ma efficace.

Un film che gioca veramente tanto con lo spettatore e con le sue aspettative, creando un fantastico dialogo metanarrativo fra i personaggi in scena e il film stesso, con un buon esempio di chiusura di una trilogia con poche sbavature.

Insomma, se vi è piaciuto Scream finora, non ve lo potete perdere.

Dialogare con il film

Liev Schreiber in scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

Il tratto metanarrativo di Scream 3 si arricchisce con un elemento nuovo: i personaggi che sembrano dialogare con i creatori stessi del film, tanto più quando sono i personaggi di Stab 3, con un cortocircuito mentale di grande eleganza e genialità.

Si comincia subito con la battuta di Cotton

Why can’t these guys write me a fucking decent part?

Perché non sono capaci di scrivermi una parte decente?

facendo riferimento narrativamente a Stab 3, ma in realtà metanarrativamente proprio al suo ruolo in Scream 2 quanto nel terzo capitolo: nel film precedente era alla stregua del comico-grottesco, mentre in questo capitolo è una delle prime vittime.

Jenny McCarthy in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

Così Sarah, che nel film interpreta Candy, la classica vittima dei film horror di serie b, e che infatti dice:

I’m Candy, the chick the gets killed second

Sono Candy, la sgallettata che viene uccisa per seconda

e infatti è la seconda vittima. Così anche il Detective Kincaid, che fa riferimento a come i killer di solito diano la caccia ai poliziotti che indagano sui loro casi.

Usually one cop makes it

Di solito uno dei poliziotti sopravvive

dice quasi un po’ con speranza. E nel finale rischia non poco di non essere così fortunato.

Il pericolo del trash

Jamie Kennedy in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

The past will come back to bite you in the ass

Il passato si ritorcerà contro di te

Un grande pericolo che ho percepito, soprattutto nella sequenza della cassetta di Randy, era il rischio che volessero strafare, e quindi di ricadere nel trash più putrido. Secondo le sue stesse parole, il terzo film di una saga horror è raro che venga prodotto.

Ma, quando succede, è un film con i fuochi d’artificio.

In particolare l’elemento più pericoloso era l’idea di indagare il passato della madre di Sidney, che poteva scadere nelle più terrificanti dinamiche da soap opera. Invece si è scelto di raccontare una backstory abbastanza semplice e credibile, in cui semplicemente la madre era un’aspirante attrice divenuta vittima delle ben note dinamiche di sfruttamento sessuale di Hollywood.

Il topos del killer imbattibile

Ghostface in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

You’ve got a killer who’s gonna be superhuman

Il killer è come un super umano

È tremendamente attuale il racconto che Scream 3 fa del topos del killer imbattibile: basti solo pensare che la questione è diventata quasi un meme per il personaggio di Michael Myers nella nuova trilogia di Halloween, dove torna sempre in vita, nella maniera più ridicola e incredibile che potete immaginare.

E senza voler essere divertenti.

In questo caso effettivamente il killer sembra effettivamente imbattibile, ma c’è una giusta ragione: si è attrezzato con una tuta antiproiettile. Tuttavia, una volta scoperto, basta semplicemente sparargli alla testa per riuscire effettivamente a batterlo.

Anche se comunque, in maniera ovviamente comica, Ghostface torna in vita.

Il buon finale per Sidney

Anyone, including the main character, can die

Chiunque, compreso il personaggio principale, può morire

Per mettere un po’ di pepe alla narrazione, all’interno del film si nomina la possibilità che la protagonista, la scream queen, possa effettivamente rischiare la vita e perdere del tutto la plot-armor che la definisce.

Ed infatti sembra che Sidney rischi più volte la vita, e, ad un certo punto, sembra davvero morta, ma utilizza lo stesso trucco del killer: si è protetta con la tuta antiproiettile ed effettivamente scompare dopo che è sembrato essere morta, cogliendo contropiede il killer stesso.

Una scelta che ho trovato veramente geniale.

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Videodrome – Un sogno complottista

Videodrome (1983) è un film di David Cronenberg, fra i più famosi della sua produzione. A soli due anni dal precedente Scanners (1981), il regista portava in scena un altro film destinato a diventare un piccolo cult di genere, per il suo incontro vincente fra lo sci-fi e il body-horror.

Una produzione con un budget sempre risicatissimo (intorno ai 5 milioni), che però, a differenza del precedente, fu un pesante flop commerciale: appena 2,4 milioni di dollari d’incasso.

E i motivi non sono difficili da capire.

Di cosa parla Videodrome?

Max è a capo di Channel 83, un canale di porno e soft-porn. La sua vita sembra procedere normalmente, andando alla ricerca di programmi ancora più spinti da proporre, fra cui il misterioso Videodrome…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Videodrome?

Una scena da Videodrome (1983) di David Cronenberg

In generale, sì.

È un film che indubbiamente non può mancare nel vostro bagaglio cinematografico, soprattutto se siete interessati alla cinematografia di Cronenberg.

Tuttavia, aspettatevi di trovarvi davanti ad un prodotto con un intreccio e dei significati ben più complessi di Scanners e molto meno immediatamente comprensibile, con tante scene enigmatiche e dal sapore surreale.

È giusto segnalare che all’interno della pellicola le scene più disturbarti non sono tanto quelle di sesso, ma quelle di tortura. Niente di troppo esplicito, ma comunque neanche digeribile da tutti.

Ma voi provateci.

E se avete dubbi sul finale, potete sempre tornare qui.

Perché Videodrome è stato un flop?

All’interno di una produzione di Cronenberg ancora con budget molto ridotti, è davvero curioso che questo film ebbe un riscontro così scarso, tanto da portarlo ad un flop.

Tuttavia, una volta visto il film, non è neanche tanto strano.

Oltre alle scene di violenza non facilmente digeribili, ci sono molte sequenze di body horror non poco disturbanti, e che sembrano tutto tranne che finte. E, come se tutto questo non bastasse, il finale è incredibilmente enigmatico.

Il tutto da un autore già conosciuto per far dei film molto sui generis, e quindi non per tutti i palati.

E, per questo, il passaparola negativo potrebbe davvero averlo affossato.

Il potere del trucco prostetico

Una scena da Videodrome (1983) di David Cronenberg

Il livello degli effetti speciali di questa pellicola, che, ricordiamo è stata prodotta con pochissimo, è devastante: in tutte le scene in cui sono utilizzati, soprattutto in quelli più surreali, non ho mai avuto un momento in cui non credevo a quello che vedevo in scena.

Sembra tutto così realistico e credibile, anche in scelte più impegnative come quelle in cui Max si apre il petto e diverse volte viene penetrato, da mani e da videocassette, momenti in cui ho sentito veramente tutto il dolore del personaggio.

Per non parlare degli effetti della mano-pistola.

Tuttavia, proprio riguardo a questo, l’unico momento in cui ho fatto fatica a sospendere l’incredulità è stato quando gli si forma effettivamente la mano-pistola, dove si vede abbastanza chiaramente che (come è ovvio) non è la sua vera mano e che poi nella scena successiva, è effettivamente la mano vera:

Una scena da Videodrome (1983) di David Cronenberg

L’inquadratura della mano che si trasforma

Una scena da Videodrome (1983) di David Cronenberg

L’inquadratura della mano trasformata

Un ottimo protagonista

Come ero rimasta perplessa dalla recitazione e in generale dal personaggio protagonista di Scanners, sono rimasta invece piacevolmente sorpresa da James Woods in questa pellicola.

Questo attore, oltre ad avere la faccia proprio da uomo comune assolutamente credibile, riesce a reggere perfettamente la scena in tutti i momenti diversi che deve affrontare il suo personaggio, con un’ottima capacità espressiva che mi ha davvero conquistato.

Cosa succede nel finale di Videodrome?

Il finale di Videodrome è assolutamente aperto alle interpretazioni.

Quella che preferisco è pensare che Nicki in realtà non sia mai esistita, ma sia sempre stata un’allucinazione di Max (almeno per la loro relazione), che racconta il suo lato più estremo, che il protagonista cerca di sfuggire.

Alla fine, Nicki diventa nient’altro che una sorta di sua voce della coscienza: Max si trova senza poter più fare niente, ricercato per omicidi che compiuto per ordine di altri. Quindi vuole definitivamente liberarsi della vecchia carne ed entrare in questo immaginario (?) televisivo che rappresenta la sua più estrema fantasia sessuale.

E lo confermerebbe il primo epilogo, poi tolto dalla versione finale, dove Max e Nicki si trovavano nel Videodrome.

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The Royal Tanenbaums – Iconici e acerbi

The Royal Tenenbaums (2001) è uno dei primi film di Wes Anderson, quando era ancora un regista molto di nicchia. Infatti in questa pellicola si nota come non fosse ancora il Wes Anderson che conosciamo oggi, per così dire.

Un piccolo film prodotto con un budget non minuscolo: fra i 21 e i 28 milioni, con un incasso di 71 milioni di dollari, rendendolo un buon successo commerciale.

E diventando per certi versi involontariamente iconico.

Di cosa parla The Royal Tanenbaums?

I Tanenbaum sono una famiglia imperfetta: i figli crescono con un’infanzia molto particolare, additati fin da subito come piccoli geni, dilaniati dai traumi e dal padre assente, che decide improvvisamente far capolino nella loro vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare The Royal Tenenbaums?

Gwyneth Paltrow e Bill Murray in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Oltre ad essere complessivamente un film molto gradevole e con una durata assolutamente digeribile, è sicuramente un prodotto da riscoprire se siete appassionati di Wes Anderson.

Infatti in questa pellicola si trova un Anderson ancora acerbo e alle prime armi, ma che già mostrava i primi semi dei suoi temi più cari, ripresi in film successivi, e della sua estetica.

Tuttavia, è dovuto indicare dei trigger alert: è fra i prodotti più dark della sua produzione, quindi si parla in maniera abbastanza esplicita del suicidio e della morte in generale.

Pur contenute all’interno del genere della commedia, non mancano le scene d’impatto, una in particolare piuttosto forte.

A parte questo, vale assolutamente la pena di recuperarlo.

Involontariamente iconici

Oggi, davanti alle commedie con finali e risvolti agrodolci di Wes Anderson, consideriamo questi aspetti come un suo tratto autoriale.

Tuttavia in The Royal Tenenbaums questo taglio decisamente drammatico e dark sembra più raccontare il sentimento della generazione proprio del periodo in cui la storia è ambientata, in cui discorsi sul suicidio (veri o presunti) erano quasi all’ordine del giorno.

Quindi il racconto di questi ragazzi così tormentati e pieni di traumi, che non riescono a vivere serenamente la propria vita familiare e soprattutto sentimentale, era del tutto riconoscibili dai giovani di quella generazione.

In particolare nel personaggio di Margot.

Un’icona imperfetta

Gwyneth Paltrow in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

Margot, ad una lettura più superficiale, potrebbe apparire come la classica adolescente di quel periodo.

La matita nera sotto agli occhi, l’atteggiamento distaccato e misterioso…insomma la ragazza enigmatica che era il sogno di tanti adolescenti, che avrebbero voluto essere anche solo la metà interessanti quanto lei.

E non a caso il suo personaggio è diventato iconico ed è stato per molto tempo citato continuamente, anche solo per le GIF che la ritraevano, anche da persone che probabilmente non avevano visto il film.

Ma in realtà Margot è molto di più.

Una giovane donna con davvero un’infanzia traumatica, che ha esplorato il mondo in lungo e in largo alla ricerca di sé stessa, con azioni anche piuttosto estreme che nessuno ha provato a frenare, anzi è stata in un certo modo incoraggiata per l’aura di mistero e ammirazione che la circondava.

Ma questo l’ha portata anche a non saper avere relazioni sane e soddisfacenti, tradendo la fiducia di più e più persone. In ultimo si è trovata sola, in un matrimonio poco soddisfacente, andando ancora a rincorrere un amore adolescenziale…

L’assenza involontaria?

Gene Hackman in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

Royal Tenenbaum è una figura nel suo piccolo piuttosto complessa.

Un padre assente per la maggior parte della vita dei suoi figli, senza neanche saperne veramente il motivo. In un certo senso sembra che si sia lasciato trascinare dagli eventi e dal suo istinto, facendo quello che in quel momento gli sembrava più giusto, senza starci troppo a pensare.

Per questo si è però col tempo totalmente allontanato dalla propria famiglia, a cui comunque voleva bene, facendo nel corso della pellicola una serie di sforzi più o meno maldestri (e neanche del tutto giusti) per riavvicinarsi a loro.

Il tutto sopratutto per riacquistare la propria posizione con la moglie, alla fine rendendosi conto di quanto si fosse perso senza di loro.

Con un ultimo momento di felicità prima di morire, per davvero.

Raccontare i traumi

Luke Wilson in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

The Royal Tenenbaums è un film che parla soprattutto di traumi.

Anzitutto Richie, che ha vissuto tutta la vita all’ombra di Margot, tanto da rinunciare al suo talento per il tennis proprio perché ferito dal suo non aver scelto lui come partner.

E per lo stesso motivo decide anche di provare a togliersi la vita, con un atto estremo in cui si spoglia della sua identità. Tuttavia questo gli permette in un certo senso di fare la muta, di ricominciare a vivere con una persona almeno un po’ più consapevole di se stessa.

Non da meno è anche Chas, totalmente traumatizzato dalla morte della moglie, tanto da fare di tutto per continuare a tenere il più possibile al sicuro i propri figli da qualunque pericolo, anche il più assurdo.

E, a sorpresa, ritrova la sua tranquillità e accetta il suo trauma proprio grazie al padre.

In tono minore, ma comunque con un personaggio molto tipico da Wes Anderson, è Eli Cash, il cui problema più evidente è la sua dipendenza dalla droga, ma in realtà altrettanto problematico è il suo non riuscire ad affermarsi ed essere un artista fallito, che non trova mai la sua vera strada nella vita, anelando sempre di essere quello che non è: un Tenenbaums.

I semi di Wes Anderson

Luke Wilson in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

Come detto, in questa pellicola si trovano molti temi cari e i caratteri che già definiranno l’estetica di Wes Anderson negli anni a venire.

Oltre al tipo di estetica vintage, ispirata alle atmosfere degli Anni Sessanta, spicca molto anche l’utilizzo delle luci piene e aranciate, oltre alla cura già piuttosto centrale per i dettagli della scena.

Il tipo di personaggi sono molto tipici di Wes Anderson, a partire dal padre imperfetto, che si vide poi in Fantastic Mr Fox (2008) e la donna enigmatica, come poi in Moonrise Kingdom (2012).

Così anche le ambientazioni: prima di tutto dell’hotel, che sarà il grande protagonista in Gran Budapest Hotel (2016), e le atmosfere marine che poi saranno al centro di Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004).

Ma soprattutto le prime avvisaglie della sua ossessione per la simmetria delle scene si vedono molto bene in questa inquadratura:

Luke Wilson e Gwyneth Paltrow in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson