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Scream 3 – Una rara conclusione

Scream 3 (2000) di Wes Craven è il terzo capitolo della saga omonima, che chiude quella che potremmo chiamare la trilogia originale, che venne poi ripresa nel 2011 con Scream 4 e poi ancora nel 2022 con Scream 5.

Il capitolo che, insieme al successivo, ebbe il maggiore budget della saga: ben 40 milioni, ben ricompensato da un incasso complessivo di 161 milioni di dollari.

Di cosa parla Scream 3?

Dopo gli avvenimenti del precedente film, Sidney vive in una vita appartata, nascosta da tutti, per paura di essere di nuovo presa di mira da Ghostface. Tuttavia l’incubo non è finito, con anche la scoperta del passato misterioso della madre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

https://www.youtube.com/watch?v=tyABaaJCRRs&ab_channel=GhostfaceItalia

Vale la pena di vedere Scream 3?

Jenny McCarthy in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

Assolutamente sì.

Per quanto mi riguarda, il terzo capitolo di Scream è anche più interessante del precedente, con una costruzione più mirata e pensata, che è riuscita ad evitare un importante scivolone nel trash, pur esplorando il topos piuttosto tipico di scoperta del passato oscuro dei personaggi, che invece ha una risoluzione semplice ma efficace.

Un film che gioca veramente tanto con lo spettatore e con le sue aspettative, creando un fantastico dialogo metanarrativo fra i personaggi in scena e il film stesso, con un buon esempio di chiusura di una trilogia con poche sbavature.

Insomma, se vi è piaciuto Scream finora, non ve lo potete perdere.

Dialogare con il film

Liev Schreiber in scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

Il tratto metanarrativo di Scream 3 si arricchisce con un elemento nuovo: i personaggi che sembrano dialogare con i creatori stessi del film, tanto più quando sono i personaggi di Stab 3, con un cortocircuito mentale di grande eleganza e genialità.

Si comincia subito con la battuta di Cotton

Why can’t these guys write me a fucking decent part?

Perché non sono capaci di scrivermi una parte decente?

facendo riferimento narrativamente a Stab 3, ma in realtà metanarrativamente proprio al suo ruolo in Scream 2 quanto nel terzo capitolo: nel film precedente era alla stregua del comico-grottesco, mentre in questo capitolo è una delle prime vittime.

Jenny McCarthy in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

Così Sarah, che nel film interpreta Candy, la classica vittima dei film horror di serie b, e che infatti dice:

I’m Candy, the chick the gets killed second

Sono Candy, la sgallettata che viene uccisa per seconda

e infatti è la seconda vittima. Così anche il Detective Kincaid, che fa riferimento a come i killer di solito diano la caccia ai poliziotti che indagano sui loro casi.

Usually one cop makes it

Di solito uno dei poliziotti sopravvive

dice quasi un po’ con speranza. E nel finale rischia non poco di non essere così fortunato.

Il pericolo del trash

Jamie Kennedy in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

The past will come back to bite you in the ass

Il passato si ritorcerà contro di te

Un grande pericolo che ho percepito, soprattutto nella sequenza della cassetta di Randy, era il rischio che volessero strafare, e quindi di ricadere nel trash più putrido. Secondo le sue stesse parole, il terzo film di una saga horror è raro che venga prodotto.

Ma, quando succede, è un film con i fuochi d’artificio.

In particolare l’elemento più pericoloso era l’idea di indagare il passato della madre di Sidney, che poteva scadere nelle più terrificanti dinamiche da soap opera. Invece si è scelto di raccontare una backstory abbastanza semplice e credibile, in cui semplicemente la madre era un’aspirante attrice divenuta vittima delle ben note dinamiche di sfruttamento sessuale di Hollywood.

Il topos del killer imbattibile

Ghostface in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

You’ve got a killer who’s gonna be superhuman

Il killer è come un super umano

È tremendamente attuale il racconto che Scream 3 fa del topos del killer imbattibile: basti solo pensare che la questione è diventata quasi un meme per il personaggio di Michael Myers nella nuova trilogia di Halloween, dove torna sempre in vita, nella maniera più ridicola e incredibile che potete immaginare.

E senza voler essere divertenti.

In questo caso effettivamente il killer sembra effettivamente imbattibile, ma c’è una giusta ragione: si è attrezzato con una tuta antiproiettile. Tuttavia, una volta scoperto, basta semplicemente sparargli alla testa per riuscire effettivamente a batterlo.

Anche se comunque, in maniera ovviamente comica, Ghostface torna in vita.

Il buon finale per Sidney

Anyone, including the main character, can die

Chiunque, compreso il personaggio principale, può morire

Per mettere un po’ di pepe alla narrazione, all’interno del film si nomina la possibilità che la protagonista, la scream queen, possa effettivamente rischiare la vita e perdere del tutto la plot-armor che la definisce.

Ed infatti sembra che Sidney rischi più volte la vita, e, ad un certo punto, sembra davvero morta, ma utilizza lo stesso trucco del killer: si è protetta con la tuta antiproiettile ed effettivamente scompare dopo che è sembrato essere morta, cogliendo contropiede il killer stesso.

Una scelta che ho trovato veramente geniale.

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Videodrome – Un sogno complottista

Videodrome (1983) è un film di David Cronenberg, fra i più famosi della sua produzione. A soli due anni dal precedente Scanners (1981), il regista portava in scena un altro film destinato a diventare un piccolo cult di genere, per il suo incontro vincente fra lo sci-fi e il body-horror.

Una produzione con un budget sempre risicatissimo (intorno ai 5 milioni), che però, a differenza del precedente, fu un pesante flop commerciale: appena 2,4 milioni di dollari d’incasso.

E i motivi non sono difficili da capire.

Di cosa parla Videodrome?

Max è a capo di Channel 83, un canale di porno e soft-porn. La sua vita sembra procedere normalmente, andando alla ricerca di programmi ancora più spinti da proporre, fra cui il misterioso Videodrome…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Videodrome?

Una scena da Videodrome (1983) di David Cronenberg

In generale, sì.

È un film che indubbiamente non può mancare nel vostro bagaglio cinematografico, soprattutto se siete interessati alla cinematografia di Cronenberg.

Tuttavia, aspettatevi di trovarvi davanti ad un prodotto con un intreccio e dei significati ben più complessi di Scanners e molto meno immediatamente comprensibile, con tante scene enigmatiche e dal sapore surreale.

È giusto segnalare che all’interno della pellicola le scene più disturbarti non sono tanto quelle di sesso, ma quelle di tortura. Niente di troppo esplicito, ma comunque neanche digeribile da tutti.

Ma voi provateci.

E se avete dubbi sul finale, potete sempre tornare qui.

Perché Videodrome è stato un flop?

All’interno di una produzione di Cronenberg ancora con budget molto ridotti, è davvero curioso che questo film ebbe un riscontro così scarso, tanto da portarlo ad un flop.

Tuttavia, una volta visto il film, non è neanche tanto strano.

Oltre alle scene di violenza non facilmente digeribili, ci sono molte sequenze di body horror non poco disturbanti, e che sembrano tutto tranne che finte. E, come se tutto questo non bastasse, il finale è incredibilmente enigmatico.

Il tutto da un autore già conosciuto per far dei film molto sui generis, e quindi non per tutti i palati.

E, per questo, il passaparola negativo potrebbe davvero averlo affossato.

Il potere del trucco prostetico

Una scena da Videodrome (1983) di David Cronenberg

Il livello degli effetti speciali di questa pellicola, che, ricordiamo è stata prodotta con pochissimo, è devastante: in tutte le scene in cui sono utilizzati, soprattutto in quelli più surreali, non ho mai avuto un momento in cui non credevo a quello che vedevo in scena.

Sembra tutto così realistico e credibile, anche in scelte più impegnative come quelle in cui Max si apre il petto e diverse volte viene penetrato, da mani e da videocassette, momenti in cui ho sentito veramente tutto il dolore del personaggio.

Per non parlare degli effetti della mano-pistola.

Tuttavia, proprio riguardo a questo, l’unico momento in cui ho fatto fatica a sospendere l’incredulità è stato quando gli si forma effettivamente la mano-pistola, dove si vede abbastanza chiaramente che (come è ovvio) non è la sua vera mano e che poi nella scena successiva, è effettivamente la mano vera:

Una scena da Videodrome (1983) di David Cronenberg

L’inquadratura della mano che si trasforma

Una scena da Videodrome (1983) di David Cronenberg

L’inquadratura della mano trasformata

Un ottimo protagonista

Come ero rimasta perplessa dalla recitazione e in generale dal personaggio protagonista di Scanners, sono rimasta invece piacevolmente sorpresa da James Woods in questa pellicola.

Questo attore, oltre ad avere la faccia proprio da uomo comune assolutamente credibile, riesce a reggere perfettamente la scena in tutti i momenti diversi che deve affrontare il suo personaggio, con un’ottima capacità espressiva che mi ha davvero conquistato.

Cosa succede nel finale di Videodrome?

Il finale di Videodrome è assolutamente aperto alle interpretazioni.

Quella che preferisco è pensare che Nicki in realtà non sia mai esistita, ma sia sempre stata un’allucinazione di Max (almeno per la loro relazione), che racconta il suo lato più estremo, che il protagonista cerca di sfuggire.

Alla fine, Nicki diventa nient’altro che una sorta di sua voce della coscienza: Max si trova senza poter più fare niente, ricercato per omicidi che compiuto per ordine di altri. Quindi vuole definitivamente liberarsi della vecchia carne ed entrare in questo immaginario (?) televisivo che rappresenta la sua più estrema fantasia sessuale.

E lo confermerebbe il primo epilogo, poi tolto dalla versione finale, dove Max e Nicki si trovavano nel Videodrome.

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The Royal Tanenbaums – Iconici e acerbi

The Royal Tenenbaums (2001) è uno dei primi film di Wes Anderson, quando era ancora un regista molto di nicchia. Infatti in questa pellicola si nota come non fosse ancora il Wes Anderson che conosciamo oggi, per così dire.

Un piccolo film prodotto con un budget non minuscolo: fra i 21 e i 28 milioni, con un incasso di 71 milioni di dollari, rendendolo un buon successo commerciale.

E diventando per certi versi involontariamente iconico.

Di cosa parla The Royal Tanenbaums?

I Tanenbaum sono una famiglia imperfetta: i figli crescono con un’infanzia molto particolare, additati fin da subito come piccoli geni, dilaniati dai traumi e dal padre assente, che decide improvvisamente far capolino nella loro vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare The Royal Tenenbaums?

Gwyneth Paltrow e Bill Murray in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Oltre ad essere complessivamente un film molto gradevole e con una durata assolutamente digeribile, è sicuramente un prodotto da riscoprire se siete appassionati di Wes Anderson.

Infatti in questa pellicola si trova un Anderson ancora acerbo e alle prime armi, ma che già mostrava i primi semi dei suoi temi più cari, ripresi in film successivi, e della sua estetica.

Tuttavia, è dovuto indicare dei trigger alert: è fra i prodotti più dark della sua produzione, quindi si parla in maniera abbastanza esplicita del suicidio e della morte in generale.

Pur contenute all’interno del genere della commedia, non mancano le scene d’impatto, una in particolare piuttosto forte.

A parte questo, vale assolutamente la pena di recuperarlo.

Involontariamente iconici

Oggi, davanti alle commedie con finali e risvolti agrodolci di Wes Anderson, consideriamo questi aspetti come un suo tratto autoriale.

Tuttavia in The Royal Tenenbaums questo taglio decisamente drammatico e dark sembra più raccontare il sentimento della generazione proprio del periodo in cui la storia è ambientata, in cui discorsi sul suicidio (veri o presunti) erano quasi all’ordine del giorno.

Quindi il racconto di questi ragazzi così tormentati e pieni di traumi, che non riescono a vivere serenamente la propria vita familiare e soprattutto sentimentale, era del tutto riconoscibili dai giovani di quella generazione.

In particolare nel personaggio di Margot.

Un’icona imperfetta

Gwyneth Paltrow in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

Margot, ad una lettura più superficiale, potrebbe apparire come la classica adolescente di quel periodo.

La matita nera sotto agli occhi, l’atteggiamento distaccato e misterioso…insomma la ragazza enigmatica che era il sogno di tanti adolescenti, che avrebbero voluto essere anche solo la metà interessanti quanto lei.

E non a caso il suo personaggio è diventato iconico ed è stato per molto tempo citato continuamente, anche solo per le GIF che la ritraevano, anche da persone che probabilmente non avevano visto il film.

Ma in realtà Margot è molto di più.

Una giovane donna con davvero un’infanzia traumatica, che ha esplorato il mondo in lungo e in largo alla ricerca di sé stessa, con azioni anche piuttosto estreme che nessuno ha provato a frenare, anzi è stata in un certo modo incoraggiata per l’aura di mistero e ammirazione che la circondava.

Ma questo l’ha portata anche a non saper avere relazioni sane e soddisfacenti, tradendo la fiducia di più e più persone. In ultimo si è trovata sola, in un matrimonio poco soddisfacente, andando ancora a rincorrere un amore adolescenziale…

L’assenza involontaria?

Gene Hackman in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

Royal Tenenbaum è una figura nel suo piccolo piuttosto complessa.

Un padre assente per la maggior parte della vita dei suoi figli, senza neanche saperne veramente il motivo. In un certo senso sembra che si sia lasciato trascinare dagli eventi e dal suo istinto, facendo quello che in quel momento gli sembrava più giusto, senza starci troppo a pensare.

Per questo si è però col tempo totalmente allontanato dalla propria famiglia, a cui comunque voleva bene, facendo nel corso della pellicola una serie di sforzi più o meno maldestri (e neanche del tutto giusti) per riavvicinarsi a loro.

Il tutto sopratutto per riacquistare la propria posizione con la moglie, alla fine rendendosi conto di quanto si fosse perso senza di loro.

Con un ultimo momento di felicità prima di morire, per davvero.

Raccontare i traumi

Luke Wilson in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

The Royal Tenenbaums è un film che parla soprattutto di traumi.

Anzitutto Richie, che ha vissuto tutta la vita all’ombra di Margot, tanto da rinunciare al suo talento per il tennis proprio perché ferito dal suo non aver scelto lui come partner.

E per lo stesso motivo decide anche di provare a togliersi la vita, con un atto estremo in cui si spoglia della sua identità. Tuttavia questo gli permette in un certo senso di fare la muta, di ricominciare a vivere con una persona almeno un po’ più consapevole di se stessa.

Non da meno è anche Chas, totalmente traumatizzato dalla morte della moglie, tanto da fare di tutto per continuare a tenere il più possibile al sicuro i propri figli da qualunque pericolo, anche il più assurdo.

E, a sorpresa, ritrova la sua tranquillità e accetta il suo trauma proprio grazie al padre.

In tono minore, ma comunque con un personaggio molto tipico da Wes Anderson, è Eli Cash, il cui problema più evidente è la sua dipendenza dalla droga, ma in realtà altrettanto problematico è il suo non riuscire ad affermarsi ed essere un artista fallito, che non trova mai la sua vera strada nella vita, anelando sempre di essere quello che non è: un Tenenbaums.

I semi di Wes Anderson

Luke Wilson in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

Come detto, in questa pellicola si trovano molti temi cari e i caratteri che già definiranno l’estetica di Wes Anderson negli anni a venire.

Oltre al tipo di estetica vintage, ispirata alle atmosfere degli Anni Sessanta, spicca molto anche l’utilizzo delle luci piene e aranciate, oltre alla cura già piuttosto centrale per i dettagli della scena.

Il tipo di personaggi sono molto tipici di Wes Anderson, a partire dal padre imperfetto, che si vide poi in Fantastic Mr Fox (2008) e la donna enigmatica, come poi in Moonrise Kingdom (2012).

Così anche le ambientazioni: prima di tutto dell’hotel, che sarà il grande protagonista in Gran Budapest Hotel (2016), e le atmosfere marine che poi saranno al centro di Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004).

Ma soprattutto le prime avvisaglie della sua ossessione per la simmetria delle scene si vedono molto bene in questa inquadratura:

Luke Wilson e Gwyneth Paltrow in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson
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Scream 2 – I sequel fanno schifo?

Scream 2 (1997) di Wes Craven è il sequel dell’omonimo prodotto uscito l’anno precedente: a fronte del grande successo commerciale della prima pellicola, non poteva che esserci un secondo film.

Per il secondo film il budget fu in proporzione molto aumentato (da 15 a 24 milioni), con quantomeno una conferma del successo, nonostante l’incasso leggermente inferiore di 172 milioni di dollari (il primo ne aveva incassati 183).

Di cosa parla Scream 2?

Qualche anno dopo le vicende del primo film, Sidney è al collage e cerca di condurre una vita normale. Ovviamente questo non è possibile, perché l’incubo che ha vissuto sembra concretizzarsi nuovamente…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scream 2?

Assolutamente sì.

Per quanto possiate odiare i sequel, non fermatevi al primo film: Scream 2 è un prodotto con una grande dignità, che conferma la genialità della metanarrativa del primo film, arrivando a prendersi in giro in maniera decisamente brillante.

L’unico avvertimento, e che mi ha leggermente deluso, è il fatto che l’elemento metanarrativo è più forte, ma molto meno presente rispetto alla prima pellicola, risultando complessivamente un prodotto più dispersivo, complice anche la durata maggiore.

Comunque, vale assolutamente la pena di recuperarlo.

I sequel fanno schifo?

Stab 2? Who wanna do it? Sequels suck

Stab 2? Ma chi lo vuole. I sequel fanno schifo.

Il titolo di questo articolo è volutamente provocatorio, come d’altronde l’argomento all’interno della pellicola. Un’intera sequenza è dedicata a questo tema, in cui si condanna esplicitamente i sequel degli horror, che hanno rovinato il genere

The entire horror genre was destroyed by sequels

L’intero genere horror è stato distrutto dai sequel

La forza di Scream 2 è la sua capacità di voler essere alternativo ai topos che definisco i sequel del genere, come spiega Randy:

The body count is always bigger […] The death scenes are always much more elaborate.

Il numero dei morti è sempre maggiore […] Le scene di morte sono più elaborate

Infatti, sicuramente possiamo dire che il conto delle morti è decisamente maggiore, e per certi versi anche giustificato: il killer in questo caso non aveva specificatamente in mente di uccidere Sidney, ma di costruire un caso e un grande scandalo. D’altronde, come spiega molto bene

It’s a classic case of life imitating art imitating life

È un classico caso della vita vera che imita l’arte che imita la vita vera

La genialità di Stab

Tutta la sequenza iniziale è, oltre che divertentissima, assolutamente geniale.

Anzitutto perché il titolo così stupido (come sottolineato dagli stessi personaggi) del film nel film, ironizza in realtà anche col titolo del franchise stesso.

Insomma, Stab è un titolo tanto più stupido di Scream?

Ma è un elemento intrinseco della narrazione, che vuole parodiare, senza mai cadere nel ridicolo, tutto il filone horror. E anche in questo caso ci riesce perfettamente, particolarmente nelle scene di Stab che sono le versioni cheap del primo film.

I personaggi afroamericani sono dei token?

Un elemento altrettanto interessante della prima sequenza del film è il discorso riguardo alla poca presenza di attori afroamericani all’interno del genere horror.

E in questo senso il film fa una scelta molto intelligente.

Oltre a dedicare una delle parti più importanti e significative della pellicola proprio a degli attori neri, la pellicola ha cercato di includerne il più possibile nel cast dove c’era spazio, azzoppato dal fatto di dover recuperare i personaggi del film precedente, che erano tutti inevitabilmente bianchi.

Tuttavia, lodevole il tentativo di includere personaggi secondari interpretati da attori afroamericani con significato e un ruolo preciso nella pellicola, non stereotipati e soprattutto non le prime vittime della situazione. Anzi, il cameraman si defila dalla situazione proprio per non diventare una vittima.

Si potrebbe discutere all’infinito se questi personaggi non fossero altro che dei token, ma per il tempo in cui è uscita la pellicola è stato un passo avanti interessante e lodevole.

Costruire un finale efficace

Serial killer are typically white males

I serial killer di solito sono uomini bianchi

Uno dei punti più alti del primo film era il finale, in cui si parlava ancora più metanarrativamente dei finali dei film horror. E in questo caso il film ha deciso di puntare ancora più in alto.

Anzitutto sono riusciti a portare sempre una coppia di killer con motivazioni diverse, ma che coprono tutte le necessità del film. Abbiamo da una parte un personaggio esageratissimo che racchiude al suo interno tutte le già citate necessità di raccontare un sequel.

Dall’altra abbiamo un killer ancora con motivazioni molto terrene come nella prima pellicola, fra l’altro andando a portare una serial killer donna, cosa che, per ammissione dello stesso film, è molto raro.

E, nonostante sia stata una sequenza estremamente e volutamente violenta, la scelta dei protagonisti che sparano gli ultimi colpi di pistola (dovuti e precauzionali) sui loro corpi, con tanto di Mickey che riprende improvvisamente vita come da buon cliché di un qualsiasi horror.

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Scanners – Basta poco

Scanners (1981) è uno dei più importanti film di David Cronenberg, che rappresenta l’esempio tipico della sua filmografia, con un incontro l’horror e lo sci-fi classico.

Un film fatto con poco, praticamente nulla, ma che da quel poco riesce a trarre un prodotto validissimo.

Il budget si aggira infatti intorno ai 3,5 milioni di dollari (circa 11 milioni oggi), e ne incassò 14,2 milioni. Un buon successo tutto sommato, che portò infatti alla creazione di un franchise a dieci anni di distanza, senza però il coinvolgimento di Cronenberg.

E ci sono ottime ragioni sul perché non avrebbero dovuto farlo.

Di cosa parla Scanners?

Nel 1981, nella società esistono diverse persone con capacità telepatiche, potenzialmente mortali. Il gruppo ha un capo Darryl Revok, che vuole distruggere la società che l’ha creato e contro cui si oppone Cameron Vale, un uomo inconsapevole dei suoi poteri e delle sue origini…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Scanners?

Michael Ironside in una scena di Scanners (1981) di David Cronemberg

In generale, sì.

Forse non il miglior prodotto del regista, ma quello in cui è riuscito tanto di più a lavorare con quello che aveva, mostrando una regia molto indovinata, effetti speciali tutto sommato di ottima fattura e una storia complessivamente molto intrigante.

Aiuta anche una durata molto contenuta, che lo rende un prodotto facilmente digeribile, nonostante appaia decisamente più interessante nella prima parte, mentre sul finale diventa leggermente più lento e meno interessante.

Comunque un piccolo cult di Cronenberg da recuperare.

Il potere della regia…

Stephen Lack in una scena di Scanners (1981) di David Cronemberg

Come detto, Scanners è un prodotto un low-budget, paragonabile ai più recenti The Lighthouse (2021) e X – A sexy horror story (2022), che ci dimostrano proprio come anche con pochissimo si possono fare prodotti di alta qualità. In questo caso basta del trucco prostetico e degli effetti da discount, che a volte sembrano quasi ridicoli, per portare in scena sequenze di grande effetto.

Particolarmente iconica è la scena dello scontro finale, in cui i due scanners hanno le vene che si gonfiano e scoppiano, si strappano pezzi di carne, con degli effetti visivi evidentemente di un’altra epoca, ma che sono comunque davvero d’impatto.

Tuttavia, l’altro caposaldo del film dovrebbero essere gli attori…

…e il problema degli attori

Michael Ironside in una scena di Scanners (1981) di David Cronemberg

Nonostante il casting sia molto indovinato (l’eroe e l’antagonista hanno una fisionomia facciale perfetta per i loro ruoli), purtroppo l’unico attore che riesce veramente a sostenere la parte senza sembrare sciatto o ridicolo è Michael Ironside, che interpreta Darryl Revok.

Il suo personaggio è perfetto nel suo essere intrigante e profondamente malvagio.

Non si può dire lo stesso dell’attore protagonista, Stephen Lack, che interpreta Cameron: soprattutto sul finale, ha una recitazione veramente apatica, che non riesce trasmettere l’importanza delle rivelazioni e di quello che sta succedendo in scena. Il tutto aggravato dalla recitazione dell’attrice di Kim, che fra tutti è la peggiore.

E nel momento in cui tutta la credibilità della scena è rimessa nelle mani degli attori, la mancanza di credibilità degli stessi guasta certe scene.

Un eroe positivo?

In prima battuta Cameron sembrerebbe un eroe positivo, del tutto ignaro delle sue capacità, e che il Dottor Ruth sembra voler maneggiare a suo vantaggio. In realtà fin da subito, e poi per tutto il resto del film, si vedono delle ombre non indifferenti sul suo personaggio.

Anzitutto, perché utilizza con convinzione e con pochi scrupoli i suoi poteri, senza farsi veramente problemi. Anzi, a tratti sembra veramente ubriaco di tutto il potere che possiede, riuscendo alla fine a distruggere il nemico, potendo poi annunciare entusiasta, quando si è impossessato del suo corpo

We’ve won

Abbiamo vinto

Perchè i sequel di Scanners non hanno senso

Come anticipato, dal 1991 vennero prodotti due sequel, distribuiti direttamente in videocassetta, e poi due spin-off.

Non ho avuto il (dis)piacere di vedere questi prodotti, ma non ne sento neanche il bisogno, in quanto non sono opera di Cronenberg. E, soprattutto, perché l’idea stessa dei sequel di per sé non ha alcun senso.

Il film già di per sé è basato su un topos narrativo piuttosto semplice e tipico, che acquista valore perché nelle mani di un grande regista, che è stato appunto capace di tirare fuori un buon prodotto con poco. Ma allo stesso tempo il film scricchiola in alcuni punti, e basta davvero poco perché la storia stessa appaia ridicola.

Oltre a questo, il finale perde tutto il suo significato con l’idea di un sequel.

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Scream – E così nasce l’anti-horror

Scream (1996) di Wes Craven è il primo capitolo della saga anti-horror omonima, un cult ancora oggi. E un cult non a caso: nel momento della saturazione del genere horror, Craven decise di portare qualcosa di profondamente diverso.

Una pellicola che non avevo mai recuperato negli anni, ma che ho avuto il piacere di ricoprire, in attesa anche del nuovo capitolo in uscita il prossimo anno, Scream 6 (2023).

Un film fatto con poco (appena 15 milioni), ma che fu immediatamente un successo commerciale, incassando 183 milioni di dollari, il maggior incasso del 1996.

Di cosa parla Scream?

È passato quasi un anno dalla morte della madre di Sidney, che non riesce a superare la sua scomparsa, i cui dettagli sono ancora fumosi. Un serial killer comincia a minacciare la sua vita e la comunità, con degli strani collegamenti con l’omicidio della madre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scream?

Drew Barrymore in una scena di Scream (1996) di Wes Craven

Assolutamente sì.

Nonostante sia un film di quasi trent’anni fa, Scream è ancora assolutamente godibile. Ovviamente non vi dovete aspettare un horror autoriale alla Nope (2022), ma un prodotto che si inserisce efficacemente nel filone dell’horror commerciale, pur deridendolo.

In particolare, ve lo consiglio se siete particolarmente appassionati all’horror slasher degli Anni Settanta – Ottanta, che la pellicola cita continuamente.

E nella maniera più metanarrativa che possiate immaginare.

Giocare con la metanarratività

Più si prosegue nella narrazione, più le citazioni e i riferimenti agli horror cult si moltiplicano, andando a dialogare direttamente con il film stesso. Il momento più alto è quando Bill dice a Sidney

It’s all…one great big movie

È tutto un grande incredibile film

E da lì è tutto in discesa.

Si sprecano poi i parallelismi con Halloween (1978), in particolare in due momenti: quando, davanti alla scena in cui la protagonista si sta spogliando, il montaggio alternato ci mostra Sidney che fa lo stesso nell’altra stanza. E poi quando Randy urla alla protagonista del film

Jamie, look behind you!

Jamie, dietro di te!

e ha lui stesso il killer alle spalle che lo sta per uccidere. Infine, altrettanto memorabile quando sempre Randy, mentre stanno guardando Bill a terra apparentemente morto, ricorda:

This is the moment when the supposed dead killer come back to life

Questo è il momento in cui il killer che dovrebbe essere morto torna in vita

e infatti Bill torna in vita e Sidney gli spara, chiosando

Not in my movie.

Non nel mio film.

Ci sono anche momenti più gustosamente umoristici, come quando il preside parla con il bidello, che si chiama Fred ed è vestito come Freddy Krueger della saga di horror Nightmare.

Uscire dagli schemi

Matthew Lillard e Skeet Ulrich in una scena di Scream (1996) di Wes Craven

Scream riesce ad essere diverso dal canone non solo a parole, ma anche nei fatti. Anzitutto, portando una violenza al limite dello splatter e del grottesco, che non appare finta, con anche una certa ironia che sdrammatizza molte scene di tensione.

Fra tutte, piuttosto indovinata la scena prima della morte di Tatum, in cui lei crede che il killer sia uno scherzo e gli chiede se vuole che sia la sua vittima. E anche, più in piccolo, quando Sidney è chiusa in macchina e il killer le sventola davanti alla faccia le chiavi che stava cercando per scappare.

Ma soprattutto è originale la scelta di mettere una coppia di killer e soprattutto di non appiattire gli stessi sull’immagine di personaggi pazzi e con un passato tormentato, assegnandogli invece motivazioni più semplici e terrene.

Ma il colpo di genio è stato fare in modo che il sospettato numero uno fosse effettivamente il colpevole, e non un modo per confondere lo spettatore. Spettatore, fra l’altro, ormai abituato a questo tipo di dinamica e che non si sarebbe lasciato facilmente ingannare.

Una regia non scontata

Tutt’oggi l’horror commerciale – sempre con splendide eccezioni – è caratterizzato da produzioni da discount, per cui di solito si mettono alla regia dei semplici mestieranti che portano una messinscena molto mediocre, con spesso anche una sceneggiatura molto scontata.

Al contrario Wes Craven riesce a plasmare la messa in scena con una regia dinamica e interessante, con anche tocchi registici piuttosto peculiari, come il particolare sul riflesso del killer negli occhi del Preside prima di morire.

E in generale è una regia che gioca molto di inquadrature improvvise e con insistenti primi piani stretti.

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Fantastic Mr. Fox – Una favola per adulti

Fantastic Mr. Fox (2009) è il primo lungometraggio animato con la tecnica stop-motion di Wes Anderson, a cui è seguito L’isola dei cani (2018).

Il film fu purtroppo un pesante flop commerciale: a fronte di un budget non esattamente ridotto come 40 milioni di dollari, ne incassò appena 46 in tutto il mondo.

Di cosa parla Fantastic Mr. Fox?

In un mondo con animali semi-antropomorfi, Mr. Fox è una volpe che ha rinunciato alla sua natura animalesca di rubagalline su richiesta della moglie. Tuttavia, la sua avventatezza lo porterà a conseguenze inaspettate…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Fantastic Mr. Fox?

George Clooney come Mr Fox in Fantastic Mr Fox (2009) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Fantastic Mr. Fox è assolutamente quello che vi potreste aspettare da Wes Anderson, con una tecnica di animazione che sembra calzargli a pennello e che per certi versi mi ha ricordato alcune sequenze di Grand Budapest Hotel (2018).

Un piccolo film di breve durata che ho trovato davvero piacevole da guardare, con una trama a sorpresa davvero piena di colpi di scena. Come al solito, non fatevi frenare dal fatto che sia un prodotto di animazione: non è un prodotto per l’infanzia, anzi è molto più godibile da un pubblico adulto.

Cos’è la tecnica stop-motion

La tecnica stop-motion, in Italia nota come passo uno, è una tecnica di animazione con l’utilizzo di una speciale macchina da ripresa, che riprende fotogramma per fotogramma.

Questo richiede diverse pose degli elementi della scena, rendendola una tecnica quanto affascinante che complessa.

Nel caso di Fantastic Mr. Fox i soggetti in scena sono dei pupazzi, avendo alle spalle professionisti come lavoratori anche con Tim Burton per La sposa cadavere (2005), altro prodotto creato con la stessa tecnica.

Anderson, oltre al successivo prodotto di animazione L’isola dei cani, utilizzò tecniche simili anche per Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004) e Grand Budapest Hotel.

Se volete approfondire, ecco un dietro le quinte della realizzazione del progetto:

Perché è così difficile trasporre Roald Dahl

Vale la pena di spendere due parole su questa questione, soprattutto perché Roald Dahl è stato l’autore della mia infanzia, di cui lessi ogni storia, compresa l’autobiografia e la biografia.

E per l’occasione ho ripreso anche in mano il romanzo originale.

Generalmente parlando, la particolarità di questo autore sta tutto in certi elementi grotteschi, quasi orrorifici che inseriva nelle sue opere, nonché le morali non scontate dietro alle sue storie.

Uno dei punti più alti era forse ne Gli Sporcelli, in cui la coppia protagonista quasi si mangiava dei bambini che catturava, oltre a farsi gaslighting a vicenda, con tinte davvero horror.

Ma anche più semplicemente il finale de Le Streghe, che non è esattamente quello che ti aspetteresti da una storia per bambini, e che infatti è stata edulcorata senza alcuna vergogna nel film del 1990.

Paradossalmente è stato meglio che l’abbia preso in mano un regista come Wes Anderson, che ha cercato anzi di rendere la storia originale più digeribile per il suo pubblico.

Tuttavia, mentendo un totale rispetto per l’opera originale, arricchendola di contenuti, invece che cambiarla radicalmente

Una trama inaspettata

Willem Dafoe come Rat in Fantastic Mr Fox (2009) di Wes Anderson

In un prodotto più banale mi sarei aspettata che il punto di arrivo sarebbe stato la scoperta da parte della moglie delle malefatte di Mr. Fox.

E invece le stesse sono quasi il motore della vicenda che porta al finale.

Questa apparente anomalia riguarda anche il modo in cui Anderson ha cercato di arricchire la storia, che originariamente era molto più lineare e molto più breve. Nel libro in particolare manca tutta la sequenza iniziale di contrasto di Mr. Fox e la moglie.

Il regista è riuscito ad aggiungere dove bisognava aggiungere, soprattutto rendendo i personaggi più tridimensionali e la storia più ampia, ma mantenendo inalterato il cuore della storia.

Antropomorfi, ma non del tutto

Il carattere di antropomorfismo dei personaggi è reso con grande equilibrio, senza renderli del tutto umani, ma mantenendo il loro lato animalesco.

Si vede particolarmente nei momenti in cui le volpi mangiano come animali, appunto.

Nonché la questione di Badger, l’opossum, che in dei momenti improvvisamente perde coscienza del mondo. Questa caratteristica tanto strana è tipica del comportamento dei membri della sua specie, che in dei momenti sembrano morti.

Una reazione quasi involontaria che questi animali hanno quando si sentono minacciati, e che ha uno spassoso effetto comico all’interno del film.

Altrettanto geniale è tutta la messa in scena di come Mr. Fox organizzi di fatto una rapina umana, ma del tutto coerente con la sua natura da volpe ruba galline, appunto.

Il topos della fuga dal quotidiano

Un elemento che potrebbe apparire quantomeno bizzarro di questa pellicola è il tipo di rappresentazione del rapporto matrimoniale fra Mr. Fox e Mrs. Fox.

Tuttavia, facendo abbastanza attenzione si può notare come evidentemente la storia sia ambientata negli Anni Sessanta-Settanta, proprio quando fu pubblicato (e ambientato) il libro di ispirazione.

Così appare molto più comprensibile questa idea dell’uomo scapestrato in gioventù che si sente intrappolato nella vita matrimoniale, come effettivamente era tipico a livello sociale in quel periodo.

Fra l’altro il personaggio di Mr. Fox è molto più ampliato rispetto al libro, in cui era un eroe positivo in tutto e per tutto, nonostante in certi momenti si mettesse in luce la sua furbizia per finalità non del tutto positive…

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Don’t Worry Darling – È ora di essere felici?

Don’t worry darling (2022) è l’ultima pellicola di Olivia Wilde con protagonisti Harry Styles e Florence Pugh. La seconda pellicola della regista, dopo l’ottimo Booksmart (2019), in Italia noto con l’infelice titolo di La rivincita delle sfigate.

Una pellicola circondata da moltissimi pettegolezzi (che non ho intenzione di approfondire) e la cui presenza di Harry Styles potrebbe essere un boomerang (di cui bisogna parlare).

Per ora ha aperto molto bene nel primo weekend, con 30 milioni in tutto il mondo. A fronte di un budget di 35 milioni di dollari, è possibile che ci sia un buon rientro economico.

Di cosa parla Don’t worry darling?

Alice e Jack sembrano vivere una vita perfetta, in una perfetta comunità esclusiva degli Anni Sessanta. Ma le anomalie del mondo che li circonda sono sempre più evidenti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Don’t worry darling?

Florence Pugh in una scena di Don't worry darling (2022) di Olivia Wilde

Davanti ad una pellicola complessivamente interessante e godibile, non è un film che considero personalmente imperdibile. Non mi verrebbe per nulla di bocciarla (come tanti hanno fatto), ma neanche di esaltarla.

Nonostante la regia sia dinamica e la storia abbastanza interessante, presenta una sceneggiatura in non pochi punti difettosa, arrivando ad una conclusione non banale, ma neanche del tutto soddisfacente.

Insomma, se volete dargli una chance, dategliela. Ma non aspettatevi qualcosa di alto livello o davvero originale come era stato per il precedente film della regista.

Harry Styles ha attirato il pubblico sbagliato?

Anche senza aver visto il film, appare del tutto evidente che non stiamo parlando di un filmetto da pomeriggio di Italia 1, nè di un prodotto esattamente per tutti i palati.

Tuttavia, dalla mia esperienza in sala, ho scoperto che questa pellicola ha attirato non pochi spettatori non abituati alla sala e sopratutto attirati solamente dalla presenza di Harry Syles.

Ed è un peccato.

Perché a parte tutto posso dirvi che Harry Styles non è un attore di richiamo messo lì apposta e senza nessun talento, ma un neonato attore che in questa pellicola ha davvero dato il suo meglio.

Tuttavia, visto anche il riscontro tiepido (se non peggio) della pellicola, la presenza di questo interprete potrebbe renderlo un successo economico, ma essere bocciato da un pubblico che è corso in sala per un film che non era pensato per lui.

Fuggire la realtà

Florence Pugh in una scena di Don't worry darling (2022) di Olivia Wilde

La rivelazione finale è stata da parte mia non poco apprezzata, in quanto riesce ad aggiornare ai giorni nostri un film con una dinamica piuttosto tipica, con piccoli cult come La donna perfetta (2004). E infatti io mi aspettavo un finale simile.

E invece mi ha sorpreso.

Da questo punto di vista racconta un problema sociale che, con le dovute differenze, è assolutamente presente, ovvero il fuggire dal mondo reale in quello virtuale. Come Jack porta all’estremo questo concetto rinchiudendo la compagna in una realtà virtuale, così non poche persone ritrovano una vita alternativa e più soddisfacente online che offline.

Il che può essere una cosa positiva come molto negativa.

Jack, perché?

Harry Styles in una scena di Don't worry darling (2022) di Olivia Wilde

Per quanto le motivazioni di Jack non siano più di tanto approfondite, bastano poche battute per comprendere il suo personaggio. Jack di fatto si incasella in quella pressione sociale maschile di sostenere la sua donna, nonostante la stessa sia perfettamente capace di farlo da sola.

Emblematico in questo senso quando, in uno dei flashback, Jack dice ad Alice E ora come farò a prendermi cura di te?, proprio a sottolineare proprio questo tipo di esigenza. La stessa trova poi sfogo nell’idea mondo virtuale dove di fatto rinchiudere le donne, probabilmente anche con l’idea di renderle più controllabili.

E non è un caso che il mondo sia ambientato in un contesto storico per nulla favorevole per l’emancipazione femminile.

Di fatto Jack non è un villain, ma un personaggio molto diviso con se stesso e che sente dentro di sè di star veramente facendo la cosa giusta.

Troppo poco (ma non sempre)

Olivia Wilde e Nick Kroll in una scena di Don't worry darling (2022) di Olivia Wilde

Uno dei grandi difetti della pellicola è il poco approfondimento che viene dato a certi aspetti della storia. In particolare viene dato tanto, forse troppo, spazio alla scoperta del mistero da parte di Alice (cosa non per forza negativa) e la rivalsa finale è invece molto più rapida e, di fatto, carente.

Il film lascia troppe domande senza risposta: perché se si muore nel mondo virtuale si muore anche in quello reale? L’areoplano che vede Alice è un bug del sistema? Perché effettivamente la moglie di Frank lo accoltella? E si potrebbe andare avanti…

Al contrario mi sento del tutto di approvare la scelta di un finale aperto, che ci salva da quei noiosissimi finali consolatorio dove il protagonista, una volta che si è salvato, riesce a recuperare la sua vita.

Questo finale è invece proprio quello che serviva per non appesantire la narrazione.

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Il dormiglione – La distopia comica

Il dormiglione (1973) è uno dei primi film di Woody Allen, il primo in cui cercò di portare un’opera più strutturata rispetto ai film precedenti.

Fu anche la pellicola che inaugurò il duraturo sodalizio artistico (e amoroso) fra il regista e Diane Keaton, che sarà protagonista di molti altri progetti, fra cui Io e Annie (1977) e Manhattan (1979).

Questo film fu anche la conferma positiva del riscontro di pubblico di Allen: a fronte di un budget di 2 milioni, incassò 18,3 milioni di dollari, proprio come il precedente Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) (1972).

Di cosa parla Il dormiglione?

Miles Monroe si sveglia a 200 anni di distanza in un mondo totalmente cambiato, e vive la sua nuova vita fra i tentativi di ambientarsi in questa realtà alienante e la volontà di partecipare alla ribellione…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il dormiglione?

Woody Allen in una scena di Il dormiglione (1973) di Woody Allen

In generale, sì.

Il dormiglione è un film dal sapore distopico, ma fondamentalmente è un prodotto umoristico, con pesanti influenze del cinema muto.

Anche se la trama si presterebbe, non ci si deve tanto aspettare un film di avventura o con tinte drammatiche, ma in tutto e per tutto un’avventura comica, per certi versi simile a Il dittatore dello stato libero delle Bananas (1971).

Tuttavia, a differenza di quest’ultimo, è un film molto simpatico e piacevole, soprattutto se ci si aspetta un tipo di comicità tipica del primo Allen, che ben si adatta al contesto fantascientifico e futuristico.

Una comicità ancora limitata

Woody Allen in una scena di Il dormiglione (1973) di Woody Allen

Personalmente non apprezzo in toto la comicità della prima produzione di Woody Allen.

Mi intrattiene quando ha dei toni più surreali come in Prendi i soldi e scappa (1969), meno quando è più semplice e che mima appunto la comicità dei film muti, come il già citato in Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere).

Queste piccole inserzioni ispirate proprio a quel genere di film le ho trovate leggermente ridondanti alla lunga, anche se non per questo non apprezzabili e sicuramente ben realizzate. D’altronde sono lo strumento principale con cui Allen cerca di sdrammatizzare i toni in questa pellicola, che potrebbe averne di molto più drammatici.

Devo però ammettere che ho riso di gusto sul finale quando Miles prova a sparare al naso del dittatore.

Un’esplosiva Diane Keaton

Diane Keaton in una scena di Il dormiglione (1973) di Woody Allen

Come detto, questo fu il primo film del sodalizio fra Allen e Keaton. Ed è incredibile vedere due attori che sono sulla stessa lunghezza d’onda: straordinariamente espressioni, sperimentali, senza freni.

Come mi ero abituata all’esplosività del regista come attore, Diane Keaton mi ha piacevolmente sorpreso.

Anche se forse era ancora un in parte attorialmente acerba (fino a quel momento la sua interpretazione più importante era nella saga de Il Padrino), riesce perfettamente a destreggiarsi nei vari aspetti del suo personaggio.

Insomma, un ottimo inizio.

Una fantascienza minimale

La fantascienza di questo film è ancora lontana da quella più creativa e piena di prodotti successivi, come in parte Star Wars (1977) e poi di cult come Alien (1979) e Blade runner (1982).

Al contrario troviamo un’estetica meno fantasiosa e meno alienante, che non vuole raccontare un mondo tanto diverso da quello presente dello spettatore, aggiungendo solo degli elementi paradossali con un preciso effetto comico.

In generale la pellicola si diverte ad esplorare questo nuovo mondo e le sue bizzarrie, prendendosi ampio tempo anche a discapito della trama.

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Bullet train – Perché gli action movie sono noiosi?

Bullet train (2022) di David Leitch è un action movie uscito recentemente in sala. O, meglio, uno dei migliori action movie che potreste vedere negli ultimi tempi. Non è un caso che alla regia ci sia l’autore di due dei migliori film d’azione degli ultimi anni: John Wick (2014) e Atomica Bionda (2017). E, per non farsi mancare nulla, è stato anche regista di Deadpool 2 (2018).

E si vede.

Ad oggi ha incassato 213 milioni in tutto il mondo, a fronte di un budget di 90: rientrati pienamente nel budget, anche se meritava di più.

Di cosa parla Bullet train?

La trama ruota intorno a diversi personaggi, accomunati dall’essere invischiati con i peggiori boss del crimine al mondo. Fra colpi di scena e voltafaccia, come sempre nulla è come sembra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché guardare Bullet train?

Brad Pitt in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

Bullet train è un film da vedere per vari motivi, anzitutto per il fatto che prende i maggiori problemi degli action movie e li supera egregiamente. Quindi ve lo consiglio particolarmente se non vi piace particolarmente il genere.

La pellicola è incredibilmente divertente e intrattenente, costruendo anche un piccolo ma avvincente mistero che serpeggia per tutta la sua durata. Una bella sorpresa, per un autore di valore, che vale assolutamente la pena di recuperare.

Perchè gli action movie sono noiosi

Non me ne vogliano gli appassionati del genere: se non vi piace semplicemente (e anche giustamente) vedere la gente menarsi con grandi frasi ad effetto, è facile che vedendo molti action movie, soprattutto quelli poco ispirati, vi annoierete a morte.

Un film come The Gray Man, per capirci.

I due più importanti problemi degli action movie puri sono la mancanza di originalità (e chiarezza) nelle scene di azione e il prendersi incredibilmente sul serio.

E Bullet train supera entrambi questi problemi.

Anzitutto, come ci si potrebbe facilmente aspettare da questo regista, le scene di azione non solo sono piuttosto originali, ma spesso anche divertenti e, soprattutto, dirette con una regia dinamica, frizzante e chiarissima.

Inoltre, il film scherza spesso con se stesso e con gli stereotipi del genere a cui appartiene, non prendendosi mai veramente sul serio, ma riuscendo ad ironizzare su tutto, alleggerendo la situazione nei momenti giusti.

Mettere insieme i pezzi

Aaron Taylor-Johnson e Brian Tyree Henry in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

Una colonna portante di Bullet train, nonché uno degli aspetti che gli impedisce di essere un pallido film action, è la sua componente mistery. Un elemento che non è affrontato dai personaggi come se dovessero effettivamente investigare la questione, andando anzi a tentoni e mettendo insieme i pezzi quasi casualmente.

Infatti chi deve mettere insieme gli indizi, anche prima dei personaggi stessi, è lo spettatore stesso, cui viene fornita una pista visiva inequivocabile. Così come il figlio di Morte Bianca è morto piangendo sangue, così anche tutti gli invitati al matrimonio di Wolf muoiono nella stessa maniera.

E qui il film dà la prima finta soluzione: il cameriere che urta Wolf al matrimonio e che di fatto gli impedisce di bere il vino è Ladybug. Ma, differentemente da quello che si pensa, non l’ha fatto appositamente. E, soprattutto, il veleno non era nel vino che Wolf non ha bevuto, ma nella torta che Hornet aveva preparato.

Tutti i pezzi vanno al loro posto quando si racconta la fuga del serpente e poi l’introduzione di Honert, che chiude il cerchio.

Creare un universo di ironia

Brad Pitt in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

Quando si scrive un film comico, o quando comunque si vuole inserire una linea comica all’interno di un prodotto, la strategia migliore è quella di farlo affezionare alla comicità del film.

Nel caso di Bullet train con pochi tocchi e scelte indovinate si è riuscito a creare un universo di ironia perfettamente funzionante.

Già l’immagine di Lemon, un uomo adulto che giudica le persone tramite un cartone per bambini, anche portandosi dietro gli stickers della serie, è esilarante. Ma questo elemento viene ancora più intelligentemente sviluppato in due direzioni.

Da una parte le battute comiche, che incredibilmente non smettono mai di far ridere. Dall’altra, con un effetto anche drammatico e funzionale alla storia: sul treno sono tutti dei Diesel, perché bluffano.

E ha anche una funzione nella trama: Lemon lascia lo sticker di Diesel su Prince per far capire all’amico che non è una persona di cui fidarsi. E, nel piccolo monologo dopo la sua morte, gli dice che lui era come Thomas.

Personaggi mai banali

Brad Pitt e Brian Tyree Henry in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

Complessivamente i personaggi del film sono tutti a loro modo interessanti, mai banali e con la loro unicità. Infatti, a differenza di altri film di questo genere in cui i personaggi sono solo figurine sullo sfondo, ognuno ha i suoi tratti caratteristici. Tangerine è iroso e impulsivo, Lemon è un uomo semplice ma anche spietato, LadyBug è la linea comica ed un uomo ossessionato dalla sua crescita personale.

E così via.

La sceneggiatura riesce insomma a mettere in scena un piccolo universo di personaggi che riescono perfettamente ad incastrarsi fra loro in maniera mai banale e scontata, ma in continuo cambiamento e in maniera sempre interessante.

Con splendide eccezioni…

I pochi difetti?

Joey King in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

I pochi difetti del film si concentrano tutti intorno ai momenti in cui si prende sul serio. In particolare, riguardo ai personaggi di Morte Bianca e The Prince. La figlia di Morte Bianca non è di per sé un personaggio poco interessante, ma alla lunga l’ho trovata leggermente ridondante nei suoi comportamenti. E ha una fine non soddisfacente, ma distrutta dall’elemento comico: per quanto abbia riso quando Lemon la investe per vendicarsi della morte del fratello, mi aspettavo una conclusione più interessante.

Ancora meno convincente ho trovato Morte Bianca, che è un personaggio fortemente costruito all’interno del film, arrivando ad un reveal finale che ho trovato complessivamente poco soddisfacente. Il suo personaggio mi è parso troppo stereotipato e poco tridimensionale per l’importanza che gli era stata data nel film.

Insomma, tutti i momenti in cui il film è troppo attaccato al suo genere mi è piaciuto di meno.

Pochi tocchi di David Leitch

Zazie Beetz in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

In questo film troviamo diversi elementi quasi tipici di questo regista: eredita anzitutto da Deadpool 2 il cameo di Ryan Reynolds, nonchè l’attrice di Hornet, Zazie Beetz, che in Deadpool 2 intepretava Domino, la ragazza fortunata.

Dallo stesso film conferma il suo gusto nell’inserire cameo di attori famosi: come nel cinecomic aveva messo Tom Cruise, qui vediamo anche Channing Tatum e il già citato Ryan Reynolds.

Ovviamente poi conferma la sua capacità di raccontare scene d’azione in maniera appassionante e mai banale, fra l’altro ancora con la splendida scelta di sparatoria dalle macchine come in John Wick.

Cosa succede in Bullet train?

Se non siete sicuri di aver compreso tutta la trama di Bullet Train, ecco una spiegazione per voi.

La trama prende le mosse dal piano di Morte Bianca, che ha portato a bordo del treno le diverse persone che considerava come colpevoli della morte della moglie. Anzitutto Lemon e Tangerine, che dovevano salvare il figlio, che sono gli stessi autori della strage in Bolivia degli uomini del boss, che ha dovuto andare a gestire la situazione e quindi non essere sulla macchina in cui c’era la moglie.

Al contempo la moglie è morta perchè l’unico chirurgo che doveva salvarla era stato avvelenato da Hornet, che quindi Morte Bianca ha ingaggiato per uccidere il figlio, promettendogli i soldi della cauzione per il rapimento dello stesso. E l’omicidio del figlio era voluto perchè la sua ulteriore bravata era stato il motivo per cui la moglie era sulla macchina in cui poi è stato uccisa. Infine LadyBug era sul treno al posto di Carver, che era l’autore della morte della donna.

Joey King in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

The Prince non fa parte del piano di Morte Bianca, ma aveva un piano tutto suo: ha attirato il figlio di Yuichi sul tetto di un centro commerciale per spingerlo giù e poi rivelare al padre che era stata lei a mandarlo in ospedale, riuscendo così ad attirarlo sul treno.

Infatti Yuichi gli serve per uccidere Morte Bianca: l’uomo avrebbe dovuto cercare di uccidere il boss, con un tentativo che sarebbe ovviamente andato a vuoto come tutti i precedenti, e a quel punto Morte Bianca l’avrebbe ucciso, come sua abitudine, tramite la stessa arma dell’attentato. E quell’arma conteneva un meccanismo per cui, premendo il grilletto, scoppiava in faccia al malcapitato.

La valigetta con il meccanismo analogo serviva come piano di riserva per lo stesso fine.

Il bullet train esiste veramente?

Sì, il bullet train esiste veramente.

Inoltre, come viene mostrato nel film, in Giappone vi è una rete di treni ad alta velocità che collega le maggiori città. La velocità si aggira sui 320 km/h: per fare un paragone, un nostro Frecciarossa può raggiungere i 400 km/h.

Però no, in cinquant’anni di servizio, non vi è stato un solo incidente a bordo di questi treni.

E alla fine arriva Sandra Bullock a rovinarmi il film. E vabbè.