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Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) – La guida che mancava

Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) (1972) è uno dei primi film di Woody Allen, forse fra i più sperimentali di inizio carriera.

Anche in questo caso Allen continuò a lavorare con un budget piuttosto ridotto (appena 2 milioni), riuscendo comunque ad incassare abbastanza bene: 18 milioni di dollari.

Di cosa parla Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere)?

Il film è una collezioni di episodi che si propongono di rispondere a domande piuttosto bollenti, come Perché alcune donne non riescono a raggiungere l’orgasmo? oppure Cosa significa sodomia? Le risposte (?) vengono date con delle storielle umoristiche dal sapore molto surreale.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere)?

Woody Allen in una scena di Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) (1972) di Woody Allen

Assolutamente sì.

Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) è uno dei film più sperimentali e divertenti del primo Allen, dove lo stesso si accinge in diversi personaggi, anche fuori della sua comfort zone.

Tuttavia qui è dovuto un trigger alert: in un episodio recita in italiano, nella maniera in cui vi potete immaginare uno statunitense recitare in italiano (non terrificante come House of Gucci, ma non meno fastidioso).

Tuttavia, pure questo fa parte di un episodio molto simpatico, in cui il regista sperimenta con un personaggio inedito. In generale, pur con una partenza un po’ più debole, è una pellicola che vale assolutamente la pena di guardare, in particolare se vi piacciono i film più surreali della sua produzione.

Rispondere e non rispondere

Woody Allen in una scena di Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) (1972) di Woody Allen

Uno degli aspetti che ho maggiormente apprezzato di questa pellicola è che le domande proposte non sono altro che uno spunto per creare delle piacevoli storielle, e non vi è la volontà di rispondere davvero.

In particolare, ci sono degli episodi che quasi non sembrano raccontare l’argomento della domanda.

Per esempio l’episodio che dovrebbe rispondere alla domanda I travestiti sono omosessuali? in realtà è una piccola sequenza basata su una sorta di commedia degli equivoci, che si risolve anche felicemente, ma che non affronta di fatto questo tema.

Ma, appunto, l’effetto comico sta anche in questo.

Un inedito Gene Wilder

Gene Wilder in una scena di Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) (1972) di Woody Allen

Questo film dovrebbe essere preso come caso studio per raccontare la bravura di Gene Wilder come attore. In questa fase era ancora all’inizio della sua carriera, a solo un anno di distanza da La fabbrica di cioccolato (1971) e poco prima del suo ruolo iconico in Frankenstein Junior (1974).

Nell’episodio in cui è protagonista ruba totalmente la scena, lavorando in maniera splendida sulle espressioni e microespressioni, riuscendo a rappresentare in maniera incredibilmente credibile il suo innamoramento con la pecora.

Non a caso, è fra le parti più memorabili del film.

Is this Esplorando il corpo umano?

Woody Allen in una scena di Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) (1972) di Woody Allen

L’episodio più incredibile della pellicola è quello di chiusura, ovvero Cosa succede durante l’orgasmo?

Una piccola parentesi che sembra davvero un live action di Esplorando il corpo umano, con il sistema corporeo che sembra veramente un’azienda, con tutti i suoi reparti che lavorano insieme.

Un episodio anche molto materiale, quasi disgustoso, ad esempio quando mostra l’apparato digerente che cerca di smaltire il cibo ingerito. Ma assolutamente irresistibile in tutte le sue parti, sia quando si mostra materialmente come viene fatta un’erezione, sia quando la lingua che viene preparata per uscire.

Essere provocatori paga?

Pur essendo il film che (fino a quel momento) incassò di più per la sua produzione (anche se i grandi incassi arriveranno alla fine degli Anni Settanta), per i temi trattati subì ovviamente diverse censure.

In effetti Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) è piuttosto provocatore e molto esplicito per alcune tematiche, anche alcuni temi tabù come la zoofilia, i kinky e addirittura le gang bang.

In particolare, in Irlanda venne totalmente censurato, per poi essere distribuito alcuni anni dopo con dei tagli, in particolare per la parte dell’episodio della pecora e la scena dell’uomo che fa sesso con una pagnotta enorme.

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Il capo perfetto – Essere l’eroe della storia

Il capo perfetto (2021) di Fernando León de Aranoa è una commedia amara uscita lo scorso anno e che ha avuto un discreto riscontro anche in Italia. Io inizialmente mi sentivo poco attirata da questa pellicola, perchè avevo paura che fosse la classica commedia dei buoni sentimenti. Mi aspettavo infatti una storia riguardo al capo di una piccola azienda che avrebbe dovuto gestire drammaticamente le disgrazie dei suoi dipendenti, con magari un finale consolatorio.

Non avrei potuto sbagliarmi di più.

Il budget non è noto, ma, nonostante la presenza di una star come Javier Bardem, probabilmente sarà stato molto risicato. E ha avuto anche un incasso piuttosto ridotto, di appena 7 milioni.

Di cosa parla Il capo perfetto?

Julio Blanco è a capo dell’azienda di bilance ereditata dal padre. Nonostante all’esterno sembri una persona specchiata, che tiene ai suoi dipendenti come se fossero i suoi figli, in realtà rivela subito la sua natura subdola e meschina…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perchè Il capo perfetto è un film da recuperare

Javier Bardem in una scena di Il capo perfetto (2021) di Fernando León de Aranoa

Il capo perfetto è una commedia assolutamente irresistibile, il cui l’umorismo si basa proprio su come lo spettatore oscilla fra l’essere coinvolto dalle terribili azioni del protagonista, quanto spinto dalla volontà di vederlo punito per le stesse. La comicità è tanto più incalzante quanto più le sue azioni si spingono al limite (e oltre).

Un’ottima pellicola che ha l’ardore di portare in scena un protagonista assolutamente negativo, senza banalizzarlo, anzi creando una sensazione di tridimensionalità per nulla scontata in un prodotto del genere.

Un film da recuperare, senza dubbio.

E da recuperare in lingua originale, possibilmente.

Javier Bardem: che sorpresa!

Javier Bardem in una scena di Il capo perfetto (2021) di Fernando León de Aranoa

Ammetto di non aver seguito tanto da vicino la carriera di questo attore, apprezzandone comunque di volta in volta le sue interpretazioni. Ma sicuramente non l’avevo mai visto recitare nella sua lingua madre e sopratutto in un ruolo comico-grottesco come in questo caso.

E sono rimasta stregata.

Barden riesce a portare in scena un personaggio incredibile, molto più profondo e interessante di quanto potrebbe sembrare sulle prime, sulla scorta di un’incredibile capacità espressiva che si adatta alle diverse situazioni e scene, oltre che i ruoli che interpreta.

Un personaggio che ti viene da respingere ma che al contempo anche ti appassiona sinceramente, non riuscendo a tifare per lui perchè è troppo respingente e freddo, ma al contempo l’eccesso della sua meschinità è tremendamente appassionante.

Essere gli eroi della nostra storia

Javier Bardem in una scena di Il capo perfetto (2021) di Fernando León de Aranoa

Il film lavora su un interessante concetto psicologico, ovvero quello per cui ci sentiamo i protagonisti della nostra storia, nonchè gli eroi. Raramente nella nostra vita riusciremo ad ammettere effettivamente di essere in torto e di non aver avuto delle buone ragioni o delle motivazioni circostanziali che ci hanno spinto a determinate azioni.

Così ci sentiamo sempre i buoni della situazione.

Anche in questo caso, in un toccante monologo verso il finale, Blanco ammette candidamente e anche in maniera piuttosto sconsolata che si comporta così perchè effettivamente spinto a proteggere la sua azienda, in tutti i modi possibili.

Anche se questo significa ricadere nei più classici vizi del capo: mancanza di empatia, nepotismo, avances inappropriate verso i dipendenti, oltre che allo sfruttamento di una potente rete di conoscenze politiche.

Il significato del finale

Almudena Amor in una scena di Il capo perfetto (2021) di Fernando León de Aranoa

Il finale ha una drammaticità inaspettata, ben raccontata dall’incontro con la Commissione come una scena estremamente luminosa e patinata. Ma noi, dopo aver vissuto una settimana nell’azienda, sappiamo cosa nasconde questa apparente scena idilliaca.

Di fatto, quella di Blanco è stata una gara di meschinità, in cui è dovuto sottomettersi ad una persona anche più meschina di lui, ovvero Lilliana, che si vendica nei suoi confronti per ottenere quello che vuole. Ma, visto il comportamento terrificante di Blanco nei suoi riguardi, non possiamo che essere un pochino dalla sua parte…

Il capo perfetto

Allo stesso modo il licenziamento di Miralles non arriva pacificamente nè racconta un tipo di maturazione di fatto dovuta del personaggio. Semplicemente Blanco vuole infine liberarsi di un personaggio che sta portando danno alla sua azienda, e che infine rivela tutta la falsità del loro rapporto: non sono mai stati veramente amici, ma Miralles è sempre stato un suo sottoposto.

E anche in questo caso Blanco lo vince con la sua meschinità e furbizia, che l’altro evidentemente non possiede.

Ma il finale veramente amaro è quello con Fortuna, il padre di Salva, il ragazzo che muore proprio per colpa di Blanco. La situazione che si crea è l’esempio massimo della pochezza d’animo del protagonista: con il suo tentativo di uccidere il suo ex dipendente fastidioso, fa perdere la vita ad un ragazzo già invischiato in traffici poco puliti. Lo stesso che aveva promesso di riportare sulla giusta vita.

E persino a quel punto non può non commuoversi, sentendo, forse per la prima volta, il peso delle sue scelte.

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Il dittatore dello stato libero di Bananas – Un passo indietro?

Il dittatore dello stato libero di Bananas (1971) è uno dei primi film di Woody Allen, immediatamente successiva alla prima pellicola di questa rubrica, Prendi i soldi e scappa (1969).

Con un titolo tanto più ingannevole e, di fatto, spoileroso, la pellicola è forse ancora più sperimentale della precedente.

Ma forse non nella direzione giusta…

Anche in questo caso una produzione fatta con pochissimo: appena 2 milioni di budget, che però non portarono ad un come il precedente, ma ad incasso di quasi 12 milioni.

Di cosa parla Il dittatore dello stato libero di Bananas?

Fielding, interpretato dallo stesso Woody Allen, è un mediocre impiegato che, deluso dall’amore, parte per il paese sudamericano Bananas, rimanendo involontariamente coinvolto nelle sue macchinazioni politiche…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il dittatore dello stato libero di Bananas?

Woody Allen in Il dittatore dello stato libero delle Bananas (1971) di Woody Allen

In generale, sì.

Personalmente considero questa pellicola come una delle più deboli della prima produzione di Allen. Come dinamiche è abbastanza vicino al precedente Prendi i soldi e scappa, ma in questo caso premendo l’acceleratore sui tasti comici sbagliati.

In generale rimane comunque un film da recuperare per esplorare le prime sperimentazioni del regista in ambito cinematografico e soprattutto comico. In questo caso Allen è scatenato, tanto che mi ha ricordato – con le dovute differenze) – Jim Carrey in Ace Ventura (1998).

Una comicità diversa

Come attore, siamo abituati a vedere un Woody Allen interpretare personaggi timidi e ingenui, spesso considerati (non del tutto a torto) dei totali idioti. Tuttavia in questo caso il regista sperimenta in un’altra direzione, giocando con un tipo di comicità molto slapstick e di chiara ispirazione al cinema muto.

E questo personalmente è stato un elemento che non mi ha del tutto entusiasmato della pellicola. Personalmente preferisco l’umorismo più surreale di altri prodotti, che in questo caso indubbiamente non manca, ma che è in parte guastato da questa scelta di una comicità più spicciola e, per me, molto meno divertente.

Affogati nelle gag

Il dittatore dello stato libero delle Bananas (1971) di Woody Allen

Il problema principale della pellicola è avere una storia poco solida, costruita principalmente su gag comiche, che non appaiono come intermezzi alla storia, ma come un elemento portante, appunto.

E personalmente vedere momenti comici anche interessanti e geniali, come tutta la sequenza iniziale, davanti a gag di base livello come quella in cui il protagonista guarda in camera con sguardo furbetto quando scopre di avere l’occasione di succhiare il veleno del morso di un serpente dal seno di una sua compagna.

E le gag si susseguono interminabili senza che la trama prenda effettivamente uno slancio significativo, neanche alla fine.

Due camei che non ti aspetti

Il dittatore dello stato libero di Bananas è uno di quei film che vengono citati quando si raccontano primi camei degli attori in film improbabili.

In questo caso, Sylvester Stallone.

Personaggio estremamente secondario, protagonista di una gag in cui rappresenta uno dei due bulli che importunano le persone nella metropolitana. E con nessuna battuta. Ben prima del successo dei suoi ruoli iconici, insomma.

La seconda apparizione simpatica da notare è quella di Louise Lasser, la seconda moglie di Woody Allen, che qui interpreta Nancy. E di cui riconoscerete il volto per averla già vista in Prendi i soldi e scappa come la ragazza che viene intervistata verso la fine dopo l’arresto del protagonista.

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Men – Il maschile fragile

Men (2022) è l’ultima pellicola di Alex Garland, cineasta noto per pellicole come Ex Machina (2015) e Annientamento (2018).

Ovviamente ha avuto un incasso molto limitato: appena 11 milioni in tutto il mondo, davanti ad un budget finora sconosciuto, ma che dovrebbe aggirarsi fra i 5-10 milioni di dollari.

Di cosa parla Men?

Harper è una giovane donna che, dopo essersi separata tragicamente dal marito, decide di concedersi una meritata vacanza in una piccola tenuta di campagna. La sua vita e la sua permanenza vengono però minacciati dalla presenza opprimente di diversi uomini…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Men?

Rory Kinnear in una scena di Men (2022) di Alex Garland

Men è un film molto complesso, che presenta diversi livelli di lettura e che in un certo modo si perde nell’elemento onirico e fantastico, non sempre spiegabile. Quindi non aspettatevi di trovarvi davanti ad un horror classico e facilmente comprensibile, ma piuttosto ad un prodotto molto più vicino alla cripticità di un The Lighthouse, per esempio.

In generale comunque è un film che vale assolutamente la pena di vedere, per godersi un prodotto che racconta la figura dell’uomo e del suo rapporto con la donna in maniera interessante e inusuale. Tuttavia è giusto sapere che è anche una pellicola con una violenza e un orrore molto fisico e esplicito, che potrebbe essere non digeribile per alcuni.

Ma, se questo elemento non è per voi un problema, correte a guardarlo.

Un uomo, mille uomini

Rory Kinnear e Jessie Buckley in una scena di Men (2022) di Alex Garland

Un aspetto peculiare di Men, di cui non ci si accorge immediatamente, è che tutti gli uomini in scena, ad eccezione dell’ex-marito James, sono interpretati dallo stesso attore, ovvero l’ottimo Rory Kinnear.

Questa scelta offre molteplici chiavi di lettura, a partire dal fatto che molti personaggi appaiono fasulli: in particolare il prete, con una parrucca visibilmente finta, il padrone di casa Jeffrey, con i suoi dentoni bianchissimi, e il ragazzino, con il viso che è un evidente deep fake.

La chiave di lettura più immediata è che questa esperienza permette ad Harper di raggiungere la consapevolezza che tutti questi uomini sono in realtà fatti della stessa pasta (tanto che si partoriscono l’un l’altro).

E che, di conseguenza, rappresentano anche la figura opprimente del marito di cui cerca di liberarsi.

La mascolinità minacciosa…

Per la maggior parte della storia il maschile appare minaccioso, aggressivo e per certi versi anche incomprensibile.

Partiamo dall’aggressione più velata di Jeffrey, che parla in maniera fastidiosa a Harper in quanto donna non sposata, e così anche il poliziotto, che banalizza il pericolo che la donna sente di correre per l’uomo nudo che la perseguita.

Il maschile poi diventa via via più violento fisicamente e soprattutto sessualmente.

la casa, che rappresenta evidentemente il corpo di Harper (anche solo per le pareti rosse che sembrano le sue interiora), viene continuamente penetrata dal maschile: non a caso, quando Harper parla dell’uomo che ha cercato di entrarle in casa, usi due volte la parola penetrare.

Il simbolismo del film porta ad una traslitterazione dalla mano al pene.

Molta attenzione infatti su queste mani maschili che cercano di afferrare il corpo di Harper e penetrare dentro la casa attraverso la buca delle lettere, ma che diventano appunto un fallo quando il ragazzino mima l’atto sessuale sull’uccello con la maschera di donna.

…e il maschile debole

Jessie Buckley in una scena di Men (2022) di Alex Garland

Ma il maschile diventa debole quando di fatto Harper lo castra: nel momento massimo dell’aggressione, ovvero quando il prete cerca di violentarla, lei invece lo penetra con il coltello e lo uccide.

E così anche quando la mano cerca di penetrare dentro alla casa e la donna gliela taglia a metà, momento in cui la regia enfatizza la superiorità di Harper rispetto al personaggio maschile con inquadratura dal basso verso l’alto.

Infatti, quando rientra infine in casa, Harper non cerca più di chiudere la porta: non ha più paura, ma vede invece una mascolinità ormai fragile, debole, che cerca di avvicinarsi a lei, ma non più in maniera minacciosa.

Quello è il momento di consapevolezza della radice del maschile violento, ovvero la sua ricerca, a partire dalle parole del marito, dell’affetto e dell’attenzione del femminile (e non solo).

L’uomo solo

Rory Kinnear in una scena di Men (2022) di Alex Garland

Il film può avere un’ulteriore chiave di lettura proprio dal personaggio del marito.

Infatti, James è distrutto dall’idea di perdere la moglie e, di conseguenza, il suo amore.

Tuttavia è di fatto incapace di affrontare il problema in maniera sana, ma solo violenta e minacciosa: minacciando di suicidarsi, cercando di riappropriarsi della donna e anche cercando di sottometterla fisicamente.

E questo racconta un effettivo problema sociale dell’uomo che è socialmente incapace di raccontare le sue emozioni in quanto istruito a nascondere, pena l’essere paragonato al femminile debole. Al contrario il maschile viene anche educato alla violenza, e solo con quella riesce ad esprimerla.

Per questo alla fine Harper capisce che la fragilità del marito e la sua ricerca di amore è un problema intrinseco, di cui lei di fatto non ha colpa e che non poteva veramente risolvere.

E infatti alla fine appare sollevata e finalmente libera da questo peso.

Il regista di Men odia gli uomini?

Può sembrare una domanda molto stupida, ma non lo è per niente.

Questo è il classico film estremamente divisivo in cui il target della critica potrebbe sentirsi attaccato. Per questo è giusto puntualizzare che il film non è tanto banale da voler dire che tutti gli uomini sono dei molestatori e degli stupratori.

Al contrario, vuole raccontare un problema sociale di grande importanza, ovvero quello dell’approccio anche involontariamente insano dell’uomo nei confronti della donna, in tutti i modi più disparati mostrati nel film.

Fra l’altro mettendo a fuoco un problema sociale altrettanto importante, ovvero la radice della violenza di questa mascolinità, senza andare a rendere semplicemente mostruoso il maschile.

Il simbolismo di Men

Il simbolismo di Men è piuttosto peculiare e si presta a diverse chiavi di lettura.

L’elemento centrale è rappresentato dallo strano bassorilievo della chiesa, che viene ripreso più volte durante il film: il volto dell’uomo nudo alla fine, in generale i vari urli di Harper, in particolare quando urla nella vasca da bagno sul finale.

Quella raffigurazione è il green man, simbolo antichissimo con vari significati, ma che di base rappresenta la rinascita. All’interno del film può essere proprio interpretata come la figura della mascolinità violenta e di come vede invece la femminilità passiva, in particolare sessualmente passiva.

E invece la femminilità si rivolta contro il maschile, diventando Harper stessa appunto il green man che urla.

Come lettura in più, il prete nella vasca da bagno sembra citare la vicenda di Agamennone e Clitemnestra, l’apoteosi della donna vendicativa. Lo conferma anche lo sfondo della scena: il bagno con la vasca da bagno, la stessa in cui Clitemnestra uccide il marito all’interno del mito.

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Prendi i soldi e scappa – L’arte del paradosso

Prendi i soldi e scappa (1969) è una delle prime pellicole di Woody Allen, in un periodo in cui sperimentava ampiamente con il surreale e con quel tipo di comicità che è diventata la sua firma.

L’ho scelto come prima tappa per la mia (ri)scoperta di questo regista perché è stato forse il primo film che ho visto della sua cinematografia e fra i primi film che mi hanno fatto innamorare del cinema.

Una pellicola prodotta veramente con niente: appena 1.53 milioni di dollari (circa 12 milioni oggi), con un incasso di 2,9.

Di cosa parla Prendi i soldi e scappa?

Nella forma del mockumentary, il film racconta la storia di Virgil, timido ragazzo cresciuto nella criminalità e il degrado e che non è mai riuscito a trovare il suo posto nel mondo. Per colpa di una serie di improbabili situazioni, diventerà uno dei criminali più ricercati degli Stati Uniti.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Prendi i soldi e scappa?

Woody Allen in una scena di Prendi i soldi e scappa (1969) di Woody Allen

Assolutamente sì.

Prendi i soldi e scappa è un film abbastanza particolare, proprio per i suoi due elementi portanti: la forma del finto documentario e la comicità assolutamente surreale, che gioca in maniera intelligente con lo slapstick.

In generale è un film che vi consiglierei di guardare un po’ a prescindere, anche per vedere le prime mosse che Allen muoveva all’inizio della sua produzione. Tuttavia, se questi elementi di cui sopra non sono nelle vostre corde, potrebbe non essere così godibile.

Il mockumentary before it was cool

Woody Allen in una scena di Prendi i soldi e scappa (1969) di Woody Allen

Prima Allen il cinema aveva sperimentato con il genere mockumentary, a partire dal classico della cinematografia, Quarto potere (1941). La particolarità di Prendi i soldi e scappa è utilizzare questo taglio narrativo in maniera comica.

E l’effetto comico nasce anzitutto dalla voce della voce fuori campo che racconta la maggior parte degli avvenimenti, con il classico tono del documentario più agèe, rimanendo del tutto seria ed imponente anche quando racconta qualcosa di evidentemente comico.

Fra le scelte più esilaranti, le mie preferite sono sicuramente i genitori di Virgil, che viene raccontato con estrema serietà che si coprono il viso per la vergogna del figlio, e quando si riferisce il commento speranzoso del protagonista riguardo alla sua condanna a 800 anni galera:

At the trial, he tells his lawyer confidently that with good behavior, he can cut the sentence in half.

Al processo, ha detto al suo avvocato in confidenza che, grazie alla buona condotta, può dimezza la sua pena.

Esilarante.

L’arte del paradosso

Woody Allen in una scena di Prendi i soldi e scappa (1969) di Woody Allen

Come detto, la colonna portante del film è la comicità paradossale: oltre all’utilizzo comico del documentario, Allen si dimostrò fin da subito capace di ridere di sé stesso. Il regista, spesso protagonista delle sue pellicole, ha infatti un aspetto ormai iconico e innocuo, che nel contesto del film appare davvero ai limiti del paradosso.

Ovviamente la narrazione è estremizzata, raccontando Virgil proprio come un idiota, che diventa uno dei criminali più ricercati degli Stati Uniti nonostante abbia partecipato a crimini uno più improbabile dell’altro.

Tematica su cui Allena tornerà, seppur in maniera diversa, in altre pellicole successive dal taglio anche più drammatico, come Criminali da strapazzo (2000)

La comicità mai scadente

La comicità della pellicola è a tratti fantozziana, ma, a differenza di questa, non scade mai nello slapstick puro e, di fatto, prevedibile. Al contrario lavora sempre sull’effetto sorpresa, sia nei momenti comici più elaborati, sia in quelli di comicità più semplice.

Ad esempio, all’inizio è esilarante l’assurdità della situazione per cui Virgil suona nella banda cittadina, ma non può di fatto farlo perché per suonare il violoncello ha bisogno di stare seduto.

O ancora il climax comico dell’arresto alla fine, quando l’amico che sta rapinando gli prende gentilmente la pistola di mano e gli dice di essere un poliziotto.

Un tipo di comicità più semplice, ma mai scadente, è quella per esempio della scena in cui in prigione il protagonista cerca di piegare la camicia col macchinario apposito, ma questa gli si rivolta contro.

Insomma, una comicità che non sbaglia un colpo.

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Bad Teacher – La rivincita della cool girl

Bad Teacher (2010) di Jake Kasdan è una commedia spassosa e irriverente con protagonista Cameron Diaz.

Non un grande film, ma un film che porto veramente nel cuore.

Con un budget veramente ridotto (appena 20 milioni), si portò a casa la bellezza di 216 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Bad Teacher?

Elisabeth è la classica maestra che si approfitta della sua posizione a discapito dei propri studenti. La sua vita viene scombussolata quando non riesce a combinare un matrimonio vantaggioso che l’avrebbe sistemata a vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Bad Teacher?

Cameron Diaz in una scena di Bad Teacher (2010) di Jake Kasdan

Dipende.

Bad Teacher è un’ottima commedia che prende le mosse dai prodotti comici tipici dei primi Anni Duemila, come l’indimenticabile Dodgeball (2004). Tuttavia porta anche un racconto più originale e maturo, senza mai sfociare nel cattivo gusto.

Ve lo consiglio principalmente se vi piacciono questo tipo di commedie e se soprattutto amate Cameron Diaz come attrice comica, in questo ruolo in forma smagliante, circondata da altri attori comici di grande valore come Jason Segel e Eric Stonestreet.

Perché siamo dalla parte di Elisabeth…

Cameron Diaz in una scena di Bad Teacher (2010) di Jake Kasdan

Bad Teacher porta in scena una protagonista affatto positiva, anzi: viene subito presentata nelle sue contraddizioni, di come lavori in una scuola per tutti i motivi sbagliati (per sua stessa ammissione) e non abbia in realtà alcuna voglia di insegnare, né di avere alcun tipo di relazione con i propri alunni, di cui non conosce neanche il nome.

Alla prima occasione si approfitta di un matrimonio di convenienza, che però va gambe all’aria e la riporta forzatamente dietro la cattedra. L’unico movente che infine la spinge ad insegnare veramente ai suoi alunni è il puro e semplice profitto.

Allora perché siamo dalla sua parte?

Cameron Diaz in una scena di Bad Teacher (2010) di Jake Kasdan

Proprio per il suo comportamento eccessivo Elisabeth è un personaggio irresistibile, e al contempo è anche molto umano: una donna estremamente attraente e desiderabile, che ha basato tutta la sua vita solamente su questo, anche andando a banalizzarsi. In realtà è un personaggio con grandi capacità (e volontà) di aiutare gli altri.

E infatti nel finale assume il ruolo che avrebbe sempre dovuto avere: consulente scolastico, una sorta di psicologo della scuola. Non a caso in diversi momenti del film, pur nel suo modo particolare, si è spesa nell’aiutare gli altri (la collega Lynn, il suo alunno Garret…), con consigli concreti ed effettivamente utili.

…e non di Amy

Lucy Punch in una scena di Bad Teacher (2010) di Jake Kasdan

Per quanto Amy sia apparentemente il personaggio positivo, o almeno quello che vive nella legalità, è decisamente quello più negativo di tutti.

Sicuramente è una maestra che si impegna nel suo lavoro, che cerca anzi modi creativi per incoraggiare i propri studenti a studiare. Tuttavia è del tutto evidente che anche lei, seppur per motivi diversi da Elisabeth, non insegna per il piacere di insegnare.

Infatti proprio per la questione del concorso verso la fine del film, è chiaro che Amy si impegni così tanto nel suo lavoro solo per avere un riconoscimento sociale, e convincere di fatto sé stessa di essere la migliore.

Quindi capiamo anche la sua frustrazione nell’essere scalzata da una mediocre come Elisabeth.

Accontentarsi di uomini mediocri

Justin Timberlake in una scena di Bad Teacher (2010) di Jake Kasdan

Il grande difetto di Elisabeth, che è al centro della sua maturazione nel film, è la sua incapacità di valorizzarsi, e per questo di cercare relazioni solamente con uomini mediocri.

Questo è il paradosso della cool girl, della ragazza popolare troppo cresciuta: l’incapacità di andare oltre le dinamiche adolescenziali e cercare relazioni appaganti, preferendo rincorrere la fama e i soldi.

Proprio mentre parla con Garret, Elisabeth si rende conto di star usando la stessa superficialità di Chase, andando a scegliere gli uomini che hanno un valore sociale più che un valore relazionale. Quindi nel caso della giovane Chase, il ragazzo più popolare, nel caso di Elisabeth, l’uomo più ricco.

Justin Timberlake e Cameron Diaz in una scena di Bad Teacher (2010) di Jake Kasdan

E infatti, il suo futuro marito all’inizio si rivela fin da subito una drama queen, fra l’altro incapace di gestire la propria relazione senza l’ingombrante figura materna. E Scott ancora di più è un uomo che oggettifica le donne solo per il loro aspetto, è un razzista e un conservatore, oltre che incapace di avere delle relazioni sane.

Questo è l’altro grande passo avanti che Elisabeth compie nella pellicola: scegliere di avere una relazione con un uomo che non è né bellissimo né ricco, ma che è con cui è davvero affine e che è capace di darle una relazione soddisfacente.

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Jungle Cruise – Tutto nacque da una giostra…

Jungle Cruise (2021) di Jaume Collet-Serra è un classico blockbuster estivo. Uscì in quella strana estate del 2021, quando distribuire le pellicole in sala era ancora un terno al lotto.

Nonostante la presenza di due star come The Rock e Emily Blunt, nonostante tutti gli elementi che lo rendono una piacevole avventura per ragazzi, non fu un buon successo commerciale. Infatti, a fronte di un budget di 200 milioni di dollari, ne incassò appena 220.

Tuttavia, per il momento storico fu considerato soddisfacente, tanto che è stato ordinato un sequel.

Di cosa parla Jungle Cruise?

Londra, 1916. La Dottoressa Lily è una giovane e intraprendente avventuriera che vuole mettersi sulle tracce delle leggendarie Lacrime della Luna, che permetterebbero di guarire ogni malattia. La sua avventura viene ostacolata da un misterioso principe europeo, che vuole fare di tutto per mettere le mani su quel tesoro…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Jungle cruise?

The Rock in una scena di Jungle Cruise (2021) di Jaume Collet-Serra

Jungle cruise è un film senza molte pretese, ma che comunque si impegna a dare tutto il tempo ai personaggi per respirare e farsi conoscere dal pubblico. Per certi versi anche troppo, vista la durata atipica per un prodotto di questo genere (più di due ore!).

Tuttavia, è anche una pellicola divertente e che intrattiene facilmente, con una regia frizzante e coinvolgente. Lo consiglio per una visione rilassata, sopratutto se siete appassionati dei film di avventura per ragazzi di questo tipo.

Che cos’è la Jungle cruise?

Come anticipato, questo film è tratto dalla giostra omonima di Disneyland.

Non è la prima volta che Disney fa un’operazione del genere: la stessa cosa era successa anche con la saga di Pirati dei Caraibi. E in questo caso l’ispirazione primaria si vede molto bene all’interno del film: una delle scene principali riguarda proprio un gruppo di turisti che viene portato su un battello attraverso la giungla, con tanti effetti speciali per intrattenere il pubblico.

E infatti, provando la giostra di ispirazione, potrete vivere praticamente quello che vedete nel film.

Perché Lily è un buon personaggio…

Emily Blunt in una scena di Jungle Cruise (2021) di Jaume Collet-Serra

Alla prima visione ero rimasta poco convinta dalla gestione dei personaggi di Lily e di MacGregor. Se per il fratello ho ancora qualche riserva, per lei mi sono effettivamente ricreduta.

Il suo personaggio è indubbiamente costruito a tavolino: è una ragazza giovane e avventurosa, che non si lascia fermare da niente, neanche da un mondo di uomini che cercano di bloccarla e sminuirla. Oltre a questo, è anche animalista e non può assolutamente sopportare il maltrattamento di animali.

Un personaggio che appare forzato per come è messo in scena, sopratutto per il contesto storico, ma che è anche giusto per il tipo di target. Mi immagino quanto facilmente una bambina o ragazzina riesca ad immedesimarsi in questa protagonista le cui dinamiche, con le dovute differenze, può ritrovarle anche nella sua vita quotidiana.

…ma MacGregor forse no.

The Rock e Jack Whitehall in una scena di Jungle Cruise (2021) di Jaume Collet-Serra

Il personaggio di MacGregor è stato costruito con lo stesso concetto, ma in questo caso forse ricadendo in uno stereotipo troppo pesante per essere gestito con così tanta leggerezza.

Anche se non viene detto esplicitamente, il suo dialogo con Frank suggerisce abbastanza chiaramente che MacGregor è un uomo omosessuale che vive in una società ostile, e che solo la sorella lo supporta. E per questo viene associato ad una serie di stereotipi, come la sua passione per il vestirsi bene e in generale la vita raffinata.

Tuttavia, anche questo può essere un personaggio in cui un bambino si può rivedere: magari un giovane spettatore con le stesse difficoltà del personaggio, che non riesce ad imporsi e a rispettare le richieste che la società che lo circonda. E che alla fine, in diversi momenti prende coraggio e interviene nell’azione.

Quindi, non del tutto da buttare, ma avrei preferito che fosse meno stereotipato.

Un film animato?

La regia del film come detto è piuttosto frizzante, tanto da portare una messa in scena che sembra nè più nè meno quella di un lungometraggio animato. E per questo funziona perfettamente.

Lo conferma il character design dei personaggi: Mr Nilo e il Principe sono incredibilmente esagerati nell’aspetto e nei comportamenti, al limite della macchietta. Ma in questo caso delle macchiette simpatiche e che funzionano, con degli attori eclettici e di altissimo livello.

Non a caso Paul Giamatti è uno dei miei caratteristi preferiti, a partire dal suo personaggio in Una notte da leoni 2 (2011)

E Jessie Plemons conferma ancora il suo eclettismo, passando da un film di questo tipo a ruoli incredibilmente complessi come in I’m Thinking of Ending Things (2020). E la morte del suo personaggio, schiacciato comicamente come la Strega dell’Ovest da un masso enorme, non fa che confermare la vena comica e cartoonesca della pellicola.

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American Animals – L’insoddisfazione rapace

American Animals (2018) di Bart Layton è un heist movie di rara bellezza, capace di sperimentare con il formato del documentario in maniera assolutamente originale e sperimentale. È difficile spiegare questo film a chi non l’ha mai visto: basti sapere che non è ispirato ad una storia vera, ma, come il film stesso spiega fin dall’inizio, è effettivamente una storia vera.

Le notizie sul budget non sono sicure, ma dovrebbe aggirarsi intorno ai 3 milioni di dollari, con un incasso di 4 milioni in tutto il mondo: un incasso piuttosto misero, per un film di grande valore.

Di cosa parla American Animals?

Spencer e Warren sono due studenti universitari annoiati dalla vita, totalmente insoddisfatti del percorso che sembra già stato scelto per loro. Per questo decidono di intraprendere una apparentemente semplicissima rapina…

Vi metto qua il trailer, ma personalmente vi sconsiglio di guardarlo: un caso da manuale di come banalizzare drammaticamente un prodotto, cercando di collegarlo ad un film di maggior successo.

Infatti nella pellicola si cita brevemente Le iene (1992) di Quentin Tarantino, e il trailer italiano gira tutto intorno a questo, quando di fatto è una citazione che, se decontestualizzata come in questo caso, mostra un taglio narrativo che il film di fatto non possiede.

Perché guardare American Animals?

Evan Peters in una scena di American Animals (2018) di Bart Layton

Come anticipato, American Animals è un prodotto incredibilmente sperimentale. All’interno del film ci sono le interviste dei protagonisti reali della rapina raccontata, che interagiscono anche direttamente con gli attori in scena. Quindi la storia raccontata è totalmente genuina e corrispondente agli eventi reali.

Non dovete però immaginarvi un mockumentary: il documentario è reale e ottimamente integrato all’interno della pellicola, ma non finge di essere quello che non è. Ma, per capire di cosa sto parlando, dovete guardarlo voi stessi.

È un film che mi sentirei di consigliare abbastanza a tutti: se siete appassionati di heist movie, sopratutto quelli più interessanti e di concetto come Logan’s Lucky (2017), non potete veramente perdetevelo.

Perché i manoscritti sono così importanti in American Animals?

Ci tengo a spendere due parole riguardo all’importanza e alla preziosità dei manoscritti, perchè potrebbe apparire strana a chi non è del settore.

Anzitutto, certi manoscritti sono considerati effettivamente delle opere d’arte: i cosiddetti volumi illuminati sono impreziositi da miniature, di fatto piccoli dipinti di anche di grande valore, fatti per esempio con la foglia d’oro. Non a caso facevano (e fanno) parte delle collezioni di re e regine.

Inoltre, i manoscritti, anche senza essere belli, possono avere un valore storico incalcolabile: semplificando molto, più un volume si avvicina temporalmente ed a livello di fedeltà al testo originale dell’opera, più è prezioso. E, soprattutto nel caso dei testi a stampa, le prime edizioni hanno un valore altissimo fra studiosi, ma anche e soprattutto collezionisti.

E il mercato nero di questi manoscritti è più prolifico di quanto si possa pensare…

Raccontare una storia vera

Evan Peters in una scena di American Animals (2018) di Bart Layton

L’incontro fra la forma del documentario e film in senso stretto è fondamentalmente perfetta: oltre ad una messa in scena della parte documentaristica che si vede essere passata nelle mani di un autore capace, il montaggio è magistrale.

La fluidità con cui si passa da una scena all’altra, con un montaggio dinamico e che riesce perfettamente a coniugare le parole delle persone reali della vicenda con gli attori in scena. E la macchina da che riesce veramente a cogliere l’essenza del loro racconto, lasciando che i protagonisti si raccontassero, per riportare visivamente le loro parole sullo schermo.

La scelta degli attori

Barry Keoghan in una scena di American Animals (2018) di Bart Layton

Il casting degli attori è davvero ottimo: tutti gli interpreti sono scelti e diretti con grande cura, riuscendo oltre ad assomigliare moltissimo alle persone reali, ad essere le loro perfette controparti in scena.

In particolare è stato veramente interessante vedere in scena due attori di grande valore, ma che abbiamo cominciato a conoscere davvero solo recentemente. Anzitutto Evan Peters, che è noto principalmente al grande pubblico per il suo ruolo di Quicksilver negli ultimi due film degli X-Men e come Fietro (Fake Pietro, in riferimento al casting finto di Piero Maximoff) in Wandavision. In realtà ha fatto molto altro, anzitutto vincendo recentemente l’Emmy per l’acclamata serie Omicidio ad Easttown.

E come non parlare di Barry Keoghan, interprete con un volto e un’espressività tutta sua, che lavorato in film molto di nicchia come Il sacrificio del cervo sacro (2017) e che recentemente si è affacciato al grande pubblico con Eternals (2021). Ma probabilmente lo ricorderete soprattutto per il poco che l’abbiamo visto come Joker in The Batman (2022).

L’insoddisfazione rapace

Barry Keoghan in una scena di American Animals (2018) di Bart Layton

American Animals si propone anche di esplorare le motivazioni dietro ai protagonisti, che sembrano del tutto essere ricondotti ad una insofferenza e insoddisfazione rapace. La stessa insoddisfazione che sembra divorarli dentro, rinchiusi in una vita già definitiva senza aver fatto nulla di interessante.

Per certi versi mi ha ricordato Bling Ring (2013), anche se in questo caso la motivazione è molto più profonda. I protagonisti si immaginavano al centro di una vicenda avventurosa e avvincente, che gli cambierà la vita e che ricorderanno per sempre. E che sarà di fatto senza conseguenze.

Ma la realtà si rivela molto diversa.

Il punto di rottura

Evan Peters in una scena di American Animals (2018) di Bart Layton

Il punto di rottura gira tutto intorno alla figura della bibliotecaria.

La donna è infatti l’incognita del piano che nessuno, nemmeno Warren, vuole davvero affrontare. Nel suo racconto del piano la questione sembra molto semplice: la donna gli sviene semplicemente fra le braccia.

Ma quando invece deve molto maldestramente colpirla e legarla, quando la donna piange e addirittura si urina addosso, allora tutto crolla. Se notate prima di quel momento i personaggi sono abbastanza contenuti, anzi decisamente scherzosi nei loro rapporti.

Invece, da quel momento in poi la situazione precipita, e tutte le tensioni sotterranee esplodono, arrivando fino al punto in cui Chas li punta una pistola addosso, Eric fa a botte per un nonnulla, Warren ruba stupidamente da un supermercato e Spencer provoca un incidente.

Di fatto tutti i personaggi arrivano ad un punto di esplosione, in cui vogliono solo farsi prendere, farsi punire.

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Good Boys – Un ricordo d’infanzia

Good Boys (2019) di Gene Stupnitsky è una pellicola di un genere da un certo punto di vista indefinibile: sarebbe di per sè una commedia che gioca anche con il demenziale, ma al contempo è anche un racconto di crescita e di formazione.

Non un grande film, ma un film che ho apprezzato molto per la sua capacità di raccontare in maniera credibile e coinvolgente il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, con alla guida un regista come Stupnisky, che ha fatto poche cose, ma una che porto davvero nel cuore: Bad Teacher (2010).

Il film fu anche un buon successo commerciale: a fronte di un budget di appena 20 milioni di dollari, ne incassò 111. Fra l’altro fu uno fra i buoni risultati della carriera di Jacob Tremblay, giovanissimo attore in rampa di lancio che ricordiamo sopratutto per essere il bambino protagonista di The Room (2015) e recentemente come doppiatore per Luca (2021).

Di cosa parla Good Boys?

Max è un ragazzino di appena dodici anni che sta per cominciare le scuole medie e si trova a dover gestire tutti i problemi tipici della prima adolescenza: amori non corrisposti, la voglia di determinarsi, il desiderio di mantenere intatte le amicizie.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Good boys può fare per me?

Jacob Tremblay, Keith L. Williams e Brady Noon in una scena di Good Boys (2019) di Gene Stupnitsky

Good Boys è una deliziosa commedia che può piacere un po’ a tutti, sopratutto se, come me, avete una certa passione per prodotti comici dei primi Anni Duemila, particolarmente i teen movie. Tuttavia il film si smarca anche da certi stereotipi e racconta il passaggio all’adolescenza in maniera genuina e molto attuale. Un tratto distintivo di questo autore, che si vede anche in Bad Teacher, appunto.

Una pellicola che mi sento più di consigliare ad un pubblico adulto, in quanto è piena di battute molto pesanti che un ragazzino potrebbe facilmente non cogliere o rimanerne confuso. Insomma, se volete coinvolgere spettatori più giovani, sappiate che potrebbero trovarsi più confusi dei protagonisti stessi.

Raccontare l’adolescenza (da chi l’ha vissuta)

Il momento del passaggio dall’infanzia all’adolescenza è uno dei più complicati della crescita. Guardandolo dall’esterno, dopo averlo superato, ci sembra tutto così comico, così incredibile l’importanza che davamo a cose fondamentalmente inutili.

E in Good Boys il taglio narrativo è proprio quello di un adulto che vuole raccontare tutte le difficoltà di questo periodo, in maniera autentica e sentita, cercando di evitare pesanti stereotipi e invece portando in scena personaggi diversi e in cui tutti possono riconoscersi.

Il senso di assoluto

Jacob Tremblay, Molly Gordon e Midori Francis in una scena di Good Boys (2019) di Gene Stupnitsky

Un aspetto che il film riesce molto bene a raccontare è questo senso di assoluto, tipico dell’infanzia, ma sopratutto di quando ci si affaccia all’adolescenza. Siamo talmente travolti da differenti e nuovissime emozioni che non siamo in grado di capire quanto tutto questo sia transitorio e per nulla definitivo.

Per la maggior parte delle volte ci ritroviamo a considerare la nostra vita già finita, come se tutti i tasselli fossero già posizionati. Infatti Max si comporta come se da questa festa dipendesse tutta la sua vita e dice con grande sicurezza che sposerà Brixlee. E così sono tutti convinti che rimarranno amici per sempre.

Invece proprio da questa esperienza capiscono come la vita sia transitoria e mutabile, sopratutto quando si è giovanissimi. E va bene così.

La mutabilità

Jacob Tremblay in una scena di Good Boys (2019) di Gene Stupnitsky

Proprio durante il film i protagonisti scoprono di quanto la vita possa cambiare, e anche in poco tempo: nel giro di un mese, Max, così sicuro di avere una relazione lunga e duratura con Brixlee, viene lasciato più di una volta e ha delle altrettanto brevi relazioni con almeno tre diverse ragazzine.

Al contempo Lucas e Thor si sentono liberi di sviluppare le loro passioni e cominciare a conoscersi meglio, l’uno entrando nel gruppo anti-bulli che tanto prendevano in giro, l’altro diventando la star del musical della scuola, nonostante sia considerato poco virile dai suoi compagni.

Le stesse ragazze gli svelano come certe amicizie possono nascere anche molto più avanti nella vita e di come certi appuntamenti, a posteriori, appaiano molto meno importanti. Così la festa, che sembra definitiva per la vita di Max, si rivela molto meno determinante di quanto pensasse.

Essere travolti

In particolare nel periodo storico che stiamo vivendo, i giovani sono travolti da concetti e questioni per cui molto spesso non hanno la maturità per affrontarli e comprenderli. E allora spesso ne parlano per frasi fatte e senza averli veramente assimilati.

Si vede molto bene nel modo in cui i protagonisti parlano delle droghe che distruggono le vite e le comunità, del sesso con grande ingenuità, e di come snocciolano concetti indubbiamente importanti come il consenso, ma senza avere idea del loro vero significato.

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Nope – L’orrore di concetto

Nope (2022) è l’ultima pellicola di Jordan Peele, cineasta diventato famoso per Get out (2015) e poi per Us (2019).

Una pellicola dove il regista statunitense compie un ulteriore passo avanti nella sua produzione, portando un prodotto più complesso, maturo ed intrigante, che si spoglia del didascalismo che aveva un po’ guastato la sua seconda pellicola.

Purtroppo il film non sta incassando moltissimo, essendo già uscito da un mese in quasi tutto il mondo: davanti ad una produzione di 68 milioni, finora ne ha incassati solo 115.

Di cosa parla Nope?

OJ è un giovane addestratore di cavalli per produzioni cinematografiche, che si trova ad affrontare un misterioso nemico che infesta i cieli delle sue praterie…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Nope?

Steven Yeun in una scena di Nope (2022) nuovo film di Jordan Peele in uscita l'11 Agosto 2022

Assolutamente sì: dopo aver sperimentato con il genere horror, Peele si contamina con il genere sci-fi e western in maniera originale e assolutamente iconica.

Se siete già appassionati al cinema di Jordan Peele, non potete assolutamente perdervelo. Se avete paura di trovarvi davanti ad un horror davvero spaventoso e violento, non preoccupatevi: il film crea una tensione non da poco, con concetti non poco disturbanti, ma non mostra mai una violenza sanguinosa e spaventosa.

Un orrore più sottile, che ti entra sottopelle, ma che è di concetto e lasciato in parte all’immaginazione dello spettatore, più che veramente mostrato.

Uno dei migliori film di quest’anno finora, senza dubbio.

Cosa significa nope e altri piccoli concetti essenziali

Il senso del titolo purtroppo si perde del tutto nel doppiaggio, ma era inevitabile: nope è un modo più colloquiale di dire no, nel senso no, neanche per sogno: per citare UrbanDictionary, un no definitivo, che nega in qualunque modo quello di cui si sta parlando. Quindi, se lo vedete doppiato, ricordatevi che a volte, quando sentirete gli attori dire no, in originale dicono nope. Parola che ha un significato ben più ampio e preciso, appunto.

Sono state date non poche interpretazioni su questo titolo, ma Peele ha assicurato che voleva solo che fosse la reazione dello spettatore davanti alla pellicola.

Oltre a questo, per capire una battuta che altrimenti cadrebbe piatta, History Channel è un canale televisivo statunitense noto per trasmettere documentari pseudo scientifici e scandalistici, di fatto delle riconosciute bufale.

Infine, il nome del protagonista è OJ, omonimo di O.J. Simpson, che è stato al centro di uno dei più famosi casi di cronaca nera in ambito statunitense negli Anni Novanta.

Ora siete pronti per vedere il film. 

Raccontare il mostro

Per raccontare il mostro, Peele non poteva prendere come modello un caposaldo della cinematografia occidentale: Lo squalo (1972), pellicola che è citata continuamente.

Infatti, se si confronta la modalità di svelamento del nemico di Nope con il capolavoro di Spielberg, l’omaggio è evidente: prima mostrato in maniera sfuggevole, tanto che non si vede neanche la sua forma, poi come ombra, infine potentemente presente in scena.

Ed è incredibile come il mostro faccia paura appunto come concetto: vediamo uomini vivi all’interno del suo apparato digerente, li vediamo urlare, ma non capiamo perchè dovremmo aver paura. Ma, quando lo capiamo, è tremendamente disturbante.

A vedersi, il nemico non è un mostro pauroso, ma anzi molto enigmatico. Sembra al contempo limitato ad una bocca enorme ed a degli occhi che non possiamo vedere, ma poi appare molto più complesso e incomprensibile quando rivela tutta la sua natura sul finale.

Alzare lo sguardo

Daniel Kaluuya in una scena di Nope (2022) nuovo film di Jordan Peele in uscita l'11 Agosto 2022

La tecnica registica è veramente un tocco di classe: in non poche scene Peele riesce non solo farti seguire con lo sguardo la visione dei personaggi verso il mostro, ma ti porta veramente ad alzare gli occhi verso il margine dello schermo, quindi a diventare tu stesso un protagonista della scena.

Oltre a questo le scene sono incredibilmente travolgenti per questo uso dell’inquadratura che taglia di sbieco il soggetto, lasciandolo ai margini e insistendo sul cielo dove dovrebbe apparire il mostro. Come se il regista si dimenticasse di star girando un film volesse solo riuscire a catturare questa incredibile creatura.

Gordy: rafforzare un concetto

La storia secondaria e parallela è quella di Jupe, traumatizzato dalla visione in gioventù della strage della scimmia Gordy. Il collegamento con la trama principale è veramente debole ed è un aspetto che a mente fredda potrebbe pure essere considerato un difetto.

Ma la scena di Gordy serve a rafforzare un concetto, ad irrobustire la sensazione di inquietudine e di pericolo della vicenda. L’animale del film è quello che l’uomo cerca di domare, ma che in realtà è un predatore, una bestia incontrollabile, che semplicemente non puoi addomesticare.

Come la creatura protagonista del film, Gordy non ha un aspetto inquietante e minaccioso, anzi era un personaggio simpatico portato all’interno di una sit-com televisiva di successo. E questa tecnica è amplificata anche dal personaggio di Haley, la ragazza che partecipava allo show insieme a Jupe, e che rivediamo fra il pubblico durante il suo spettacolo. Una figura muta e inquietante, che porta le terribili conseguenze dell’attacco.

Di nuovo, un personaggio che non aggiunge niente alla trama, ma che arricchisce la scena dell’attacco.

La non-lettura

Daniel Kaluuya in una scena di Nope (2022) nuovo film di Jordan Peele in uscita l'11 Agosto 2022

Ho sentito molte interpretazioni date a questa pellicola: riferimenti al mondo delle maestranze del cinema, al ruolo degli attori neri nel cinema, al COVID… Per me la bellezza di questa pellicola è la mancanza di una spiegazione chiara e l’apertura a molteplici interpretazioni.

Non avendo letto immediatamente alcun significato ulteriore, preferisco non trovarne alcuno, ma considerarlo semplicemente un ottimo film horror che gioca con generi diversi e che definisce un definitivo passo avanti per la cinematografia di questo regista.

La fantascienza credibile

Steven Yeun in una scena di Nope (2022) nuovo film di Jordan Peele in uscita l'11 Agosto 2022

In questa pellicola Peele non solo è riuscito a sperimentare con generi diversi, ma a portare una fantascienza che per certi versi mi ha ricordato Arrival (2016): una fantascienza credibile. In particolare si smarca dall’immaginario collettivo, alimentato da diversi film sci-fi e catastrofici dagli Anni Settanta in poi: l’idea che gli extraterrestri, se ci invadessero, sarebbero esseri molto più intelligenti di noi, capaci di dominarci.

Invece l’alieno, se così vogliamo considerarlo, di Nope è niente di più che una bestia, un animale primitivo che caccia l’uomo e che l’uomo deve cacciare per sopravvivere. Un concetto che è stato rafforzato da una scena apparentemente inutile, ma che è pregna di significato: quando i ragazzini cercano di terrorizzare OJ travestendosi da alieni.

In quel momento lo spettatore viene ricondotto su binari consueti, pensando che quelli che vede sono la minaccia del film. Invece quelle figure non sono altro che uno scherzo, un gioco con lo spettatore e con le sue aspettative. Il nemico del film, infatti, è tutta un’altra cosa.

Chi è il mostro?

Nel film non viene spiegata per nulla l’origine della creatura, ma la pellicola sembra suggerire che sia in circolazione dagli Anni Cinquanta e che per tanto tempo sia stato confuso con un disco volante. In realtà, a meno che non si voglia pensare che sia stato particolarmente attivo in quella zona perché Jupe gli offriva in pasto i cavalli per il suo spettacolo, non sembra molto credibile.

Tuttavia qui si apre la strada alle interpretazioni e all’immaginazione dello spettatore. E la scelta di lasciare questo spazio al pubblico è stata una delle più indovinate, evitando di andare ad incagliarsi in spiegazioni non del tutto soddisfacenti come in Us, appunto.

Un grande passo avanti, appunto.