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L’incredibile storia dell’Isola delle Rose – La grande rivincita

L’incredibile storia dell’Isola delle Rose (2020) è un film diretto da Sydney Sibilia, conosciuto principalmente per la trilogia di Smetto quando voglio.

Uno dei pochi ottimi registi italiani che cerca di distaccarsi dai soliti e ridondanti generi del panorama cinematografico nostrano.

Il film uscì alla fine del 2020 direttamente su Netflix.

Di cosa parla L’incredibile storia dell’Isola delle Rose

Bologna, 1968. Giorgio Rosa è un giovane ingegnere appena diplomato, con grandi sogni (non sempre vincenti) di creare qualcosa di suo, per smarcarsi dalla pesante eredità della generazione precedente.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale pena di vedere L’incredibile storia dell’Isola delle Rose?

Assolutamente sì.

L’incredibile storia dell’Isola delle Rose è una deliziosa commedia, con un cast internazionale di primissimo livello, che mi sentirei di consigliare praticamente a tutti.

In particolare, di grande valore l’interpretazione di Elio Germano, che ancora una volta si conferma un attore non solo di grande talento, ma dalle capacità davvero multiformi, capace di immedesimarsi in ogni tipo di personaggio.

Insomma, assolutamente imperdibile.

Una storia ancora attuale

Matilda De Angelis e Elio Germano in una scena del film L'incredibile storia dell'Isola delle Rose (2020) Film Netflix di Sidney Sibilla

L’importante è salvare il mondo…o almeno provarci.

Sydney Sibilia sceglie nuovamente di puntare sul racconto di una generazione perduta, una generazione che deve ancora vivere all’ombra della precedente, che cerca di incasellarla precisi schemi sociali.

Nel 1968 come oggi.

Infatti, il film parla soprattutto alla generazione dei millennial, che ancora oggi si affaccia al mondo del lavoro e sente il peso dei propri genitori, nati e cresciuti in un mondo diverso, quando era più scontato seguire un preciso percorso di vita.

E invece per la nuova e la nuovissima generazione non basta più. Dobbiamo reinventarci: Giorgio Rosa quarant’anni fa con la sua isola, tanti giovani e giovanissimi oggi che creano il loro brand da zero.

Così Sydney Sibilla è un regista che ha cominciato con gli spot pubblicitari e in appena tre anni è riuscito ad imporsi con un film nuovo e fresco come Smetto quando voglio (2014), smarcandosi dai soliti canoni del cinema italiano.

Lui, insieme a Matteo Rovere (regista de Il primo re e anche produttore del film di Sibilia), sono le poche giovani voci che si sono ribellate ad un cinema mainstream ridondante e saturo, portando finalmente qualcosa di nuovo e di più ampio respiro.

Scegli una storia, scrivila bene

Matilda De Angelis e Elio Germano in una scena del film L'incredibile storia dell'Isola delle Rose (2020) Film Netflix di Sidney Sibilla

Al tempo sentii alcune critiche per il fatto che il film avesse poca attinenza con le vicende storiche raccontate.

In generale, bisogna avere coscienza del prodotto: la pellicola non ha l’intenzione di essere fedele alla storia originale, ma di prenderla come spunto per il già accennato racconto tanto caro al regista.

Facendolo molto bene, fra l’altro.

Infatti, il tema di fondo non è esplicito, ma ben raccontato nei vari momenti chiave.

Inizialmente Giorgio viene raccomandato dal padre per un lavoro che è assolutamente evidente che sia svilente per le sue capacità e la sua inventiva. Così anche Gabriella sembra inizialmente contraria a volersi sistemare con Carlo, che la rincorre per un matrimonio, ma per lungo tempo durante il film accetta di sottostare a quello che la società si aspetta da lei.

Ma infine anche lei decide di abbandonare questa idea e abbracciare invece la ribellione di Giorgio.

Parallelamente il mondo adulto è raccontato con una sferzante ironia: i politici, che si sentono tanto potenti e importanti per aver fondato l’Italia del dopoguerra, si dimostrano in realtà interessati principalmente al proprio tornaconto, corrotti con il Vaticano e che si accaniscono sul progetto di Giorgio semplicemente per dimostrare il proprio potere.

Ma non vincono veramente: hanno ucciso un progetto, ma non possono distruggere un ideale.

Il multiforme Elio Germano

Elio Germano in una scena del film L'incredibile storia dell'Isola delle Rose (2020) Film Netflix di Sidney Sibilla

Elio Germano è la punta di diamante di questo film.

Un attore estremamente eclettico, che riesce a portare in scena personaggi sempre diversissimi fra loro: dal rozzo romano in Favolacce (2020) al suo Leopardi in Il giovane favoloso (2014), fino al giovane sognatore in questa pellicola.

Il suo personaggio non è del tutto positivo: lo seguiamo con entusiasmo nel suo assurdo progetto, perché ne apprezziamo il coraggio e la follia. Tuttavia, Giorgio è molto fallibile e poco coi piedi per terra: si fa multare due volte, non è capace di relazionarsi con il mondo e si ribella incondizionatamente al potere costituito.

E viene più volte minacciato e disprezzato dagli adulti, prima dal padre, riuscendo infine ad ottenere la sua approvazione, poi sfidato direttamente dal Governo Italiano. Ma non si perde mai d’animo, fino all’ultimo.

Un cast internazionale

Fabrizio Bentivoglio e Luca Zingaretti in una scena del film L'incredibile storia dell'Isola delle Rose (2020) Film Netflix di Sidney Sibilla

Come anticipato, L’incredibile storia dell’Isola delle Rose può godere di un ottimo cast internazionale.

Anzitutto la coppia di ministri del Governo allora in carica, interpretati da due dei migliori attori italiani al momento: Fabrizio Bentivoglio è il Ministro Franco Restivo, che decide in ultimo di attaccare l’Isola delle Rose.

E l’irriconoscibile Luca Zingaretti, l’iconico Commissario Montalbano, è il Presidente del Consiglio Leone. Una coppia irresistibile, comica ai limiti del grottesco, con una recitazione sempre splendida e credibilissima.

Due altri ottimi attori internazionali: François Cluzet, attore francese noto soprattutto per Quasi amici (2011) è il Presidente del Consiglio d’Europa Jean Baptiste Toma, che tifa per Giorgio Rosa fino alla fine.

Così l’attore tedesco Tom Wlaschiha, che ha recitato in Game of Thrones nei panni di Jaqen H’ghar, membro degli Uomini senza volto che addestra Arya nella settima stagione, ma anche Enzo nella quarta stagione di Stranger Things.

Attore quindi capace di recitare in inglese, tedesco, italiano e russo: niente di meno.

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Quando c’era Marnie – Nel mare dei ricordi

Quando c’era Marnie (2014) è un film dello Studio Ghibli diretto da Hiromasa Yonebayashi, recentemente tornato alla regia con Mary e il fiore della strega (2018).

Il film si colloca in un momento abbastanza drammatico per lo studio: dopo lo scarso successo de Il racconto della principessa splendente (2013), la casa di produzione decise di prendersi una pausa.

È tornata recentemente con Earwig e la strega (2020), primo film in animazione 3D, stroncato da pubblico e critica.

A fronte di un budget abbastanza risicato – 10,5 milioni, circa 1,15 miliardi di yen – incassò abbastanza bene: 36 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Quando c’era Marnie

Anna è una ragazzina di tredici anni, chiusa in sé stessa e con molti drammi interiori irrisolti. La madre adottiva, preoccupata anche per la sua salute, decide di mandarla in campagna dalla zia, così da respirare aria fresca e rimettersi in forma.

In questa occasione Anna incontrerà una misteriosa e bellissima ragazza, Marnie.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Quando c’era Marnie?

Anna e Marnie in una scena di Quando c'era Marnie (2014) film dello Studio Ghibli diretto da Hiromasa Yonebayashi

Assolutamente sì.

Ho recuperato abbastanza recentemente Quando c’era Marnie, ma è subito diventato uno dei miei film preferiti.

Sarà per la storia che sento molto vicina, per tutti momenti davvero toccanti della pellicola e la profondità della vicenda raccontata, ma anche ad una seconda visione è riuscito ancora ad emozionarmi e coinvolgermi.

Una pellicola racconta in maniera matura e profonda il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, del ritrovare sé stessi e venire a patti col proprio passato, con piglio molto drammatico, anche a livelli strazianti, ma complessivamente ben equilibrato.

Marnie dei miei ricordi

Marnie in una scena di Quando c'era Marnie (2014) film dello Studio Ghibli diretto da Hiromasa Yonebayashi

In originale Quando c’era Marnie si intitola 思い出のマーニー, che significa Marnie dei miei ricordi.

Quando l’ho scoperto, non ho potuto che apprezzare ancora di più la bellezza e la profondità di questa pellicola.

Il film gioca sul limite fra il magico e il reale, senza volerlo spiegare fino in fondo. Semplicemente la nonna di Anna, Marnie, ha voluto ritornare in contatto con la nipote, legata a questo particolare luogo della sua memoria e che amava molto: la villa della sua infanzia.

In realtà Marnie è sempre stata nella vita di Anna, anche se lei non lo sapeva: da notare in particolare la bambola con le sembianze della nonna che la piccola Anna abbraccia nelle scene di flashback.

Anna, non conoscendo finora la vera storia della sua famiglia, ha sofferto terribilmente, sentendosi abbandonata.

In realtà, proprio dopo un passato di reale abbandono, Marnie cercò di crearsi una famiglia migliore, ma tutto le crollò addosso con la morte del marito e poi della figlia, portandola ad una profonda depressione, che infine la vinse.

Ma, nonostante tutto, ci viene raccontato come non si perse mai d’animo e cercò fino alla fine (e oltre) di essere felice e ricostruire la sua vita.

Un’emotività problematica

Anna e Marnie in una scena di Quando c'era Marnie (2014) film dello Studio Ghibli diretto da Hiromasa Yonebayashi

Anna viene fin da subito raccontata come un personaggio molto problematico.

Un’emotività fragilissima, che non si sente per nulla amata dalla sua madre adottiva, soprattutto dopo la scoperta dei sussidi ricevuti dalla sua famiglia. Oltre a questo, odia i suoi genitori e sua nonna per averla abbandonata, anche se sa che non era colpa loro.

E si odia per questo.

Il contatto con Marnie, ragazza che la ama incondizionatamente e che sente da subito vicina a sé, la porta a volerla salvare dalle sue fragilità e debolezze.

Aiutare sé stessi

Aiutando la Marnie del passato, Anna aiuta sé stessa.

In questo riesce a ritrovare pian piano la propria felicità e a venire a patti con il proprio passato e col proprio presente. Particolarmente toccante e significativo il momento in cui Anna si sente abbandonata da Marnie, sia effettivamente che metaforicamente, ma che infine riesce a perdonarla per la sua debolezza e per non esserle stata vicino.

Infatti, Marnie evidentemente desiderò accoglierla fin da subito nella sua casa con affetto e amore, anche per colmare i suoi sbagli passati. E, finalmente, ha la sua occasione di riscatto: regalare alla nipote una vita felice e appagante.

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Una settimana da Dio – La mia versione migliore?

Una settimana da Dio (2003) è un film diretto da Tom Shadyac, regista che aveva già lavorato con Jim Carrey per Ace Ventura (1994).

Una pellicola che, dopo quasi 10 anni dal lancio al grande pubblico dell’attore, confermò le sue capacità recitative, ancora più di The Truman Show (1998).

Il film fu un buon successo di pubblico (484 milioni di dollari contro 80 di budget) e, non a caso pochi anni dopo si tentò di produrre un seguito, Un’impresa da Dio (2007), con protagonista Steve Carell, che però fu un disastro commerciale (174 milioni di incasso contro un budget di 175).

Di cosa parla Una settimana da Dio

Bruce, interpretato da Jim Carrey, è un giornalista televisivo per Channel 7 e che ambisce a diventare il conduttore del telegiornale, scontrandosi contro il rivale, Evan. Quando la sua vita sembra andare a scatafascio, un incontro inaspettato, con niente di meno che Dio in persona, gli sconvolgerà la vita.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Una settimana da Dio fa per me?

Jim Carrey in una scena di Una settimana da Dio (2003) diretto da Tom Shadyac, già regista di Ace Ventura

Una settimana da Dio si inserisce nel trend delle commedie dei primi Anni 2000, con tutto quello che ne consegue.

Quindi battute anche di cattivo gusto e quel fetish parecchio strano che avevamo per la pipì e alle scoregge, che a quanto pare facevano molto ridere. Tuttavia, un umorismo in questo senso ben dosato, senza mai cadere negli eccessi, pur geniali, di prodotti ben più esagerati come Dodgeball (2004).

In generale, è un film che mi sento di consigliare se vi piacciono le commedie e soprattutto se volete vedere un Jim Carrey al massimo della forma, nel periodo d’ora della sua carriera.

In questo film infatti, a differenza di un The Mask (1994), Carrey riesce a calibrare perfettamente le sue capacità comiche nelle espressioni, nella voce e, soprattutto, nella recitazione corporea.

Nel complesso è una pellicola assolutamente godibile e che vi consiglio se volete vedere un prodotto che, anche 20 anni dopo, è ancora stato in grado di farmi ridere genuinamente.

Scegli una storia, sceglila bene

Jim Carrey in una scena di Una settimana da Dio (2003) diretto da Tom Shadyac, già regista di Ace Ventura

Come scheletro narrativo Una settimana da Dio è sostanzialmente assimilabile a The Mask: una commedia che racconta il sogno di potenza di un uomo medio.

Tuttavia, in questo caso la morale è (o dovrebbe essere) più profonda: non semplicemente un protagonista che deve capire le sue potenzialità, ma un personaggio sostanzialmente negativo che deve migliorare sé stesso.

Infatti, Bruce è un uomo ambizioso, invidioso e iracondo, cui viene messo in mano un potere straordinario, che però utilizza solamente per il suo tornaconto. E alla fine Dio lo metterà davanti alla consapevolezza di non aver mai fatto nulla di buono con i suoi poteri, come invece avrebbe dovuto.

E, a questo punto, secondo me il film si perde.

Una conclusione?

Jim Carrey e Morgan Freeman in una scena di Una settimana da Dio (2003) diretto da Tom Shadyac, già regista di Ace Ventura

Teoricamente questa esperienza dovrebbe portare Bruce alla consapevolezza dei suoi difetti, a ridimensionarsi e a capire che può ottenere una vita felice e soddisfacente anche accontentandosi di quello che ha. Tuttavia, questa consapevolezza non è messa in scena in maniera ottimale.

Infatti, nonostante ci siano una serie di indizi di come le azioni di Bruce causino importanti conseguenze, lo stesso sembra non accorgersene.

Il momento di consapevolezza dovrebbe arrivare prima con il discorso di Dio stesso, quando gli spiega che i miracoli sono quelli che compiono le persone tutti i giorni, e non tanto i piccoli trucchi di magia che ha fatto Bruce fino a quel momento.

E, teoricamente, da quel punto in poi il protagonista dovrebbe comportarsi in maniera migliore. Tuttavia, questo cambio di comportamento è troppo veloce e improvviso, oltre ad avere un minutaggio abbastanza ridotto.

Quindi a mio parere Una settimana da Dio è una commedia complessivamente buona e davvero divertente, che però si perde nell’ultimo atto, andando ad incartarsi nel classico finale consolatorio che troviamo nella maggior parte dei prodotti di quel periodo…

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Cip & Ciop agenti speciali – Attivare parental control

Cip e Ciop: Agenti speciali (2022) è una delle ultime pellicole in tecnica mista uscite su Disney+ e che sta facendo parlare molto di sé. Il motivo è semplice: se pensavate che fosse un film per bambini, dovete ricredervi.

Io per prima pensavo quanto sopra, ma, grazie al passaparola positivo che ho ricevuto da diverse persone, mi sono convinta a recuperarlo. E non è nulla di quanto mi sarei mai potuta immaginare. Mi è sembrato di tornare a tanti anni fa, allo splendido Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988), cult assoluto della mia infanzia, con tutto quello che ne consegue.

Di cosa parla Cip & Ciop agenti speciali

Cip e Ciop sono amici fin dall’infanzia e riescono a diventare protagonisti di uno show televisivo (che dà il nome al film e che è stato veramente trasmesso fra il 1989-90), ma si dividono inaspettatamente per il desiderio di Ciop di smarcarsi dall’ombra di Cip.

I due dovranno riunirsi molti anni dopo per salvare Monterey Jack, il loro ex-collega della serie.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Cip & Ciop agenti speciali non è niente che potreste aspettarvi

Cip e Ciop nel film per Disney+ Cip & Ciop agenti speciali (2022)

Come anticipato, io avevo bollato (ingiustamente) questo film come il solito revival di prodotti del passato per farli apprezzare alle nuove generazioni, come era stato appunto per il recente Tom & Jerry (2021) e altri prodotti simili. E mai come in questo caso ringrazio con tutto il mio cuore il buon passaparola che ho ricevuto.

Cip & Ciop agenti speciali è fondamentalmente un buddy movie nel senso più classico del termine, richiamando anche direttamente uno dei prodotti pionieristici del genere, 48 ore (1982). Due personaggi che partono come antagonisti (in questo caso divisi da un vecchio rancore) e che riusciranno a ricostruire il loro rapporto. Detto così, potrebbe sembrare un film innocuo. Niente di più sbagliato.

In realtà questo film non è minimamente pensato per un pubblico infantile, e forse neanche per un pubblico di ragazzini, ma principalmente per il target dei figli degli Anni Ottanta e Novanta, che conoscono i vari meme di internet e che sono cresciuti con i cartoni animati dell’epoca.

Nessuno pensa ai bambini!

Cip e Ciop nel film per Disney+ Cip & Ciop agenti speciali (2022)

Per quanto non sia detto esplicitamente, in Cip & Ciop agenti speciali si parla di dipendenza dalle droghe, quindi spaccio e traffico di esseri umani. Già questo getta un’ombra sul film, ancora più aggravato da scene non tanto spaventose, ma sottilmente disturbanti.

Oltre a questo, un bambino rischia di annoiarsi: per la maggior parte delle battute sono riferite a meme di internet e a prodotti degli Anni Novanta e Anni Duemila. Il massimo che potrebbe intrattenerlo sarebbe la storia raccontata, ma è impossibile (e per fortuna) che la capisca fino in fondo.

Perché dovreste vedere assolutamente Cip & Ciop agenti speciali

Cip e Ciop nel film per Disney+ Cip & Ciop agenti speciali (2022)

Fatte queste dovute premesse, Cip & Ciop agenti speciali è un film sorprendentemente geniale. La vera trama appunto riguarda temi abbastanza pesanti, cui si aggiunge il tema evergreen, già ben sperimentata in Bojack Horseman, ovvero quella riguardante la crudeltà dello show business hollywoodiano.

Un film profondo e maturo, pur con qualche ingenuità nel riprendere dei topoi molto abusati. Oltre a questo, soprattutto all’inizio, ci sono delle battute assolutamente geniali in riferimento a prodotti ormai entrati nella cultura popolare, in cui la Disney arriva a parodizzare sé stessa (e non solo). Un film gustoso e divertente, che dovreste assolutamente recuperare, soprattutto se fate parte della generazione che è cresciuta con questi personaggi.

Cos’è il genio?

Ugly Sonic in una scena del film per Disney+ Cip & Ciop agenti speciali (2022)

That weird animation style in the early 2000s where everything looked real but nothing looked right

Quello stile di animazione all’inizio degli Anni Duemila quando tutto era realistico ma sembrava sbagliato

Riuscire a mettere così tanti riferimenti alla cultura pop di un certo periodo non era semplice, ma è Cip & Ciop agenti speciali ci è riuscito alla perfezione.

Per me le battute più geniali sono state sicuramente quelle dell’animazione anni 2000 e soprattutto Ugly Sonic, uno dei casi cinematografici più discussi in tempi recenti. Per non parlare della quantità di riferimenti di prodotti animati, Disney e non.

Riuscire poi ad edulcorare tematiche pesantissime come il traffico di organi e di essere umani, lo sfruttamento di Hollywood e la dipendenza dalle droghe, riuscendo al contempo a contestualizzare tutto perfettamente nel contesto raccontato, non è cosa da tutti. Ma, ancora, questo film ci riesce perfettamente.

Il rapporto fra Cip e Ciop

Cip e Ciop nel film per Disney+ Cip & Ciop agenti speciali (2022)

Ho davvero adorato come il rapporto fra i due non sia affatto appiattito, non limitandosi a raccontare una banalissima dinamica da buddy movie.

Cip e Ciop erano due bambini molto soli e incompresi, in particolare Cip non riusciva ad avere amici e finalmente ha trovato un compagno di vita in Ciop: il suo racconto alla fine sul corpo esanime di Cip è uno schiaffo emotivo.

Un bellissimo racconto di amicizia, di come i rapporti possono essere guastati da una semplice parola non detta, accecati da un senso di inferiorità ingiustificato verso i propri amici, anche più stretti.

La scelta del rilascio in streaming

Il film è stato rilasciato direttamente sulla piattaforma Disney+, senza quindi passare per la sala. In questo caso, potrebbe non essere stata la scelta peggiore: probabilmente altri come me si saranno fermati davanti al titolo, bollandolo come un film per bambini.

Così il pubblico infantile e i genitori si sarebbero fiondati in sala, convinti di vedere un film pensato per loro. E, vista l’eccelsa capacità di rating dell’Italia (vi ricordo The Suicide Squad era classificato come film per tutti), probabilmente avremmo avuto una generazione di bambini traumatizzati per la vita.

Per questo probabilmente avrebbe avuto un pessimo passaparola e sarebbe stato un flop. Invece, rilasciandolo subito in streaming e rendendolo così più accessibile, ha permesso che fosse più facile che i vari influencer (adulti) lo vedessero e creassero un ottimo passaparola. E così è successo.

E non sarà né la prima né l’ultima pellicola che vivrà di migliore salute in streaming piuttosto che in sala.

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The Truman Show – Il seme della follia

The Truman Show (1998) è un film diretto da Peter Weir (lo stesso di L’attimo fuggente, 1989) e che rappresentò un punto di arrivo importante per la carriera di Jim Carrey.

Infatti, dopo un’ascesa fulminante con film come The Mask (1994) e Ace ventura (1994), Carrey ebbe finalmente la possibilità di mostrarsi come attore completo.

Al tempo il film fu un discreto successo al botteghino (264 milioni di incasso contro 60 di budget) e divenne col tempo un cult dei cinefili.

Di cosa parla The Truman Show

Truman (nome parlante) è fin dalla sua nascita all’interno di un ambizioso reality show, che è totalmente realistico: Truman è assolutamente inconsapevole di vivere all’interno della finzione televisiva, ma comincerà a raccogliere gli indizi che lo porteranno alla consapevolezza…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Truman Show?

Jim Carrey in una scena del film The Truman Show (1998) diretto da Peter Weir

Assolutamente sì.

Avevo visto The Truman Show una sola volta diversi anni fa, e non ricordavo l’altissima qualità di questa pellicola. Il film gode di una solidissima struttura narrativa, che si articola ad ondate per i diversi momenti di consapevolezza di Truman.

Si avvicina pericolosamente al genere grottesco, senza mai scadere nella banalità o nel cattivo gusto. Il tono è perfettamente calibrato, riuscendo a trasmetterti il giusto senso di angoscia e di trasporto per il personaggio di Truman.

Perché, alla fine, gli spettatori del reality che vediamo in scena siamo noi, in tutto e per tutto. Non a caso i titoli di testa sono quelli del programma rappresentato, non del film stesso.

Un punto di arrivo

Jim Carrey in una scena del film The Truman Show (1998) diretto da Peter Weir

Dopo delle ottime prove attoriali in ambito comico, solo quattro anni più tardi Jim Carrey ebbe la fortuna di essere diretto da un ottimo regista che ne capì la potenzialità.

Carrey in questa pellicola dimostra infatti tutte le sue capacità, caricando la recitazione dal punto di vista comico e grottesco, ma al contempo riuscendo a destreggiarsi ottimamente anche nelle scene più drammatiche.

Per non parlare della recitazione corporea, con cui riesce a trasmetterti tutta la potenza del suo personaggio.

La morale

Ed Harris in una scena del film The Truman Show (1998) diretto da Peter Weir

The Truman Show presenta una morale molto interessante, soprattutto per come è rappresentata la figura del creatore dello show.

La metafora cristiana è evidentissima: Christof (molto simile a Christ) è il creatore di Truman, che lo ha circondato di tutto ciò che lo possa rendere felice e l’ha protetto dalle brutture del mondo esterno, in questa sorta di paradiso terrestre televisivo.

E proprio con questo racconto il creatore cerca di convincere Truman a rimanere, con una logica che si può trovare in altri ottimi prodotti con una trama simile come Dogtooth (2009).

La bellezza della pellicola sta proprio nel fatto che non si vuole rappresentare Christof come una persona avida che vuole solo arricchirsi, ma, al contrario, come un uomo che si vede come un padre amorevole che cerca di proteggere il figlio.

Il tono

Jim Carrey Laura Linney e in una scena del film The Truman Show (1998) diretto da Peter Weir

Il tono di The Truman Show è ben calibrato.

Fra il grottesco e il surreale, soprattutto nei tentativi di Christof di impedire a Truman di scoprire la verità, portandolo al limite della follia. Scoprire di avere una vita costruita a tavolino, controllata in ogni particolare, in cui tutto però è fondamentalmente finto, pensato per un determinato scopo.

Così dall’altra parte avere la possibilità di avere uno sguardo quasi voyeuristico costantemente fisso sulla vita di una persona vera, che si percepisce come vicino a noi, anche se non la si conosce personalmente.

Il pubblico tenuto sulle spine fino all’ultimo e infine congedato con un finale consolatorio, dove Truman annuncia scherzosamente di andarsene, salutandoci. E a quel punto la chiusa perfetta: è finito il film, è finito questo The Truman Show, cosa danno sugli altri canali?

All’interno del film sono presenti diversi attori più o meno famosi che conosciamo soprattutto per prodotti televisivi successivi.

Uno dei poliziotti che guarda lo show è Joel McKinnon Miller, Scully nella serie Brooklyn 99, la moglie di Truman, Meryl, è Wendy della serie Ozark, la madre di Truman è Holland Taylor, Ellen nella miniserie di Netflix Hollywood, l’operatore che si vede sempre dietro le quinte è il caratterista Paul Giamatti, il creatore dello show è Ed Harris, un personaggio (di cui non posso dire di più) della prima stagione di Westworld.

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Mary e il fiore della strega – Una piccola storia di magia

Mary e il fiore della strega (2017) è un film diretto da Hiromasa Yonebayashi, il più giovane regista dello Studio Ghibli, che ha lavorato per anni spalla a spalla col maestro Hayao Miyazaki.

Questa pellicola non è una produzione dello Studio Ghibli, ma dello Studio Ponoc, fondato recentemente dal regista della pellicola. A fronte di un budget sconosciuto, ebbe un incasso abbastanza normale: circa 42 milioni di dollari.

Di cosa parla Mary e il fiore della strega

Mary, la protagonista della pellicola, è una ragazzina che, appena arrivata in una nuova città, deve riempire il tempo nella settimana prima dell’inizio della scuola. Ma un’avventura l’aspetta…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Mary e il fiore della strega?

Mary in Mary e il fiore della strega (2017) film diretto da Hiromasa Yonebayashi dello studio Studio Ponoc

In generale, sì.

Mary in Mary e il fiore della strega è un film adatto a tutti e che, a differenza de Il racconto della principessa splendente (2013), consiglierei per accedere al mondo dell’animazione giapponese.

Infatti, le dinamiche sono semplici e facilmente comprensibili anche per il pubblico occidentale, con dei trope piuttosto tipici anche nel nostro cinema, ma non per questo meno funzionali.

Insomma, un film leggero e intrattiene facilmente, pure con qualche interessante colpo di scena ben congegnato.

Le animazioni, come detto, sono un’ottima eredità dello Studio Ghibli e in particolare a Miyazaki: non rasentano il capolavoro come i suddetti, ma sono comunque di ottimo livello, con un character design piuttosto convincente per la maggior parte dei personaggi.

Una protagonista perfetta

Mary in Mary e il fiore della strega (2017) film diretto da Hiromasa Yonebayashi dello studio Studio Ponoc

L’undicenne Mary è una protagonista scritta a regola d’arte.

Viene dedicato il giusto minutaggio a raccontarci la sua personalità, il suo essere profondamente buona, ma anche piuttosto imbranata. In questa piccola avventura, come nei migliori racconti di formazione, riesce ad assumere maggiore consapevolezza di sé stessa e delle sue abilità, con un finale piacevole che ci lascia con un sorriso.

Al contempo, è una protagonista con cui è facile empatizzare: proprio per la sua semplicità e goffaggine, è un personaggio che appare da subito simpatico e piacevole. Inoltre, la sua fallibilità e incertezza la rende al contempo una protagonista molto accessibile, in cui, anche con importanti differenze di età, è facile immedesimarsi.

Ingenuità di scrittura

Peter in Mary e il fiore della strega (2017) film diretto da Hiromasa Yonebayashi dello studio Studio Ponoc

Il film, come anticipato, presenta importanti ingenuità di scrittura, che in parte rovinano la solidità della storia. In particolare, ci sono due cose che non funzionano del tutto: il rapporto di Mary con Peter e la backstory dei villain.

La backstory degli antagonisti è troppo poco esplorata, tanto da diventare superficiale: manca un adeguato minutaggio per raccontare la situazione di partenza, il cambiamento e il dramma che si verifica. Per come è messo in scena, sembra che Charlotte decida di portare via il fiore della strega all’improvviso, senza averci pensato prima.

Inoltre, per come te lo presenta il film, Peter dovrebbe essere una persona a cui Mary tiene tantissimo, in quanto diventa quella da salvare all’interno del film e per cui la protagonista mostra costantemente di avere un grande legame emotivo.

Tuttavia, questo stesso legame sembra un po’ nato dal nulla: manca un’adeguata costruzione che riesca a farti coinvolgere realmente con il dramma del suo rapimento.

Trigger emotivi fallimentari

Mary in Mary e il fiore della strega (2017) film diretto da Hiromasa Yonebayashi dello studio Studio Ponoc

Per questo stesso motivo, tutti i trigger emotivi legati a Peter non funzionano fino in fondo: manca appunto un racconto funzionante del rapporto con Mary per poterci far emozionare nei vari momenti di dramma che vanno a crearsi. Invece nelle scene di difficoltà più che altro si viene coinvolti dalle emozioni di Mary più per il personaggio di Mary in sé che per il suo rapporto con Peter.

Infatti il loro rapporto nasce prima come antagonista, poi vi è un piccolo momento di riconciliazione, per poi avere un altro battibecco. Dopodiché, quando si rincontrano, sembrano immediatamente legati da un profondo rapporto.

Questo è il difetto più grande della pellicola, ma che, per la poca esperienza dello studio di produzione, mi sento di perdonare.

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The mask – Il sogno di potenza

The Mask (1994) fu uno dei primi film di Jim Carrey, nonché una delle tre pellicole (insieme ad Ace ventura e Scemo & Più scemo, usciti lo stesso anno) che lo fece conoscere al grande pubblico.

Fu infatti un piccolo cult per i figli degli anni Ottanta-Novanta, e io stessa ricordo di averlo visto più e più volte, rimanendone sempre affascinata e divertita.

Non a caso fu un incredibile successo commerciale: 351 milioni di incasso contro un budget di circa 20 milioni.

Di cosa parla The Mask?

Stanley Ipkiss è un mediocre impiegato bancario, che vive di grandi sogni di successo, che però non riesce mai a realizzare. Troverà per caso una maschera che, se indossata, lo renderà un inguaribile rubacuori, capace di qualsiasi cosa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.:

Vale la pena di guardare The Mask?

Jim Carrey in una scena del film The Mask (1994) diretto da Chuck Russell cult degli anni Novanta

In generale, sì.

Oltre ad essere uno dei film più famosi di Jim Carrey, è ancora una pellicola piacevole da guardare anche oggi, soprattutto se ci si approccia con l’idea di vedere un film di intrattenimento senza grandi pretese di originalità, ma totalmente retto sulle spalle di un giovane ma già incredibile Jim Carrey.

Quindi, se apprezzate i film comedy degli Anni Novanta, con tutte le loro esagerazioni e assurdità, e se soprattutto siete fan di Jim Carrey, guardatelo.

Perché The Mask divenne un cult?

Jim Carrey in una scena del film The Mask (1994) diretto da Chuck Russell cult degli anni Novanta

Le motivazioni del successo di The Mask in realtà non sono difficili da immaginare.

Anzitutto il film utilizza una tecnica molto comune di scegliere un protagonista che ricalchi le caratteristiche del target di riferimento. Infatti, Stanely rappresenta il topos dell’uomo medio, intrappolato nella sua mediocrità e incapacità di realizzarsi, pur avendo grandi sogni e speranze di successo.

E The Mask rappresenta il suo sogno di potenza: avere la possibilità di fare tutto, realizzare i suoi desideri più reconditi, che sono di fatto due: imporre la sua mascolinità sugli altri uomini superiori a lui e ottenere la ragazza dei sogni.

Così infatti la maschera dà la possibilità a Stanley ad avere la meglio sul borioso e viscido direttore di banca e di conquistare una splendida ragazza come Tina.

Non sei come gli altri

Jim Carrey in una scena del film The Mask (1994) diretto da Chuck Russell cult degli anni Novanta

Un altro trope piuttosto comune, e che si adatta sia ai personaggi maschili che femminili, è il tu non sei come gli altri.

Per i personaggi femminili di solito è una degradazione delle altre donne, disinibite e superficiali, mentre per i personaggi maschili è una dichiarazione di superiorità rispetto agli altri uomini, più potenti del protagonista, ma di minor valore.

Così ben due donne nel film dicono al protagonista che lui è speciale, che non è come gli altri, che è anzi un uomo romantico e sensibile come ogni donna vorrebbe. E anche questo è un sogno ricorrente: pensare di avere maggiori qualità degli altri uomini che raggiungono il successo e sperare che gli altri (soprattutto le donne da conquistare) se ne accorgano e ne rimangano ammaliati.

Semplicemente Jim Carrey

Jim Carrey in una scena del film The Mask (1994) diretto da Chuck Russell cult degli anni Novanta

The Mask fu un ottimo banco di prova per Jim Carrey, al tempo ancora quasi sconosciuto. Nel film infatti, al di là delle poche reazioni in CGI, fu Jim Carrey, con la sua espressività esplosiva e coinvolgente, a conquistare il pubblico.

Quando veste i panni dell’uomo medio ha un’espressività più semplice, ma comunque molto convincente, mentre quando diventa The Mask è un personaggio al limite della follia e dove Carrey riesce a dare il meglio di sé.

Non ancora, secondo me, il miglior Jim Carrey, ma comunque un ottimo punto di partenza.

I limiti del film

Jim Carrey e Cameron Diaz in una scena del film The Mask (1994) diretto da Chuck Russell cult degli anni Novanta

Il film, anche per la sua semplicità, ha degli ovvi limiti.

Anzitutto, l’antagonista: oltre ad essere molto stereotipato, non riesce a diventare interessante e minaccioso quando indossa la maschera. Sembra anzi un altro personaggio totalmente, un mostro ancora più stereotipato. E infatti il suo screen time in quelle vesti è per fortuna molto limitato e la sua dipartita è altrettanto rapida, anche se piuttosto spassosa.

Così anche ovviamente il personaggio femminile, che è in tutto e per tutto una donna oggetto che esiste in funzione del sogno del protagonista. Lasciando anche da parte come il taglio erotico e abbastanza patetico con cui la regia la racconta, Tina è la classica donna bella e impossibile, ma alla fine si innamora comunque di Stanley e lo aiuta anche a realizzare il suo piano.

Ovviamente, all’interno della dinamica per cui la donna vive solo per essere oggetto del desiderio maschile, tutti i personaggi maschili sono pateticamente svenevoli quando appare. Ma stiamo parlando degli Anni Novanta: altri tempi, altra mentalità. E per quello che volevano fare, è un personaggio assolutamente azzeccato.

A differenza di come si pensi, nel film Jim Carrey non dice spumeggiante, ma sfumeggiante. Infatti, in inglese dice smoking, di cui sfumeggiante è la traduzione letterale.

Però sì, spumeggiante è molto più bello.

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Avventura Azione Cult rivisti oggi Fantascienza Film Star Wars - Trilogia classica

Star Wars: Il ritorno dello Jedi – Un degno finale?

Star Wars: Il ritorno dello Jedi (1983) è l’ultimo capitolo della trilogia originale di Star Wars, ovvero la prima uscita in ordine temporale. Dopo un ottimo inizio e un sequel ancora più convincente, George Lucas sarà riuscito a dare un degno finale alla sua storia?

Il successo di pubblico al tempo fu ampio, anche se economicamente minore rispetto al precedente film: solo 475 milioni con un budget di 32 milioni di dollari.

Sempre un grande successo, ma complessivamente un incasso inferiore.

Di cosa parla Star Wars: Il ritorno dello Jedi

La storia riprende le mosse dal precedente film: Luke e Leila devono salvare Han dalle grinfie del malefico Jabba The Hutt, orrendo mostro dalla forma di un verme gigantesco…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di guardare Star Wars: Il ritorno dello Jedi?

In generale, sì.

Per quanto devo dire che mi sia piaciuto leggermente di meno rispetto al capitolo precedente, è comunque un’ottima conclusione per la trilogia. Vengono lasciati aperti alcuni spunti per possibili sequel, ma la linea narrativa principale si conclude, con importanti colpi di scena e anche momenti piuttosto toccanti.

Quindi, se eravate indecisi se continuare a guardare Star Wars, non perdete altro tempo e recuperatevelo. Se invece non avete mai visto Star Wars, cosa ci fate qui? Ho scritto un articolo apposta per voi.

Una narrazione a tappe

Mark Hamill e Harrison Ford in una scena del film Star Wars: Il ritorno dello Jedi (1983) diretto da

A differenza del precedente capitolo, in questa pellicola la vicenda è piuttosto lineare, e si definisce secondo le diverse tappe o quest del protagonista.

Si comincia risolvendo il finale del film precedente, cui è legato il tentativo di salvataggio di Leila, seguito dall’intervento risolutivo di Luke. Tutto il piano presenta qualche ingenuità narrativa, ma è indubbiamente una costruzione della tensione piuttosto azzeccata.

La tappa successiva è dettata da Yoda, il quale, insieme al fantasma di Obi-Wan, rivela a Luke tutta la verità e gli assegna quindi la quest finale: affrontare Darth Vader e diventare finalmente un Cavaliere Jedi.

Il cammino dell’eroe

Mark Hamill in una scena del film Star Wars: Il ritorno dello Jedi (1983) diretto da

Luke percorre un cammino dell’eroe piuttosto classico.

Raggiunge la consapevolezza della sua missione, si addestra e si mette in discussione, e infine sconfigge l’ultimo e peggiore nemico: suo padre.

In questo ultimo episodio Luke è assolutamente sicuro di se stesso, anche troppo. Infatti, per tutto il tempo minaccia gli antagonisti, si consegna volutamente, sicuro di essere capace di sconfiggerli e di portare a termine la sua missione.

E infatti così succede: però manca in parte per quel senso di fallibilità del protagonista che avrebbe potuto renderlo più tridimensionale.

Darth Vader: il villain incompreso

Sebastian Shaw in una scena del film Star Wars: Il ritorno dello Jedi (1983) diretto da

Dart Vader è la parte migliore di Star Wars: Il ritorno dello Jedi.

In questo caso la sua spietatezza è poco raccontata, anzi è depotenziata dagli altri antagonisti messi in scena. Anzitutto, anche se indirettamente, da Jabba The Hutt, un essere disgustoso, che vive in un ambiente oscuro e spettrale, che usa le donne come schiave e che mangia animali vivi.

Un villain indiscutibile, insomma.

Così viene finalmente introdotto di persona Palpatine, un vecchietto apparentemente fragile, ma che, oltre a cercare di tentare malignamente Luke al lato oscuro, rivela infine i suoi terribili poteri. Il suo accanirsi su Luke è inoltre l’ultimo atto che convince Vader a rivoltarsi contro il suo maestro e salvare così il figlio.

Questo apparente climax della redenzione di Vader non è in realtà costruito al meglio, perché è rappresentato solo da Luke che insinua dei dubbi nella mente del padre, assolutamente sicuro della sua bontà.

E che infine ci riesce, con un atto definitivo che porta alla definitiva morte di Palpatine (e ci torniamo). Con, infine, la rivelazione del volto sofferente di Anakin Skywalker sotto la maschera, l’ultimo atto di riappacificazione col figlio.

Leila e la commedia degli equivoci

Carrie Fisher in una scena del film Star Wars: Il ritorno dello Jedi (1983) diretto da

La trama di Leila e Han viaggia fra alti e bassi: sicuramente Leila, a differenza del precedente film, è un personaggio molto più attivo e interessante.

Prova a salvare il suo innamorato (pur essendo poi, giustamente, oscurata da Luke, l’eroe) e si salva da sola da Jabba, riuscendo persino ad ucciderlo. Insomma, ne esce come un personaggio rafforzato.

Per il rapporto con Han, ho apprezzato la dinamica scherzosa con cui Han dichiara il suo amore per Leila nello stesso modo in cui lei l’aveva dichiarato a lui alla fine dello scorso film. Tuttavia, non mi ha entusiasmato questa sorta di commedia degli equivoci che crea un apparente triangolo amoroso fra Luke, Leila e Han.

Soprattutto perché Leila non aveva veramente motivo di nascondere il trauma della parentela con Luke ad Han, anzi, visto il rapporto che si era creato fra loro due, aveva più senso che glielo rivelasse immediatamente.

Un evidente escamotage per creare tensione e zizzania nella coppia, che sembra altrimenti ormai consolidata. Tuttavia, bisogna riconoscere la maturità con cui Han si dimostra comunque comprensivo nei confronti di Leila, anche per l’eventuale relazione con Luke.

Un sequel inesistente?

Mark Hamill e Harrison Ford in una scena del film Star Wars: Il ritorno dello Jedi (1983) diretto da

Il film, come il primo, sembra lasciare delle porte aperte per eventuali sequel, dando diversi spunti, poi sviluppati in maniera forse diversa da come si immaginava all’inizio. I due spunti più importanti riguardano la sensibilità di Leila alla Forza e la missione di Luke di trasmettere la sua conoscenza come ultimo Jedi vivente.

La questione di Leila viene approfondita nell’Universo Espanso, ovvero nella pletora di opere derivate, nelle quali Leila viene addestrata come Jedi. Questo elemento viene richiamato molto goffamente all’inizio di quella porcheria di Star Wars: L’ascesa di Skywalker (2019), quando la Principessa addestra Rey off-screen.

Allo stesso modo la scuola Jedi di Luke viene accennata nella trilogia sequel e anche in The Book of Boba Fett, ma rivelandosi un progetto fallimentare che non porta a nulla se non a tornare al punto di partenza.

Sarebbe stato bello che invece questi spunti narrativi fossero stati esplorati in dei sequel degni di questo nome, invece che produrre dei prequel fallimentari e dei sequel che sono la brutta copia della trilogia originale.

retcon, che passione!

Come ogni saga di grande successo che si rispetti, Star Wars è piena di retcon.

Già solamente vedendo questo film, ne individuiamo tre.

Le prime due riguardano Bib Fortuna (il maggiordomo di Jabba) e Boba Fett, personaggio diventato iconico successivamente, in questa pellicola ancora un anonimo cacciatore di taglie.

Entrambi muoiono nella scena dell’esecuzione: Boba cade nel Sarlacc, Bib Fortuna muore nell’esplosione del palazzo di Jabba. E invece li ritroviamo entrambi nella serie The Book of Boba Fett.

Infine, la retcon più grande e peggio digerita di tutto Star Wars: Palpatine che ritorna in Star Wars: L’ascesa di Skywalker.

La sua sopravvivenza o rinascita che dir si voglia non a caso è spiegata in maniera molto fumosa: la scelta di includerlo nella pellicola fu una soluzione dell’ultimo minuto per riparare all’inaspettata morte del villain principale nel film precedente.

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Star Wars: L’impero colpisce ancora – L’inarrestabile ascesa

Star Wars – Episodio V: L’impero colpisce ancora (1980) è il secondo capitolo di una delle saghe più popolari e redditizie della storia del cinema.

Una pellicola aveva l’arduo compito di confermare l’enorme (e inaspettato) successo del primo film, la cui storia era conclusa, ma in realtà c’era ancora moltissimo da raccontare.

Ci è riuscito?

Già l’ottimo incasso di 538 milioni di dollari, a fronte di un budget di 18 milioni ce ne può dare un’idea…

Di cosa parla Star Wars: L’impero colpisce ancora

Nonostante la distruzione della Morte Nera, dopo tre anni l’Impero ancora furoreggia e dà la caccia ai membri della Ribellione. Troviamo i nostri protagonisti in una base segreta sul pianeta ghiacciato di Hoth, braccati dalle forze imperiali…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Star Wars: L’impero colpisce ancora?

Harrison Ford in una scena del film Star Wars: L'impero colpisce ancora (1980) diretto da George Lucas Star Wars: L'impero colpisce ancora

Assolutamente sì.

Soprattutto se avete visto Star Wars: Una nuova speranza, il continuo della saga è assolutamente irrinunciabile: si conferma un ottimo prodotto di intrattenimento, che è riuscito perfettamente a utilizzare gli elementi del primo capitolo e ad introdurne altri in maniera perfettamente coerente.

Quindi, se vi è piaciuto il primo film, dovete assolutamente continuare. Se invece non avete mai approcciato Star Wars, cosa ci fate qui? Ho già scritto un articolo perfetto per voi!


La conferma

Peter Mayhew, Harrison Ford e Carrie Fisher in una scena del film  Star Wars: L'impero colpisce ancora (1980) diretto da George Lucas

Star Wars: L’impero colpisce ancora, come anticipato, è stato capace di confermare in maniera ottimale le dinamiche del primo capitolo. In particolare, l’incipit è ben pensato: rivediamo immediatamente i personaggi principali e veniamo reintrodotti nelle loro dinamiche relazionali.

Luke si dimostra ancora l’eroe della storia con la sua piccola avventura, da cui riesce parzialmente a salvarsi, per poi essere soccorso da Han, che sfida il clima avverso per andare a cercarlo, riconfermando così il loro rapporto di amicizia.

Al contempo Leila viene ancora (e per fortuna) raccontata come uno dei leader della Ribellione. Non manca anche il continuo della sottotrama amorosa e burrascosa fra lei e Han.

A differenza del primo capitolo seguiamo tre linee narrative, che alla fine si intersecano: l’avventura di Han, Leila e Chewbecca, l’addestramento di Luke e i piani di Darth Vader, che diventa molto più presente sulla scena.

Un film quindi molto più ricco e con una trama più articolata, con anche l’introduzione di nuovi elementi, divenuti immediatamente iconici.

Un cattivo stereotipato?

David Prowse in una scena del film Star Wars: L'impero colpisce ancora (1980) diretto da George Lucas

Come detto, Darth Vader diventa un personaggio molto più centrale nella vicenda. Infatti, a differenza del primo capitolo, è l’unica persona al comando delle decisioni militari, mentre nel primo era affiancato da un villain secondario.

Sicuramente come personaggio presenta degli elementi che lo rendono abbastanza macchiettistico: la recitazione corporea, soprattutto nelle scene con Luke, è a tratti veramente stereotipata. Allo stesso modo è assolutamente e tremendamente spietato, senza che questo aspetto venga più di tanto approfondito.

Tuttavia, vediamo qualche sprazzo di maggiore interesse: vengono gettate le basi per raccontare la sua storia, poi effettivamente narrata nella trilogia prequel, e si approfondisce maggiormente la questione del Lato Oscuro della Forza. Inoltre, per la prima volta sbirciamo sotto al suo casco e scopriamo un personaggio misterioso e solitario, nonché estremamente intrigante.

Nel complesso un cattivo abbastanza tipico, ma che appare più tridimensionale rispetto al primo capitolo.

La storia di Luke

Mark Hamill e Frank Oz Star Wars: L'impero colpisce ancora (1980) diretto da George Lucas

L’addestramento di Luke è una delle parti più iconiche dell’intera saga, che si è poi tentato maldestramente di replicare nella trilogia sequel, e che è stata citata in infiniti prodotti successivi, fra cui ovviamente Kung fu Panda (2008).

Yoda appare inizialmente come un vecchietto esuberante e bizzarro, ai limiti del grottesco. Tuttavia, man mano prosegue il film, il personaggio si avvicina sempre di più alla figura del saggio maestro, guida del protagonista.

La parte dell’addestramento è gestita molto bene, soprattutto perché getta un’ombra su Luke, così impaziente di mettersi in gioco per usare la Forza, esponendosi facilmente al Lato Oscuro come suo padre prima di lui.

Io sono tuo padre

In particolare, splendida la scena, quasi onirica e davvero inquietante, in cui Luke deve affrontare i suoi demoni e vede se stesso dentro al casco distrutto di Vader: uno splendido foreshadowing della rivelazione principale della pellicola.

La rivelazione sulla parentela fra Darth Vader e Luke è sicuramente uno dei più famosi colpi di scena della storia del cinema, nonché uno dei peggio citati: Vader non dice Luke, io sono tuo padre, ma No, io sono tuo padre.

In generale una scelta decisamente indovinata per legare ancora più strettamente l’eroe ed il suo antagonista, con un’ulteriore svolta di trama nel prossimo film (che non vi spoilero). In questo modo si è evitato di ridurre Vader ad un villain anonimo e semplicemente cattivo, senza altro da raccontare.

Leila e il rapporto con Han

Carrie Fisher in una scena del film Star Wars: L'impero colpisce ancora (1980) diretto da George Lucas

Il personaggio di Leila, per quanto mi fosse piaciuto nel primo capitolo, in questo caso mi è parso che abbia fatto un passo indietro. Infatti, nonostante la recitazione di Carrie Fisher sia complessivamente migliorata, la sua storia è maggiormente legata al rapporto con Han piuttosto che alle vicende chiave della pellicola.

In generale rimane sempre un personaggio relegato alle retrovie della narrazione nei momenti principali e che appunto partecipa molto di meno alle scene d’azione rispetto al primo capitolo. Oltre a questo, il suo rapporto con Han, per quanto fosse stato ben introdotto, non viene a mio parere sviluppato al meglio.

Carrie Fisher e Harrison Ford in una scena del film Star Wars: L'impero colpisce ancora (1980) diretto da George Lucas

Il rapporto fra i due viene raccontato all’inizio in maniera giocosa, con Han che la provoca costantemente. Tuttavia, quasi da un momento all’altro, i due si baciano. E da lì il loro rapporto diventa ben più serio e maturo, con anche la dichiarazione d’amore finale, la quale mi è parsa non adeguatamente preparata.

Nel complesso il loro rapporto non mi dispiace del tutto, ma avrei preferito per l’appunto che fosse costruito decisamente meglio. Considerando anche che il comportamento di Han muta da un momento all’altro nella pellicola, rendendolo come detto più serio e maturo nel suo rapporto con Leila, ma senza che ci sia stata una crescita effettiva del suo personaggio.

Un finale aperto

Carrie Fisher e Mark Hamill in una scena del film Star Wars: L'impero colpisce ancora (1980) diretto da George Lucas

Una cosa che sinceramente non mi ricordavo per nulla di questa pellicola è quanto fosse aperto il finale e quante cose fossero rimandate al film successivo.

Un’ottima scelta all’interno del secondo capitolo di una trilogia, che permette di dare un senso di continuità fra le due pellicole, evitando al contempo un finale raffazzonato e troppo improvviso.

Vediamo se la prossima pellicola confermerà questo andamento positivo.

May the force be with you!

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Doctor Strange in the multiverse of madness – Orrore e frenesia

Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) è l’ultimo film Marvel uscito la scorsa settimana nelle nostre sale. Il ritorno alla regia di Sam Raimi, conosciuto e amato per la sua trilogia di Spiderman (2002-2007) e de La casa (1981-1992). Un ritorno fra l’altro dopo quasi un decennio di assenza dalla macchina da presa: l’ultimo film da regista è stato Il grande e potente Oz (2013).

Doctor Strange in the multiverse of madness è anche il primo film horror dell’MCU e sicuramente non potevano scegliere un autore migliore per questo compito. E non è sicuramente un caso che la pellicola ha aperto questo weekend con 450 milioni di dollari di incasso.

Ma andiamo con ordine.

Di cosa parla Doctor Strange in the multiverse of madness

Doctor Strange in the multiverse of madness racconta di America Chavez, giovane ragazza con un potere davvero particolare: aprire i passaggi fra gli universi. Per questo è braccata da un terribile nemico che vuole impossessarsi delle sue abilità. La giovane ragazza chiederà quindi l’aiuto di Doctor Strage, che già aveva avuto contatti con il multiverso in Spiderman no way home (2021).

Questo, raccontato assolutamente senza spoiler.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

È davvero un film di Raimi?

Benedict Cumberbatch in una scena del film Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

La mano di Raimi si vede, e tanto. Le splendide dissolvenze incrociate, le inquadrature che si immergono negli occhi dei personaggi, la camera che ruota intorno alle scene, fino al taglio splendidamente horror.

Perché si, questo film ha davvero un taglio horror (ovviamente sempre horror per ragazzi, alla Raimi appunto), altro che un certo Moon Knight di mia conoscenza. Con fra l’altro scene di combattimento incredibili e ottimamente dirette, probabilmente le migliori di tutto l’MCU finora.

Vale la pena di vedere Doctor Strange in the multiverse of madness?

Elisabeth Olsen in una scena del film Doctor Strange in the multiverse of madness(2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

Per quanto mi riguarda, assolutamente sì, anche solamente pet la regia di Raimi, diversa dal solito, ma che ben si adatta ai ritmi ed alle tematiche dell’MCU. Di fatto, un buon prodotto supereroistico con una regia di primo livello

Tuttavia, come ogni prodotto MCU, richiede delle conoscenze pregresse. Oltre ovviamente a Doctor strange (2016), anche Endgame (2019) ed Infinity war (2018). Per le serie, Wandavision è abbastanza importante per comprendere il personaggio di Wanda, Loki per il multiverso, mentre What if…? è accessorio.

Ovviamente se non siete appassionati dell’MCU non è un film che mi sento di consigliarvi, proprio per via dei collegamenti col resto della filmografia. Tuttavia, se siete fan di Raimi, forse potrebbe essere un modo per mettere un primo piede dentro la porta di questo universo.

Wanda, una villain inaspettata

Elisabeth Olsen in una scena del film Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

Non era del tutto sicuro che Wanda fosse la vera villain principale della pellicola: la logica avrebbe voluto Mordo al suo posto, visto come si era concluso Doctor Strange. Tuttavia, non mi posso lamentare: Wanda è uno dei pochi e buoni villain che l’MCU può contare.

E lo è anche perché abbiamo la possibilità di vedere un antagonista che ha un percorso di crescita e di redenzione. Infatti alla fine Wanda, messa davanti alla realtà, capisce il suo errore e si redime, accettando la distruzione del Darkhold e di sé stessa. Tuttavia secondo me la sua storia non è finita qui, anzi non è del tutto detto che sia veramente morta. La plot armor, quando serve, viene sempre in aiuto.

Al contempo però mi è dispiaciuto che il suo personaggio sia stato un po’ appiattito sulla questione dei figli, visto che questi erano solamente l’ultimo elemento di un dramma che aveva radici più complesse e profonde: nella sua infanzia, nell’origine dei suoi poteri e nel rapporto con Visione. Ma per questo, appunto, è richiesta la visione di Wandavision.

La necessità di Wandavision

Doctor Strange in the multiverse of madness è forse il primo caso nell’MCU dove davvero la necessità di vedere le serie tv collegate è abbastanza opprimente. Infatti, come anticipato, vedere Wandavision è abbastanza essenziale per capire veramente la profondità del personaggio di Wanda, che altrimenti potrebbe apparire forzata e quasi macchiettistica.

Invece, avendo bene in mente la sua storia e soprattutto la sua storia nella serie, si riesce ad entrare profondamente a contatto col personaggio e col suo dramma personale.

Orrore e frenesia

Benedict Cumberbatch in una scena del film Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

Doctor Strange in the multiverse of madness ha due elementi portanti: il taglio horror e la frenesia della narrazione (che non sempre va a suo vantaggio). Veniamo infatti fin da subito portati in medias res della vicenda e la trama non si prende praticamente mai un attimo di pausa, ma procede a grandi falcate e con un ritmo davvero frenetico, forse anche troppo.

Per quanto forse non sia nello stile di Raimi, non sarebbe guastato aggiungere del minutaggio, se questo avesse significato portare più elementi di introduzione e di conclusione, oltre che qualche maggiore approfondimento. Invece è una continua corsa, a tratti sfiancante.

Per il taglio horror invece niente da aggiungere: oltre a quanto già detto, splendida la citazione a The Ring (2001) quando Wanda esce dallo specchio a Kamar-Taj e da capogiro tutta la sequenza dell’insegnamento sotto al Baxter Building. Per non parlare dello splendido body horror costante. Non proprio un film per tutte le età, insomma.

America Chavez e il problema delle soluzioni fuori dal cappello

Xochitl Gomez in una scena del film Doctor Strange nel multiverso della follia (2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

America Chavez è uno degli elementi più deboli della pellicola: il personaggio manca di un’introduzione interessante e che ci faccia affezionare, nonché di un arco narrativo convincente. Di fatto il suo percorso è esplorato pochissimo e la conclusione assolutamente improvvisa e poco credibile. Ho avuto davvero la sensazione di essermi saltata una serie o un film.

Il generale, America Chavez è uno degli elementi di Doctor Strange in the multiverse of madness che sono pensati più per essere funzionali alla trama che per essere veramente importanti per la stessa. Di fatto il suo personaggio serve per dare modo a Wanda di dare sfogo alla sua ossessione, come poteva esserlo qualunque elemento introdotto per l’occasione.

Allo stesso modo il Darkhold e il Libro dei Vishanti: problemi creati per essere risolti in maniera semplice e funzionale all’interno della trama. In particolare il Libro dei Vishanti sembra proprio una soluzione tirata fuori dal cappello, che poi si rivela non essere neanche l’elemento risolutivo della vicenda: un Mac Guffin da manuale.

Il fan service dosato (e come potrebbe non piacere)

Benedict Cumberbatch in una scena del film Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

Un ottimo aspetto di questo film è la mancanza di elementi di fan service troppo ingombranti. Anzitutto John Krasinski come Mr Fantastic, ruolo richiesto dal fandom e dall’attore stesso da moltissimo tempo. Poi Patrick Stewart come il Dottor Xavier, ucciso da Wanda e secondo me anche il modo in cui la Marvel dice totalmente addio agli X-men della FOX. E, infine, Captain Carter da What if…?

Insomma, un fan service ben dosato, che però potrebbe essere dannoso per la pellicola. Infatti ho sentito della vibes non del tutto positive circa il gradimento del pubblico e ho idea che potrebbe essere dovuto anche a questo elemento.

Io per prima mi aspettavo molti più camei e molto più fan service, e forse altri si aspettavano uno Spiderman No Way Home seconda parte. Ed effettivamente non ti fa saltare sulla sedia allo stesso modo. Ma forse è meglio così.

La morale Doctor Strange in the multiverse of madness

Benedict Wong in una scena del film Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

Un altro elemento che ho particolarmente apprezzato di questo film è la morale: l’importanza di accontentarsi. La vita che abbiamo potrebbe non essere la migliore che potremmo mai avere, ma è quella che abbiamo e da cui dobbiamo cercare di trarre il meglio, nonostante le avversità.

Quindi Doctor Strange accetta di non essere lo Stregone Supremo e che lo sia invece Wong, inchinandosi infine davanti a lui e riconoscendo così la sua carica. Così accetta che Christine non potrà essere la sua compagna. E infine Wanda accetta che non potrà mai avere i suoi figli, perché questo significherebbe distruggere la loro vita in un altro universo e così quella di un’altra se stessa, oltre a dover uccidere America. In questo caso il peso della colpa e della vergogna la porta ad suicidarsi per il bene comune.

Ma, appunto, non è detta per forza l’ultima parola su questo personaggio.