Categorie
2021 Animazione Avventura Cinema per ragazzi Commedia Disney Film Pixar Racconto di formazione Un'estate al cinema

Luca – Un’estate italiana

Luca (2021) di Enrico Casarosa è un film Pixar, uno dei tanti – insieme a Red (2022) e Soul (2021) – rilasciati direttamente su Disney+.

Ma fu comunque un grande successo di pubblico.

Di cosa parla Luca?

Luca Paguro è una creatura marina, ma anche un ragazzino spaventato che ha sempre vissuto sott’acqua e che non ha mai visto la superficie. La sua vita cambierà grazie all’incontro con Alberto, ragazzino scapestrato ed esperto del mondo di superficie, con cui comincerà la sua grande avventura.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Luca?

Luca (Jacob Tremblay) e Alberto (Jack Dylan Grazer) in una scena di Luca (2021) di Enrico Casarosa, film Pixar

Assolutamente sì.

Per quanto Luca non sia fra i migliori della Pixar, lo porto veramente nel cuore. Poche volte ho visto così tanto amore e una mano così attenta, un regista che riesca veramente a raccontare l’Italia in maniera credibile e riconoscibile, pur dovendosi piegare alle richieste del cinema statunitense.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Raccontare (davvero) l’estate italiana

Luca (Jacob Tremblay) e Alberto (Jack Dylan Grazer) in una scena di Luca (2021) di Enrico Casarosa, film Pixar

Come abbiamo visto in tempi più o meno recenti, il pubblico statunitense ha bisogno di essere nutrito di stereotipi per l’Italia (e non solo).

In particolare, nel loro immaginario l’Italia è ferma agli Anni Sessanta, come dimostra il successo di pellicole come Call me by your name (2016), e sono spesso incapaci di distinguere fra la cultura italiana e quella italo-americana, come ben dimostra per l’ennesima volta House of Gucci (2021).

Tuttavia, la Pixar non è la prima arrivata e ha dato permesso ad un regista italiano alla sua opera prima di rappresentare davvero l’estate italiana, con una rappresentazione sicuramente datata ed adattata ad un pubblico statunitense, ma, per una volta, per un buon motivo: Enrico Casarosa ha voluto raccontare la sua estate dell’infanzia in Liguria.

Ci sono vari elementi che mostrano davvero un grande impegno nel rappresentare qualcosa di vero e credibile. Uno dei più evidenti è la scelta delle canzoni da utilizzare: canzoni pop che rappresentano l’infanzia per la generazione degli Anni Ottanta-Novanta, poco o per nulla conosciute al di fuori del nostro paese.

In secondo luogo, la rappresentazione di Portorosso: una cittadina di mare in cui facilmente qualunque italiano, soprattutto se ligure, può riconoscersi. E una raffigurazione del genere non poteva venire se non da chi ci ha veramente vissuto.

Ma il vero virtuosismo è stato il doppiaggio.

Scegli un doppiaggio, sceglilo bene

Luca (Jacob Tremblay) e Ercole (Saverio Raimondo) in una scena di Luca (2021) di Enrico Casarosa, film Pixar

Il doppiaggio e la scrittura dei dialoghi di Luca sono veramente di alto livello.

In particolare, ho adorato il doppiatore di Luca, Jacob Tremblay, un giovanissimo interprete in rampa di lancio che abbiamo visto in Bad boys (2020) e che sarà la voce di Flanders nel live action de La Sirenetta in prossima uscita.

In generale i doppiatori del terzetto di protagonisti si sono veramente impegnati e sono anche piuttosto credibili quando parlano italiano, semplicemente perché non forzano l’accento alla Super Mario che abbiamo visto in House of Gucci, appunto (film che può essere citato all’infinito come esempio negativo).

Ma la vera punta di diamante è stato il doppiatore di Ercole, che sia in italiano che in inglese è interpretato dall’ottimo Saverio Raimondo, comico nostrano che ci ha offerto una performance di primissimo livello.

E non di meno la scelta di utilizzare doppiatori italiani per i personaggi secondari e di sfondo è stata un tocco di classe.

Le poche sbavature

In una scrittura e rappresentazione così coerente e credibile, stonano più del solito un paio di elementi, probabilmente prodotti di sceneggiatori che non hanno la stessa conoscenza dell’Italia come il regista.

In particolare, certe espressioni che usa Giulia, come santa mozzarella, molto infantili e che sembrano più derivate dal collegamento di uno statunitense fra gli italiani e il cibo, più che da espressioni effettivamente realistiche.

Oltre a questo, purtroppo il finale appare molto debole e forzato, non riuscendo a portare una giusta credibilità alla scelta dei personaggi di accettare i mostri marini che cacciavano fino al giorno prima.

Tuttavia, per l’esperienza che mi offre il film, non è un elemento che mi dà neanche così tanto fastidio.

Luca: Creare un trend

Una delle aspre polemiche che si sollevarono al tempo dell’uscita di Luca fu su come un prodotto così meritevole non fu distribuito in sala. E il successo della pellicola a livello globale si vide nel trend che si creò su TikTok. Qui un esempio:

https://www.tiktok.com/@steppingthroughfilm/video/7076131066016320773?_r=1&_t=8UbwXDICHtG

Un caso analogo a quello di Encanto (2021), prodotto di animazione che floppò ampiamente in sala, ma divenne incredibilmente popolare dopo il rilascio in streaming, su TikTok e oltre, per la canzone We dont talk about Bruno.

Insomma, sembra che i prodotti animati funzionino di più in streaming che in sala, e il futuro, vedendo appunto i risultati di Lightyear, non è promettente.

Luca: Creare un trend

Una delle aspre polemiche che si sollevarono al tempo dell’uscita di Luca fu su come un prodotto così meritevole non fu distribuito in sala. E il successo della pellicola a livello globale si vide nel trend che si creò su TikTok. Qui un esempio:

https://www.tiktok.com/@steppingthroughfilm/video/7076131066016320773?_r=1&_t=8UbwXDICHtG

Un caso analogo a quello di Encanto (2021), prodotto di animazione che floppò ampiamente in sala, ma divenne incredibilmente popolare dopo il rilascio in streaming, su TikTok e oltre, per la canzone We dont talk about Bruno.

Insomma, sembra che i prodotti animati funzionino di più in streaming che in sala, e il futuro, vedendo appunto i risultati di Lightyear, non è promettente.

Cosa significa Piacere, Girolamo Trombetta?

Luca (Jacob Tremblay) e Alberto (Jack Dylan Grazer) in una scena di Luca (2021) di Enrico Casarosa, film Pixar

L’espressione ha totalmente confuso gli statunitensi, e già per un italiano non è del tutto intuitiva. Si capisce meglio vedendola in atto: giro-la-mano (girando appunto la mano a chi la stiamo stringendo) e trombetta perché si fa il gesto col braccio come se si stesse suonando una trombetta, appunto.

Vi lascio qui il video dove viene spiegato bene:

https://www.tiktok.com/@antonioparlati/video/6979273456667872518?_t=8UbuahFh9m9&_r=1

Cosa significa Piacere, Girolamo Trombetta?

Luca (Jacob Tremblay) e Alberto (Jack Dylan Grazer) in una scena di Luca (2021) di Enrico Casarosa, film Pixar

L’espressione ha totalmente confuso gli statunitensi, e già per un italiano non è del tutto intuitiva. Si capisce meglio vedendola in atto: giro-la-mano (girando appunto la mano a chi la stiamo stringendo) e trombetta perché si fa il gesto col braccio come se si stesse suonando una trombetta, appunto.

Vi lascio qui il video dove viene spiegato bene:

https://www.tiktok.com/@antonioparlati/video/6979273456667872518?_t=8UbuahFh9m9&_r=1

Una vera chicca

Una vera chicca, che non so quanti possano aver notato, è la foto che Alberto tiene sullo specchietto della vespa: niente poco di meno di Marcello Mastroianni, il più incredibile attore del nostro cinema (e non solo), nei panni del Barone Fefè in Divorzio all’italiana (1960) di Pietro Germi.

Una commedia grottesca splendida, uscita nel periodo d’oro della Cinematografia Italiana, che si vede di sfuggita anche in un’altra scena.

Categorie
Avventura Commedia Cult rivisti oggi Film Giallo

Una notte da leoni – L’impossibile franchise

Una notte da leoni è un trilogia di film uscita fra il 2009 e il 2013, scritta e diretta da Todd Philips, autore che poi è esploso con Joker (2019), ma che al tempo era noto soprattutto per film come Parto col folle (2010).

Pellicole che al tempo ebbero un ottimo successo commerciale, perfino l’ultimo capitolo, ma che furono anche un caso da manuale di come sia impossibile creare franchise con prodotti che per loro natura non si prestano.

Di cosa parla Una notte da leoni?

Una notte da leoni in originale ha un titolo ben più emblematico: Hangover, in italiano traducibile banalmente come il post-sbornia. Infatti i primi due film parlano di un gruppo di amici che si risveglia dopo una serata che doveva essere apparentemente tranquilla, ma che invece si scopre essere stata assolutamente folle.

Vi lascio il trailer del primo capitolo per farvi un’idea:

Come e se guardare Una notte da leoni

Sono personalmente affezionata a questa saga, i cui film, soprattutto in adolescenza, ho rivisto decine di volte. Ho notato che i film sono stati molto screditati nel tempo, secondo me per nulla a ragione: tralasciando l’umorismo ormai abbastanza datato, sono dei godibilissimi film di intrattenimento, pure (almeno per i primi due) costruiti in maniera molto intelligente.

Personalmente mi sento di consigliarlo abbastanza a tutti, soprattutto se si apprezza con abbastanza leggerezza un tipo di commedia di dieci e più anni fa, del tipo Bad teacher (2010) e Parto col folle (2010), appunto.

Detto questo, se siete dei neofiti a questi prodotti, vi sconsiglio di proseguire oltre al secondo film: il terzo è stato un fallimentare tentativo di dare un epico finale alla saga, prendendo una direzione del tutto diversa, quando non ce n’era alcun bisogno.

Perché Una notte da leoni ebbe così tanto successo?

Eh Helms, Bradley Cooper e Zach Galifianakis in una scena di Una notte da leoni (2009) di Todd Philips

Come anticipato, secondo me la saga di Una notte da leoni è stata col tempo ingiustamente screditata. Anzitutto, ebbe successo perché era una saga figlia dei suoi tempi, con un umorismo piuttosto tipico per il periodo, che sicuramente a dieci anni di distanza può apparire assolutamente fuori luogo.

Oltre a questo, è una storia originale e molto credibile per come è messa in scena, in cui lo spettatore stesso può in parte rispecchiarsi. Infatti un grande pregio dei primi due film fu di portare in scena una vicenda interessante e piena di sorprese, ma assolutamente credibile e di grande intrattenimento.

Anche perché una delle più tipiche tecniche per tenere attiva l’attenzione dello spettatore è porre una sorta di mistero da risolvere o un pericolo imminente e apparentemente irrisolvibile. E questo è quello che succede nelle prime due pellicole e, in parte, anche nell’ultimo capitolo.

Perché il sequel fu un’operazione vincente

Zach Galifianakis, Mason Lee, Eh Helms, Bradley Cooper e Justin Bartha in una scena di Una notte da leoni 2 (2011) di Todd Philips

Il primo film della saga fu un grande successo commerciale, a fronte di un investimento abbastanza contenuto: 35 milioni di dollari di budget con un incasso di 468 milioni. Non a caso, per il secondo capitolo si investì più del doppio (85 milioni di dollari) e fu una scommessa vinta, con 586 milioni di incasso.

E fu un scelta intelligente perché si riuscì a produrre un film che è sostanzialmente un more of the same del primo capitolo, ma che riesce a mischiare gli elementi ed a portarne di nuovi, ed anche più interessanti. E, in questo modo, l’operazione appare molto meno evidente. Anche perché, scegliendo di vedere un film del genere, che mira sostanzialmente solo ad intrattenere, non vi era neanche l’interesse del pubblico a farsi determinate domande.

Una notte da leoni 3: dichiarare il fallimento

Eh Helms, Bradley Cooper e Zach Galifianakis in una scena di Una notte da leoni 3 (2013) di Todd Philips

Come il secondo capitolo fu una scommessa vincente, lo stesso non si può dire per l’ultimo film della saga. Non a caso, nonostante l’investimento maggiore, nonostante sia stato comunque un buon successo commerciale, la pellicola non confermò l’ascesa del franchise: solo 362 milioni di dollari contro un budget di 103.

E questo definì chiaramente il mancato interesse del pubblico.

Non so sinceramente dire se si volesse mettere un punto alla saga oppure tentare una nuova direzione per costruire un franchise, come potrebbe in effetti suggerire il finale aperto. Tuttavia questo tentativo non ripagò, proprio perché, senza la dinamica centrale dei primi due film, la storia perde tutto il suo fascino.

E, mancando l’interesse del pubblico per questa nuova direzione, sarebbe diventato veramente ridondante e poco credibile riproporre la medesima trama per la terza volta.

Stu: il vero protagonista

Mentre il resto dei personaggi rimane sostanzialmente statico, Stu è l’unico che compie archi evolutivi nei film. In generale l’obiettivo di Stu nei primi due film è riconquistare la sicurezza in se stesso e così la sua mascolinità castrata.

Infatti sia nel primo che nel secondo film Stu si trova a combattere contro due figure che lo mettono in discussione: prima la fidanzata Melissa, figura classica della donna-arpia verso cui il pubblico prova una naturale antipatia; poi, nel secondo film, il padre della sua futura moglie, che lo umilia pubblicamente, ma verso cui alla fine riesce a rivalersi.

Stu è infatti quello che più di tutti porta i segni della serata su se stesso e che più di tutti scopre una parte di sé inaspettata, capace di staccarsi un dente a mani nude, avere relazioni occasionali con prostitute e farsi un tatuaggio molto vistoso, fra le altre cose.

Tutte cose che ci si sarebbe aspettati invece da un personaggio come Phil.

Phil: l’inaspettato secondario

Phil, interpretato da Bradley Cooper, è il classico cool guy del liceo troppo cresciuto. Sulla sua storia personale non viene in realtà detto molto: la moglie è un personaggio incredibilmente secondario e che rimane sempre sullo sfondo.

Da come ne parla, Phil sembra intrappolato in una vita e un matrimonio opprimente, forse vittima di una cultura statunitense dove ci si sposa e ci si sistema molto presto. E così sembra vivere una seconda giovinezza con le vicende del film. Eppure, quando lo vediamo con la moglie e i figli, appare sempre affettuoso e felice di averli intorno.

Quindi, volendo forzare forse un’interpretazione che il film non puntava a dare, è possibile che Phil semplicemente si annoiasse nella sua banale vita da maestro di scuola, e che avesse una terribile nostalgia dei fasti della giovinezza.

E, in una storia del genere, sarebbe il personaggio che ci si aspetterebbe che fosse al centro dell’azione distruttiva della serata. E invece, incredibilmente, come personaggio è commisurato a tutti gli altri, anzi quasi messo in secondo piano.

Alan: la scheggia impazzita

Il personaggio di Alan è stato quello a mio parere progressivamente peggio gestito. Ha sicuramente un’utilità complessiva nei film, ma al contempo il suo comportamento viene troppo facilmente perdonato.

In particolare nel secondo film la sua rivelazione viene superata con grande facilità. E, ancora peggio, nel terzo film il personaggio soffre di una tendenza tipica del tempo: trova una fidanzata, perché non può definirsi altrimenti, che è la sua copia.

Un tipo di racconto che è stato ampiamente parodiato a South Park in Cartman Finds Love (17×16), fra l’altro.

Nondimeno, rimane una spalla comica godibile, che però soffre appunto dell’umorismo datato e che potrebbe non essere più convincente per il pubblico odierno.

Il rapporto coi personaggi femminili

Ed Helms e Jamie Chung in una scena di Una notte da Leoni 2 (2011) di Todd Philips

Una notte da leoni è un film fondamentalmente maschile, che si rifà ad una mentalità molto machista ancora esistente, ma, in particolare, assolutamente dominante a livello cinematografico dieci anni fa. L’importanza dei personaggi femminili è infatti non solo minima, ma assolutamente appiattita.

L’unico personaggio che ha un minimo di tridimensionalità è Stacy, la moglie di Doug, che però appare sempre come la madre cui i personaggi, dei bambinoni troppo cresciuti, devono raccontare le loro malefatte.

Per il resto i personaggi femminili sono, anche abbastanza prevedibilmente, piatti e di fatto tutti uguali: molto raramente provano ad opporsi alle scelte dei personaggi maschili, e solitamente li supportano molto passivamente. Talvolta sembrano non avere alcuna voce in capitolo, come appunto la moglie di Phil, che sembra del tutto ignara di quello che succede al marito.

Altri tempi, altra mentalità.

Ma, personalmente, preferisco una rappresentazione come questa che un tokenismo forzato come in The Gray Man.

Categorie
Avventura Azione Commedia Drammatico Fantascienza Film Il pianeta rosso

The Martian – La commedia del sopravvissuto

The Martian (2015) di Ridley Scott è un simpatico (e sottolineo simpatico) film di fantascienza con protagonista Matt Damon.

Un ottimo successo commerciale: 603 milioni di dollari di incasso contro un budget di 108 dollari. Anche piuttosto contenuto per una produzione del genere.

Un film che vidi con piacere a poca distanza con Interstellar (2014), di cui condivide anche parte del cast, e che mi aveva lasciato un ottimo sapore in bocca. Pensavo che fosse per l’ottima regia di Scott: niente di più sbagliato.

Di cosa parla The Martian?

Durante una missione sul Pianeta Rosso, il team di astronauti viene colpito da una tempesta e perde uno dei suoi componenti, il botanico Mark Watney. A sorpresa in realtà Mark è sopravvissuto e, mentre cerca di contattare la Terra per farsi salvare, deve trovare un modo per sopravvivere…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare The Martian?

Matt Damon in una scena di The Martian (2015) di Ridley Scott

Differentemente da come mi ricordavo, The Martian è un film incredibilmente accessibile. In maniera un po’ anomala per una fase di produzioni più drammatiche come appunto Interstellar, ha un inaspettato taglio comico.

Per questo vi consiglio di non guardarlo aspettandovi un film di Ridley Scott, ma piuttosto un buon film di fantascienza, maledettamente appassionante, ma con valore artistico vicino allo zero.

Niente di male in questo senso, ma se siete appassionati del regista potreste rimanerne delusi. Inoltre non ve lo consiglio se non potete sopportare quel tipo di film molto americani e costruiti a tavolino per piacere a quel tipo di pubblico, quindi con dinamiche anche molto prevedibili.

Ma, in generale, è un piacevolissimo film di genere.

La commedia del sopravvissuto

Jeff Daniels e Kristen Wiig in una scena di The Martian (2015) di Ridley Scott

La scelta di questo titolo non è casuale: come anticipato, il film ha un taglio inaspettatamente comico-realistico in senso stretto. È una storia con un eroe comico, piacevole e naturalmente simpatico, per cui tifiamo e di cui seguiamo un’avventura che ha pochi momenti veramente drammatici.

Ed è obiettivamente una storia di cui è facile appassionarsi, perché gioca su pochi elementi vincenti e ben posizionati: un andamento fondamentalmente comico e leggero, tutto costruito intorno al personaggio di Matt Damon, puntellato di pochi ma importanti momenti drammatici che portano ad una costruzione della tensione ben bilanciata.

Senza accorgermene, alla fine della pellicola mi sono trovata nella stessa situazione del pubblico nel film che segue con passione il salvataggio di Mark: col fiato sospeso, col cuore stretto quando avviene un imprevisto, con la commozione quando finalmente Mark viene salvato.

Un eroe americano

Matt Damon in una scena di The Martian (2015) di Ridley Scott

Il grande successo di questa pellicola a livello commerciale è anche legato a quanto sia impregnato di una forma mentis del tutto americana. Si parla infatti di un eroe molto statunitense, che si trova in una situazione di pericolo, ma non si perde mai d’animo e sopravvive solo grazie alle proprie forze. Una sorta di sogno americano traslitterato su un altro pianeta: se ti impegni, otterrai tutto quello che vuoi.

Infatti si può notare come Mark non sia presentato come un personaggio particolarmente intelligente, ma, piuttosto, molto creativo e instancabile. E, di nuovo, un protagonista naturalmente simpatico e che il popolo statunitense e così anche il pubblico in sala ama fin dalla prima scena.

Perché, per quanto Mark parla di cose complesse e reali, accompagna lo spettatore, anche guardandolo dritto negli occhi grazie ad un ottimo escamotage narrativo. E così il coinvolgimento è assicurato.

Bellezza, non arte

Come detto, non ricordandomi il tipo di regia del film, davo per scontato che fosse un elemento di grande valore della pellicola. Niente di più sbagliato, appunto: la regia è piuttosto nella media, niente che ti aspetteresti da un autore come Scott.

Non mancano certo le riprese aeree sicuramente belle da vedere, ma nel complesso non si può parlare più che di una regia buona, ma quasi alcuni guizzo degno di nota.

Aguzza la vista!

Nel film sono presenti moltissimi attori più o meno noti, noti soprattutto per serie tv, di grande successo.

Oltre a Jessica Chastain e Matt Damon, visti poco tempo prima in Interstellar, Chiwetel Ejiofor, che qui interpreta Venkat, è famoso sopratutto per essere il protagonista di 12 anni schiavo (2013) ed è recentemente apparso in Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) nei panni di Modor.

L’indimenticabile Sean Bean, che qui interpreta il ribelle Mitch, ma che è famoso sopratutto per essere stato Ned Stark in Game of thrones e Boromir ne Il signore degli Anelli – La compagnia dell’Anello (2001).

Abbiamo poi tre attori dell’MCU: Sebastian Stan, che qui interpreta Chris, uno della squadra di Mark, e che è famoso sopratutto per aver interpretato il Soldato d’inverno nella saga di Captain America, e che abbiamo visto recentemente anche in Pam & Tommy nei panni di Tommy Lee. Poi Michael Peña, uno degli attori comici più irresistibili della saga di Antaman, dove interpreta Luis, uno degli amici di Scott. In questo caso è Rick, uno della squadra di scienziati capitanata da un terzo attore dell’MCU, Benedict Wong, lo Stregone Supremo di Doctor Strange.

Annie è Kristen Wig, attrice associata sopratutto a prodotti di scarso valore e successo come il cosiddetto Gosthbusters al femminile (2016) e il recente Wonder Woman 1984 (2020), dove interpretava Cheetah. Poi Jeff Daniels, che qui interpreta il capo della NASA, famoso sopratutto per essere il protagonista della serie The Newsroom. Infine Nick Mohammed, che ricorderete sicuramente come Nathan della serie Ted Lasso.

Categorie
2022 Avventura Azione Commedia Film Film Netflix Nuove Uscite Film Thriller

The Gray Man – Niente di più, niente di meno

The Gray Man (2022) è un action movie uscito recentemente su Netflix. La pellicola si porta dietro un team che prometteva meraviglie: non solo i Fratelli Russo, registi di Captain America – The Winter Soldier (2014), Avangers Infinity War (2018) e Avengers Endgame (2019), ma anche gli sceneggiatori che si occuparono di tutti i loro prodotti per l’MCU.

Purtroppo The Gray Man conferma come ottimi registi e sceneggiatori, tolti dal contesto giusto, possano dimostrarsi meno capaci di quanto ci si potrebbe aspettare. Questa pellicola si inserisce infatti nella scia di prodotti di poco o nessun successo cui i Fratelli Russo hanno partecipato al di fuori dell’MCU, come Cherry (2021) e City of Crime (2019), in quest’ultimo caso come produttori.

Di cosa parla The Gray Man?

Court Gentry è un galeotto con ancora almeno dieci anni di reclusione davanti, che viene inaspettatamente reclutato dalla CIA per far parte di un progetto ombra, chiamato il progetto Sierra. Tuttavia, a dieci anni di distanza, Court comincia a scoprire inquietanti retroscena…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare The Gray Man?

Ryan Gosling in una scena di The Gray Man (2022) dei Fratelli Russo

In generale no, ma ci sono buoni motivi per cui questo film potrebbe quantomeno intrattenervi. Bisogna ammettere che ancora una volta i Fratelli Russo si dimostrano ben più di mestieranti, cercando di portare una regia interessante e dinamica.

Il principale problema è infatti rappresentato dalla sceneggiatura, di una povertà creativa devastante, che snocciola mano a mano tutti gli stereotipi del genere. E in generale, c’è anche poco tempo per la storia, visto che due terzi del film sono scene di azione neanche troppo originali. Insomma, non stiamo parlando di John Wick.

Per questo è un film che, se non siete patiti degli action movie, soprattutto di quelli più banali, non vi consiglio di guardare. Io, personalmente, me ne sono ampiamente pentita.

Non saper essere originali (ma proprio in niente)

Ryan Gosling in una scena di The Gray Man (2022) dei Fratelli Russo

Un grande problema, se così vogliamo dire, di The Gray Man è la sua totale mancanza di originalità. Il film è incredibilmente piatto, non porta nessuna idea interessante sul tavolo, ma è proprio il classico prodotto in serie basato sulle solite dinamiche che funzionano per il cinema commerciale.

E potrebbe essere la pellicola giusta all’interno della strategia di Netflix di rilasciare una marea di film ogni anno: prodotti usa e getta di cui si parla per un paio di giorni, per poi finire totalmente nel dimenticatoio. Tenendo però sempre alta l’attenzione sulla piattaforma.

Chris Evans: crederci

Chris Evans in una scena di The Gray Man (2022) dei Fratelli Russo

Personalmente sto assolutamente adorando la rinascita attoriale di Chris Evans, che sta cercando in tutti i modi di allontanarsi dalla figura di Captain America. E così, come in Knives Out (2019), anche in questa pellicola interpreta un personaggio anomalo e negativo.

Per questo ho ampiamente apprezzato l’ironia e l’impegno che Chris Evans ci ha messo in questa parte, pur probabilmente consapevole anche lui di star lavorando in un film di livello molto mediocre. E non è un caso che, per quanto mi riguarda, il suo personaggio è l’unico veramente interessante e convincente dell’intera pellicola.

Che bella cagnara

Ryan Gosling in una scena di The Gray Man (2022) dei Fratelli Russo

Come Chris Evans è stato convincente, il resto del cast è un generale pianto. Lo spreco maggiore è stato indubbiamente Ryan Gosling, attore con un’espressività molto particolare e che deve essere maneggiato con cura, posto nei giusti ruoli e con la giusta direzione creativa, come è stato per The First Man (2018).

In questo caso invece si vede quanto Gosling fosse poco convinto del prodotto e quanto poco questo ruolo fosse adatto a lui. Ed è atroce quando cercano di affidargli delle battute comiche, che cadono totalmente piatte per incapacità o cattiva direzione. La chimica fra lui e Evans, poi, è assolutamente inesistente.

E non è neanche la parte peggiore.

Ma che bei personaggi femminili all’avanguardia!

Ana De Armas in una scena di The Gray Man (2022) dei Fratelli Russo

Al di là in generale dei dimenticabilissimi personaggi secondari, è stato al limite dell’imbarazzo vedere personaggi femminili inseriti così forzatamente per fingersi inclusivi, quando la storia è così evidentemente maschile (e non dovrebbe neanche essere un problema di per sé).

Poche volte ho visto personaggi femminili così insipidi, piatti e poco interessanti, che hanno un ruolo del tutto accessorio alla trama. Non si voleva appiattirli nel ruolo di femme fatale o di interesse amoroso dei protagonisti maschili. E quindi si è giustamente deciso di renderle totalmente futili alla narrazione.

Categorie
Avventura Azione Commedia nera Dramma familiare Drammatico Film Horror Humor Nero Jordan Peele

Us – Gli invisibili

Us (2019) di Jordan Peele è la seconda pellicola del cineasta diventato famoso già con la sua acclamata opera prima, Get out (2017). Purtroppo Us non ebbe lo stesso successo, nonostante degli incassi più che buoni: 255 milioni di dollari di incasso contro un budget di 20.

Il fatto che Us sia stato così poco considerato mi è davvero dispiaciuto: nonostante alcune indubbie ingenuità di sceneggiatura, si vede un importante passo avanti nella produzione del regista.

A voler essere polemici, si potrebbe pensare che questo sia dovuto al fatto che il film non parla più di razzismo come Get out, ma di un tema meno digeribile per il pubblico statunitense.

Di cosa parla Us?

1986, Santa Cruz. Durante una serata ad un luna park, giovane Andy si allontana dai genitori e entra in una Casa degli Specchi. Qui farà un incontro che le cambierà per sempre la vita.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Us può fare per me?

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

A differenza della precedente produzione, Us potrebbe farvi veramente paura. A me ogni visione trasmette un’inquietudine non da poco, e mi lascia un senso di terrore sotterraneo.

Questo perché, come spiegherò nella parte spoiler, Peele fa di tutto per evitare i jump scare, anche quando sarebbero ovvi da utilizzare. Così il film non ti trasmette una paura improvvisa, ma costruisce una tensione che colpisce molto più nel profondo.

Insomma, se riuscite a sopportare un certo tipo di inquietudine e volete continuare la scoperta della cinematografia di Peele e dell’horror autoriale contemporaneo, non potete perdervelo.

Emarginazione sociale

In Us si parla di emarginazione e dell’insuperabile divario sociale della società statunitense. Un tema caldo e onnipresente, in questo caso raccontato in una maniera molto articolata (e non sempre vincente).

Infatti le copie vivono in una realtà sotterranea, dove possono vivere le stesse esperienze di chi sta sopra (quindi dei ricchi e dei privilegiati), ma in una versione distorta e punitiva.

Piuttosto emblematico in questo senso il monologo di Red alla fine, quando si vede la stessa situazione del luna park di sopra con la scena delle copie di sotto: una situazione felice e spensierata, trasformata in un incubo.

La magnifica Lupita Nyong’o

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Ho avuto non pochi problemi con questa attrice, che ho visto acclamare per la sua interpretazione in 12 anni schiavo (2013), che non ho trovato così sorprendente (come il film in generale, del resto).

Per fortuna in questa pellicola mi ha permesso di riscoprirla: nonostante la sua interpretazione incredibile sia stata poco considerata nelle maggiori premiazioni, io l’ho trovata in uno delle migliori prove attoriali della sua carriera finora.

La sua abilità di interpretare non solo due personaggi diversi, ma soprattutto di riuscire a recitare strozzando la voce in maniera innaturale, così disturbante e drammaticamente credibile.

La rappresentazione delle copie

Ho trovato incredibilmente interessante la rappresentazione delle copie: individui che non hanno mai visto la luce del sole, che non sono né capaci di parlare né di muoversi in maniera umana, ma solo animalesca.

E infatti Red li tratta come degli animali, scatenando la loro furia vendicativa. Particolarmente emblematico come, nella prima scena in cui entrano in casa, Red li tenga intorno a sé come se fossero i suoi animali da compagnia.

Valorizzare i corpi neri

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Un elemento di assoluto interesse di questa pellicola è stata la capacità di Peele di valorizzare i corpi degli attori della famiglia protagonista.

Il regista infatti, cosciente del fatto che vi è un razzismo sotterraneo ad Hollywood che tende a privilegiare attori afrodiscendenti dalla pelle non troppo scura, ha scelto attori che solitamente sarebbero meno considerati come protagonisti.

E riesce a metterli in scena in modo che li valorizza, con il contrasto degli occhi bianchi che emergono nel buio con la pelle nera. Tanto che, a confronto, le copie interpretate da attori bianchi sembrano dei comuni zombie e sono molto meno di effetto, nonostante l’indubbia bravura degli attori.

Diciamo no ai jump scares

Lupita Nyong'o, Shahadi Wright Joseph e Evan Alex in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Una cosa che, se ci fate caso, non riuscirete più a non notarla, è quanto Peele giochi con i jump scares, al punto di evitarli sistematicamente anche nelle scene in cui lo spettatore, abituato alle dinamiche dell’horror commerciale, se lo aspetterebbe.

Una scena davvero emblematica è quella in cui Zora e Ombrae sono ai lati opposti della macchina e quest’ultima scompare all’improvviso. Zora quindi si accovaccia sotto ai piedi della macchina. E a quel punto in qualunque altro film Ombrae sarebbe apparsa all’improvviso davanti allo schermo.

E invece la tensione non viene spezzata, ma accresciuta dal cigolio che fa capire a Zora che la sua copia malvagia è in piedi sopra la macchina. E così la macchina da presa sale lentamente verso l’alto insieme allo sguardo di Zora, rivelando Ombrae che torreggia famelica su di lei.

Essere troppo entusiasti della propria storia

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Questa pellicola, nonostante io l’abbia ampiamente apprezzata, ha degli importanti difetti. O, meglio, delle grandi ingenuità di sceneggiatura. Ammiro Peele per essersi imbarcato in un’opera decisamente più complessa di Get out, ma questo stesso coraggio ha rivelato quanto questo autore sia ancora acerbo.

Quando si scrive una sceneggiatura o una storia in generale bisogna arrivare da un punto ad un altro, cercando di far tornare tutto nel mezzo. E si può finire per essere troppo entusiasti per la propria creazione e non riuscire a definirla chiaramente in tutte le sue parti.

E questo è successo con Us, che solleva non pochi punti di domanda: come fa Red ad organizzare la rivolta? Dove ha trovato le forbici, la divisa? Perché improvvisamente le copie non sono più state legate a quelli di sopra?

Oltre a questo, purtroppo, quando si vedono le scene flashback della realtà sotterranea non rende l’idea di un gruppo di milioni di persone.

Us Folli dettagli degni di nota

Nella prima parte del film ci sono una serie di forshadowing veramente ben fatti, che si notano solamente alla seconda visione.

Ne flashback del luna park Andy passa accanto a due ragazzi che giocano a carta sasso e forbice e la ragazza si lamenta che l’altro stia barando facendo sempre il segno della forbice. Davanti al labirinto degli specchi c’è scritto find yourself e infatti lì Andy troverà l’altra se stessa. In spiaggia nel presente Andy dice a Kitty che ha difficoltà a parlare, come infatti Red non è capace. Sempre nella scena della spiaggia, Jason sta scavando un tunnel.

Rivelatorio è alla fine, quando Andy uccide Red, e fa dei versi simili a quelli della sua copia, a rivelare la sua vera natura e origine.

Categorie
Avventura Azione Cinema sotto le stelle Cult rivisti oggi Dramma familiare Drammatico Fantascienza Film

Interstellar – La monumentalità guastata

Interstellar (2014) di Christopher Nolan è uno dei più ambiziosi progetti in ambito fantascientifico degli ultimi anni.

Non a caso è stato un grande successo commerciale: 703 milioni di dollari di incasso contro un budget di 165. Ed è infatti uno dei film più citati ed apprezzati del regista.

Di cosa parla Interstellar?

In una Terra al limite del collasso, l’ingegnere Joseph Cooper viene inaspettatamente coinvolto in una missione spaziale per salvare l’umanità. Questo però significherà abbandonare i figli per un numero indefinito di anni…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Interstellar è un film imperdibile

Matthew McConaughey, Timotheè Chalamet e Mackenzie Foy in una scena di Interstellar (2014) di Christpher Nolan

Assolutamente sì.

Come detto, Interstellar è una delle produzioni più ambiziose degli ultimi anni, un film che si propone di portare il racconto dei viaggi nello spazio ad un altro livello. Paradossalmente, la storia di per sé è davvero semplice, ma viene arricchita da una serie di concetti scientifici e pseudo-fantascientifici non poco complessi.

Un film davvero monumentale, sia nell’estetica sia nella sua durata, assolutamente necessaria per raccontare un’avventura così importante e ricca di colpi di scena e concetti importantissimi.

Insomma, non potete assolutamente perdervelo.

E se alla fine sarete più confusi che altro, potete tornare qui e vedere la risposta a (spero) tutte le vostre domande.

Perché ho amato Interstellar

La bellezza (e bruttezza paradossalmente) di Interstellar è la sua complessità. E si tratta di una complessità voluta perché Nolan ama profondamente essere complesso, come Tenet (2020) ha ben dimostrato.

Tuttavia, a differenza di Tenet, la complessità è quasi dovuta per rendere credibile un’avventura così monumentale. Soprattutto perché basata su varie teorie scientifiche (come la Teoria della Relatività) e pseudo-scientifiche (il Wormhole), che sono la colonna portante della narrazione.

Matt Damon in una scena di Interstellar (2014) di Christpher Nolan

Al contempo Interstellar è una storia molto umana: i personaggi sono profondamente guidati dalle loro passioni e dai loro sentimenti. Ed è anche un tema del film: il Dr. Mann racconta proprio come l’uomo sia spesso guidato dell’interesse egoistico verso gli affetti vicini a lui e incapace di pensare sul lungo periodo.

Ma paradossalmente il dramma di Mann è anch’esso totalmente egoistico: sapendo di poter essere salvato solamente portando dei dati incoraggianti, li falsifica. Allo stesso modo inizialmente Cooper pensa principalmente a tornare dalla propria famiglia, Amelia a ricongiungersi con il suo amato.

E così gli stessi personaggi sono incredibilmente fallibili, e sono infiniti i drammi che devono affrontare e i complessi morali cui sono continuamente messi davanti. Ma sono comunque ricompensati da un finale positivo e fondamentalmente consolatorio.

Cosa non sopporto di Interstellar

Ci sono due elementi che poco sopporto di Interstellar: il facile dramma e la povertà di spiegazione.

Per me il dramma fra Cooper e Murph poteva essere facilmente evitato se questo avesse spiegato letteralmente alla figlia che stava andando a salvare il mondo. Ed era anche più giusto nei confronti di una bambina neanche tanto piccola, che avrebbe probabilmente meglio sopportato l’angoscia del mondo (evidentemente) al collasso piuttosto che l’abbandono del padre.

Allo stesso modo avrei preferito che le spiegazioni nel film fossero più ricche e chiare, e non volutamente nebulose. Insomma, non sopporto quando vengono lasciati così tanti punti di domanda, e non per dare spazio alle teorie, ma per volontà proprio di non dare spiegazioni (e a volte incapacità, anche se non in questo caso).

Tutto quello che non hai capito di Interstellar

Come funziona il tempo?

Per come è rappresentato il tempo in Interstellar, valgono due concetti fondamentali: il loop e la Teoria della Relatività. Il primo è il più semplice da capire: tutto il film è un loop in cui il Cooper del futuro influenza le azioni di Murph e di se stesso del passato.

Oltre a questo, il tempo è assolutamente relativo: il tempo è una dimensione che è da noi considerata lineare, ma in realtà non lo è. E, per questo, cambiando prospettiva e ambiente, il tempo ci appare scorrere in maniera differente.

Chi sono loro?

Matthew McConaughey in una scena di Interstellar (2014) di Christpher Nolan

I personaggi vengono aiutati dell’umanità del futuro, capace di vivere in cinque dimensioni e di permettere all’uomo del passato di viaggiare attraverso il wormhole da loro creato per raggiungere i nuovi pianeti abitabili.

Cos’è il wormhole?

Il wormhole di cui si parla nel film è una teoria scientifica che prevede il collegamento fra due luoghi anche molto distanti nello spazio. In questo caso appunto permette ai protagonisti di raggiungere in un tempo accettabile una nuova galassia con pianeti abitabili.

Cosa succede nel finale?

Matthew McConaughey in una scena di Interstellar (2014) di Christpher Nolan

Cooper attraversa il buco nero e si trova in uno spazio artificiale, il tesseract (o tesseratto) dove il tempo diventa una dimensione materiale. Così tutti i momenti di Murph sono visibili materialmente e Cooper può intervenire e mandare dei messaggi alla figlia.

Così le manda tramite il codice morse dei dati quantistici contenuti all’interno del buco nero che le permettono di avere le conoscenze matematiche per costruire le tecnologie con cui poter viaggiare attraverso il wormhole e raggiungere altri pianeti abitabili.

Categorie
Avventura Damien Chazelle Dramma familiare Dramma storico Drammatico Film Il racconto dello sbarco

First man – L’altro lato della luna

First man (2018) di Damien Chazelle è il terzo lungometraggio del regista famoso per La La Land (2016).

Purtroppo questo nuovo progetto non ebbe per nulla lo stesso riscontro, anzi fu sostanzialmente ignorato al di fuori del circuito dei festival.

E fatti fu un flop commerciale: appena 105 milioni di dollari di incasso contro un budget di 59.

Di cosa parla First man

1962, Stati Uniti. Dopo un importante lutto familiare, Neil Armstrong, il primo uomo che metterà piede sulla Luna, entra a far parte del progetto Gemini della NASA e la sua corsa disperata verso lo spazio.

Un viaggio per nulla semplice, e molto meno glorioso di quello che si potrebbe pensare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perchè First man è stato un flop e perché guardarlo comunque

Ryan Gosling in una scena di First Man (2018) di Damian Chazelle

Dipende.

Il flop di First man è facilmente spiegabile: Chazelle, invece che piegarsi al successo di La La Land, ha deciso di sperimentare con un genere diverso.

E ha prodotto una pellicola sublime, con una tecnica registica di altissimo livello, ma decisamente molto meno spendibile per il grande pubblico. Il film è infatti drammaticamente lento, ma con una lentezza voluta e necessaria.

E infatti va visto con calma, prendendosi il suo stesso tempo. E va vista perché è una pellicola spettacolare, con una tecnica e una scrittura che si avvicina a certi capolavori di Lars von Trier. Non a caso a me ha ricordato per certi aspetti Melanchonia (2011).

Quindi prendetevi il vostro tempo, ma guardatelo.

Storia di un fallimento

Ryan Gosling e Corey Stoll in una scena di First Man (2018) di Damian Chazelle

Soprattutto se non si fa parte della generazione che visse il periodo, è difficile immaginarsi il clima che circondò l’Allunaggio.

In piena guerra fredda, con questa isteria collettiva di contrasto alla Russia che si vede anche ne Il gigante di ferro (1999), e davanti ad una scia di morti e fallimenti che guastarono la credibilità del progetto. E, di conseguenza, un generale malumore dell’opinione pubblica.

Perché effettivamente per l’uomo comune statunitense esplorare lo spazio non era una grande scommessa.

E non lo è neanche per i contemporanei: basta solo pensare che gli astronauti che esploreranno altri pianeti oltre la Luna non sono, con ogni probabilità, ancora nati. E chissà quante generazioni passeranno prima che potremo vivere oltre la Terra o almeno sfruttare le risorse che gli altri pianeti ci offrono.

Fatte queste premesse, è più facile immedesimarsi nel sentimento popolare del tempo.

L’uomo sulla luna

Ryan Gosling e Claire Foy in una scena di First Man (2018) di Damian Chazelle

Il racconto di Neil Armstrong è drammatico ma necessario: non un eroe, ma un uomo come tanti, con una situazione familiare complessa, e, soprattutto, un uomo assolutamente fallibile.

Si evita insomma un tipo di narrazione di predestinazione, come si può vedere in film molto più commerciali come Captain America (2011). L’unico elemento di predestinazione in qualche misura è il fatto che il protagonista guarda sempre verso la Luna.

Ma perché Luna è un luogo lontano, quasi rassicurante, dove per un attimo Neil può davvero distaccarsi dai suoi problemi terreni, dove può finalmente dirgli addio. Toccante la scena in cui si lascia scivolare dalle dita il braccialetto della figlia, di cui non aveva mai più parlato, ma la cui morte l’aveva profondamente turbato per quasi dieci anni.

E infine si riconcilia con la moglie, che accetta la sua mano tesa.

Una regia perfetta

Quando parlo di una regia perfetta non credo di esagerare: non poteva esserci una tecnica migliore di questa per raccontare questo tipo di storia. Chazelle fa infatti grande uso della camera a mano, dando un taglio molto intimo alla maggior parte delle scene.

E, con il suo continuo e sublime uso dei primi piani stretti e strettissimi, il suo indugiare sui particolari, fa sentire lo spettatore come se fosse veramente in quella stanza, in quella astronave, ad osservare la scena.

Ancora più splendida la scelta della rappresentazione dello sbarco: sulla Luna non ci sono rumori e, quando si incammina, Armstrong non può sentire nient’altro che se stesso, il proprio respiro affannoso.

E, così, avere un momento di pace.

Categorie
Avventura Azione Cinema sotto le stelle Drammatico Fantascienza Film

Arrival – Una fantascienza diversa

Arrival (2016) di Denis Villeneuve è un film fantascientifico di genere invasione aliena. Un momento importante nella cinematografia del regista, con cui riuscì finalmente, e ancor prima di Dune, a farsi conoscere dal grande pubblico.

La pellicola fu infatti un grande successo commerciale: 203 milioni di incasso contro un budget di 47. Un ottimo investimento su un ottimo regista.

Di cosa parla Arrival?

Dodici astronavi aliene atterrano in diversi luoghi della Terra. La linguista Louise viene coinvolta nel cercare di venire a contatto e comprendere le intenzioni di questi potenziali invasori, in uno scacchiere internazionale piuttosto bollente…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Arrival è un film imperdibile

Jeremy Renner e Amy Adams in una scena del film Arrival (2016) di Denis Villeneuve

Assolutamente sì.

Arrival è uno di quei film che non puoi non recuperare, in particolare se ti è piaciuto Dune (2021). Villeneuve è stato capace di spogliare il genere sia della retorica americanocentrica sia del tipo narrazione piatta e ripetitiva che vediamo in molti film di questo tipo.

Al contrario ha portato una pellicola riflessiva, con un taglio potentemente credibile e una morale molto interessante. Insomma, è stato capace di prendere una storia apparentemente semplice e impreziosirla con una tecnica registica di altissimo livello.

Una fantascienza credibile

Amy Adams in una scena del film Arrival (2016) di Denis Villeneuve

Un elemento di grande valore della pellicola è la sua credibilità, per nulla scontata per questo tipo di film.

Solitamente, infatti, ci si trova davanti a prodotti di largo consumo che vengono inutilmente esagerati e che si appiattiscono in topoi ripetitivi. Così l’eroe per caso, il padre di famiglia che deve salvare la figlia o la famiglia, e via dicendo.

In questo caso invece troviamo un racconto credibile fin dalle prime battute: inizia come un qualunque film catastrofico (simile a quella schifezza di Birdbox, che ha avuto lo stesso sceneggiatore), ma a sorpresa non parte con l’azione come ci si potrebbe aspettare.

Vediamo invece l’inizio della narrazione in cui la protagonista è un personaggio passivo, quasi indifferente agli eventi. Diverse sequenze in cui resta inerme davanti alla televisione, a veder raccontati eventi su cui non può intervenire.

E fin da subito, per una volta, la vicenda non coinvolge solamente gli Stati Uniti, ma anche il resto del mondo. D’altronde Villeneuve è canadese e quindi non imbevuto di questo tipo di egocentrismo tutto statunitense.

E infatti la potenza militare più minacciosa non sono gli Stati Uniti, ma la Cina.

Come sarebbero gli alieni

Amy Adams in una scena del film Arrival (2016) di Denis Villeneuve

Molto spesso per semplificare la narrazione, sia in prodotti cinematografici che fumettistici, si utilizzano diversi escamotage per fare in modo che gli alieni possano parlare la nostra lingua. E che al contempo abbiano delle sembianze per noi comprensibili.

Nessuna delle due cose in Arrival: il modo di comunicare degli alieni è del tutto incomprensibile per noi e così nel loro aspetto non troviamo elementi riconoscibili. Non hanno la bocca né gli occhi, per esempio. E realisticamente è molto più credibile che, se incontrassimo gli alieni, sarebbero più come quelli di Arrival che come quelli dell’immaginario collettivo.

L’incomunicabilità

Amy Adams in una scena del film Arrival (2016) di Denis Villeneuve

Il punto centrale della pellicola è l’incapacità degli umani di comunicare con la specie aliena.

E infatti, per la complessità dello studio di Louise, si è scelto di non raccontarlo in maniera estensiva, ma di portare un’ellissi narrativa che mostra poi i protagonisti in una fase più avanzata dei loro studi. In questo modo si è evitato di semplificare un discorso davvero complesso.

E alla fine Louise riesce a comprendere la loro lingua e così anche il loro modo di pensare, così avendo una visione circolare del tempo. Infatti il film si basa su una teoria per cui, imparando una lingua nuova, se ne assorbe anche il modo di pensare dei parlanti.

Così la protagonista, comprendendo il linguaggio circolare degli alieni, riesce ad assorbire la loro capacità di conoscenza totale del tempo.

Una morale divisiva?

Amy Adams in una scena del film Arrival (2016) di Denis Villeneuve

La morale del film è tutt’altro che scontata.

Se sapessimo che la nostra vita potesse andare verso un evento drammatico, pur regalandoci degli splendidi momenti nel mentre, sceglieremmo comunque di viverli?

Louise, in un modo forse egoista, decide di vivere quel poco di felicità che la vita le potrebbe concedere, una piccola parentesi che poi probabilmente la porterà al punto di partenza in cui la vediamo all’inizio del film. Ma, per una donna così svuotata dalla vita come la vediamo all’inizio, è stato un regalo a cui non poteva dire di no.

Perché il finale di Arrival non mi ha convinto del tutto

Per quanto il finale non sia per nulla pessimo, anzi ben integrato nel contesto della pellicola, mi ha poco convinto perché l’ho trovato troppo idealizzato e ingenuamente ottimista.

Basta quindi una frase per far tornare sui suoi passi un generale così agguerrito?

È molto bello da immaginare così, ma è poco credibile.

E la credibilità è il punto di forza della pellicola…

Cosa dice Louise al generale?

La frase che Louise dice al generale Shang in mandarino significa

In the war there are no heroes, only widows.

In guerra non ci sono eroi, ma solo vedove.
Categorie
Avventura Azione Cinema per ragazzi Commedia Film Giallo Un'estate al cinema

Baywatch – Rinnovare un cult

Baywatch (2017) di Seth Gordon è stato il tentativo di rilancio dell’iconica serie omonima.

Il film non fu di per sé un flop, ma neanche un grande successo commerciale, come forse ci si aspettava per un revival di questo genere.

Infatti, davanti ad un budget di 69 milioni di dollari, ne incassò appena 177. Non a caso il sequel fu più o meno annunciato durante la prima proiezione, ma del progetto non si ebbe più notizia.

Di cosa parla Baywatch

Il tenente Mitch Buchannon è il caposquadra dei bagnini delle spiagge di Emerald Bay. Si trova improvvisamente a dover gestire Matt Brody, ex atleta olimpico e testa calda che vuole unirsi a tutti costi al gruppo. Nel frattempo la baia è minacciata dall’avida imprenditrice Victoria Leeds…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Baywatch fu un insuccesso?

Baywatch è stato un interessante tentativo di riportare in auge il franchise della serie tv iconica.

Purtroppo, si tratta di un prodotto ben poco adatto ai tempi, sia per la comicità datata, sia per il tipo di rappresentazione dei personaggi, schiacciati da un machismo e da una ipersessualizzazione insopportabile.

Per questo si è scelto una via di mezzo: circoscrivere determinati aspetti datati su pochi personaggi e mettere maggiormente in risalto i personaggi femminili.

In particolare, rendere il villain una femme fatale potente e spietata è stata la classica soluzione di compromesso.

Purtroppo Baywatch richiede molto di stare al gioco e capire che si tratta di un prodotto revival che riprende il taglio della serie. Quindi una comicità molto spicciola, machista e corporale, una trama molto cartoonesca e non particolarmente spettacolare.

Se non ci si rende conto di questo aspetto fin da subito e se si fa parte della generazione dei millennial in su, a cui il film è indirizzato, si potrebbe provare un certo imbarazzo per quello che si vede in scena e di conseguenza non sentirsi coinvolti.

Baywatch può fare per me?

Zac Efron e Jon Bass in una scena di Baywatch (2017) di Seth Gordon

Dipende.

Se apprezzate i classici film con protagonista The Rock, probabilmente sì. Tuttavia, come detto, la comicità è un po’ più datata, un incontro fra la saga di Scary Movie e Magnum P.I. Tuttavia complessivamente io l’ho trovato un film godibilissimo, con una trama sicuramente semplice e piena di stereotipi, ma che riesce facilmente ad intrattenere.

Quindi se già dal trailer vi ispira, dategli un’occasione.

Sessualizzazione contestualizzata

Kelly Rohrbach in una scena di Baywatch (2017) di Seth Gordon

Una questione abbastanza problematica era la sessualizzazione del corpo femminile, di cui si è ben parlato nella serie Pam & Tommy.

In questo senso, hanno scelto una via di mezzo: i personaggi femminili in generale sono messi in primo piano nella storia e non sono quasi mai sessualizzati, e soprattutto non vi è tendenzialmente una regia voyeuristica sui loro corpi.

Una parziale eccezione è rappresentata da Casey, che riprende fondamentalmente le parti di Pamela Anderson nella serie. Ma anche Casey è una scelta calibrata. Anzitutto, si è evitato di imporre la ipersessualizzazione su Stephanie, interpretata da un’attrice latina (e con tutti gli stereotipi che ne sarebbero seguiti).

Al contrario, è stata scelta un’attrice come Kelly Rohrbach, con un volto pulito e che incarna la dream girl californiana. Quindi molto diverso dalla ragazza bella e impossibile come era Pamela Anderson, appunto.

Quindi l’oggetto del desiderio del personaggio maschile, con alcune soggettive un po’ infelici sul suo seno, che è comunque molto messo in mostra. Ma al contempo, per fortuna, Casey non è appiattita nel ruolo di pixie girl, ovvero il personaggio femminile che esiste unicamente in funzione della maturazione del personaggio maschile.

Machismo distruttivo

Zac Efron e Alexandra Daddario in una scena di Baywatch (2017) di Seth Gordon

Un’altra tematica molto forte della pellicola è il machismo distruttivo fra i due protagonisti maschili.

Tuttavia anche questo è stato costruito con un minimo di intelligenza: non esclusivamente un antagonismo fra Mitch e Matt, ma un tentativo di Mitch di ridimensionare Matt e fargli imparare qualcosa, pur talvolta cercando di devirilizzarlo.

Questo accade infatti quando Mitch parla della manvagina di Mitch e quando lo salva facendogli la respirazione bocca a bocca sul finale, e prendendolo in giro per questo. Ma, tutto sommato, la storia è più che altro funzionale a raccontare il percorso di crescita di Matt.

Una comicità datata

Kelly Rohrbach, Jon Bass e Hannibal Buress in una scena di Baywatch (2017) di Seth Gordon

Non solo la comicità, ma in generale la storia raccontata è proprio quella di un altro periodo. È così comico e poco credibile già solamente l’esistenza di bagnini che risolvono il crimine, e soprattutto che nella baia ci siano questo tipo di problemi.

Oltre a questo, la comicità è in generale molto datata: senza dover scomodare gli Anni Ottanta, sembra molto un umorismo tipico di quelle commedie primi Anni Duemila bellissime e terrificanti come Dodgeball (2004).

E questo potrebbe aver anche allontanato il pubblico dalla sala…

Cameo a tempo perso?

Nel film ci sono due camei che dovrebbero farti rimanere a bocca aperta, ma potrebbero essere stati totalmente inutili, in quanto il pubblico che principalmente è andato in sala è quello attirato dai film di The Rock più che dalla serie di Baywatch.

È così evidente che l’apparizione di David Hasselhoff doveva stupire lo spettatore che mi sono sentita in imbarazzo quando non l’ho riconosciuto. Meno imbarazzante l’apparizione di Pamela Anderson, che ho riconosciuto, ma che purtroppo non mi ha dato l’emozione che dovrebbe dare ai fan storici della serie.

Il film insomma strizzare l’occhio ai fan di Baywatch, che però è possibile che non fossero neanche in sala…

Categorie
2022 Avventura Azione Cinecomic Commedia Commedia romantica Drammatico Fantascienza Film MCU Uncategorized

Thor: Love & Thunder – Non avere un’opinione

Thor Love & Thunder (2022) di Taika Waititi è l’ultimo film della Marvel uscito nelle nostre sale la scorsa settimana, nonché il quarto film stand alone dedicato al personaggio.

Una pellicola che conferma il tentativo di recupero del personaggio, dopo due false partenze con Thor (2011) e soprattutto Thor: The Dark World (2013), considerato uno dei peggiori film della Marvel.

Dopo Thor: Ragnarok (2017), film molto divisivo già di suo, Thor: Love & Thunder è una pellicola che ha portato molte polemiche e bocciature, anche estremamente aspre. Tuttavia, per il momento comunque la pellicola ha aperto molto bene al box office, con 302 milioni in tutto il mondo nel primo weekend.

Ma è davvero così brutto?

Di cosa parla Thor: Love & Thunder?

Dopo diverse avventure con i Guardiani della Galassia, Thor si trova costretto a tornare a Nuova Asgard. Infatti una nuova e pericolosa minaccia incombe: Gorr, il macellatore di Dei. Un nome, una garanzia.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Thor: Love & Thunder è davvero così brutto?

Chris Hemsworth in una scena di Thor: Love & Thunder (2022) di Taika Waititi

Per questa recensione ammetto di dover fare un grande sforzo, perché, a differenza di altri, questo film mi ha lasciato complessivamente indifferente. Insomma, non mi è dispiaciuto, ma non mi ha neanche esaltato.

Uno di quei prodotti che guardi per spegnere totalmente il cervello e che non ha bisogno del benché minimo impegno per essere fruito. Purtroppo ha anche una comicità per la maggior parte molto spicciola, di quella che ti vergogni di star ridendo.

Tuttavia, non è del tutto un film da buttare: ha una struttura narrativa complessivamente coerente (a differenza di Thor: Ragnarok), dei buoni punti drammatici e un villain di primo livello. Insomma un film sostanzialmente mediocre.

Una pellicola che mi sento di consigliare soprattutto se vi è piaciuto Thor: Ragnarok, e se in generale apprezzate un tipo di comicità al limite del demenziale, financo infantile. Per me non un film imperdibile, ma neanche del tutto da evitare.

Un villain sprecato?

Christian Bale in una scena di Thor: Love & Thunder (2022) di Taika Waititi

Non credo ci sia bisogno di dire quanto Christian Bale sia un attore capace ed estremamente poliedrico. Ma la più grande dote di un attore è il sapersi reinventare anche per i prodotti di più largo consumo.

Così ha fatto Bale per questa pellicola, regalandoci uno dei villain meglio scritti ed interpretati degli ultimi anni per l’MCU. Spietato, con una backstory semplice ma potente, a tratti volutamente grottesco.

Un antagonista forse sprecato per una pellicola di questo genere, ma che per fortuna non è mai screditato dalla stessa, mantenendo tutta la carica drammatica nelle scene a lui dedicate.

Che sorpresa Jane Foster

Natalie Portman in una scena di Thor: Love & Thunder (2022) di Taika Waititi

Partiamo col dire che io ho una (probabilmente ingiusta) antipatia per Natalie Portman, e soprattutto per il personaggio di Jane Foster. Motivo per cui ero molto scettica circa la sua apparizione nella pellicola.

E invece mi ha sorpreso: superando il fatto che Natalie Portman avesse veramente poca voglia di recitare in questa pellicola e sia sostanzialmente incapace di reggere i tempi comici, il suo personaggio nel complesso non mi è affatto dispiaciuto, prima di tutto per la spettacolare messinscena dei suoi poteri.

La sua backstory non mi è sembrata non del tutto vincente, ma inaspettatamente sono comunque riuscita ad essere coinvolta col suo rapporto con Thor e mi è pure dispiaciuto della sua morte. Tuttavia credo che, per la felicità dell’attrice e mia personale, è definitivamente l’ultima volta che la vediamo.

La comicità fallimentare

Una comicità è di fatto vincente non solo se riesce a farti ridere, ma se riesce in qualche modo a sorprenderti. Purtroppo, soprattutto nel primo atto, Thor: Love & Thunder è stato totalmente fallimentare in questo senso.

È stato abbastanza triste trovarsi a dire le battute insieme ai personaggi, tanto erano prevedibili e scontate. Non nascondo che non mancano le battute più indovinate, che mi hanno anche fatto ridere, ma complessivamente ho decisamente preferito i momenti più drammatici verso la fine, dove questo tipo di umorismo viene del tutto escluso.

Un altro difetto sulla stessa linea: in non poche scene, in particolare nella Città degli Dei, i personaggi in scena sembrano dei cosplayer davvero poco credibili. E la maschera di Thor, ma soprattutto quella di Jane, sembra creata con una CGI veramente scadente.

Insomma, per certi versi questo film sembra una grande carnevalata.

Ci sarà un sequel?

La Marvel per ora non ha dichiarato nulla di ufficiale, ma quel Thor ritornerà dopo la scena post credit è abbastanza eloquente. Credo che tutto dipenderà dall’andamento del box office, quindi è ancora tutto da vedere.

Sicuramente gli appassionati di Ted Lasso avranno riconosciuto Brett Goldstein, che nella serie interpreta Roy, e che vediamo nei panni di Ercole nella prima scena post-credit. La sua scelta come potenziale villain del sequel è mio parere indicativa di come si voglia prendere del tutto la strada della comicità.

Infatti Golsestein è un ottimo attore comico, e non credo che gli faranno sostenere una parte drammatica come a Gorr in questa pellicola. E purtroppo mi dispiacerebbe vedere Waititi perdersi in un film solamente e disastrosamente comico.

Ma staremo a vedere.