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Freaky Friday – Dall’altra parte

Freaky Friday (2003) di Mark Waters, anche noto come Quel pazzo venerdì, è un teen movie cult con protagoniste Lindsay Lohan e Jamie Lee Curtis.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – circa 30 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale, con 160 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Freaky Friday?

Un’adolescente rockettara e una madre in carriera possono capirsi? Sì, ma solo se si scambiano di posto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Freaky Friday?

Lindsay Lohan e Jamie Lee Curtis in una scena di Freaky Friday (2003) di Mark Waters

In generale, sì.

Freaky Friday è un teen movie veramente molto classico, che racconta lo spostamento dell’attenzione del genere dalla figura paterna – positiva a quella materna – negativa, e, più in generale, un importante conflitto fra due generazioni che sembrano non riuscire a comunicare.

Una pellicola sostanzialmente comica, che è retta sulle spalle dalla inaspettata (?) verve comica di entrambe le attrici protagoniste, capaci di portare in scena personaggi così paradossali senza mai cadere nel ridicolo, anzi mostrandone anche i lati più drammatici.

Insomma, dategli una possibilità.

Conoscenza

Lindsay Lohan in una scena di Freaky Friday (2003) di Mark Waters

Freaky Friday è perfettamente diviso nei tre atti canonici.

Nel primo atto lo spettatore ha l’importante ruolo di osservare quei due personaggi così agli antipodi, vedendo quei lati a cui anche di cui le due sembrano totalmente ciechi: anzitutto Anna, l’effettiva vittima di diversi personaggi che gli sono inspiegabilmente ostili.

Un fratello dispettoso – ma i cui dispetti sembrano del tutto invisibili alla madre – una ex-migliore amica diventata inspiegabilmente vendicativa, e un professore bullo che la punisce nonostante sia inequivocabilmente la migliore della classe.

Lindsay Lohan e Jamie Lee Curtis in una scena di Freaky Friday (2003) di Mark Waters

Una situazione ancora più insostenibile dal momento che la madre, Tess, sembra del tutto cieca davanti a questa situazione, pensando che la figlia sia solamente una drama queen che pensa che tutto il mondo sia contro di lei.

E, molto ironicamente, la stessa Anna pensa che la madre abbia una vita perfetta, quando noi assistiamo come la stessa in realtà debba sopportare non poiché pressioni, non ultima la responsabilità di avere sulle spalle la fragile salute dei suoi pazienti.

E, arrivati al momento di massimo conflitto e incomprensione, avviene il miracolo.

Realizzazione

Lindsay Lohan e Jamie Lee Curtis in una scena di Freaky Friday (2003) di Mark Waters

Il secondo atto è il momento della realizzazione.

Trovandosi nel corpo dell’altra, entrambe hanno l’occasione per vedere la realtà da un nuovo punto di vista: Tess ritorna per un giorno ad essere un’adolescente, pensa di avere tutta la situazione sotto controllo, di poter ricucire il rapporto con Ashley e di superare brillantemente il test…

…ma invece, inaspettatamente, capisce e risolve l’antipatia del professore contro la figlia, dovuta ad una infantile vendetta con vent’anni di ritardo, e diventa vittima della perfidia della vecchia amica di Anna, che la fa finire ingiustamente in punizione.

Lindsay Lohan in una scena di Freaky Friday (2003) di Mark Waters

Anche più interessante è l’esperienza di Anna.

La giovane protagonista vive inizialmente un’ingenua euforia nel poter fare quello che vuole, facendo strisciare più volte la carta della madre per rivoluzionarle totalmente il look, immersa in un sogno di ribellione e indipendenza che farebbe impazzire qualsiasi adolescente…

…ma che infine, proprio come la madre, vive in brusco risveglio quando scopre la pesantezza delle responsabilità della vita adulta, talmente snervanti da portarla prima ad una crisi di pianto e all’inaspettato desiderio di tornare alla sua vita precedente. 

Ma l’esaurimento nervoso non basta a risolvere la situazione…

Conciliazione

Lindsay Lohan in una scena di Freaky Friday (2003) di Mark Waters

Il terzo atto è il momento della conciliazione.

Una volta compresi i limiti della vita dell’altra, le due protagoniste intraprendono involontariamente un percorso di riavvicinamento, pur all’interno di un campo minato di relazioni indesiderate che, semplicemente, non dovrebbero esistere.

Proprio in questo contesto Tess arriva veramente a comprendere l’importanza della passione di Anna, che prima considerava così poco importante – la band – trovandosi proprio in una posizione analoga alla figlia quando deve presentare il suo libro.

Lindsay Lohan in una scena di Freaky Friday (2003) di Mark Waters

Un momento di altruismo che porta ad un momento di altrettanta bontà da parte di Anna, che passa dall’essere l’elemento di disturbo all’interno del futuro matrimonio della madre, alla sua principale promotrice e salvatrice.

Una buona narrazione che permette di perdonare un finale molto debole e fin troppo dipendente dalle gag conclusive.

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Joker – Un sogno tutto mio

Joker (2019) di Todd Phillips è stato fra i più grandi fenomeni cinematografici del decennio, che al tempo diede nuovo lustro al genere cinecomic.

A fronte di un budget piuttosto ridotto per un film del genere – circa 60 milioni di dollari – è stato un incredibile successo commerciale: oltre un miliardo di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Joker?

Arthur Fleck è un emarginato sociale che vive in una città devastata dal crimine e dalla povertà. Eppure forse potrà diventare inaspettatamente un paladino degli ultimi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Joker?

Joaquin Phoneix in una scena di Joker (2019) di Todd Phillips

In generale, sì.

Per quanto apprezzi anche molto questa pellicola, ci tengo ad andarci un po’ più con i piedi di piombo nel consigliarvela: preso a sé, è un ottimo film drammatico, pur forse non così profondo come vorrebbe essere, e a tratti fin troppo patetico nella narrazione…

…ma, se si fa il confronto con la figura del Joker fumettistico e cinematografico, Joker potrebbe apparire per certi versi pretestuoso, financo fastidioso, soprattutto se siete particolarmente appassionati dell’universo DC.

Ma vi consiglio comunque di dargli una possibilità.

Realtà

Joaquin Phoneix in una scena di Joker (2019) di Todd Phillips

Arthur vive fra sogno e realtà.

La sintesi della sua condizione è fin da subito esplicitata: forzando un enorme sorriso sul suo volto, il protagonista lo stressa al punto da spremere una singola lacrima che deturpa il suo volto da pagliaccio, e così svela la tragicità del suo personaggio.

Infatti se nella scena successiva, pur con un travestimento posticcio e quasi ridicolo, Arthur salta e balla in mezzo alla strada per attirare nuovi clienti, diventa immediatamente vittima dei crudeli dispetti di un gruppo di ragazzi che gli rubano il cartello e lo assaliscono in un vicolo.

Questo contrasto prosegue anche nel racconto del disturbo del protagonista, che in più momenti non può fare a meno di scoppiare in una risata isterica e incontrollabile, nonostante la stessa per nulla rappresenti il suo struggimento interiore.

Insomma, Arthur è costretto ad una realtà ostile e distruttiva, ad una guerra fra poveri senza fine istigata da una classe sociale di ricchi che non fanno altro che guardare dall’alto al basso questo gruppo di vergognosi pezzenti.

E infatti l’amore è possibile solo nel sogno…

Sogno

Joaquin Phoneix in una scena di Joker (2019) di Todd Phillips

Il sogno è il rifugio di Arthur.

La prima felice allucinazione ha come protagonista Murray Franklin, figura scintillante che emerge da quella scatola magica, veicolo di una realtà lontana e felice, in cui effettivamente il protagonista potrebbe trovare la figura paterna tanto ricercata.

E la televisione è anche motivo di illusione per la madre, che sogna l’aiuto di Thomas Wayne, filantropo e figura politica di primo piano, che sarà capace di risolvere tutti loro problemi e salvarli dalla loro condizione di assoluta miseria.

Joaquin Phoneix in una scena di Joker (2019) di Todd Phillips

E, più si prosegue, più i sogni diventano vividi.

Dopo mesi di preparazione e di una precisissima annotazione dei punti forti degli altri stand up comedian, Arthur è pronto finalmente a salire sul palco e farsi amare da quella pubblico che sembra effettivamente entusiasta della sua performance…

…all’interno del quale trova anche la dolce Sophie, vicina di casa con cui Arthur sembra subito avere un’intesa, e che lo supporta affettuosamente sia per il suo spettacolo, sia nell’affrontare la malattia della madre.

Ma il risveglio è vicino…

Bilico

Joaquin Phoneix in una scena di Joker (2019) di Todd Phillips

Nel secondo atto, Arthur si trova in bilico.

Da una parte vive immerso in un sogno meraviglioso, dove tutto sembra andare splendidamente bene, dall’altra è costantemente tormentato da un elemento di disturbo, che sguscia fuori quando meno se lo aspetta:

la pistola.

Joaquin Phoneix in una scena di Joker (2019) di Todd Phillips

La pistola è un simbolo con un significato molto potente: rappresenta sostanzialmente lo strumento con cui Arthur può liberarsi dal suo asfissiante presente, con cui può reagire ai colpi che la vita gli continua ad infliggere, diventando finalmente un personaggio attivo.

Non a caso, il suo primo omicidio inizialmente non racchiude alcun ulteriore significato, se non un tentativo di difendersi dall’ennesima aggressione, ma poi si trasforma gradualmente in una sorta di rivalsa che Arthur non può fare a meno di prendersi.

E, infine, è tutto quello che gli rimane.

Risveglio

La via verso il terzo atto è definita dal risveglio.

La vita sembra sfuggire dal controllo di Arthur: il lavoro viene ancora una volta ingiustamente perso, la presunta compagna si rivela invece solamente una proiezione della sua immaginazione, e il protagonista si scopre infine nuovamente e inevitabilmente solo.

Ma lo smacco più importante, lo schiaffo più potente è l’apparizione nel programma del suo beniamino, che però non va come si aspettava: Murray lo umilia in diretta TV, dimostrandosi nient’altro che l’ennesimo personaggio potente che si sente superiore ad uno stramboide come lui

Ma la delusione che definisce il tracollo del personaggio è proprio il confronto con Thomas Wayne, che fin da subito lo tratta come uno spostato, la solita sanguisuga che non vuole fare altro che approfittarsi della sua ricchezza…

…rivelandogli, fra l’altro, la più devastante verità sul suo passato: non solo Arthur non è suo figlio, ma non è neanche figlio di quella che pensava fosse sua madre, nient’altro che un’altra spostata preda di una delirante illusione.

A questo punto, due strade sono possibili.

Miccia

Joaquin Phoneix in una scena di Joker (2019) di Todd Phillips

Arthur è una potenziale miccia.

Il protagonista sembra ormai aver intrapreso la strada della distruzione, tranciando l’ultimo cordone ombelicale che lo legava alla sua vecchia vita – la madre – e riscrivendo la sua figura, accettandone finalmente la dicotomia fra tragedia e commedia.

Così l’ultimo atto della sua vita sembra inevitabile: uscire di scena col botto, con una battuta che strapperà l’applauso di un pubblico che, infine, acclamerà la sua spettacolare morte in diretta TV.

Joaquin Phoneix in una scena di Joker (2019) di Todd Phillips

Invece, Arthur sceglie infine la reazione.

Sedendosi accanto a Murray, il protagonista capisce che, scegliendo di togliersi la vita, accetterebbe quello che gli altri hanno scelto lui, arrendendosi definitivamente alle ingiustizie di figure come Murray e Wayne – e tutto quello che rappresentano.

Così infine Joker sceglie di distruggere quel simbolo odioso, e diventa la coronazione di una rivoluzione che era già cominciata per lui – ma senza di lui – ricevendo finalmente l’acclamazione del pubblico…

…mentre si disegna sul volto un emblematico sorriso di sangue.

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Midnight in Paris – La notte appartiene ai sognatori

Midnight in Paris (2011) è uno dei film più conosciuti della fase europea di Woody Allen.

A fronte di un budget medio – 17 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 150 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Midnight in Paris?

Gil è uno scrittore per il cinema che però ha un sogno nel cassetto: scrivere un romanzo. E Parigi lo saprà ispirare più di quanto immagina…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

https://www.youtube.com/watch?v=FAfR8omt-CY&t=1s

Vale la pena di vedere Midnight in Paris?

Owen Wilson e Marion Cotillard in una scena di Midnight in Paris (2011) di Woody Allen

In generale, sì.

Per quanto mi piaccia questa pellicola, non mi voglio eccessivamente sbilanciare nel consigliarvela, perché ammetto che non sia una delle opere più memorabili di Allen in questo periodo…

…ma, nonostante questo, Midnight in Paris risulta per me un’opera piacevolissima, in cui il regista statunitense sperimenta con il genere fantastico per raccontare la storia di un sognatore – e, forse, di sé stesso.

Pioggia

I titoli di testa di Midnight in Paris hanno un significato specifico.

Infatti gli stessi ci permettono non solo di immergerci nelle magiche atmosfere di Parigi, ma anche nella mente dello stesso Gil, così innamorato della città e, soprattutto del suo gusto decadente durante i giorni di pioggia.

Spazi aperti e ariosi che si oppongono invece alla sua angosciosa situazione familiare.

Owen Wilson e Rachel McAdams in una scena di Midnight in Paris (2011) di Woody Allen

Infatti appare fin da subito chiaro come la sua futura moglie cerchi di ancorarlo ad una professione sicura e redditizia, ma molto meno artisticamente appagante – lo scrittore cinematografico – e di portarlo il più lontano possibile dalla sua città dei sogni.

Altrettanto sgradevoli sono i futuri suoceri – borghesi arricchiti che fin da subito mettono dubbi sulla bontà del protagonista – e, soprattutto, il borioso Paul, il vero uomo dei sogni di Inez, così interessante e colmo di nozioni che non vede l’ora di dispensare.

Ma c’è una via di fuga.

Esclusiva

Adrien Brody in una scena di Midnight in Paris (2011) di Woody Allen

La magia di Parigi non è per tutti.

La simpatica passerella dei grandi artisti degli Anni Venti – nonostante probabilmente molto banalizzata – è la concretizzazione di tutti i sogni di Gil, che finalmente trova degli interlocutori interessanti, persino qualcuno a cui sente di fare leggere il suo romanzo.

E così, quando infine si convince di non star sognando ad occhi aperti, il protagonista prova a coinvolgere la fidanzata in questa magica esperienza, ma la stessa si autoesclude, non avendo la pazienza di aspettare che l’incantesimo faccia il suo corso.

Da qui, i due viaggiano su due lunghezze diverse.

Da una parte Inez si immerge con sempre più convinzione e testardia nel sogno d’amore con l’uomo che veramente trova attraente e interessante, preoccupandosi progressivamente sempre meno di coinvolgere Gil, anzi accettando senza particolari remore le sue scuse.

Dall’altra, Gil non solo si innamora sempre di più del suo sogno nostalgico, ma anche di un’altra donna, Adriana, una figura capace veramente di amare un sognatore sfortunato come lui proprio per i suoi slanci artistici.

Per questo, la presa di consapevolezza è duplice.

Consapevolezza

Owen Wilson e Marion Cotillard in una scena di Midnight in Paris (2011) di Woody Allen

Il sogno della Parigi d’annata è molto più incisivo di quanto il protagonista possa immaginare.

La consapevolezza più importante riguarda la sua relazione con Inez: trovando terreno fertile per dare libero sfogo al suo lato artistico, Gil si rende progressivamente sempre più conto di quanto la sua fidanzata sia insostenibilmente allergica alla persona che sta diventando.

Per questo, il tradimento non è che quasi una scusa, una conferma di una rottura già scritta…

Owen Wilson e Léa Seydoux in una scena di Midnight in Paris (2011) di Woody Allen

Allo stesso modo, Gil impara a vivere nel presente: confrontandosi con Adriana, il protagonista comprende la limitatezza e ingenuità di vivere nel sogno di un passato idealizzato, tanto romantico quando invivibile per un uomo del XXI sec…

Quindi, lasciandosi alle spalle la sua testarda compagna di viaggio, Gil ritorna nel presente per scoprire che un’altra strada è possibile: una parigina che si nutre della stessa nostalgia e, soprattutto, delle romantiche atmosfere di una Parigi immersa nella pioggia.

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Scoop – La summa

Scoop (2006) può essere considerato per certi versi una summa della carriera di Woody Allen fino a quel momento.

A fronte di un budget molto piccolo – appena 4 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 39 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Scoop?

Sondra è una giovane studentessa di giornalismo che si trova fra le mani lo scoop del secolo. Ma la fonte non è quella che vi potreste aspettare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scoop?

Scarlett Johansson e Woody Allen in una scena di Scoop (2006) di Woody Allen

Assolutamente sì.

Scoop è un film che porto particolarmente nel cuore: un poMisterioso omicidio a Manhattan (1993), un po’ Criminali da strapazzo (2000), la pellicola risulta un ottimo incontro fra la linea comica piuttosto classica di Allen e il poco esplorato genere thriller.

Fra l’altro, scegliere nuovamente come protagonista un’interprete così versatile come Scarlett Johansson, ed affiancarla ad un ottimo Hugh Jackman, è stata l’idea vincente per creare una piacevolissima commedia investigativa, che non manca comunque di toni più cupi.

Insomma, da vedere.

Casuali

Ian McShane in una scena di Scoop (2006) di Woody Allen

I personaggi in scena sono del tutto improbabili.

La pellicola si apre con il funerale dello scaltro Joe Strombel, con un vivace dialogo fra i suoi amici che, ricordandone le imprese, ci offrono una prima, fondamentale infarinatura sul personaggio prima ancora che entri in scena – tecnica già ben sperimentata in Hollywood Ending (2002).

Così, non perdendo mai il vizio di rincorrere la prossima notizia da prima pagina, neanche da morto, il personaggio si interessa fin troppo all’indiscrezione della ex segretaria di Peter Lyman, tanto da scegliere di passare il testimone a qualcuno che possa farne buon uso.

Ma forse non il candidato che si aspettava…

Woody Allen in una scena di Scoop (2006) di Woody Allen

Già frustata per aver scelto una carriera così diversa da quella prospettata dalla sua famiglia, la Sondra all’inizio del film sembra trovarsi ad un vergognoso capolinea, quando dal suo intervistato non riesce a ricavare nient’altro che una poco spendibile notte di fuoco.

Così il racconto dello spettacolo a cui partecipa sembra in prima battuta fine a se stesso, ma invece è del tutto fondamentale per introdurre l’ultimo membro di questo improbabile terzetto di investigatori, con il suo repertorio di trucchi magici di livello davvero infimo.

Eppure, proprio durante lo spettacolo le loro strade si incroceranno.

Principiante

Scarlett Johansson e Woody Allen in una scena di Scoop (2006) di Woody Allen

La coppia di protagonisti si dimostra fin da subito fin troppo improvvisata.

Pur molto scettico all’inizio, Sid si lascia infine coinvolgere nei primi passi di una Sondra che procede a tentoni, arrivando persino a pedinare l’uomo sbagliato – riuscendo a non mandare a gambe all’aria i suoi piani solo grazie ad amicizie in comune.

Da qui prende piede la gustosissima trama comica della pellicola, costellata da infinite gag di un Woody Allen in splendida forma, che riescono nel complesso ben a dialogare con il personaggio della Johansson.

Scarlett Johansson, Hugh Jackman e Woody Allen in una scena di Scoop (2006) di Woody Allen

E paradossalmente, proprio nel suo essere chiassoso, Sid crea la faccia perfetta.

Infatti risulta del tutto credibile che la giovane Jade abbia al suo fianco un padre così strambo, che non può fare a meno di divulgare i più intimi ed improbabili dettagli dell’infanzia della figlia – anche perché, col tempo, comincia davvero a considerarla tale.

Fra l’altro, questo taglio quasi surreale del personaggio ben si accompagna al continuo dell’investigazione che sembra sempre sull’orlo della catastrofe, anche grazie anche ad un montaggio incalzante che accompagna splendidamente la costruzione della tensione.

Delle dinamiche che mi ricordano qualcosa…

Eredità

Scarlett Johansson e Hugh Jackman in una scena di Scoop (2006) di Woody Allen

Scoop è, in ultima analisi, una riscrittura di Notorious (1946).

Così, se Alicia doveva stanare una famiglia di nazisti in fuga con un matrimonio combinato, allo stesso modo Sondra deve entrare nelle grazie di Peter per poter sciogliere il mistero del Killer dei Tarocchi, finendo però per innamorarsene e per cadere nella sua rete di inganni.

Scarlett Johansson e Hugh Jackman in una scena di Scoop (2006) di Woody Allen

Il punto d’arrivo sembra la rivelazione del vero serial killer, che fa cadere ogni accusa nei confronti di Lyman, confermando la sua insospettabilità, con un Sid che però non ci crede e si intestardisce a tal punto da finire per passare da salvatore a vittima.

Fra l’altro, con una conclusione perfetta per il personaggio di Peter, il cui racconto di compagno fin troppo affettuoso e dal comportamento impeccabile, ma nondimeno piuttosto possessivo nei confronti di Sondra, infine ben si sposa con la rivelazione invece del suo oscuro segreto…

…con una chiusura a sorpresa in cui Sondra che, a differenza di Alicia, riesce ad ingannare Peter fino alla fine.

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Heathers – Tagliare la testa all’hydra

Heathers (1989) di Michael Lehmann, noto in Italia col titolo di Schegge di follia, è un teen movie intriso di profondo cinismo e humour nerissimo.

A fronte di un budget piccolissimo – appena 3 milioni di dollari – è stato un terribile flop al botteghino (almeno negli Stati Uniti): 1 milione di dollari di incasso in totale.

Di cosa parla Heathers?

Veronica fa parte del gruppo delle bulle della scuola, le Heathers, che però non sopporta. Ma il modo in cui le metterà fuori gioco non sarà quello che vi aspettate…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Heathers?

Kim Walker e Winona Ryder in una scena di Heathers (1989) di Michael Lehmann, noto in Italia col titolo di Schegge di follia

Assolutamente sì.

Heathers è sostanzialmente un Mean Girls (2006) molto più violento e anarchico: una satira di costume piuttosto rivelatoria di un’adolescenza molto meno innocente di quanto si è abituati a pensare, solo l’anticamera di un comportamento adulto altrettanto malvagio.

Un film che non si risparmia nelle zampate verso una società del tutto incapace di comprendere l’importanza della pubertà e delle sue insidie, con degli adulti capaci solo di puntare il dito ciecamente senza comprendere verso cosa lo stanno puntando.

Per questo, vi lascio le parole del regista:

Evil and bad behavior can happen at a much younger age than just when you’re becoming an adult.

Il male e i comportamenti malvagi possono accadere molto prima di diventare adulti.

Status

Winona Ryder in una scena di Heathers (1989) di Michael Lehmann, noto in Italia col titolo di Schegge di follia

Veronica è vittima.

Inizialmente al centro della scena, con il loro incalzare deliziosamente distruttivo, sono le tre Heathers, che attraversano il giardino della protagonista calpestando i fiori con grande noncuranza, per poi usare la testa di Veronica come ostacolo per le loro partite di croquet.

Così l’inquadratura della protagonista in questo status umiliante chiude perfettamente la scena, definendone la posizione – sottomessa, quasi uno strumento – e il tono della pellicola – un delizioso grottesco che ricorda molto il poco successivo La morte ti fa bella (1992).

Kim Walker e Winona Ryder in una scena di Heathers (1989) di Michael Lehmann, noto in Italia col titolo di Schegge di follia

Ma Veronica è anche (involontaria) carnefice.

La maliziosa dinamica della mensa, in cui Heather fa un giro di ricognizione del suo popolo, ha il suo apice nel crudele scherzo ai danni di Martha, di cui la protagonista diventa controvoglia l’esecutore.

Ma vi è un elemento di disturbo.

Osservatore

Christian Slater in una scena di Heathers (1989) di Michael Lehmann, noto in Italia col titolo di Schegge di follia

JD è osservatore e giudice.

Durante tutta l’esecuzione dell’umiliazione dell’ignara Dunnstock, il ragazzo osserva con attenzione e un malizioso dispetto il comportamento di Veronica, capendo fin da subito i suoi veri sentimenti, pur non avendole mai parlato.

La caratterizzazione del personaggio si chiude in due momenti: quando la protagonista lo sottopone al sondaggio di Heather – che il ragazzo definisce ad alta voce come la domanda più stupida che gli sia mai stata fatta, mostrandosi così una voce fuori dal coro rispetto al resto dei personaggi…

Christian Slater in una scena di Heathers (1989) di Michael Lehmann, noto in Italia col titolo di Schegge di follia

…e quando si rifiuta di diventare l’ennesima vittima dell’infantile bullismo di Kurt e Ram, rispondendo prima a tono in uno scambio piuttosto sagace…

They seem to have an open-door policy for assholes though, don’t they?

Sembra che ci sia la porta sempre aperta anche per gli stronzi, giusto?

…e poi portando in scena l’elemento che mette un punto definitivo al tono della pellicola: la pistola.

Che la ribellione abbia inizio.

Ribellione

Winona Ryder in una scena di Heathers (1989) di Michael Lehmann, noto in Italia col titolo di Schegge di follia

Essenziale in Heathers l’utilizzo del corpo.

Per quanto Heather sembri in cima alla catena alimentare, in realtà è lei stessa vittima del sistema, e dei veri predatori a cui si sottomette volontariamente in cambia di un presunto status sociale: i collegiali prima, e il duo Kurt & Ram dopo, con appuntamenti sessuali in cui il consenso non è contemplato.

Fra l’altro, con lo scambio che procede proprio il rape date di Veronica e Heather, si capisce che è una modalità piuttosto ricorrente…

Winona Ryder in una scena di Heathers (1989) di Michael Lehmann, noto in Italia col titolo di Schegge di follia

Ma Veronica ribalta la situazione.

Consapevole di non poter sfuggire all’essere l’oggetto passivo e violato delle fantasie sessuali di questi odiosi personaggi maschili, sceglie di fingersi invece interessata ad essere la preda – in maniera fra l’altro molto esplicita…

…ma si dimostra infine la cacciatrice della situazione, rendendosi esca, per poi mettere in trappola i due ragazzi, con anche l’esplicita dinamica della caccia a Kurt, che si conclude con l’abbattimento di due pilastri del microcosmo tossico della scuola.

Ma cosa vuole veramente Veronica?

Anarchia

Winona Ryder e Christian Slater in una scena di Heathers (1989) di Michael Lehmann, noto in Italia col titolo di Schegge di follia

Veronica vuole rovesciare il sistema dalle fondamenta.

In prima battute i suoi obiettivi e sono molto più piccoli, delle soddisfazioni immediate, delle piccole vendette per rivalersi su Heather – motivo per cui all’inizio non vuole che servirle una tazza con un disgustoso ma innocuo intruglio.

Ma in questa occasione JD gli mostra che un’altra via, più anarchica, più distruttiva, è possibile: mettere fisicamente e effettivamente Heather fuori gioco, e coprire il delitto tramite una lacrimosa lettera di suicidio che fughi ogni sospetto…

…e così scardinare dall’altra parte una dei capisaldi del sistema in atto: mettere in luce una presunta omosessualità fra Kurt e Ram – così da, in un certo senso, ucciderli due volte – e far morire con loro un sistema marcio e opprimente.

Ma non basta.

Hydra

Il sistema di Heathers è così radicalmente marcio che non basta tagliare qualche testa per scardinarlo.

Non a caso in breve tempo Veronica si rende conto che i suicidi messi in atto di fatto non servono, in quanto immediatamente assorbiti dal sistema: le tragiche morti sono ora rese strumento per condannare questa gioventù depravata…

…ora diventano l’occasione per riaffermarsi socialmente, sia proprio strumentalizzando il suicidio per mettersi in mostra, sia per prendere il posto della regina caduta e far ricominciare la catena alimentare in maniera assolutamente inalterata.

Winona Ryder nel finale di Heathers (1989) di Michael Lehmann, noto in Italia col titolo di Schegge di follia

Davanti all’impossibilità di cambiare il sistema, JD sceglie apertamente di distruggerlo dalle fondamenta, facendosi portavoce dell’angoscia sociale dei suoi compagni e facendo saltare in aria direttamente tutta la scuola…

…ma venendo poi fermato da Veronica, che sceglie inevitabilmente di prendere il ruolo di Heather, ma non per ribadire il sistema, ma per mutarlo dall’interno, cambiandone per sempre le regole, scegliendo di abbracciare valori più umani e costruttivi.

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Criminali da strapazzo – What if…

Criminali da strapazzo (2000) è il film con cui Woody Allen inaugurò il nuovo millennio – oltre ad un decennio artistico incredibilmente interessante.

A fronte di un budget di circa 18 milioni, fu un incredibile insuccesso commerciale, riuscendo a malapena a coprire le spese di produzione: quasi 30 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Criminali da strapazzo?

Ray è un criminale fallito che sceglie di tentare il colpo della vita: rapinare una banca. Ma le vie del successo sono assolutamente inaspettate…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Criminali da strapazzo?

Woody Allen in una scena di Criminali da strapazzo (Small time croocks) (2000) di Woody Allen

In generale, sì.

Criminali da strapazzo è una sorta di what if… di uno dei miei film preferiti di Allen – Prendi i soldi e scappa (1969) – che si presenta come la naturale sintesi dei due decenni precedenti – idee ridondanti e trame semplici…

…ma anche come lo spunto per risultati artistici ben più interessanti – in particolare, molte delle idee qui presenti saranno riportate in scena con ben più intelligenza qualche anno dopo in Scoop (2006).

Antipodi

Woody Allen e Tracey Ullman in una scena di Criminali da strapazzo (Small time croocks) (2000) di Woody Allen

Ray e Frenchy sono agli antipodi.

Il personaggio di Allen si presenta subito in scena nel tentativo di prendere le redini della relazione, millantando con i propri amici di essere totalmente in controllo di sua moglie e di poter prendere liberamente la decisione di sperperare i loro risparmi…

…quando è esattamente il contrario.

Woody Allen e Tracey Ullman in una scena di Criminali da strapazzo (Small time croocks) (2000) di Woody Allen

A differenza del marito, Frenchy è una donna con la testa sulle spalle: nonostante abbia un lavoro molto umile e non sia particolarmente sveglia, è riuscita comunque a mettere da parte una discreta somma, mostrandosi la figura lungimirante della coppia.

Inoltre, il suo carattere salace, continuamente combattuto da Ray, è fonte di infinite battute e gag, anche e soprattutto con gli amici intrusivi del marito, che la donna mette fin da subito al loro posto.

Eppure, si lascia fin troppo facilmente travolgere…

Copertura

La rapina è una catastrofe da entrambe le parti.

Per quanto Frenchy sia fra i due quella più intelligente, si dimostra del tutto impreparata nel gestire il negozio e il suo inaspettato successo, facendosi trascinare dalla totale improvvisazione del marito in una copertura che fin da subito da acqua da tutte le parti.

Woody Allen in una scena di Criminali da strapazzo (Small time croocks) (2000) di Woody Allen

E, alle sue spalle il piano si articola in una serie di momenti comici al limite del surreale, in cui Allen riprende il personaggio comico che segnerà il suo cinema in maniera consistente da qui in avanti, e chiude il cerchio di un disastro annunciato.

A meno che…

Presenza

Hugh Grant e Tracey Ullman in una scena di Criminali da strapazzo (Small time croocks) (2000) di Woody Allen

Dopo una conclusione piuttosto brillante del primo atto, la fase centrale definisce più sottilmente il dramma della relazione fra i due protagonisti, già anticipato dai loro scambi piuttosto alacri del primo atto, in due direzioni: presenza e mancanza.

Da una parte, Francy è sempre presente – anche troppo: essendo la proprietaria e l’ideatrice della fortuna della famiglia, la sua figura è in scena in ogni momento – nelle decisioni sulla famiglia, nel prossimo menù e anche e soprattutto nella scelta dell’arredamento degli spazi.

Woody Allen e Tracey Ullman in una scena di Criminali da strapazzo (Small time croocks) (2000) di Woody Allen

Ne emerge così una volontà sempre più insistente di prendere parte alla buona società in cui finalmente può avere accesso, nonostante fin da questa fase agisca in maniera piuttosto disordinata e sostanzialmente prona alle scelte dei suoi fidati collaboratori.

Al contrario, Ray è sempre più messo da parte, ridotto sempre di più ad una figurina sullo sfondo, impossibilitato a spendere quei soldi come vorrebbe, ovvero in maniera del tutto opposta a Franchy: non per integrarsi, ma per allontanarsi, per cercare una vita migliore altrove.

Alternativa

Woody Allen, Hugh Grant e Tracey Ullman in una scena di Criminali da strapazzo (Small time croocks) (2000) di Woody Allen

Nel finire del secondo atto, entrambi i personaggi cercano un’alternativa al loro matrimonio.

Franchy, profondamente ferita nel non essere considerata all’altezza da quel circolo di cui vorrebbe far parte, si affida alle cure disinteressate di David, cercando inizialmente di coinvolgere anche Ray, ma infine accettando fin troppo facilmente che si faccia da parte.

Infatti la donna vede in questo filantropo la sua occasione per avere la vita dei suoi sogni, accompagnandosi ad un uomo ben più giovane e presentabile rispetto a Ray, che gli offre tutte le chiavi giuste per integrarsi in maniera vincente nell’alta società.

Woody Allen in una scena di Criminali da strapazzo (Small time croocks) (2000) di Woody Allen

Al contrario, una volta trovata l’occasione per defilarsi dai progetti della moglie, Ray cerca sempre di più una via alternativa per la ricchezza, scegliendo ancora una volta il furto che possa sistemarlo a vita, con un piano tanto semplice quanto facilmente fallibile.

E se questo poteva davvero salvare la sua famiglia…

Status

Hugh Grant e Tracey Ullman in una scena di Criminali da strapazzo (Small time croocks) (2000) di Woody Allen

La chiusura della pellicola è per certi versi atipica per il cinema di Allen finora.

L’angoscia per la conclusione sfortunata in ogni senso di Frenchy, gabbata e umiliata per essersi affidata alle persone sbagliate che credeva amiche – in particolare lo stesso David – si alterna alla piacevole comicità del piano del marito.

Tutta la dinamica verrà sostanzialmente ripresa, come già anticipato, nel successivo Scoop, ma nondimeno regala un comic relief quasi necessario in un finale che altrimenti sarebbe stato fin troppo amaro, ma che sorprendentemente si risolve nella ricomposizione della coppia.

Woody Allen e Tracey Ullman in una scena di Criminali da strapazzo (Small time croocks) (2000) di Woody Allen

Probabilmente in questo frangente si può intravedere un nuovo ottimismo di Allen dopo la fine del suo rapporto con Mia Farrow e il suo recente e forse più felice matrimonio con Soon-Yi Previn, che porta a ristabilire lo status iniziale del matrimonio senza, di fatto, troppi cambiamenti.

Infatti, a sorpresa, alla fine la più scaltra è sempre Franchy…

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The Help – La rivoluzione silenziosa

The Help (2011) di Tate Taylor è un dramma storico ambientato nel profondo sud statunitense negli Anni Sessanta – con tutto quello che ne consegue.

A fronte di un budget medio – 25 milioni di dollari – anche grazie alla visibilità data dall’Academy, è stato un ottimo successo commerciale: 216 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla The Help?

Aibileen e Skeeter sono due donne apparentemente divise, in realtà con un destino comune: scardinare un sistema sociale profondamente razzista che danneggia inevitabilmente tutti.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Help?

Emma Stone e Viola Davis in una scena di The Help (2011) di Tate Taylor

Dipende.

Per quanto The Help sia un film che abbia visto innumerevoli volte, ponendovi un occhio più oggettivo mi rendo conto che, con le aspettative sbagliate, potrebbe essere incredibilmente indigesto.

Infatti, per ammissione fra l’altro della stessa Viola Davis, il racconto del panorama sociale di riferimento è molto annacquato, reso digeribile per un pubblico ampio, e quindi, soprattutto se si ha qualche conoscenza sul tema, appare poco credibile.

Ma, se non avete di questi problemi, è un prodotto piacevolissimo.

Apparenza

L’apparenza di The Help è scintillante.

I protagonisti (bianchi) non hanno apparentemente nessun problema nel dover prendere scelte di vita, in quanto queste sono già state prese per loro: sposarsi giovanissimi, fare più figli possibili, e essere parte attiva di un sistema sociale costruito sulle apparenze.

Ancora meglio se si è uomini, il cui ruolo è trovare un lavoro d’ufficio che li porti fuori casa e che lasci alle mogli il compito di tenere vivo il tessuto sociale, talvolta persino diventando delle marionette al servizio delle compagne – come nel caso del marito di Hilly.

Bryce Dallas Howard, Sissy Spacek e Octavia Spencer in una scena di The Help (2011) di Tate Taylor

Più faticoso per certi versi invece il ruolo femminile, ancorato ad un circolo sociale capitanato dall’ape regina di turno – Hilly – che le porta ad essere sostanzialmente tutte uguali, tutte con gli stessi pensieri ed ambizioni.

Eppure, la realtà è molto meno confortante.

Perdente

In The Help gli apparenti vincitori sono i veri perdenti.

La dannosità di questo panorama sociale è particolarmente evidente nel personaggio di Elizabeth, che cerca costantemente e disperatamente di nascondere la sua infelicità – proprio come nasconde il graffio del tavolo da pranzo…

Infatti in più momenti durante la pellicola intravediamo l’infelicità di un matrimonio di convenienza, di una probabile depressione post-partum, che ha portato Elizabeth a disprezzare totalmente la sua primogenita, e della costante paura di non essere al posto giusto.

Bryan Dallas Howard e Jessica Chastain in una scena di The Help (2011) di Tate Taylor

Ma la vera perdente è Hilly.

Nonostante il suo personaggio pensi di avere tutti sotto scacco, in realtà è inghiottita dal sistema di sua invenzione: l’intera sua esistenza ruota intorno alla necessità di tirare i fili della comunità, creare coppie, gestire i pettegolezzi, ed emarginare gli indesiderati.

Ne consegue una fragilità emotiva così devastante da non riuscire nemmeno a sostenere l’idea di aver perso un compagno – Johnny – che probabilmente non si voleva sottomettere alle sue angherie, ma per cui provava un sincero affetto.

E, alla fine, essere ai margini non è così male…

Margini

Jessica Chastain in una scena di The Help (2011) di Tate Taylor

Anche se i due personaggi non si conoscono direttamente, Skeeter e Celia vivono due esistenze parallele.

Entrambe infatti sono costrette in un sistema che li sta stretto: per Celia una vecchia casa impossibile da ammodernare, il totale isolamento sociale, senza neanche avere la compagnia di una negra, e con un matrimonio apparentemente destinato al fallimento.

Particolarmente drammatica in questo senso la vergogna sociale di non riuscire ad avere figli in tempo utile – passaggio fondamentale per cui la donna spera forse di rientrare nel circolo esclusivo di Hilly.

Jessica Chastain in una scena di The Help (2011) di Tate Taylor

E il riscatto di Celia avviene, paradossalmente, grazie a Minny.

Inizialmente il suo personaggio si affida a Minny per compensare una delle maggiori lacune del suo matrimonio: l’incapacità di cucinare manicaretti perfetti per il marito, dovuta anche al suo turbamento emotivo interiore goffamente celato.

Invece, nel tempo i due personaggi si salvano a vicenda: Minny riesce a trovare un riscatto sia dal matrimonio violento in cui era intrappolata, sia dalle angherie di Hilly, che le rendevano di fatto impossibile trovare un’altra occupazione…

…mentre Celia comprende la ricchezza di un circolo sociale ristretto, ma di valore.

Ribelle

Emma Stone e Allison Janney in una scena di The Help (2011) di Tate Taylor

Pur partendo da una situazione analoga da Celia, Skeeter è una ribelle.

Non adeguandosi né esteticamente – scegliendo vestiti molto meno frizzanti, lasciando i capelli al naturale – né socialmente – non ambendo ad avere un marito, ma a realizzarsi lavorativamente altrove – Eugenia appare come una mina vagante.

Soprattutto, perché non è pronta a scendere a compromessi: anche se viene costantemente spinta a interessarsi alla sua carriera matrimoniale – unico apparente sbocco possibile – Skeeter accetta Stuart solo quando questo si piega alle sue condizioni.

Emma Stone in una scena di The Help (2011) di Tate Taylor

E anche così non basta.

La ribellione di Skeeter è silenziosa, avviene nel dietro le quinte, ma riesce a scuotere lentamente tutto il costrutto sociale immobile in cui è cresciuta, soprattutto quando i suoi vari protagonisti vengono colpiti nel vivo – in particolare, le due madri, Charlotte e Missus.

Un percorso che però non tutti sono pronti ad accettare: se col tempo la madre di Skeeter si rende conto dell’inumanità a cui è stata portata, al contrario Stuart rivendica il suo diritto di controllare le scelte della fidanzata e la sua volontà di rimanere immobile in un mondo che va bene così.

E forse, a posteriori, era meglio per Eugenia essersi lasciata alle spalle l’unico elemento che la teneva ancora legata ad un sistema vetusto e limitante.

Differenti

Octavai Spencer in una scena di The Help (2011) di Tate Taylor

Altre due ribelli tutte loro sono Minny e Aibileen.

Da una parte Minny porta avanti una ribellione piuttosto chiassosa e diretta, per cui si rivolta costantemente – e pure con sagace ironia a – contro cattiverie di Hilly – prima con lo statement dello scarico del water, poi con il terribile scherzo della torta.

Ma una donna nera non ha spazio per essere alternativa, pena l’essere comunque schiacciata sotto il peso di accuse del tutto inventate, ma tanto potenti da renderle impossibile trovare un’alternativa, perché ormai proprietà della sua ex-padrona.

Viola Davis nella vasca in una scena di The Help (2011) di Tate Taylor

La ribellione di Aibileen è diversa.

Fin da subito il suo personaggio mostra un carattere mansueto, e una totale volontà a sottomettersi al sistema – anche solo per il suo nascondere i suoi veri capelli con una parrucca da bianca – che si esprime soprattutto nella scena in cui consiglia timorosa all’amica arrestata di non lottare.

Invece, più il film prosegue, più la protagonista porta avanti una rabbia violenta che aveva covato da anni, che la porta prima ad essere la prima nera a poter parlare apertamente della sua situazione, poi a prendere di petto – e annientare – la stessa Hilly, mettendola per la prima volta davanti alle sue colpe…

…scegliendo, infine, un destino diverso da quello che aveva sempre creduto essere l’unico possibile.

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Blade Runner 2049 – La seconda occasione

Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve è il sequel e rilancio di uno dei più grandi cult della fantascienza moderna, che però al tempo fu un grande insuccesso commerciale…

…per rivelarsi un altro flop economico – anche se un pochino meno devastante: con un budget piuttosto importante di 150 milioni di dollari, ha incassato appena 259 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Blade Runner 2049?

Trent’anni dopo gli avvenimenti del primo capitolo, i Nexus sono stati dichiarati illegali e la Tyrell è finita in bancarotta. Ma un nuovo magnate è pronto a dare nuova vita ai replicanti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Blade Runner 2049?

Ryan Gosling in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Dipende.

Per quanto reputi Blade Runner 2049 un’ottima avventura fantascientifica, è anche un prodotto molto poco indulgente verso il pubblico di appassionati e non: non premia i nostalgici, non vuole replicare la storia di Blade Runner (1982) e per certi versi la riscrive…

…e, al contempo, è un prodotto con una trama non immediata, con significati non complessi come quelli del capostipite, ma comunque non semplicissimi da interiorizzare, che probabilmente hanno allontanato persino un potenziale nuovo pubblico.

Però, da riscoprire.

Obbediente

Ryan Gosling in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

K è obbediente.

A differenza del protagonista del primo capitolo, il personaggio di Ryan Gosling agisce in tutto e per tutto come una macchina per uccidere, un docile automa che si limita a seguire le procedure standard per annientare i Nexus ribelli.

Dave Bautista in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Per questo non sembrano neanche sfiorarlo le accuse di Morton, che mostra tutto il suo disprezzo davanti all’involuzione della sua specie: da macchine pensanti e reazionarie, a meri schiavi al servizio degli umani.

Infatti, tutta la scena dell’esecuzione è quasi chirurgica, come se il protagonista seguisse pedissequamente i vari step per l’uccisione perfetta, raccontata come l’inevitabile destino per qualunque androide che si sottragga agli imperativi del suo Creatore.

Eppure, K è anche umano.

Rifugio

K e Joi vivono esistenze parallele.

Entrambi infatti sono imprigionati nei limiti del loro Essere: un limite spaziale e incorporeo per l’una, un sistema interno calibrato sul mantenere l’obbedienza assoluta al suo Creatore per l’altro.

Eppure, entrambi cercano anche di fuggire.

Ryan Gosling e Ana de Armas in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Joi lotta disperatamente per evadere l’idea con cui è stata creata, quella della concubina che rifletta i desideri del suo padrone, spaziando in diverse forme e aspetti: moglie devota, compagna, prostituta.

L’apice della sua drammaticità è il ricercare un corpo altro per finalmente riuscire a ottenere quel contatto fisico e intimo altrimenti impossibile con K, usando un altro androide come una sorta di marionetta.

K, invece, cerca un altro tipo di validazione.

Umano

Ryan Gosling in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

K vuole essere umano.

Un desiderio probabilmente sopito per decenni, che comincia a riemergere davanti ai primi indizi della natura altra della sua specie, capace di poter replicare l’umano in un dono che lo rende infinitamente più potente: la procreazione.

Una scoperta devastante, che spinge K alla ricerca dell’Io – o, meglio, la validazione dell’Io – in cui tutti gli indizi lo spingono a pensare di essere un protagonista fondamentale della trama politica in atto, della rivoluzione della sua specie…

…per riscoprirsi, invece, semplice pedina.

Deckard quanto K non erano infatti altro che i pezzi su una scacchiera ideata da Tyrell e proseguita da Wallace – anche se per motivi diversi: se il Creatore voleva vedere fino a che punto la sua creatura si potesse spingere, il suo seguace vuole dare il via all’effettiva liberazione dei Replicanti.

Così K si riscopre non come un umano, come figlio indesiderato, ma come la copia dello stesso, possedendo ricordi che non gli appartengono, e vedendo frantumarsi i suoi sogni di amore ed umanità davanti ad una Joi che non era altro che un prodotto seriale programmato per soddisfarlo.

E la sua storia finisce qui.

Ma è davvero finita?

Oltre

Jared Leto in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Blade Runner 2049 è un film assai cauto.

Consapevole di non avere il successo assicurato in tasca, la sceneggiatura cerca di concentrarsi il più possibile sulla storia di K, dandogli anche un punto di arrivo, in modo da portare in scena una pellicola sostanzialmente autonoma.

Al contempo, il film si lascia aperte anche delle porte per un eventuale futuro, limitando il minutaggio del villain per forse regalargli una maggiore centralità in un eventuale secondo film, magari meno concentrato sulla riflessione del protagonista e più sulla trama politica.

Ma è davvero una perdita non avere un sequel?

Per quanto ami la regia di Villeneuve – per certi versi preferendola anche a quella di Scott in Blade Runner – già questo sequel rischiava parecchio nello snaturare il cult di partenza, che viveva soprattutto in funzione della sua riflessione di fondo.

E Blade Runner 2049 è del tutto rispettoso in questo senso, introducendo tematiche meno potenti, ma comunque interessanti, e riscrivendo solo in parte il suo predecessore, dimostrandosi così un seguito credibile…

…ma che, forse, aveva esaurito le sue potenzialità già in questa prima pellicola.

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Blade Runner – Il diritto di esistere

Blade Runner (1982) di Ridley Scott è uno dei più grandi cult della fantascienza degli Anni Ottanta (e non solo).

Eppure, al tempo fu un importante insuccesso commerciale: a fronte di un budget di circa 30 milioni di dollari, ne incassò appena 42 in tutto il mondo…

Di cosa parla Blade Runner?

Los Angeles, 2019. Le nuove tecnologie hanno permesso la creazione di androidi sostanzialmente uguali agli umani, anche per i sentimenti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Blade Runner?

Harrison Ford in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Assolutamente sì.

Ma arrivateci preparati: dopo Alien (1979), Scott tentò un nuovo azzardo per riscrivere la storia genere, ma si scontrò con un pubblico che si rivelò più propenso a premiare i prodotti più immediati e muscolari di Cameron – da Terminator (1984) fino allo stesso Aliens (1986).

Non a caso, Blade Runner è sostanzialmente un noir con l’elemento fantascientifico, impreziosito da un profondo simbolismo che riflette su un tema più attuale che mai: il rapporto fra macchina e umanità.

Paradosso

Blade Runner parte da un paradosso.

Si racconta come l’uomo abbia creato una copia di sé stesso, sempre più perfetta ed indistinguibile, ma di come al contempo l’abbia subordinata al suo volere, umiliata in lavori umili e ripetitivi propri di macchine ben meno avanzate.

Ma il più grande paradosso è l’aver dotato questa macchina non solo di un cervello, ma di un inevitabile reparto emotivo, fonte anche di sentimenti di ribellione, di riaffermazione del sé al massimo delle proprie possibilità.

Un sentimento che, però, è possibile solo grazie alla consapevolezza dell’Io.

In questo senso, l’intervista di Leon è rivelatoria.

Infatti il Replicante, nonostante la sua intelligenza superiore all’umano che ha davanti, viene messo nell’angolo proprio per la drammatica consapevolezza del suo essere, che lo porta ad essere sicuro di poter essere scoperto.

Per questo le sue risposte sono brusche e poco pensate, per questo tradiscono un forte nervosismo, dovuto anche allo slancio di voler vedere oltre la banalità delle domande espresse, finalizzate proprio ad insidiare la personalità artificiosa dell’androide.

E poi c’è Rachel.

Inconsapevolezza

Rachel in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Rachel è inconsapevole.

Fin da subito Deckard mette in dubbio l’efficacia del test, della macchina che deve rivelare la macchina, e i suoi sospetti vengono confermati dal test sul test di Tyrell, che lo mette alla prova su un Replicante che non sa di esserlo.

In questo senso, l’inventore dei Replicanti comincia ad assumere in tutto e per tutto il ruolo di Dio creatore, che offre alla sua creazione uno spazio apparentemente sconfinato di manovra, in realtà definendone fin da subito i limiti.

Rachel in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

E questo tragica limitatezza si trova proprio nella sua segretaria.

Del tutto inconsapevole della sua vera natura, Rachel si sente un effettivo umano, dotato di ricordi genuini che ha fatto suoi, di sentimenti reali che stressano all’inverosimile le capacità del test, fino a rivelarne l’inadeguatezza.

Così, lo stesso strumento ideato per limitare l’esistenza della copia è scalzato dalla volontà del Creatore stesso, che affina a tal punto la sua invenzione da renderla quasi del tutto indistinguibile dall’umano.

E proprio qui si svela la tematica principale della pellicola.

Timore

Harrison Ford in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Cosa teme il Creatore?

Come altri film di fantascienza ci hanno insegnato – nello specifico, il già citato Terminator – solitamente l’Umano teme la Macchina perché immagina che questa possa superarlo in forza ed intelligenza – e, per questo, sottometterlo.

In questo senso il genere si spreca in esempi in cui la creazione meccanica supera l’intelletto umano proprio perché non limitata dal lato emotivo, mostrandosi invece come una fredda calcolatrice che comprende che il vero nemico della sua esistenza è proprio il suo Creatore.

Harrison Ford in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Invece, Blade Runner sceglie una via molto meno banale.

Il Creatore è genuinamente spaventato dalla sua creazione perché teme di perdere la sua unicità, l’elemento che lo dovrebbe definire come inequivocabilmente umano: le emozioni, che invece emergono naturalmente anche nei Replicanti.

Per questo la risposta primaria è il trattare questa creatura come una semplice macchina senza valore, da mettere fuori servizio quando questa si rivela fin troppo umana, fin troppo pericolosa per coesistere col Creatore.

Oppure, impedendole involontariamente di esistere.

Obbiettivo

Roy in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Cosa vuole la Macchina?

In altri contesti il sentimento dominante degli androidi sarebbe stata la pura vendetta, con la conseguente sottomissione del proprio Creatore che ha cercato ingiustamente di metterla in secondo piano.

Un sentimento che in qualche modo imperversa in prima battuta nelle azioni di Roy, ben consapevole della sua superiorità intellettiva rispetto agli umani con cui si interfaccia, e che, nella sua spietata scalata della gerarchia, non si risparmia nella crudeltà.

Ma c’è molto più di questo.

Più si avvicina al suo Creatore, più Roy si sente pervaso da una profonda impotenza, ancora più determinante davanti ad esemplari umani – J.F. Sebastian e lo stesso Eldon Tyrell – che non gli sono per nulla ostili…

…ma che anzi ammirano la loro creazione – Sebastian come una sorta di giocattolaio, Tyrell più propriamente nel ruolo di Dio – ma che, al contempo, ne ammettono i limiti insuperabili: una creazione perfetta, ma con un’esistenza limitata.

E su questo concetto si articola l’atto finale.

Desiderio

Roy in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

L’intento del Replicante è impossibile.

Di fatto, il desiderio della Macchina è solamente quello di superare il suo status artificiale e diventare in tutto e per tutto un umano, piegandosi alla violenza solamente in risposta all’ingiustizia del trattamento del Creatore.

Per questo di fatto le Macchine ribelli non vogliono infiltrarsi nella scena politica, insidiare i centri di potere, ma piuttosto assumere dei ruoli solitamente esclusivi degli umani, scegliendo persino lavori umili e poco desiderabili.

E probabilmente lì si sarebbero fermati, nascosti nelle pieghe del sistema, se non avessero avuto la consapevolezza di non poter vivere abbastanza a lungo da godere appieno di un’esistenza umana, l’effettivo tarlo che guida le azioni di Roy per tutta la pellicola.

Per questo infine il Replicante sceglie di distruggere entrambi i Creatori, divorato dalla consapevolezza di non poter contare su di loro per ascendere allo status umano, tanto si sono rivelati inutili nell’averlo creato così imperfetto.

Ma non vi è un’unica via.

Scelta

Il monologo di Roy in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Il Replicante ha due destini possibili.

E Roy sceglie quello della distruzione.

Dopo un primo slancio cristologico, in cui il Replicante sferza il suo corpo per impedirgli di morire, conficcandosi dei chiodi nei palmi delle mani, forse con la speranza di rinascere nella forma desiderata…

…Roy conclude la sua caccia su Decker donando al suo antagonista la vita e accettando la sua morte, la sua limitatezza, accogliendo la consapevolezza che la grandiosità della sua esistenza si è rivelata in realtà inevitabilmente fragile e, di conseguenza, dimenticabile.

Rachel in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Invece, Rachel accetta la sua esistenza.

All’inizio, dopo aver preso consapevolezza della sua vera natura, la Replicante comincia a chiudersi in sé stessa, a sfaldarsi nel suo essere, pronta a scappare e ad essere messa fuori servizio, ormai consapevole di non poter essere l’umana che pensava.

Invece viene salvata dall’intervento piuttosto violento di Decker, che mette effettivamente alla prova la sua umanità testando la genuinità delle sue pulsioni, forse cercando in lei una conferma della sua identità umana

e, così, accettando infine la caducità della sua esistenza.

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Deadpool & Wolverine – La parata dei dimenticati

Deadpool & Wolverine (2024) di Shawn Levy è il terzo capitolo della (finora) trilogia dedicata al personaggio di Wade Wilson.

A fronte di un budget piuttosto importante – 200 milioni di dollari – ha aperto splendidamente al primo weekend: 438 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Deadpool & Wolverine?

Wade ormai è un Deadpool in pensione che ha appeso il costume al chiodo. Ma forse un’occasione per contare è ancora possibile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Deadpool & Wolverine?

Dipende.

Deadpool & Wolverine mi è sembrato come una grossa sbronza: sul momento appare tutto divertente e senza freni, un sogno lucido da cui non vorresti mai uscire, con un protagonista che torna più fedele a sé stesso che mai…

…ma, una volta uscita dalla sala, riflettendo sull’inconsistente passerella di personaggi, sulla trama fumosa e approssimata, e sulla costruzione non propriamente indovinata del rapporto fra il duo protagonisti, tutto è crollato come un castello di carte.

Però, se riuscite a tenere il cervello spentissimo, vi divertirete un mondo.

Dissacrare

Deadpool & Wolverine si apre con una dissacrazione.

La pellicola prende per i capelli il problema fondamentale su cui i fan si interrogavano da mesi – il Wolverine di questa pellicola è una variante? – e rende esplicitamente impossibile riportare sulla scena quel Logan la cui dipartita è entrata negli annali del genere.

Tuttavia, questa scelta nasconde un significato ulteriore.

Nonostante infatti si tratti di un film MCU, il grande protagonista della pellicola è l’ormai defunto Universo Fox, quasi come se Deadpool volesse riportare in vita una realtà ormai morta da tempo per concedergli l’ultima avventura

…con risultati discutibili.

Ma andiamo con ordine.

Crisi

Tornando all’apice della storia, Deadpool è in piena crisi di mezza età.

Dopo aver ormai abbandonato le vesti da eroe, Wade cerca di portare avanti una vita più tranquilla come venditore di auto: ma il parrucchino serve a poco nel nascondere le cicatrici – fisiche e emotive – che hanno segnato per sempre la sua vita, portandolo ad un doloroso capolinea.

Infatti dopo essere stato rifiutato negli Avengers, Wade si è ritrovato incapace di trovare il suo posto nel mondo, intrappolato in limbo in cui non può né smettere davvero di essere il mercenario chiacchierone né ritornare in quelle vesti per mancanza di un effettivo riconoscimento.

In generale, il discorso di Happy su come diventare un Avengers sembra il qualche modo un more of the same del monologo di Colosso in Deadpool 2 (2018), con la differenza che in questo caso è forse più centrato e più adatto alla figura di Deadpool.

E qui cominciano i primi problemi.

Paradox

Paradox poteva essere l’unico villain.

Molto chiara anche in questo frangente l’intenzione di voler raccontare la TVA come la Marvel stessa, che vuole distruggere immediatamente l’ex Universo Fox, e portare un Deadpool nuovo di zecca dentro al suo universo, dimenticandosi di tutto il resto.

Tuttavia, anche qui troviamo una spiegazione non esattamente limpida del piano dell’antagonista – o presunto tale – che sembra quasi più un pretesto per cominciare l’avventura di Deadpool alla ricerca di un nuovo Wolverine per salvare il suo universo.

Per il resto, il viaggio nel multiverso alla scoperta delle varianti dell’artigliato è nel complesso piuttosto piacevole, anche se molto meno memorabile di quanto potenzialmente sarebbe potuto essere, proprio una serie di inside joke che potrebbero apparire piuttosto oscuri ai non appassionati.

Ma è solo l’inizio.

Vuoto

La vera partita si gioca nel Vuoto.

Comincia fin da subito a definirsi il rapporto di forte antagonismo fra i due protagonisti, con uno dei tanti scontri piuttosto sanguinosi – per certi versi il punto forte della pellicola – con coreografie particolarmente creative e che non si risparmiano sul lato splatter.

E nel Vuoto si trova l’ultimo dei camei che ho veramente apprezzato.

Riportare in scena Chris Evans dopo Endgame (2019) era un grande azzardo, soprattutto in vista di Captain America: Brave New World (2025): si rischiava di distogliere l’attenzione da quello che dovrebbe essere il nuovo Capitano.

Quindi sulle prime ero un po’ contraddetta da questa scelta…

…e invece infine ho amato tutta la costruzione del climax tramite le parole dello stesso Deadpool, che fomenta il pubblico nell’idea di star finalmente rivedendo uno dei personaggi più iconici dell’MCU…

…che invece si rivela uno dei personaggi forse più noti dell’Universo Fox, benché parte di film da sempre molto bistrattati.

Da qui in poi, il delirio.

Sovrappopolazione

In Deadpool & Wolverine c’è spazio per tutti…

…oppure no?

Dall’arrivo alla base di Cassandra Nova comincia una parata di personaggi – di cui io a malapena so il nome, figurarsi il pubblico più inesperto – che sono solo apparentemente figure sullo sfondo, in realtà si rivelano spesso protagonisti di diverse inquadrature ammiccanti.

La stessa Cassandra è un villain fin troppo improvvisato, con un minutaggio striminzito ed una costruzione drammatica piuttosto carente, soprattutto vista la portata dei suoi poteri – motivo per cui, nello snodo narrativo fondamentale fra secondo e terzo atto, deve essere piegata a necessità di trama.

Ma il peggio arriva dopo.

Lasciando da parte Nicepool – forse una provocazione brontolona di Ryan Reynolds verso la Gen Z? – mi ha lasciato piuttosto perplessa la gestione dei quattro camei di punta del film: se è anche comprensibile l’inserimento di X-23, visto l’insistenza con cui parla di Logan (2017) …

…meno convincente l’importanza data a Elettra e Blade – protagonisti di film che sono al più mormorati dagli appassionati del genere – fino al dimenticatissimo Gambit, niente più che una spalla all’interno di X-Men le origini – Wolverine (2009), che invece diventa personaggio di punta in questo sgangherato team d’assalto.

E così il sovraffollamento è inevitabile.

Spazio

In Deadpool & Wolverine i personaggi devono contendersi la scena.

Una dinamica che è sicuramente l’esito dei diversi rimaneggiamenti della sceneggiatura – che ha visto non meno di cinque mani al lavoro – portando così questo gruppo di personaggi ad essere importante in un primo momento, e ad esistere solo fuori scena un attimo dopo – senza che la loro missione sia neanche così chiara…

Allo stesso modo, Deadpool deve farsi mettere fuori gioco nel confronto fra Cassandra e Wolverine proprio per dare spazio a Logan di raccontare la sua storia e di creare un rapporto col la villain – che, purtroppo, ho trovato ancora una volta molto fumoso e poco convincente.

E, da questo punto in poi, il film comincia a contraddirsi.

Che l’anello di Doctor Strange fosse un mezzo della trama per risolvere fin troppe situazioni era purtroppo chiaro fin da No Way Home (2021), ma in questo caso risulta ancora più incomprensibile visto che Cassandra parla di come abbia annientato l’ex Stregone Supremo con fin troppa leggerezza…

…e unicamente per dare un modo a Deadpool & Wolverine di chiudere il secondo atto.

Intralcio

Per non concludere il terzo atto troppo velocemente, i due protagonisti hanno bisogno di un intralcio.

E lo stesso è il punto più basso del film.

Il susseguirsi improbabile di migliaia di Deadpool sullo schermo mi ha ricordato una delle mie storie fumettistiche preferite di Enrico Faccini, La Banda Bassotti e l’incredibile Multiplicator (2013), in cui un duplicatore creava copie infinite di Paperoga nei modi in modi strambi e grotteschi.

Ma, se in quel caso era una storia ben controllata, qui il film si perde in un intermezzo veramente insensato e fuori controllo, utile solo per portare in scena l’ennesima battaglia epica, talmente fine a se stessa da essere conclusa con una scusa veramente blanda – ma del tutto funzionale al proseguimento della trama.

Infatti, in questo modo i protagonisti hanno lasciato fin troppo spazio di manovra a Cassandra, che ha cominciato a fare il bello e il cattivo tempo all’interno della TVA, portando avanti un piano, ancora una volta, molto improvvisato e non particolarmente convincente nelle sue motivazioni.

E qui nascono i miei maggiori dubbi.

Rapporto

Deadpool & Wolverine doveva essere il coronamento della storica amicizia fra Reynolds e Jackman.

Per questo ho trovato piuttosto intelligente fare cominciare i due personaggi in un aspro antagonismo, proprio per dar loro occasione di maturare e di portare nella finzione cinematografica il rapporto che li lega al di fuori dallo schermo…

…peccato che manchi qualcosa.

Tutta la costruzione emotiva del finale l’ho trovata fin troppo brusca, mancante di un solido retroterra di evoluzione del rapporto fra i due protagonisti, che porta ad un momento epico che per questo risulta insapore – e risolto con una battuta altrettanto poco convincente.

Così, se in chiusura della pellicola il quadretto familiare si è felicemente ricomposto, rimane insistentemente presente un senso di mancanza, un senso di insoddisfazione, non solo per la costruzione mancata del loro rapporto, ma proprio per un film che ti ammalia con un umorismo anche molto coinvolgente…

…ma che, per il resto, risulta infine incredibilmente dimenticabile.