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Il gigante di ferro – Ubriachi di guerra fredda

Il gigante di ferro (1999) di Brad Bird è un lungometraggio animato che ebbe una storia particolare, analoga a quella di un altro piccolo cult Anni Novanta, ovvero In viaggio con Pippo (1995).

La pellicola fu infatti un flop disastroso (30 milioni di incasso contro 50 di budget), ma venne ampiamente rivalutato col tempo, divenendo un piccolo cult per la generazione dei millennial.

Di cosa parla Il gigante di ferro?

1957, Rockwell, Montana. Piena guerra fredda. Hogarth è un ragazzino fantasioso che si ritrova per caso ad imbattersi con un enorme gigante di ferro, dalla provenienza sconosciuta.

Ma Hogarth non è l’unico ad essere interessato…

Perché Il gigante di ferro è un cult?

Come anticipato, Il gigante di ferro fu un caso simile a In viaggio con Pippo: come era normale per il periodo, i lungometraggi animati erano pensati per un pubblico infantile.

E così venivano a loro indirizzati anche tramite la campagna marketing.

Tuttavia, Il gigante di ferro non è un film propriamente per bambini: vi è un ampio (e ottimo) utilizzo della comicità per stemperare la tensione di certe scene. Tuttavia, a conti fatti, nella pellicola ci sono non poche scene di violenza, si parla di morte, di morale, e di armi. A questo riguardo, la condanna schietta all’utilizzo delle armi potrebbe essere anche stato un motivo che allontanò il pubblico statunitense.

Al contrario col tempo il prodotto venne riscoperto proprio per la sua profondità dei personaggi e della trama, che affronta appunto diverse tematiche di grande importanza. Oltre a questo, il film presenta personaggi davvero irresistibili, e, a differenza di altri film di questo tipo come anche E.T., il gigante è molto più umano e lo spettatore riesce ad empatizzare più facilmente con lui.

Il gigante di ferro può fare per me?

Il gigante di ferro in una scena de Il gigante di ferro (1999) diretto da Brad Bird

Assolutamente sì.

Il gigante di ferro è un ottimo prodotto di animazione, sia per la scrittura sia per l’animazione. Per me, che sono patita delle dinamiche di film per ragazzi di fantascienza, è stato un amore confermato anche dopo tanti anni che non lo vedevo.

Per questo se appunto apprezzate prodotti come E.T. (1982) e I Goonies (1985), o anche recuperi nostalgici come Stranger Things, molto probabilmente vi piacerà. Ovviamente se siete allergici a quelle dinamiche, non dico di non vederlo perché la pellicola non si appiattisce sulle stesse, ma potrebbe non entusiasmarvi.

I am not a gun

Il gigante di ferro in una scena de Il gigante di ferro (1999) diretto da Brad Bird

Splendida e inaspettata è la storia del gigante.

In realtà la sua backstory non viene raccontata in maniera approfondita: possiamo intuire che proviene da un pianeta alieno, che era parte di una produzione in serie di armi per una guerra che probabilmente è stata del tutto distruttiva.

Una macchina così intelligente che in poco tempo è capace di imparare una nuova lingua e assorbire concetti di grande profondità. E così arriva ad interrogarsi sulla sua natura e, alla fine, a sacrificarsi per salvare la comunità.

La sua morale è racchiusa in concetti semplici, come I am not a gun (non sono un’arma) e sul personaggio di Superman, figura di assoluta bontà (almeno negli Anni Cinquanta). Concetti semplici appunto, ma di grande effetto.

Il taglio narrativo

Kent Mansley,  Dean McCoppin, Hogarth Hughes e il generale Rogard in una de  Il gigante di ferro (1999) diretto da Brad Bird

Un aspetto che sinceramente non mi ricordavo e che mi ha davvero colpito è stato il taglio narrativo estremamente realistico. Si percepisce davvero il momento storico e il tipo di mentalità che lo dominava.

E non solo il villain, che ne è fondamentalmente ossessionato, ma anche i compagni di scuola di Hogarth pensano e parlano secondo il pensiero popolare, anche in maniera violenta per la loro età. Ma niente di strano per gli Stati Uniti della Guerra Fredda (e anche odierni, in realtà).

Oltre a questo, tutto il discorso sulle armi e sulla violenza è piuttosto forte ed incisivo, andando a criticare pesantemente l’utilizzo delle stesse, senza grandi possibilità di eccezioni.

Personaggi mai banali

Hogarth Hughes e il generale Rogard in una de  Il gigante di ferro (1999) diretto da Brad Bird

I personaggi de Il gigante di ferro sono tutti ben scritti e ispirano naturale simpatia.

Anzitutto Hogarth, un bambino molto fantasioso e che si entusiasma molto facilmente, ma anche un bambino capace di tenere testa ad un adulto molto più potente di lui. Ed è sempre lo stesso che, con tutta la sua semplicità, trasmette i giusti valori al gigante, portandolo verso una felice risoluzione.

Ma assolutamente irresistibile è Dean, artista sognatore che crea arte dai rottami. Questo personaggio aveva l’arduo compito di riempire un vuoto nel centro del film. E ci riesce in maniera molto simpatica, quando scopre che anche il gigante può creare delle opere d’arte per lui.

E poi c’è il villain.

Sempre un ottimo villain

Il regista e sceneggiatore di questo film è Brad Bird, lo stesso che pochi anni dopo diresse per la Pixar Gli Incredibili (2004), un altro di quei film che porto davvero nel cuore. E infatti Kent Mansley, il villain de Il gigante di ferro, presenta non poche somiglianze con Sindrome de Gli Incredibili.

A parte la scelta estetica simile (capelli rossi e inquietanti occhi azzurri), anche il carattere è analogo: sono entrambi guidati da un’ossessione e si sentono entrambi capaci e potenti più degli altri.

In particolare Kent Mansley è quello più ubriaco della guerra fredda: completamente ossessionato dalla minaccia russa, in questo caso rappresentata dal gigante, che deve essere eliminata a qualunque costo.

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Get Out – Feticizzazione

Get out (2017) è l’opera prima di Jordan Peele, cineasta attivo da pochi anni ma che ha già reso riconoscibile il suo stile e la sua, seppur breve, cinematografia.

Il film fu estremamente elogiato per la freschezza e la novità che portò al genere horror, mentre il suo secondo film, Us (2019), fu molto meno considerato. E fu una vera ingiustizia.

La pellicola fu un incredibile successo commerciale: un budget ridottissimo, di appena 4.5 milioni di dollari, portò ad un incasso di 255.

Di cosa parla Get out?

Chris è un giovane afroamericano fidanzato da pochi mesi con Rose. Pur in grande imbarazzo, accetta di andare a far visita la famiglia di solo bianchi della fidanzata. Questa scelta non si rivelerà la più indovinata…

Get out può fare per me?

Lakeith Stanfield e Geraldine Singer in una scena del film Get Out (2017) di Jordan Peele

Partiamo dicendo che Get out è un horror, ma non fa di fatto paura, anche perché utilizza pochissimo i tanto abusati jump scare. Più che altro è un film che crea una profonda angoscia e inquietudine. E questo grazie all’utilizzo di una recitazione ben calibrata e una scelta dei volti piuttosto azzeccata.

È una pellicola in generale abbastanza accessibile, che diventa ancora più interessante per un pubblico coinvolto con le tematiche che Peele porta sullo schermo. Ma, prima di tutto, è un prodotto horror autoriale che porta un’interessante novità al genere.

Feticizzazione

La feticizzazione dei corpi neri è il tema politico sotterraneo del film. Un problema sentito negli Stati Uniti e che è fondamentalmente l’altra faccia del razzismo: questa idea di idealizzazione del corpo nero, corredato da una serie di stereotipi (la grandezza dei genitali, la velocità ecc.).

Stereotipi che non sono falsi di per sé, ma che assumono un significato ben diverso se applicati sistematicamente a persone che condividono nient’altro che il colore della pelle o una discendenza comune. In questo modo infatti non vi è una glorificazione del corpo, ma una deumanizzazione dello stesso.

Ed è questo quello che di fatto succede in Get Out: il corpo di Chris è messo in vendita come quello di una bestia, da un gruppo ricchi bianchi che se ne vuole impossessare per godere dei presunti benefici del corpo di un afroamericano.

Far paura senza far paura

Betty Gabriel in una scena del film Get Out (2017) di Jordan Peele

Una grande capacità di Peele, che poi sprigiona tutta la sua potenza in Us, è la capacità di far paura senza far uso di tecniche abusate. Così appunto non ci sono praticamente jump scare e tutta l’inquietudine del film si basa sull’ottima recitazione corporea e facciale dei personaggi.

Particolarmente rilevanti sono Walter e Georgina, che alla fine si scopre che racchiudono le coscienze del nonno e della nonna. Ma da elogiare anche la recitazione di Allison Williams, che interpreta Rose, che è stata capace di sostenere la recitazione da brava fidanzata, per poi rivelarsi, con un solo gesto, l’invasata calcolatrice che in realtà è.

Tutto e niente

Daniel Kaluuya in una scena del film Get Out (2017) di Jordan Peele

La mia è sicuramente un’opinione impopolare, ma io considero Get out come un film per molti aspetti amatoriale, che è solo un punto di partenza per una cinematografia ben più interessante. E infatti Us mi ha stupito molto di più.

Nondimeno in questa pellicola troviamo tutti gli elementi ormai tipici di Jordan Peele: un horror che punta più sull’inquietudine che sull’orrore, un umorismo per nulla forzato, una sottotrama politica molto forte e per nulla banale.

Al tempo della visione, ebbi proprio questa idea: un buon punto di partenza, ma adesso vediamo che strada prende. E con Us sono stata ricompensata.

Insomma, per me un’ottima opera prima, ma non il capolavoro che tanti sostengono.

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Lo Squalo – Alle origini del terrore

Lo squalo (1975) di Steven Spielberg è considerato il primo film evento, paragonabile agli odierni blockbuster.

Infatti, godette di una distribuzione più mirata e di fatto atipica per il tempo. E, non a caso, fu un enorme successo commerciale: a fronte di 9 milioni di dollari di budget, ne incassò ben 476 in tutto il mondo.

Di cosa parla Lo Squalo?

Lo sceriffo Brody è a capo della polizia di una piccola città balneare, che viene improvvisamente sconvolta da una serie di terribili attacchi da parte di uno squalo di inusuale grandezza e ferocia. Brody dovrà mettere insieme una squadra per mettere fine alla sua minaccia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Lo squalo?

Lo squalo, Richard Dreyfuss e Robert Shaw in una scena di Lo Squalo (1975) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

Lo Squalo è un film che non può mancare nel vostro bagaglio cinematografico, anche per via della sua semplicità di fruizione. Infatti, anche grazie all’ottima regia di Spielberg, il film scorre molto facilmente, creando una splendida tensione e costruzione della rivelazione del mostro.

Ovviamente, se siete persone molto impressionabili ed avete una paura atavica degli squali e dell’acqua, potrebbe turbarvi profondamente…

Perché Lo squalo è considerato un film evento?

Un film evento è un film che non solo spinge il pubblico in sala, ma rende la visione un effettivo evento a cui non si può mancare di partecipare. Casi simili furono anche The Blair Witch Project (1999) e, più recentemente, Avengers Endgame (2019).

E Lo Squalo fu il primo caso effettivo di questo tipo: oltre a godere di massiccia campagna marketing, venne distribuito in tantissime sale in tutti gli Stati Uniti, fino a 950, tantissime per l’epoca.

E così inaugurò una nuova tendenza per l’industria cinematografica statunitense: film di avventura e azione, con una storia semplice, rilasciati in estate con un importante investimento nella comunicazione ed un ritorno assicurato.

Un concetto simile agli odierni blockbuster, appunto.

La costruzione del mostro

Lo squalo in una scena di Lo Squalo (1975) di Steven Spielberg

Il budget abbastanza contenuto del film ha portato Spielberg ad utilizzare ottimi espedienti per rivelare solo a tratti e gradualmente lo squalo, rivelandolo effettivamente solo nel finale.

Sembra paradossale, ma se si guarda il film diventa chiaro come la tensione sia soprattutto costruita tramite il suggerire (e il non mostrare) lo squalo, appunto. Così al primo attacco non si vede nulla, al secondo solo sangue e il materassino del bambino ucciso, e nel terzo solo la pinna o uno sguardo fulmineo della testa.

Così anche nella seconda parte del film, durante la caccia, lo squalo viene mostrato in maniera molto costruita, rivelandolo totalmente solamente alla fine. E, paradossalmente, vedendolo del tutto, lo squalo sembra molto meno minaccioso di quando non lo vediamo.

Una storia di tutti

Folla che scappa dallo squalo in una scena di Lo Squalo (1975) di Steven Spielberg

Un grande pregio del film, e anche probabilmente uno dei motivi del suo successo, è il suo taglio realistico e credibile. Vediamo infatti numerosissime comparse che si muovono sulla scena, in inquadrature che potrebbero sembrare quella di una banale ripresa di una qualsiasi spiaggia statunitense degli Anni Settanta.

Per questo tutta la costruzione della tensione nella prima parte del film, impreziosita dallo splendido tema di Williams, coinvolge così facilmente. E così allo stesso modo l’avventura della caccia, per quanto a mio parere sia un po’ troppo allungata, continua a sostenere quel taglio realistico, in particolare con continui fallimenti dei personaggi.

Infatti, alla fine i protagonisti vincono, ma con un espediente improvvisato.

Perché i sequel non hanno senso

Vennero prodotti diversi sequel, a cui Spielberg (giustamente) si rifiutò di partecipare, e che incassarono sempre di meno, non riuscendo mai davvero a lanciare il franchise.

Infatti, nonostante si sia appunto cercato di battere il ferro finché era caldo sul lato sequel, questi non hanno senso per un motivo molto semplice: la storia è già ridotta all’osso di per sé e non dà spazio a seguiti.

Infatti, alla fine il nemico viene indubbiamente sconfitto e vi è un lieto fine.

L’unico modo in cui si poteva fare un sequel è riportando lo stesso nemico e mettendo in scena combattimenti ancora più spettacolari. E così venne fatto per il primo sequel, Lo Squalo 2 (1978) che fu effettivamente un grande incasso. Ma l’entusiasmo svanì velocemente, con ulteriori seguiti che ebbero incassi molto modesti.

L’origine dell’isteria di massa

Lo Squalo fu uno – e il principale – prodotto che portò ad una isteria di massa nei confronti degli squali.

Lo squalo è fra gli animali acquatici più temuti, anche perché nel mondo occidentale non è così raro imbattervisi, a differenza di animali effettivamente pericolosi come i coccodrilli e gli ippopotami.

Purtroppo lo squalo è tutt’oggi cacciato e si è portato dietro una brutta nomea di aggressività e pericolosità per l’uomo. In realtà è un animale ben poco pericoloso per noi, con una media di appena 6 attacchi mortali nel mondo ogni anno.

E questo, se messo in proporzione ai milioni di squali uccisi nello stesso lasso di tempo, è davvero pochissimo.

E anche meno sono gli attacchi senza motivo di questo animale verso l’uomo, mentre è più facile che lo squalo venga attaccato se provocato. Quindi, del tutto diverso da come viene raccontato nel film.

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Candleshoe – La mia infanzia

Candleshoe (1977) di Norman Tokar è un’avventura per ragazzi di produzione Disney con una giovanissima Jodie Foster. In Italia tradotto con un titolo piuttosto improbabile, ma nondimeno simpatico, ovvero Una ragazza, un maggiordomo e una lady.

Ma per me è molto di più: uno degli improbabili cult della mia infanzia, non appartenente neanche alla mia generazione, ma che avrò visto decine di volte. Lo trovai casualmente nella sezione bambini della mia biblioteca, e cominciai a noleggiarlo continuamente.

Un film fondamentalmente sconosciuto, ma che vale la pena di riscoprire.

Di cosa parla Candleshoe?

Casey, interpretata da una quattordicenne Jodie Foster, è un’orfana e una piccola delinquente che passa da una casa famiglia all’altra. Verrà inaspettatamente coinvolta in una truffa, per cui dovrà impersonare la nipote perduta di una vecchia nobildonna inglese, nella cui casa dovrebbe nascondersi un tesoro…

Candleshoe può fare per me?

Jodie Foster e Leo McKern in una scena di Candleshoe (1977) di Norman Tokar

Ovviamente essendo il film della mia infanzia è per me difficile essere oggettiva. Tuttavia secondo me Candleshoe è una deliziosa commedia avventurosa per ragazzi, con un bel mistero e una trama ben costruita.

Ha la durata standard di un film del genere (appena 100 minuti) ed intrattiene stupendamente, pur nella sua semplicità. Soprattutto se vi piacciono i film per ragazzi un po’ datati, come Stand by me e I Goonies, potrebbe facilmente piacervi.

Una protagonista diversa?

Jodie Foster in una scena di Candleshoe (1977) di Norman Tokar

Casey è un’ottima protagonista perché il suo personaggio ha un taglio molto realistico e sentito. Non è infatti scontato che la protagonista di un prodotto per ragazzi sia un personaggio così tanto grigio.

Una povera orfana che ha già visto il peggio dalla vita, che non ha mai avuto l’amore di una famiglia vera, e che ha preso facilmente la via della delinquenza.

Infatti, con stupore di Harry, Casey non è per nulla una marionetta nella sue mani, ma cerca invece subito di capire cosa può guadagnarci e riesce ad ingannare la Lady più di quanto Harry stesso fosse capace.

E allo stesso modo sembra infine rassegnata a non voler mentire ulteriormente alla sua presunta nonna, che la accetta come sua nipote, anche se non ha alcuna sicurezza che lo sia, in un bellissimo e toccante finale.

La lady e il maggiordomo: una irresistibile coppia

David Niven in una scena di Candleshoe (1977) di Norman Tokar

Della parte centrale del film la parte che ho sempre preferito era quella del maggiordomo e la lady, con la loro bellissima dinamica.

Infatti la loro linea narrativa non aggiunge nulla alla trama principale, ma riesce a dare una maggiore tridimensionalità ai personaggi e di fatto a rendere credibile e divertente la storia di Candleshoe.

Altrettanto splendida è la rivelazione finale della lady al maggiordomo, che non appiattisce il personaggio della prima alla sola vecchietta ingenua, ma da un tocco di romanticismo e commozione che ho sempre adorato.

Harry e Clara: che sagome!

Funzionano altrettanto bene i due villain, sia per l’ottima recitazione, sia per il loro phisique du role assolutamente perfetto. Sono due personaggi che già a pelle risultano sgradevoli, quasi grotteschi in alcune scene.

Il loro piano poi non lascia niente al caso, portando una simpaticissima scena di scontro sul finale che riguardo sempre con piacere.

In certi momenti i due fanno quasi paura, per come si gettano come arpie su Casey, una presenza minacciosa per l’intera pellicola.

Lode al budino di riso

Una cosa che mi è sempre rimasta impressa è il disgusto di Casey quando assaggia il budino di riso (rice pudding) la prima volta che arriva a Candleshoe.

In realtà per puro caso l’ho assaggiato recentemente, smentendo una convinzione che ho avuto per tutta la vita: il budino di riso è buonissimo.

Quindi, lode al budino di riso!

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Super 8 – Un film fuori dal tempo

Super 8 (2008) è un film prodotto, scritto e diretto da J.J. Abrams, autore e produttore che ha le mani un po’ ovunque quando si tratta di revival in ambito sci-fi.

Una pellicola che ebbe anche un buon successo, con 50 milioni di dollari di budget e 260 di incasso.

Di cosa parla Super 8?

1979, Joe Lamb è un quattordicenne che ha appena perso la madre in un tragico incidente e deve riallacciare i rapporti col padre. Lui e i suoi amici, mentre sono intenti a girare un film amatoriale, diventano testimoni di un tragico e misterioso incidente…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Super 8?

Joel Courtney in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Assolutamente sì.

Super 8 è un film piuttosto semplice, un’avventura sci-fi per ragazzi di stampo classico, che si rifà massicciamente ai topos degli Anni Ottanta.

Sia che siate appassionati dei classici, come Stand by me (1986) e E.T. (1982), sia dei revival nostalgici come Stranger Things, non potete perdervelo.

Una costruzione da manuale

Joel Courtney in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

La costruzione della trama è davvero da manuale, nel senso migliore possibile.

Tutti gli elementi che portano al finale sono sapientemente costruiti fin dall’inizio e in maniera funzionale al finale.

Così per esempio Donny, che alla fine accompagna i ragazzi alla scuola, si è dimostrato interessato alla sorella di Charlie fin dall’inizio. E così Joe sa dove è la tana della creatura perché in precedenza è andato al cimitero a trovare la madre.

E questa costruzione così intelligente non è per niente scontata, in quanto in prodotti di ben più grandi produzioni capita spesso che, per far arrivare i personaggi ad un punto, si scelgono soluzioni forzate e poco credibili.

Allo stesso modo il mistero è un continuo crescendo, partendo da una scena improvvisa, seguendo un sentiero di briciole che ci vengono snocciolate a poco a poco.

La creatura

Secondo lo stesso principio, la creatura viene svelata secondo precise tappe e con una costruzione molto abile. Prima è un’ombra, poi una figura sfocata sullo sfondo, poi ne scopriamo la sagoma, e nel finale ne vediamo il volto.

Molto furbo fra l’altro cercare di umanizzarla, svelandone a sorpresa gli occhi piuttosto espressivi, per dare quello slancio emozionale che ci permette di empatizzare.

Soprattutto perché si cerca di raccontare un nemico che in realtà è vittima degli stessi protagonisti e che, come E.T., vuole solo tornare a casa.

Un character design fra l’altro semplice, ma d’impatto.

Semplicemente Elle Fanning

Elle Fannings in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Per via anche del suo budget limitato, il film ha puntato su attori giovanissimi e fondamentalmente sconosciuti. La recitazione non è esattamente brillante, ma comunque di livello accettabile.

Fra tutti però si distingue Elle Fanning, che interpreta Alice, al tempo ancora poco conosciuta, ma che ha lavorato negli anni con autori come Woody Allen e David Fincher.

In questa pellicola troviamo una recitazione ancora acerba, ma che sa comunque destreggiarsi in diversi momenti più complessi della narrazione.

E il fatto che una scena sia basata solamente sul mettere in evidenza le sue capacità recitative è tutto un programma.

Pallidi comprimari

Riley Griffiths  in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Un difetto del film è di non riuscire a far risaltare i comprimari del protagonista.

Come per il miglior film per ragazzi Anni Ottanta, Joe è infatti circondato da un gruppetto di personaggi che gli fanno da contorno, e che sono al contempo il comic relief della pellicola.

Purtroppo, gli stessi sembrano essere dimenticati nel corso del film, al punto che si utilizzano diversi stratagemmi per lasciarne il più possibile indietro in occasione dello scontro finale.

Allo stesso modo questi personaggi per la maggior parte non hanno una caratterizzazione precisa, ma limitata a pochi elementi.

Abrams e Gioacchino: che coppia!

Joel Courtney in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Per quanto magari Abrams non possa essere considerato un grande autore, la sua regia è ben più di quella di un mestierante qualunque.

In questa pellicola è innamorato dei suoi personaggi: li inquadra spesso fra il mezzo primo piano e il primo piano, facendoli avvicinare alla macchina da presa mentre guardano misteriosamente all’orizzonte.

Così anche bellissime le sequenze in cui i personaggi sono coinvolti in discussioni concitate e la macchina da presa gli gira intorno, regalando una splendida dinamicità alla scena.

La regia è inoltre impreziosita da un’ottima colonna sonora, composta dall’iconico Gioacchino, autore di colonne sonore di grande successo e valore come quella di Up (2010) e della nuova trilogia di Star Trek.

Cos’è il Super 8?

Il super 8 millimetri che dà il titolo al film è un formato cinematografico, un tipo di pellicola utilizzata proprio per il cinema amatoriale.

Ed è infatti quello che i protagonisti utilizzano per girare il loro film.

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Number 23 – Storia di un’ossesione

Number 23 (2007) è un film di Joel Schumacher con Jim Carrey che si imbarcò in un genere che non aveva mai sperimentato: il thriller psicologico.

L’attore ebbe infatti ancora una volta la fortuna di trovarsi sotto l’egida di un regista capace in un prodotto complesso e intenso. Schumacher è infatti un autore molto divisivo, soprattutto per l’assurdità di Batman & Robin (1997), cui viene sempre associato, ma è in realtà un regista con un’estetica profonda e potente.

Il film ebbe un riscontro economico decisamente deludente: anche se non fu un flop, incassò 77 milioni contro un budget di 30. Tuttavia, col passare degli anni, entrò nel cuore di molti cinefili.

Di cosa parla Number 23?

Walter è un accalappiacani che vive una vita tranquilla con la sua famiglia. Improvvisamente viene in possesso di uno strano libro, intitolato appunto Number 23. Il protagonista si ritroverà così stranamente ad identificarsi nella storia narrata, che sembra avere una strana vicinanza con gli eventi della propria vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Number 23?

Jim Carrey in una scena di Number 23 (2007) di Joel Schumacher

Dipende.

Number 23 è un film per nulla semplice, sia per gli argomenti trattati, sia perché gioca anche con il genere horror, con alcune scene piuttosto sanguinose e non adatte a cuori sensibili. Oltre a questo, la regia è piuttosto particolare, anche se perfettamente in linea con l’estetica di Schumacher.

Insomma, se sguazzate nel genere gore e thriller, ma anche nel noir hard boiled, probabilmente vi piacerà moltissimo. Al contrario, se siete facilmente impressionabili e vi angosciate con poco, statene alla larga.

Un andamento inaspettato

Jim Carrey in una scena di Number 23 (2007) di Joel Schumacher

Devo ammettere che verso la metà del film ho cominciato ad annoiarmi, perché il film mi sembrava voler raccontare il climax ascendente del protagonista, che diventa definitivamente ossessionato dal libro e alla fine uccide la sua famiglia. Insomma, mi aspettavo un andamento piuttosto tipico.

Al contrario, sono stata sorpresa: verso la metà del film Walter comincia ad essere effettivamente supportato dalla sua famiglia, innescando un effettivo climax con una gustosa trama investigativa, per svelare infine il mistero dietro al libro.

E così si sfocia nella rivelazione finale, che chiude perfettamente il cerchio su una storia che sarebbe risultata altrimenti banale, con un twist che mi ha ricordato molto quello di Shutter Island (2010) e che per questo non ho potuto non apprezzare.

Schumacher: amore e odio

Jim Carrey in una scena di Number 23 (2007) di Joel Schumacher

Joel Schumacher è quel tipo di regista con un’estetica e una poetica così particolare che non può non essere divisivo.

Ed è anche lo stesso che ha girato Batman & Robin, film unanimemente criticato per l’ovvio motivo di essere tremendo, ma che esprimeva appieno l’estetica distintiva di questo regista, che gioca moltissimo col camp e col cattivo gusto voluto.

E in Number 23 non è da meno: io ho amato alcune inquadrature, che ho trovato estremamente scioccanti, come il volto della Bionda Suicida che si specchia nella pozza del suo stesso sangue dopo il suicidio (ed è uno fra tanti).

Al contempo non ho apprezzato il taglio eccessivo delle scene del racconto del libro, con queste inquadrature estremamente contrastate e scene di sesso e violenza quasi morbose, con un taglio eccessivamente realistico che mi ha disturbato.

Ma forse era anche quello l’obbiettivo.

Di certo, per me, senza questa regia, questo film non sarebbe valso un’unghia.

Jim Carrey: la maturità attoriale

Jim Carrey in una scena di Number 23 (2007) di Joel Schumacher

Dopo aver esplorato la maggior parte della filmografia di Carrey, per me la sua maturità artistica come attore comico si può trovare in Una settimana da Dio (2003), mentre in questo film mostra ancora le sue capacità sull’altro versante.

Non tanto in ambito drammatico, per cui aveva già dato prova in Eternal Sunshine of the spotless mind (2004), ma sperimentando con consapevolezza in un genere mai provato prima.

In questo film infatti Carrey riesce ad essere al contempo spaventoso, con un’occhiata riesce a trasmetterti un’infinità di sentimenti e passioni, e a destreggiarsi perfettamente nelle scene anche più estreme e intense.

In questo film non ci sono, come in altre pellicole di Carrey, attori diventati famosi dopo, ma comunque ritroviamo dei volti già noti.

Il figlio di Walter, Robin, è Logan Lerman, divenuto brevemente (e sfortunatamente) famoso per i film di Percy Jackson usciti fra il 2010 e il 2013.

Walter da bambino è interpretato da Paul Butcher, che se siete della generazione Anni Novanta lo ricorderete sicuramente per essere il fratello di Zoe in quella meraviglia (si fa per dire) di Zoey 101.

Il Dr. Miles, il professore a cui Walter chiede aiuto e che crede che lo tradisca con la moglie, è Danny Huston, già visto in diversi prodotti, in particolare come fratello della protagonista in Marie Antoinette (2006).

Cameo a sorpresa quello di Troy Kotsur, attore sordomuto che ha recentemente vinto l’Oscar come Miglior Attore non Protagonista per CODA (2021). Qui interpreta il padrone del cane che perseguita Walter, Ben.

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Captain Fantastic – Uno splendido errore

Captain Fantastic (2016) di Matt Ross è la deliziosa storia di una famiglia fuori dall’ordinario, che sceglie di vivere al di fuori della società consumistica americana.

Una piccola produzione di appena 5 milioni di dollari, che però portò ad un buon incasso: 22 milioni di dollari ricevette diversi riconoscimenti a livello internazionale.

Di cosa parla Captain Fantastic?

Come anticipato, Captain Fantastic parla di una famiglia fuori dall’ordinario, che sceglie di vivere nei boschi ed educarsi autonomamente, tramite letture impegnate e un modo di ragionare atipico. Tuttavia, un evento improvviso li costringerà ad intraprendere un viaggio che cambierà la loro vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Captain Fantastic?

Viggo Mortensen in una scena di Captain Fantastic (2016) di Matt Ross

Assolutamente sì.

È difficile per me dare un’opinione oggettiva: Captain Fantastic è uno dei miei film preferiti. In generale secondo me per apprezzare questo film è praticamente necessario appassionarsi ed affezionarsi ai suoi personaggi, che sono bellissimi quanto imperfetti.

Infatti, se siete totalmente allergici a certi tipi di discorsi più hipster che criticano aspramente la nostra società (soprattutto quella statunitense), potreste odiarlo e arrivare a parteggiare per i villain del film.

Al contrario, se vi piacciono i film del genere road movie con drammi familiari, pur in un contesto generalmente molto leggero, guardatelo: potreste davvero innamorarvi.

Una famiglia particolare

La bellezza di Captain Fantastic è la particolarità della famiglia raccontata, dove ogni membro riesce ad avere la sua parte nella storia.

Nonostante le evidenti ribellioni e ingenuità di alcuni dei personaggi, sono davvero riuscita ad appassionarmi alla loro storia ed a commuovermi per il tipo di attaccamento che dimostrano l’un l’altro.

Così Ben, il padre, è duro ma amorevole verso i propri figli, insegna loro valori profondi e fondamentali, come la sincerità, la schiettezza e la capacità di ragionare con la propria testa. Un padre comunque fallibile, che alla fine deve ammettere i propri limiti e trovare una situazione di compromesso.

Al contempo sono i figli stessi ad insegnargli qualcosa, fermandolo quando si slancia verso decisioni problematiche, come andare a tutti i costi al funerale della moglie o abbandonare del tutto il suo progetto e lasciare la famiglia dai nonni. Un percorso che i personaggi fanno insieme, migliorandosi lungo la strada.

Una scelta sofferta

Viggo Mortensen in una scena di Captain Fantastic (2016) di Matt Ross

La scelta di vita di Ben e della sua famiglia è un interessante spunto di riflessione. Effettivamente le idee portate avanti non sono di fatto sbagliate, ma del tutto idealizzate, arrivando sostanzialmente a negare le dinamiche sociali odierne.

Alla fine Ben decide di trovare una soluzione di compromesso per i suoi figli, dargli una casa e mandarli a scuola, non tanto perché rinunci alla bontà delle sue idee, ma perché si rende conto che altrimenti non può proteggerli ed effettivamente prepararli al mondo esterno ed alle sue insidie.

In conclusione, sono tutti riusciti ad arricchirsi con questa esperienza: riescono comunque a vivere a loro modo, ma confrontandosi direttamente con il mondo esterno, e avendo tutti gli strumenti per giudicarlo.

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Eternal Sunshine of The Spotless Mind – Saper dimenticare

Eternal Sunshine of The Spotless Mind (2004), per la regia di Michel Gondry e la sceneggiatura di Charlie Kaufman, fu sicuramente uno dei punti più alti della carriera di Jim Carrey.

Per la seconda volta l’attore si mise sotto l’egida di un abile autore, sprigionando tutte le sue capacità recitative.

Il film è noto in Italia anche per l’orribile traduzione del titolo, ovvero Se mi lasci ti cancello e fu un discreto successo: 74 milioni di incasso contro 20 milioni di budget.

Di cosa parla Eternal Sunshine of The Spotless Mind

Joel e Clementine sembrano una coppia molto affiatata, con un amore scoppiato all’improvviso e imprevedibilmente, ma che li porta ad una lunga e importante relazione. Le cose si complicano quando Clementine decide di fare una scelta assolutamente castrante alle spalle del suo fidanzato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Eternal Sunshine of The Spotless Mind?

Jim Carrey e Kate Winslet in una scena di The Eternal Sunshine of The Spotless Mind (2004) per la regia di Michel Gondry e la sceneggiatura di Charlie Kaufman

In generale, sì.

Partiamo col dire che Eternal Sunshine of The Spotless Mind non è un film semplice.

Ha una struttura per nulla lineare, nella quale è difficile orientarsi, soprattutto all’inizio. Oltre a questo, nonostante non sia una commedia romantica in senso stretto, ne eredita le dinamiche. Così, se non riuscirete ad essere coinvolti con il rapporto dei protagonisti, sarà difficile appassionarvi.

Per me questo è stato il principale problema, di cui parlerò meglio nella parte spoiler. Tuttavia, se siete riusciti a digerire un film come I’m Thinking of Ending Things (2020) e Essere John Malkovich (1999) di Kaufman e se, più in generale, riuscite ad appassionarvi alle commedie romantiche, è un film che può fare per voi.

Joel

Joel è di fatto la vera vittima di questo film.

Una persona molto chiusa in sé stessa, che riesce con difficoltà a gestire le situazioni, soprattutto quello sentimentali. Cerca di rincorrere Clementine nella sua follia, ma continua a fallire costantemente. E, infine, perde.

E per me perde doppiamente: vive nei sogni di Clementine, nella versione che aveva nella sua testa e nei suoi ricordi, cerca di rimetterla insieme e nuovamente si ributta nella relazione con Clementine e con tutte le sue trappole.

Carrey riesce a portare sullo schermo un personaggio fallibile, in contrasto con sé stesso, che riesce a lasciarsi andare in alcuni momenti comici tipici dello stile dell’attore, ma mantenendo una recitazione drammatica assolutamente credibile e toccante per tutta la pellicola.

Clementine

Ho personalmente odiato il suo personaggio fin dall’inizio.

E questo lo posso dire con tranquillità perché nella maniera più evidente il film non vuole farti odiare questo personaggio, al contrario. La figura della donna apparentemente artistica e imprevedibile, ma che proprio per questo fa immancabilmente innamorare il protagonista.

Un personaggio in cui molte ragazze, soprattutto nel periodo in cui uscì il film, potevano rivedersi. Non è di per sé deprecabile, ma condannabile per il tipo di trattamento giustificatorio della pellicola. Soprattutto perché il suo comportamento, che è anche il motore del film, non è assolutamente giustificabile.

Ma non penso di aver mai visto Kate Winslet così tanto in parte: per quanto non mi sia piaciuto il suo personaggio, penso che abbia regalato una performance di grande valore, forse la migliore della sua carriera.

Una morale discutibile

Jim Carrey e Kate Winslet in una scena di The Eternal Sunshine of The Spotless Mind (2004) per la regia di Michel Gondry e la sceneggiatura di Charlie Kaufman

Eternal Sunshine of The Spotless Mind è aperto a più interpretazioni possibili.

Io ho trovato una morale di fondo piuttosto discutibile, che tende a giustificare la relazione fra Joel e Clementine e a farla passare come un amore impossibile ma tremendamente romantico.

Il film è vincente da questo punto di vista fintanto che lo spettatore riesce ad essere coinvolto con la storia dei suoi protagonisti.

Potrei criticare la scarsa originalità di come è trattata la loro relazione, con dinamiche tipiche delle commedie romantiche, tuttavia è più giusto ammettere che la loro storia non mi ha appassionato perché non mi appassiona il genere.

E, di conseguenza, mi è venuto da razionalizzarla. Soprattutto se si vuole leggere la rappresentazione della loro storia come credibile, di fatto il rapporto fra i protagonisti è profondamente tossico.

E io mal sopporto l’idea che una storia deve esistere perché due persone si amano, nonostante la stessa sia deleteria per entrambi.

Soprattutto il finale è diversamente interpretabile: la scena sembra dissolversi, come se ancora uno dei due (o entrambi) abbiano voluto cancellare quel ricordo. E potrebbe essere o che la relazione si sia conclusa definitivamente, oppure che i due siano entrati in un ciclo infinito e autodistruttivo in cui tentano continuamente di far ricominciare la loro relazione.

Io, personalmente, spero che sia la prima opzione.

Un puzzle non così complesso

Jim Carrey e Kate Winslet in una scena di The Eternal Sunshine of The Spotless Mind (2004) per la regia di Michel Gondry e la sceneggiatura di Charlie Kaufman

In generale ho apprezzato la costruzione della storia: parte in una maniera che sembra introdurre una relazione nuova di zecca con dinamiche piuttosto tipiche. Poi sconvolge lo spettatore con un taglio netto e imprevedibile, introducendo a poco a poco la storia.

Così ho apprezzato l’idea della cancellazione dei ricordi, spiegata anche in maniera sensata ed intelligente, e così il viaggio di Joel e le dinamiche che si creano. In generale, tralasciando la morale discutibile, è un film che ho apprezzato.

Tuttavia, mi è dispiaciuto che il colpo di scena finale fosse così prevedibile: circa a metà film ero riuscita con non troppe difficoltà a ricostruire la timeline della storia. Non so se volesse essere un effettivo colpo di scena, ma avrei preferito che fosse più complesso e che spingesse maggiormente sul lato surreale e onirico.

Insomma, avrei voluto un film che fosse più simile a Sto pensando di finirla qui.

Cosa significa il titolo

Il titolo del film fa riferimento ad una poesia di Alexander Pope, poeta settecentesco, nella sua opera Eloisa to Abelard (1717)

How happy is the blameless vestal's lot!
The world forgetting, by the world forgot.
Eternal sunshine of the spotless mind!
Each pray'r accepted, and each wish resign'd

Il titolo può essere tradotto circa come l’eterna bellezza della mente candida, nel caso del film riguardante la mente priva di ricordi dei protagonisti. Non a caso, alla fine del film, nonostante tutto quello che è successo, i due riescono di nuovo ad innamorarsi.

Come in tutti i film di Jim Carrey finora, anche in questo caso troviamo attori divenuti famosi successivamente.

Anzitutto, Kirsten Dunst che interpreta Mary, che due anni dopo divenne protagonista dell’apprezzatissimo Marie Antoniette (2006) e di recente ne Il potere del cane (2021). Poi Mark Ruffalo, famoso soprattutto per aver interpretato Hulk nell’MCU, ma che ha lavorato anche altrove. Così vediamo Elijia Wood, che qui interpreta Patrick ed era appena uscito dal successo incredibile de Il Signore degli Anelli, di cui era protagonista.

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Lightyear – Verso la metanarratività…e molto oltre!

Lightyear (2022) è l’ultimo film della Pixar uscito la scorsa settimana, il primo uscito in sala dopo quasi due anni. Ed il motivo è facile da capire: questa pellicola non è un film Pixar come lo intendiamo comunemente, ovvero un percorso di crescita e maturazione con un risvolto profondo. Si parla più che altro di una space opera, un film avventuroso in senso classico, che comunque gode di una robusta morale.

Tuttavia, per ora non sembra una scommessa vincente: la pellicola è infatti più o meno stroncata da gran parte della critica e ha aperto miseramente (appena 84 milioni la prima settimana), rischiando già il flop commerciale. E la causa potrebbe essere che in primis molti si aspettavano un film molto più collegato a Toy Story (cosa che non è) e forse che era un film meno spendibile per il grande pubblico, soprattutto infantile, di quanto si pensasse.

Di cosa parla Lightyear?

Buzz Lighyear è uno space ranger che si trova naufragato con la sua squadra in un pianeta sconosciuto e minaccioso. Dovrà quindi tentare di riparare la navicella per ritornare a casa, con molti tentativi che non andranno come si aspettava…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Lighyear?

Lighyear e Sox in una scena di Lightyear (2022) nuovo film Disney Pixar

In generale, Lightyear è un film che mi sento di consigliare, a patto di approcciarsi alla visione con la giusta mentalità. Infatti, come anticipato, il film c’entra veramente poco con Toy Story e le sue dinamiche. Ma non è per forza un difetto: dopo quel maledetto Toy Story 4 (2019), è anche ora di lasciare intatta la magia del brand.

Io, pur da grande purista della Pixar, sono andata in sala con grande tranquillità, con la consapevolezza che non sarebbe stato un film Pixar in senso stretto. E così sono riuscita a godermi un film sicuramente non perfetto, ma che riesce ad intrattenere ed a riallacciarsi (seppur debolmente) alle tematiche tanto care alla casa di produzione.

Quindi, se vi piacciono le avventure spaziali, che giocano con il genere del buddy movie, e se in generale vi piace Star Wars, è molto probabile che Lightyear vi piacerà. L’importante, appunto, è andarci con le giuste aspettative. Insomma, dimenticatevi Toy Story.

Distaccarsi da Toy Story: buona idea o commercialata?

Lighyear e Sox in una scena di Lightyear (2022) nuovo film Disney Pixar

Come anticipato, è Lighyear non è strettamente legato a Toy Story. I riferimenti sono infatti abbastanza sporadici: a parte dire che il film sia quello visto da Andy nel 1995 (di cui parleremo), il film si limita ad inserire qualche citazione e dinamica famosa della saga. Per il resto, prende tutta un’altra strada.

La pellicola sembra più decostruire il personaggio di Buzz, i suoi atteggiamenti abbastanza ridicoli di voler fare sempre rapporto e la sua ossessione di portare a termine la missione. Per il resto, la maggior parte dei personaggi sono totalmente nuovi o, nel caso di Zurg, rivisitati.

E, per me, non è stata una cattiva idea. Infatti, come ci insegnano eventi recenti di Star Wars, andare a rimettere le mani sul canone e portare collegamenti mal pensati, solitamente non è una buona idea. Invece andare a sfruttare un personaggio molto amato come Buzz ed ampliare l’universo di Toy Story, senza intaccare il canone, è stata un’idea decisamente migliore.

Detto questo, si tratta sicuramente di un film prodotto con l’intento di far conoscere il personaggio ad un pubblico infantile e vendere molti giocattoli. Con una situazione che fra l’altro supera il concetto di metanarratività in maniera quasi agghiacciante.

Buzz Lighyear: un personaggio coerente?

Lighyear e Sox in una scena di Lightyear (2022) nuovo film Disney Pixar

Il personaggio di Buzz è stato fortemente criticato, soprattutto negli Stati Uniti, per via del suo doppiatore, Chris Evans, famoso soprattutto per aver interpretato Captain America nell’MCU. La critica ha sembrato rimpiangere la voce storica di Tim Allen, non considerando Evans per nulla all’altezza.

A me personalmente il doppiaggio di Buzz ha assolutamente convinto e non ho mai trovato straniante il cambio di doppiatore. Oltre a questo, secondo me il personaggio è scritto ottimamente, ampliando il suo carattere e la sua storia in maniera assolutamente coerente con il canone.

Troviamo infatti un Buzz sempre concentrato sulla missione, fino all’ultimo intestardito all’idea di portarla a termine, quasi ridicolo nei suoi atteggiamenti. Proprio il Buzz che vedevamo in Toy Story, soprattutto nel primo film.

Zurg: un cattivo a metà

Zurg in una scena di Lightyear (2022) nuovo film Disney Pixar

Ho generalmente apprezzato il personaggio di Zurg: è coerente con quello di Toy Story ed è stato un bel colpo di scena. Il punto di partenza della morale più adulta del film, che però pecca in un elemento fondamentale: il minutaggio.

Al personaggio di Zurg non viene evidentemente dato il tempo di respirare: viene introdotto, viene spiegata la sua storia, ma nel giro di pochissimo tempo Buzz gli si rivolta contro. E da quel momento diventa semplicemente il personaggio di Zurg di Toy Story, ovvero un cattivo molto tipico e stereotipato. E con un minutaggio risicato.

Lightyear e una trama imperfetta

Complessivamente parlando, la trama di Lightyear mi è piaciuta: ben strutturata, con alcuni momenti abbastanza prevedibili, ma comunque toccanti. Per esempio, mi aspettavo assolutamente che Alisha morisse, ma lo stesso, vedendo Buzz che entra nell’ufficio vuoto, mi si è stretto il cuore.

Nonostante la trama riesca a ben posizionare le pedine in gioco, tende ad incartarsi nella parte centrale. Infatti i protagonisti vengono continuamente messi davanti a continui ostacoli, in maniera quasi estenuante.

Anche se non penso che fosse quello l’intento, questa dinamica dà taglio di verosimiglianza alla vicenda. Infatti, a differenza della finzione cinematografica, è molto più credibile che in una situazione reale i personaggi si sarebbero trovati davanti a una marea di imprevisti.

La doppia morale

Lighyear in una scena di Lightyear (2022) nuovo film Disney Pixar

Dal punto di vista della morale, il film si struttura su due livelli: la morale per il pubblico di bambini e la morale per il pubblico di adulti. Molto Pixar, senza dubbio.

La morale per i bambini, drammaticamente didascalica, riguarda l’importanza di non isolarsi e intestardirsi sulle proprie idee, ma cercare di lavorare di squadra. Infatti Buzz è per la maggior parte restio a lavorare con gli altri personaggi, sottovalutandoli, ma alla fine capisce il loro valore, proprio come Alisha aveva fatto con lui.

La morale adulta riguarda invece il non inseguire un sogno impossibile e non sapersi godere la propria vita per quello che è, con i suoi alti e bassi. Una morale davvero bella e toccante, con una messa in scene molto convincitene. Peccato che sia la stessa morale di Up (2009).

Una comicità non sempre vincente

Lightyear è un film che sembra volerti far continuamente ridere, buttando lì battute pensate probabilmente più che altro per un pubblico infantile. Soprattutto all’inizio, ho trovato quasi fastidiosa questa continua insistenza. Tuttavia, all’interno della pellicola ci sono diversi momenti in cui ho riso sinceramente.

La maggior parte, ovviamente, sono collegati a Sox, un personaggio su cui non contavo per nulla, ma che invece è stato fra i miei preferiti dell’intero film.

Lightyear è il film che ha guardato Andy?

Volevo aggiungere questa piccola coda alla fine della recensione, perché penso di non essere l’unica ad essersi fatta questa domanda. All’inizio del film viene detto esplicitamente che Lightyear è il film che vide Andy nel 1995 e che lo fece innamorare del personaggio.

Ovviamente, questo non è possibile. Il film di Lightyear nel 1995 non sarebbe mai stato un film dove il protagonista viene messo così tanto in discussione, con una morale del genere, con un cast così inclusivo.

Sarebbe stato al contrario un film alla Terminator, ma nello spazio, pieno di violenza edulcorata e un trash che solamente gli Anni Novanta possono regalarci.

Ma, ovviamente, qui parliamo di sospensione dell’incredulità totale. E va bene così.

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Yes Man – Vuoi cambiare la tua vita?

Yes Man (2008), per la regia di Peyton Reed, fu uno degli ultimi film da star di Jim Carrey, dopo gli splendidi successi, sia in ambito drammatico che comico, di film come Ace Ventura (1994) e Eternal sunshine of the spotless mind (2004).

Il film fu comunque un discreto successo al botteghino (223 milioni di dollari contro 70 di budget), ricevendo recensioni miste dalla critica e dal pubblico.

Insomma, non esattamente il film più iconico di questo straordinario attore.

Un Jim Carrey che mi sembra arrivato ad un punto della sua carriera dove aveva già sperimentato moltissimo coi generi, e che in questo film cerca di dare sempre il meglio di sé, non sempre riuscendoci.

Insomma, quasi il suo canto del cigno.

Di cosa parla Yes Man?

Carl lavora per una banca e, dopo il fallimento del suo matrimonio, è diventato un uomo chiuso in sé stesso, che trascura i suoi amici e le sue relazioni. Per un particolare incontro deciderà di partecipare ad un programma che impone di dire sì a tutte le proposte che gli arrivano, indipendentemente da cosa si tratta.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Yes Man?

Jim Carrey, John Michael Higgins e Terence Stamp in una scena di Yes Man (2008) per la regia di Peyton Reed

Sì e no.

Personalmente Yes Man non sarebbe il primo film che consiglierei nella lunga carriera di Carrey.

Indubbiamente un film dove si è cercato di prendere una via diversa: una classica commedia del periodo, ma che cerca di prendere una strada più profonda e matura. Non riuscendoci sempre del tutto.

In questo film ho visto un Carrey che, all’apice della sua carriera, cerca di rendere organica la recitazione comica e drammatica, con risultati altalenanti. In generale, non è un film che mi sento di sconsigliare.

Tuttavia, davanti alla scelta di commedie più valide, quantomeno a livello intrattenitivo, come Una settimana da Dio (2003) e The Mask (1994), non sarebbe appunto la mia prima scelta. Ma, se volete avere un panorama completo della carriera di Carrey, non potete sicuramente perdervelo.

La parabola dell’uomo triste

Jim Carrey in una scena di Yes Man (2008) per la regia di Peyton Reed

Mi ha da subito colpito la tristezza del personaggio di Carl: anche la recitazione di Carrey trasmette un grande senso di tristezza e rassegnazione, di persona delusa dalla vita che vuole saperne nulla delle opportunità che gli vengono offerte.

Da subito pensavo che ci sarebbe stato un elemento magico alla Una settimana da Dio, invece Yes Man racconta la parabola di un uomo che ha perso ogni fiducia nel mondo e che deve cercare di rimettersi da solo in carreggiata e saper rischiare.

Per quanto ovviamente sia tutto portato all’estremo, ho preferito che si raccontasse un impegno e una maturazione che il protagonista fa per sé stesso, non obbligato o avvantaggiato da una forza esterna e irrazionale.

Ovviamente la soluzione finale per cui il protagonista si era auto suggestionato dall’idea di terribili conseguenze è piuttosto abusata, ma nel complesso è apprezzabile.

La recitazione altalenante

Jim Carrey e Zooey Deschanel in una scena di Yes Man (2008) per la regia di Peyton Reed

Paradossalmente, la recitazione della giovane Zooey Deschanel l’ho trovata più convincente di quella di Jim Carrey. Il problema di Carrey in questo film è il non riuscire a dosare la recitazione comica per fare in modo che sia coerente con quella drammatica.

Se appunto all’inizio cominciamo con un Carrey che è un uomo triste e incattivito, con la scelta della nuova vita esplode in una recitazione che per certi tratti si avvicina a quella folle di Ace Ventura, passando eccessivamente da un estremo all’altro.

Molto lontano, per me, dalle capacità che aveva dimostrato appena cinque anni prima in Una settimana da Dio.

Al contrario Zooey Deschanel, nella sua semplicità, è la scelta di casting perfetta: è una ragazza davvero adorabile e innocua, con una recitazione quasi infantile, ma che la rende la controparte perfetta a Carl.

Cadere negli eccessi

Jim Carrey in una scena di Yes Man (2008) per la regia di Peyton Reed

Un grave problema del film, per fortuna limitato, è quello di voler scadere nella comicità veramente spicciola in alcune sequenze.

Questo aspetto è particolarmente fastidioso all’interno di una commedia che, come detto, cerca di dare un minimo di profondità in più alla vicenda. Insomma, le stesse dinamiche in un film come The Mask non mi avrebbe dato così fastidio.

Mi riferisco particolarmente alla scena del rapporto con l’anziana vicina di casa di Carl, davvero di cattivo gusto, e alla presunta punchline finale del film, dove tutti i partecipanti al congresso di Yes Man hanno rinunciato ai propri vestiti, che ho trovato trovata veramente poco vincente e coerente col tono del film.

Come nella maggior parte dei film di Jim Carrey, sono presenti attori presenti in praticamente tutte le commedie del periodo o diventati famosi in altri prodotti.

Anzitutto ovviamente Zooey Deschanel, che divenne famosa per la serie New Girl a partire dal 2011, e Bradley Cooper, che dopo aver bivacchiato in diversi prodotti di questo tipo, raggiunse una prima notorietà con Una notte da leoni (2009).

Altri piccoli cameo: Terence Stamp, qui il capo degli Yes Man, è nella seconda stagione di His Dark Materials; Rhys Darby, il bizzarro Norman, è l’NPC che accompagna i personaggi all’inizio del gioco in Jumanji (2017).

Luis Guzmán, l’uomo che Carl salva dal suicidio, è il poliziotto messicano in Come ti spaccio la famiglia (2013); infine John Michael Higgins è un caratterista presente in diversi film di questo tipo, fra cui Bad Teacher (2010).