L’isola dei cani (2018) è la seconda avventura animata in stop-motiondi Wes Anderson, dopo l’ottimo Fantastic Mr. Fox(2009).
A fronte di un budget abbastanza contenuto – 35 milioni di dollari – fu un discreto flop commerciale, con appena 64 milioni di incasso.
Di cosa parla L’isola dei cani?
Giappone, 1938. A fronte di un’epidemia di influenza canina, il perfido sindaco di Megasaki ordina di mettere tutti i cani in quarantena su un’isola di rifiuti.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere L’isola dei cani?
Assolutamente sì.
Dopo aver ampiamente apprezzato Fantastic Mr. Fox, ero sicura che avrei altrettanto gradito la visione del delizioso L’isola dei cani, in cui si trova tutto il meglio dello stile e della filmografia di Wes Anderson: una storia che gioca fra la favola e il grottesco…
…in una sorta di thriller politico impreziosito da splendide scelte estetiche e di scrittura, per un film incredibilmente trasversale, che raggiunge il pubblico più giovane per la dinamica favolistica, ma che riesce anche ad incontrare un’audience più adulta.
Insomma, da non perdere.
Guerra
L’incipit de L’isola dei cani è uno dei miei momenti preferiti.
Riprendendo la tradizione nipponica della divisione in ere, si racconta una storia dal sapore quasi eroico, che funge sia da prologo, sia in qualche modo da foreshadowing della vicenda stessa – il piccolo samurai è sostanzialmente Atari, e così tutta la situazione di conflitto del passato è assai simile alle vicende raccontate dalla pellicola.
Tuttavia, il presente non è più consolante.
Anche se non è subito esplicitamente detto, appare chiaro come l’influenza canina non sia altro che una pallida scusa per liberarsi della tanto odiata popolazione canina, cominciando proprio colpendo al cuore del sindaco – e, come scopriremo poi, del suo figlio adottivo – esiliando il povero Spots.
Selvaggio
L’isola dei cani è un luogo selvaggio.
E Chief si sente a casa.
Fin da subito il protagonista respinge ogni tipo di contatto con l’umano invasore, ponendosi in una posizione di distanza dagli altri cani, accomunato da un’origine più o meno borghese, da un padrone a cui sentono di appartenere e da cui vorrebbero tornare…
…mentre Chief si è lasciato definire dal quel mondo che l’ha schiacciato ed isolato, rivendicano quella vergogna sociale – essere un randagio senza padrone – come invece un motivo di vanto, nonostante la grande tristezza che accompagna il doloroso racconto del suo passato.
Per questo, il viaggio con Atari è il suo più grande ostacolo.
Equilibrio
In L’isola dei caniWes Anderson è (ancora) in stato di grazia.
Questa pellicola rappresenta dal mio punto di vista l’ultimo momento prima di una caduta di stile nella totale autoreferenzialità nei successivi The French Dispatch (2021) e Asteroid city (2023), in cui ancora Anderson riesce a giocare molto bene fra i due poli opposti della sua estetica.
Da una parte, un’estetica ricca e minuziosa, basata su una perfetta simmetria e su tinte pastello, che accompagnano anche un taglio narrativo che per la maggior parte abbraccia toni favolistici ed idilliaci…
… dall’altra, inserti più dark, che spaziano dal grottesco al crudo realismo – come la gabbia con dentro le ossa del presunto Spots – fino all’effettivo thriller politico con tinte quasi hitchcockiane.
Un equilibrio, insomma, che ricorda molto da vicino l’appena precedente Grand Budapest Hotel(2016).
Rinascita
La rinascita di Chief, paradossalmente, passa per Atari.
Diventati improvvisamente compagni di viaggio, inizialmente il protagonista si dimostra piuttosto ostile all’idea di accompagnare questo giovane ragazzo – come d’altronde prima si era persino rifiutato di lasciarsi medicare da lui.
Così ne segue un apparente distacco definitivo…
…che si conclude invece positivamente ad un ritorno di Chief sui suoi passi, lasciandosi progressivamente sempre più adottare da Atari, il cui rapporto raggiunge il suo apice grazie al bagnetto: un momento che sembra solo un piccolo quadretto intimo fra i due…
…ma che in realtà definisce la rinascita del protagonista: proprio come Richie in The Royal Tenenbaums (2001), anche Chief, liberandosi della sporcizia che l’aveva definito come un aggressivo randagio, si riscopre in una nuova veste.
Lieto fine
Il finale de L’isola dei cani è un altro esempio di ottimo equilibrio.
Tutta la dinamica politica alterna toni molto diversi: da una parte è effettivamente una storia piuttosto sanguinosa, in cui una sorta di governo ombrasceglie da dietro le quinte le sorti del Giappone e, soprattutto, della sua popolazione canina.
Per questo non mancano tutti gli elementi tipici di un thriller fantascientifico: un’epidemia controllata, un’isola prigione, nemici politici misteriosamente tolti di scena per degli apparenti suicidi inspiegabili…
Eppure, tutta la vicenda è veramente a misura di bambino: accogliendo dei toni propri del cinema per ragazzi, la pellicola racconta la tipica storia di un gruppo di giovanissimi che comprende la vera portata della macchinazione in atto prima degli adulti stessi.
Proprio per questo il finale è quasi un lieto fine, in cui i ragazzini che tanto adorano i loro cani si sostituiscono ai più aspri adulti che li volevano eliminare, creando delle leggi anche fin troppo dure per punire chiunque si permetta di mettere le mani sui loro amati compagni di vita.
Walter Mitty è un impiegato di una rivista di fotogiornalismo, ed ha una particolarità: sognare costantemente ad occhi aperti.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di guardare I sogni segreti di Walter Mitty?
Assolutamente sì.
Ma arrivateci preparati.
Dopo aver conquistato il pubblico prima con Zoolander (2001) e poi con Tropic Thunder (2008), I sogni segreti di Walter Mitty rappresentò la svolta di Ben Stiller come regista verso il genere drammatico – e questa idea potrebbe lasciarvi spiazzati.
Tuttavia, se accoglierete benevolente questa sua nuova narrativa, ne potrete rimanere facilmente incantati: Stiller gioca molto con il genere drammatico, riuscendo a portare in scena una storia apparentemente molto prevedibile, arricchendola invece con un taglio molto credibile e coi piedi per terra.
Insomma, da non perdere.
Sogno
Mitty è un sognatore…
…in un mondo ostile.
Non riuscendo neanche a chiedere un appuntamento alla donna dei suoi sogni, trovandosi nel mezzo di un ridimensionamento totale dell’azienda per cui ha dato la vita, Mitty si trova bloccato in un drammatico limbo...
…che può sfuggire solo tramite il sogno.
Un sogno che non rappresenta necessariamente una rivincita, ma più in generale uno scenario in cui, finalmente, il suo personaggio diventa estremamente attivo, in cui è finalmente il protagonista, l’eroe improbabile di una vita su cui, invece, non sembra di avere alcun controllo.
Eppure, nel mondo reale sembra destinato a rimanere solo sullo sfondo.
Sfondo
Mitty vive nelle retrovie.
Nonostante svolga un lavoro di primaria importanza, senza il quale la stessa rivista non sarebbe possibile, la sua figura è profondamente sottovalutata, considerata niente più che uno strumento per finalizzare la chiusura dell’azienda.
Anzi, Mitty è considerato proprio uno strambo, uno sfogo per i suoi colleghi quanto per Ted Hendricks, che lo deride a più riprese per il suo essere sempre sulle nuvole – al contempo, lasciandosi in più momenti gabbare da Mitty in maniera sempre più improbabile.
Per questo, l’intervento di Sean è fondamentale per più motivi.
Anzitutto, perché permette a Mitty finalmente di relazionarsi faccia a faccia con Cheryl, intrecciando una relazione che, se nel suo sogno poteva sbocciare solo se il protagonista avesse assunto sembianze altre, in realtà riesce a concretizzarsi grazie al progressivo apprezzamento della donna per le doti nascoste di Mitty.
Allo stesso modo, il mistero della foto è la scusa per Mitty per – finalmente! – partire per quell’avventura che finora aveva solamente sognato, che sembra costantemente metterlo alla prova, al contempo concretizzando delle fantasie che sulla carta parevano improbabili.
E proprio qui sta il gioco del film.
Sogno…
Per il primo atto, I sogni segreti di Walter Mitty ci abitua ad un’improvvisa escalation dei sogni del protagonista, che partono da situazioni in generale credibili, per poi andarsi a perdere in dinamiche sempre più improbabili – e proprie dei peggiori B-movie.
Proprio per questo, la sua partenza improvvisa alla caccia della foto impossibile sembra l’inizio di una di queste fantasie, anche per via dell’intrusione di elementi di familiarità che sembrano propri del sogno – la torta della madre, il ristorante dell’infanzia…
…ma anche di dinamiche spiccatamente fantasiose – come la serenata di Cheryl che convince Mitty a salire sull’aereo – che potrebbero persino fare credere allo spettatore di trovarsi in una sorta di fantasia nella fantasia di inceptioniana memoria – ma che invece si frantumano davanti agli innegabili elementi di realtà.
Infatti, proprio qui è la chiave di lettura fondamentale del film.
…e realtà
L’avventura di Mitty è costantemente riportata con i piedi per terra.
In questa apparentemente fantasia, vengono a più riprese inseriti elementi di disturbo, che suggeriscono sempre più insistentemente che l’avventura è (quasi) del tutto reale: così Mitty cade dalla bicicletta rubata, viene attaccato da uno squalo e sbaglia totalmente il salto dall’elicottero.
Si crea così un’indimenticabile alternanza di toni e di dinamiche, in cui progressivamente la fantasia di Mitty si spegne perché, in qualche modo, non più necessaria: l’avventura della vita reale, finalmente, diventa appagante e concreta.
E proprio in questa dinamica si trova una particolare finezza di scrittura.
Stiller sceglie consapevolmente di non caricare il film di momenti eclatanti, non volendo rendere i momenti chiave della pellicola smaccatamente a favore dell’emozione facile del pubblico, ma, al contrario, li vuole raccontare come altrettanto importanti e preziosi proprio grazie alla lezione fondamentale di Sean.
Una figura tanto eroica che racconta come l’emozione più raccolta, vissuta senza un filtro nel mezzo, sia ancora più folgorante…
…e che, più di tutti i suoi soggetti della sua incredibile carriera, il suo preferito è sempre stato questo piccolo e timido sognatore che viveva dietro le quinte, che si riscopre infine protagonista di una realtà che sembrava averlo lasciato indietro.
Riley è una ragazzina di 11 anni con una vita molto felice. Eppure qualcosa di strano sta succedendo nella sua testa…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Inside out?
Assolutamente sì.
Inside out è uno dei migliori prodotti Pixar usciti dopo la piccola parentesi di produzioni meno indovinate fra il 2011 e il 2013, tornando ai grandi fasti dei primi, indimenticabili film, portando in scena un piccolo cult molto popolare ancora oggi.
E, soprattutto, la pellicola riesce nell’equilibrare la narrazione per renderla accessibile ad un pubblico infantile – in particolare, con i vari accenni comici – ma ampliando la platea per raccontare una storia incredibilmente trasversale.
Origine
All’inizio c’era solo Gioia.
Il suo personaggio rappresenta l’emozione dominante fin dall’inizio della storia, che combatte e tiene a bada gli altri sentimenti, che appaiono per lo più negativi ed incontrollabili – e che, per questo, necessitano di una guida che sappia mettere un freno ai loro slanci.
In particolare, Tristezza viene costantemente messa da parte, considerata un’influenza unicamente negativa che deve il più possibile essere tenuta fuori dal bilancio giornaliero di Riley e dalla sua vita idilliaca.
Eppure, proprio qui sta il problema.
La ragazzina ha una personalità piacevole e frizzante, derivata dai suoi Ricordi Base, esclusivamente gioiosi, e non ha sostanzialmente nulla di cui lamentarsi: una famiglia accogliente e supportiva, amicizie fraterne e solide, una vita sostanzialmente felice…
…che in un attimo viene stravolta da un brusco cambio di scenario, in cui Riley tenta con tutte le sue forze di vedere il lato positivo, ma che, fra il dormire in una stanza spoglia, la pizza con gli odiati broccoli e l’ansia per la nuova scuola, sembra davvero impossibile.
Ma Riley è costretta ad essere felice.
Deriva
Quando Gioia sembra ormai costretta a farsi da parte in una giornata disastrosa, la madre interviene in un modo apparentemente molto positivo, in realtà assolutamente disastroso per il benessere emotivo della protagonista:
si congratula con lei per riuscire ad essere felice, nonostante tutto.
Così Riley si trova sostanzialmente costretta a nascondere le sue vere e complesse emozioni, e, appena messa al centro dell’attenzione con una delle sue più grandi paure – essere chiamata dalla maestra – crolla totalmente su sé stessa.
Infatti, anche se Tristezza è stata programmaticamente messa da parte, non riesce a trattenersi dall’intrufolarsi in questa delicata situazione, andando adinquinare quei ricordi felici che hanno definito la personalità di Riley fino a questo momento…
…e a creare così un ricordo fondamentale del tutto infelice.
Ma questo è solo l’inizio di una grande e fondamentale avventura.
Percorso
Il viaggio di Tristezza e Gioia funziona in due direzioni.
Da una parte, mostra l’intricato quanto spesso divertente dietro le quinte della testa di Riley, che ricorda in qualche modo i fasti di Esplorando il corpo umano (1987 – 88) in cui la mente della protagonista è una piccola fabbrica con le sue diverse sezioni e regole.
Dall’altra, racconta ancora più esplicitamente il rapporto fra le due emozioni, in condizione di totale antagonismo, dovuto anche ad una sostanziale superficialità di Gioia, che ha sempre considerato in maniera esclusivamente negativa Tristezza.
E proprio per questa non la ascolta.
Infatti, Gioia si intestardisce verso una conclusione dell’avventura semplice e positiva, non riuscendo ad accettare il crollare progressivo dei capisaldi della personalità di Riley – in particolare, la famiglia – e rimanendo sostanzialmente indifferente ai consigli di Tristezza.
Una tendenza che si nota molto chiaramente quando, nonostante gli avvertimenti della sua compagna di viaggio, Gioia sceglie di seguire Bing Bong nella sua disastrosa scorciatoia, e così anche quando si intestardisce che l’unico modo per svegliare Riley sia con immagini gioiose e assurde, invece che con la più semplice paura.
In senso più generale, Gioia non capisce l’oblio.
Oblio
La memoria è fondamentale quanto l’oblio.
Vivendo in un momento di passaggio, è del tutto normale per Riley dimenticarsi di alcuni ricordi inutili– come nozioni puramente scolastiche – o lasciarsi alle spalle elementi fin troppo legati alla sfera infantile – come il castello delle principesse…
…o lo stesso Bing Bong.
L’amico immaginario di Riley è privilegiato da Gioia perché legato ad una fase della vita della ragazzina più semplice ed immediata, definita da emozioni chiare e divise a compartimenti stagni.
E, soprattutto, Bing Bong è legato ad emozioni del tutto positive.
E proprio Bing Bong è una delle vittime dell’autodistruzione disastrosa – quando necessaria – dei capisaldi della sua personalità di Riley, ormai in balia di istinti immediati ed emozioni esplosive ed incontrollabili.
Insomma, per Riley è ora di crescere.
Crescere
La crescita è equilibrio e varietà.
Possiamo notare che la mente della madre di Riley l’emozione di punta sia la Tristezza, nonostante la donna si dimostri in più momenti propositiva ed accogliente, per nulla quindi dominata da un unico sentimento, ma capace di mantenere solido un equilibrio emotivo fondamentaleper l’essere adulti.
Proprio per questo Gioia, che in un primo momento aveva cercato di mettere da parte Tristezza, capisce come questo sentimento sia in realtà presente anche nei momenti che pensava fossero esclusivamente felici, e come sia anzi necessario per plasmare la personalità della protagonista.
Per questo infine Riley si sente rinata, torna dalla sua famiglia e accetta finalmente che i suoi ricordi positivi le trasmettano invece una forte malinconia, capendo al contempo come gli stessi possano essere anche l’occasione per ripartire come una persona diversa e più consapevole.
Così la sua mente è ora aperta a nuove reazioni ed emozioni, a ricordi non più definiti da un unico sentimento, ma resi significativi perché nati dall’unione di più di questi, sia positivi che negativi, per definire una nuova, variegata personalità.
Kinds of Kindness (2024) è una raccolta di mediometraggi ad opera di Yorgos Lanthimos, uscita a poca distanza da Poor Things (2023).
Di cosa parla Kinds of Kindness?
Attraverso tre storie con un terzetto di attori che si scambiano di ruolo, il regista porta in scena storie di dipendenza emotiva: un uomo che cerca la sua indipendenza, una crisi matrimoniale piuttosto carnale e una donna bloccata fra due ossessioni.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Kinds of Kindness?
Assolutamente sì.
Mi permetto di sbilanciarmi nel consigliarvelo, perché Kinds of Kindness rappresenta tutto quello che avrei voluto vedere da Lanthimos dai tempi de La Favorita (2018): una commedia grottesca che porta in scena storie surreali ma, al contempo, verosimili.
Proprio per questo, se vi aspettate qualcosa di simile a Poor Things, ne rimarrete assai delusi: il regista greco torna sotto la direzione del suo sceneggiatore storico per lanciare – dopo tanto tempo – una zampata provocatoria che ricorda molto lo splendido Alps (2011).
Insomma, arrivare preparati.
Marionetta
La prima storia di Kinds of Kindness è forse la mia preferita del terzetto.
Come tipico del Lanthimos prima maniera, la dinamica in scena viene introdotta con grande lentezza.
Così, si spargono briciole di indizi: dai costosi regali di Raymond, dalla moglie del protagonista che chiosa su quantoil magnate abbia fatto per loro, fino ad arrivare alla scheda con tutti i compiti da seguire.
Di fatto Robert è caduto nella rete di un apparente mecenate, godendosi grandi favori puramente materiali – la casa, i regali costosi, la sua stessa moglie… – per finire ad essere nient’altro che una marionetta da comandare a bacchetta.
Ma qual è il limite?
Ribellione
Raymond non ha un limite.
All’uomo non interessa la felicità di Robert, ma solo divertirsi ad libitum con lui, spingendo sempre più in là quella linea di demarcazione – forse mai esistita – fino a chiedergli di mettere programmaticamente in pericolo la sua stessa vita.
Dalla timida ribellione di Robert capiamo quanto il protagonista sia convinto di avere un rapporto alla pari con il suo protettore, tanto da poter discutere le sue richieste, non rendendosi conto invece di essere un giocattolo nelle mani di un uomo con la sindrome di Dio.
Altrimenti?
Alternativa
Esiste una vita senza Raymond?
Il dramma di Robert non è rappresentato tanto dalla presenza costante e opprimente del suo padrone…
…ma, piuttosto, dalla mancanza di un’alternativa: più la sua ribellione prosegue, più il protagonista si rende conto di non essere capace di prendere autonomamente alcuna scelta nella vita – neanche su quale drink ordinare…
Così, lasciato solo, resosi conto che persino moglie era solo una gentile concessione di Raymond, Robert cade in un vortice di immobilismo in cui è incapace di prendersi cura di sé stesso, in cui ogni cosa, persino i preziosi regali di Robert, perdono valore…
E il tentativo di riavvicinamento è disperato…
Dispetto
Robert non ha altro desiderio che tornare indietro.
Tornare ad un’esistenza pedissequamente programmata, spogliato di ogni tipo di libero arbitrio…
…ma, al contempo, ad un’esistenza molto più significativa del vortice depressivo in cui è ricaduto, in cui vaga senza una meta precisa, se non, infine, riuscire a riconquistare la fiducia e l’affetto di Raymond.
Ma ormai Robert è stato sostituito.
Per questo, non gli rimane altro che il dispetto.
Il protagonista cerca di avvicinarsi alla nuova favorita del suo ex-padrone usando gli stessi, patetici mezzi che Raymond gli aveva dato, mettendo in atto quelli che non sono altro che dispettucci – riprendersi la sua racchetta…
…e, infine, togliere violentemente di mezzo una delle tante pedine del magnate: il misterioso autista coinvolto in quell’incidente quasi mortale che Robert non ha avuto veramente il coraggio di affrontare.
Corpo
Sapreste dire con certezza che il vostro compagno di vita è proprio lui?
Il protagonista del secondo mediometraggio si sente in una condizione di grande compatimento.
La scomparsa improvvisa della moglie ha lasciato un vuoto incolmabile nella sua vita – come si nota dalla sedia immancabilmente vuota durante la cena – e, per questo, pretende di essere assecondato dagli altri in ogni sua richiesta.
Nella primissima parte della storia infatti riesce a piegare la volontà dei suoi amici proprio grazie alla pietà che questi provano nei suoi confronti, costretti a riguardare il filmino ricordo dell’orgia con Liz.
Ma il vuoto è davvero incolmabile.
Apparenze
Come succederà poi anche per la terza parte, anche nello spezzone centrale di Kinds of Kindness vi è un ribaltamento programmatico delle aspettative.
Sulle prime sembra la storia pare un thriller quasi orrorifico, in cui la falsa Liz sembra aver preso il posto della vera e amatissima moglie, lasciandosi cogliere in fallo da particolari – le scarpe che non le entrano – e da comportamenti anomali – la richiesta di sesso in divisa.
In realtà basta poco per capire che l’uomo è intrappolato in una sorta di profezia che si autoavvera: più che voler indietro la moglie, George vuole ricevere il compatimento degli altri per essere, ancora una volta, la vittima della storia…
…e, al contempo, vedere fino a che punto si spinge l’amore di Liz.
Viva
Perché Liz accetta le assurde richieste di George?
Vista dall’esterno la loro sanguinosa crisi matrimoniale dovrebbe portare la donna a scappare immediatamente dal sadismo del marito…
…ma, in realtà, anche Liz è intrappolata in una dipendenza emotiva: anche se consapevole di cosa significhi stare con George, la donna è convinta che non troverà mai altrove una fonte di amore così continua come quella del suo presente matrimonio.
Per questo lascia che il marito si nutra di lei, che la umili nei suoi tentativi di farsi amare – come quando George ammette candidamente di non aver neanche assaggiato il dito che Liz aveva preparato per lui, ma di averlo dato in pasto al gatto.
Così George assiste sadicamente felice alla moglie che accetta ogni sua richiesta, disposta persino ad estrarsi il fegato a mani nude per compiacerlo, così da autoeliminarsi e lasciare finalmente il posto alla vera Liz.
Insomma, Liz è morta, viva Liz!
Scelta
Il terzo mediometraggio è quello che mi ha convinto di meno.
Assistiamo alla disperata quanto ossessiva ricerca di Emily di questa fantomatica figura con inimmaginabili poteri curativi, quasi come il tentativo di avere almeno un obbiettivo in una vita altrimenti drammaticamente vuota.
La protagonista infatti si culla nell’esclusività di questi eletti, convinti di possedere il dono della purezza, proprio per non aver avuto rapporti sessuali con nessun altro se non i santoni a capo della setta – tramite una prova piuttosto gravosa…
Ma l’alternativa è migliore?
Trappola
Sulle prime verrebbe da pensare che Emily si sia lasciata indottrinare dalla setta e che abbia così rifuggito la sua amorevole famiglia.
La stessa entra in scena solamente nella parte centrale della storia, rimanendo programmaticamente nascosta, prima di rivelarsi nella sua vera natura.
Infatti, il marito di Emily non è per nulla meglio del fanatismo di Omi, anzi almeno quest’ultimo, pur nella sua follia, offre grandi vantaggi ai suoi eletti in cambio della loro fedeltà.
Così il terribile atto di drogare e, di fatto, violentare la moglie alla prima occasione, per Emily non è grave per il disgustoso comportamento del marito – anche perché forse non era neanche la prima volta…
…ma piuttosto perché in questo modo la donna è stata contaminata, e rischia di essere esclusa dalla sua amata setta.
Ed infatti è quello che succede.
Ma non è finita qui…
Riscatto
Emily spera ancora di riscattarsi.
E infatti riesce a mettere le mani sulla donna desiderata senza un particolare sforzo: basta un primo contatto con la sua gemella, il sacrificio necessario ma voluto della stessa per apparecchiare le condizioni ideali per il rientro nella comunità.
Ma basta una breve distrazione per finire fuori strada, per essere l’artefice dell’assassino di quella debole quanto necessaria ultima connessione con la setta per mandare nuovamente all’aria la vita di Emily.
Ancora una volta, il sogno mostra tutta la sua fragilità.
Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman è il diciannovesimo Classico Disney e l’ultimo uscito sotto la supervisione di Walt Disney, che venne a mancare proprio l’anno prima.
Mowgli è un orfano abbandonato nella giungla, che crescerà sotto la protezione (e minaccia) di diversi animali…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Il libro della giungla?
Assolutamente sì.
Il libro della giungla è un ottimo esempio di racconto di formazione mascherato, la cui prospettiva cambia se visto con un occhio più adulto, capace di cogliere i sottili sottintesi presenti nella pellicola.
Inoltre, pur facendosi portatore di una mentalità molto distante dallo spettatore contemporaneo, è uno splendido spaccato della stessa, impreziosito da personaggi iconici, anche se spesso niente più che protagonisti di siparietti comici quasi fine a sé stessi.
Il libro della giungla dietro le qunte
Queste le parole di Bill Peet, sceneggiatore di moltissimi Classici a partire da Biancaneve e i sette nani (1937), che propose l’opera di Rudyard Kipling come punto di partenza per il nuovo prodotto targato Disney.
La prima idea di sceneggiatura, che cercò di semplificare molto il romanzo originale – dove, per esempio, Mowgli faceva avanti e indietro dal villaggio – e aggiungere personaggi – soprattutto Re Luigi – fu considerata poco vendibile da Disney.
Per questo, Bill Peet abbandonò la Disney nel 1964.
A questo punto Walt Disney assunse Larry Clemmons come nuovo sceneggiatore, dandogli il libro e intimandolo più o meno scherzosamente di non leggerlo, intervenendo a più riprese nella gestione della sua ultima storia.
La sceneggiatura eliminò molte scelte di Bill Peet, ma mantenne i caratteri dei personaggi, che dovevano essere l’asse portante del film: la sceneggiatura era più un modello di scene da cui partire, poi riempite dagli sceneggiatori di gag e battute.
Il casting vocale fu essenziale.
Molta della personalità e dell’aspetto dei personaggi fu modellato sui suoi doppiatori – sopratutto per Shere Khan, doppiato da George Sanders – e inizialmente si pensava ad una partecipazione dei Beatles per gli avvolti – da cui le particolari capigliature – ma che non andò mai in porto.
L’animazione fu fatta con la xenografia e con un’animazione più grezza rispetto ad altri prodotti precedenti – specificatamente Dumbo(1941) – e gli sfondi vennero dipinti a mano.
Famiglia
La famiglia di Mowgli è usa-e-getta.
Bagheera – il padre spirituale del protagonista – non volendosi prendere in toto sulle spalle la formazione del neonato, sceglie di lasciarlo nelle amorevoli – ma potenzialmente anche pericolose – zampe di una neonata famiglia di lupi.
Un punto di partenza che però funge più da prologo: il quadretto familiare viene dopo poco vanificato dall’intrusione della missione del protagonista e dall’introduzione – seppur solo a parole – dell’antagonista.
Per questo le poche – e uniche – battute del padre lupo di Mowgli lasciano leggermente spiazzati: il suo personaggio esprime un affetto per il protagonista che in scena è stato appena accennato, e accetta senza troppe proteste la decisione del clan di allontanarlo.
E, in questo modo, rimane l’unico personaggio a scomparire totalmente dalla scena.
Crescere
Di cosa parla veramente Il libro della giungla?
Questa prima fase della vita di Mowgli è, molto banalmente, l’infanzia – e su più livelli: vivendo sotto la protezione di un branco di lupi, il protagonista è rimasto fin qui all’oscuro della vera natura della giungla – e, per estensione, della vita.
Per questo Mowgli non capisce perché Bagheera voglia condurlo in un villaggio umano, non capisce perché non può vivere in una realtà in cui fino a quel momento era stato amorevolmente accolto.
Eppure, la sua natura indifesa è in più momenti rivelata.
Nonostante, infatti, cerchi a più riprese di imitare gli altri animali – il giovane elefante Hathi Jr., e poi Baloo – in realtà Mowgli manca proprio degli strumenti essenziali per sopravvivere in quell’ambiente – banalmente, quando si lamenta di non avere gli artigli per arrampicarsi al sicuro su un albero.
E, non a caso, mentre tutti i personaggi animali combattono con le loro risorse naturali – e sfruttando l’ambiente che li circonda – Mowgli affronta e sconfigge Shere Khan con armi squisitamente umane – il bastone e poi il fuoco.
Ma le tentazioni sono molteplici.
Tentazioni
Le tentazioni della giungla sono rappresentate da un ventaglio piuttosto variegato di personaggi…
…e che si aprono a diverse letture.
Il primo – e più insidioso – è sicuramente Khaa: questo maligno serpente vive di una doppia natura, risultando infido, ma anche piuttosto fallace – vista la facilità con cui si lascia stanare da Shere Khan.
Il suo personaggio racconta molto banalmente le tentazioni che deviano l’umano dalla retta via – sempre all’interno della stringente idea sociale degli Anni Sessanta – con tentazioni appetibili e mortali insieme – droga, alcol, gioco d’azzardo…scegliete voi.
Ancora più significativo è Re Luigi.
Se considerato come villain, l’orango è l’esatto opposto di Shere Khan: così innamorato dell’umano da voler usare Mowgli per comprendere ancora meglio quel passaggio evolutivo che gli sembra negato.
Al contempo, rappresenta il potenziale smarrimento del protagonista, che, intestardendosi nell’essere un animale, nel vivere nella giungla, rischia di perdere la sua vera natura umana – e, di conseguenza, non crescere mai.
Infine, l’icona del film: Baloo.
Il simpatico orso rappresenta forse la figura più lontana dall’immaginario contemporaneo: come il suo personaggio sceglie una vita semplice, fatta di poche, indispensabili risorse, del vivere alla giornata e senza una particolare programmaticità…
…nella visione del tempo Baloo rappresenta una vita caotica e senza certezze – la stessa di Biagio in Lilli e il vagabondo(1955) – un’eterna giovinezza mancante del passaggio dovuto e necessario alla vita adulta (e matrimoniale).
Paura
Shere Khan è la vera minaccia.
Un villain davvero straordinario, che rimane nell’ombra per molto tempo, raccontandosi come un antagonista su più livelli: non immediatamente aggressivo, ma in primo luogo macchinatore, che ascolta quello che lo circonda e medita sul momento giusto per attaccare.
Al contempo, sembra un villain imbattibile: Shere Khan supera in violenza e forza tutti gli altri personaggi, ed è insidiato solamente dagli strumenti umani che Mowgli utilizza contro di lui – motivo per cui voleva eliminarlo preventivamente.
Ma il confronto con Mowgli è ancora più rivelatorio.
Shere Khan rimane piuttosto stupito dall’arroganza di questo bambino, che non sembra per nulla minacciato dalla sua presenza, ancora una volta dimostrando di non avere idea dei pericoli della giungla dove vorrebbe tanto vivere.
Di fatto, l’utilizzo di armi umane segna il passaggio fondamentale del protagonista – che comincia ad abbracciare la sua umanità e capisce come deve rapportarsi con la giungla – che lo porta alla scelta fondamentale.
E la scelta appare ancora più stringente per l’incontro con gli avvoltoi.
Questo piacevolissimo siparietto comico racconta in realtà un sottofondo piuttosto lugubre: tutta l’interazione si basa sul doppio significato di being down – essere giù di morale, ma anche essere giù, per terra – e di being around – stare insieme, ma anche intorno, come gli avvoltoi su un cadavere…
Quindi la giusta scelta di Mowgli, se non vuole andare incontro ad un destino mortale, è scegliersi una buona moglie, che, mentre raccoglie l’acqua al fiume, racconta esplicitamente quale sarà l’appetibile vita del protagonista se deciderà di seguirla.
La spada nella roccia (1963) è il diciottesimo Classico Disney, nonché l’ultimo uscito prima della morte di Walt Disney – e l’ultimo che supervisionò direttamente.
Artù è un giovane ragazzo orfano destinato a diventare uno scudiero. Ma il destino ha in mente qualcosa di diverso per lui…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere La spada nella roccia?
Assolutamente sì.
Anche se spesso è considerato un film minore nella storia della Disney di questo periodo, La spada nella roccia è una pellicola da riscoprire: ereditando la narrazione per quadri di Lilli e il Vagabondo (1955), questo Classico è un tipico coming of age…
…ma che riesce a distinguersi da molti suoi simili grazie ad un umorismo piacevolissimo, una morale che rappresenta un incontro fra realtà storica ed evoluzione del protagonista piuttosto peculiare, e momenti ormai diventati iconici.
Insomma, da vedere.
La spada nella roccia Produzione
La spada nella roccia era nei piani della Disney fin dal 1939.
Infatti quell’anno Walt Disney acquistò i diritti per trasporre l’opera di T. H. White, ma in piani produttivi saltarono più volte negli anni, prima di tutto per lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, e poi per il progressivo disinteresse nei confronti del progetto.
Proprio come La carica dei 101(1961), anche la sceneggiatura de La spada nella roccia fu sviluppata da un unico autore, che richiese non meno di due rielaborazioni, anche per la difficoltà intrinseca di adattare l’opera di partenza.
Il casting vocale fu turbolento.
La prima scelta per il doppiaggio di Artù fu Rickie Sorensen, che però crebbe considerevolmente durante la produzione, al punto da dover essere sostituito da due figli del regista, Wolfgang Reitherman.
Ne consegue che, fra una scena e l’altra, e persino all’interno della stessa scena, si può notare un cambiamento vocale per il personaggio di Artù.
Per la parte animata si utilizzò ancora una volta la tecnica Xerox, con l’aggiunta della tecnica touch-upper la fase di pulizia delle bozze che andavano poi effettivamente a comporre le immagini della pellicola.
Grazie a questa nuova idea, gli assistenti di animazione, che prima avrebbero dovuto trasferire gli schizzi degli animatori della regia su nuovi fogli di carta, scrivevano invece direttamente sugli schizzi degli animatori, riuscendo così a risparmiare molto tempo.
Immaturità
Pur con qualche perdonabile ingenuità, il racconto dell’immaturità storica de La spada nella roccia è davvero ottimo.
Il periodo portato in scena può essere volgarmente collocato nell’Alto Medioevo, sicuramente in un’epoca pre-carolingia: per quanto secoli non così devastanti come spesso raccontati, comunque rappresentarono un momento di grande povertà e di dispersione culturale.
Il deterioramento del sistema scolastico, la frammentazione del panorama intellettuale, dovuta anche alla devastazione politica, rende infatti credibile un analfabetismo diffuso e un’epoca basata unicamente sul valore della forza.
E proprio qui si inserisce Merlino.
Prospettiva
Merlino rappresenta lo spettatore…
…e con lo stesso dialoga.
Avendo una prospettiva – seppur non chiarissima – dell’evoluzione umana, quasi da umanista incallito, Merlino non riesce a sopportare questo guazzabuglio medievale, quasi come se fosse lo spettatore contemporaneo calato in una realtà senza elettricità, senza idraulica, senza cultura…
Proprio per questo, l’educazione di Artù non è fine a sé stessa.
Merlino non vuole solo educare il futuro Re di un’Inghilterra mancante di una guida, mancante di alcun tipo di lungimiranza, ma vuole fare in modo che lo stesso sia il punto di svolta per la stessa, soprattutto culturalmente parlando.
In questo senso il mago esagera anche nel suo coinvolgimento – proponendo materie, come la biologia, che non esistevano proprio in quel periodo – ma proprio perché nella sua prospettiva è fondamentale gettare le basi per un’Europa acculturata e con una visione proiettata verso il futuro.
Per questo Artù non è Artù…
Corrispondenza
Senza voler portare un’eccessiva sovralettura, il personaggio di Artù, più che corrispondente al mitico condottiero britannico del VI sec., è una rappresentazione più o meno consapevole di Carlo Magno.
Saltando qualche secolo in avanti e spostandoci a livello geografico, il leggendario Re dei Franchi era sostanzialmente una analfabeta che gettò le basi culturali fondamentali per la rinascita intellettuale dell’Occidente fra il Basso Medioevo e l’Età Umanistica.
Insomma, una figura storica capace di cambiare prospettiva.
Ed è proprio questa la base della sua apparentemente stramba educazione.
Merlino cerca di porre il giovane pupillo in vesti diverse e molto più indifese, dove Artù deve capire come salvarsi la pelle grazie al suo intelletto e non più (solamente) tramite la forza, proprio per portare ad una visione molto più a lungo raggio.
In questo modo Artù potrà effettivamente essere il Re che farà cambiare prospettiva al suo Paese e all’Occidente tutto, proprio mentre l’Inghilterra sta cercando il suo prossimo regnante – e la sua prossima guida – ancora tramite una prova di forza.
Ostacolo
Perché Artù può estrarre la spada?
Anche se la sfuriata di Merlino quando il giovane protagonista sceglie di diventare uno scudiero sembra troppo improvvisa, in realtà è del tutto giustificata: nonostante i suoi grandi sforzi, il suo pupillo sceglie comunque di sottomettersi alla cultura dominante…
…e di porsi anzi in secondo piano in un mondo definito da scontri all’ultimo sangue e da una totale dimenticanza del vero simbolo che avrebbe definito il futuro del Paese – la Spada nella Roccia – che viene riscoperto proprio dal protagonista.
E Artù può estrarre la spada perché, nonostante la sua poca forza fisica, ha dimostrato in più occasioni di sapersi – anche solo potenzialmente – adattare a circostanze cangianti e sfidanti, e quindi di essere capace, a differenza dei suoi compatrioti, di diventare la guida di cui il suo Paese ha bisogno.
Per questo Merlino sceglie di tornare da Artù proprio nel momento di maggior bisogno, quando lo stesso ha mosso il primo passo nella sua evoluzione, ma quando ha ancora bisogno di una insegnante che gli faccia guardare al futuro con una maggior consapevolezza e intelligenza.
Tremila anni di attesa (2022) di George Miller, traduzione abbastanza impropria di Three Thousand Years of Longing, è un incontro piuttosto curioso fra il genere fantastico e il dramma storico.
Alithea è una studiosa britannica che da tempo soffre di apparenti allucinazioni. Ma qualcosa di molto concreto sta per accadere nella sua vita…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Tremila anni di attesa?
Assolutamente sì.
DopoFury Road (2015), anche con Tremila anni d’attesa George Miller ha dimostrato di essere un autore estremamente creativo e multiforme, sostanzialmente incapace di fossilizzarsi sul genere che gli ha sostanzialmente definito il successo ad Hollywood…
…ma volendo sperimentare, qui e altrove, con generi e dinamiche molto diverse fra loro, riuscendo comunque a confezionare un racconto avvincente, impreziosito da una morale per nulla scontata.
Insomma, da riscoprire.
Aspettative
Con tematiche di questo tipo è facile risultare banali…
…soprattutto nel tentativo di essere originali.
Invece, fin da subito, Miller sorprende con dinamiche ben equilibrate e, in qualche modo, persino credibili: Alithea non prova a strofinare la lampada perché pensa che ci sia dentro un genio, ma piuttosto la pulisce con uno spazzolino elettrico…
…e così il djinn non parla immediatamente in inglese, ma comincia col la lingua di Omero.
Allo stesso modo, la reazione della protagonista è piuttosto graduale.
La donna è sulle prime molto – giustamente – sospettosa nei confronti del genio, memore delle innumerevoli storie in cui diversi umani sprovveduti sono stati intrappolati dai loro stessi desideri mal espressi…
E, per questo, deve essere convinta del contrario.
Vittima
Il djinn è, in un certo senso, la vera vittima della storia.
Dopo essere stato imprigionato in una trama dal forte sapore biblico, finisce sfortunatamente nelle mani della classica protagonista delle storie di questo tipo: una sciocca ragazza che si sente fin troppo sicura dei suoi desideri, e che per questo finisce schiacciata dagli stessi.
E, al contempo, il djinndimostra la sua impotenza.
Nonostante sia una creatura millenaria, con poteri inimmaginabili, può poco davanti al reticolo di inganni e di autodistruzione che avvelena la corte, in cui basta un sussurro, un dubbio, per fare cadere un castello di carte già piuttosto fragile…
Ed il genio è tanto più impotente davanti alla scarsa lunghezza di vedute della ragazza, che si dimostra incapace di reagire e di salvare sé stessa – e di conseguenza anche il djinn – andando proprio a sottolineare la sua forte dipendenza dall’umano.
Occasione
Quello che potremmo chiamare l’atto centrale di Tremila anni d’attesa funge più quasi intermezzo.
Il djinn rimane per lungo tempo sullo sfondo della sua stessa storia, ancora una volta articolata su un domino invisibile di eventi che si concatenano e che cambiano da un momento all’altro la sorte dei personaggi – compreso lo stesso genio.
Così l’umore altalenante del sultano viene solo temporaneamente quietato da un innamoramento fin troppo breve, e la sua improvvisa morte getta nel caos il regno stesso, che finisce nelle mani di un bambinone e delle sue concubine, incapaci di gestire alcunché…
…fra cui la sorte dello stesso djinn.
Ma sembra che il destino abbia qualcosa in serbo per lui…
Legame
L’ultima avventura del djinn sembra essere quella decisiva.
Finito nelle mani di una giovane donna con un intelletto sgargiante, imprigionata in un matrimonio soffocante, il djinn ha finalmente la possibilità di realizzare dei sogni che arricchiscono non solo la sua padrona, ma anche lui stesso.
Ma proprio questo è la sua rovina.
Avendo desiderato per millenni di entrare nell’aldilà promesso dei djinn, il protagonista finisce per legarsi in maniera inaspettata con Zefir, con cui concepisce persino un figlio, ma che, nonostante l’incredibile conoscenza acquisita, è come tutti vittima delle sue debolezze.
Infatti, basta un momento di incomprensione per fare esprimere involontariamente alla donna il suo ultimo desiderio, che effettivamente rappresenta la profondità del suo cuore in quel momento, ma che la condanna ad una vita di oblio.
Allora è questa la volta buona per il djinn?
Desiderio
Cosa desidera veramente Alithea?
A differenza di tutti gli altri umani prima di lei, la donna non sembra essere mossa da particolari necessità.
Tuttavia, questa sua ritrosia nel trovare un desiderio soddisfacente è in realtà specchio del suo essersi ormai in qualche modo arresa alla vita: avendo bruciato quell’unica occasione di fuga dalla solitudine, ormai la sua esistenza non ha più bisogno di altri sconvolgimenti.
Eppure, è proprio questo il suo più intimo desiderio.
Il desiderio che la protagonista infine esprime è di realizzare finalmente una relazione duratura e travolgente, che possa compensare a quella solitudine che l’ha turbata più di quanto sarebbe disposta ad ammettere…
…e che porta ad incatenare il djinn su un piano dell’esistenza che non è il suo.
Per questo il finale è così calzante.
Proprio rinunciando al suo desiderio, Alithea si differenzia dagli altri umani che, in un modo o nell’altro, si erano fatti distruggere dalle loro stesse passioni, scegliendo invece una serena esistenza puntellata da poche ma essenziali felicità.
La carica dei 101 (1961) è il diciassettesimo Classico Disney, che salvò la compagnia dal collasso economico dopo le ingenti perdite di La bella addormentata nel bosco(1959).
Infatti, a fronte di un budget di circa 4 milioni di dollari, alla sua prima uscita incassò 14 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla La carica dei 101?
Pongo e Peggy sono due orgogliosi genitori di quindici splendidi dalmata. Ma non solo gli unici ad essere interessati alla cucciolata…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere La carica dei 101?
Assolutamente sì.
La carica dei 101 è uno splendido esempio di animazione di questo periodo, con un racconto ben strutturato e dai toni anche piuttosto cupi – e curiosamente anche molto espliciti – e con il secondo villain di fila genuinamente malvagio…
…che pone questa proposta secondo me diverse spanne sopra all’altra avventura canina – Lilli e il vagabondo(1955) – anche per via di una particolare capacità di portare in scena la contemporaneità in maniera frizzante e piuttosto indovinata.
Insomma, da non perdere.
La carica dei 101 Produzione
La carica dei 101 era uno dei progetti di cui Walt Disney era più sicuro…
…al punto che – per questo e altri motivi – partecipò poco alla produzione.
Infatti, il romanzo originale, uscito nel 1956 e appena un anno dopo Walt Disney ne acquistò i diritti, tanto era colpito dalla storia, e affidò, per la prima volta nella storia della casa di produzione, la storia ad un unico sceneggiatore.
La sceneggiatura seguì pedissequamente il libro, ma condensò diversi personaggi in uno.
Ad esempio, nella versione originale i cuccioli avevano ben due madri – una biologica e una adottiva – e così anche due tate, e Crudelia aveva anche un marito e un gatto, assenti nel film.
La scena del matrimonio creò qualche malumore.
Inizialmente infatti Anita e Rudy si univano con una solenne cerimonia religiosa, poi ripetuta dai due cani, scelta considerata in qualche modo offensiva, e per questo mutata con un matrimonio in abiti civili perché apparisse meno religioso.
In un momento di grande crisi per la Disney, dove c’era la concreta possibilità di chiudere il reparto animato, si cercarono modi per risparmiare: in particolare, si utilizzò la molto più economica tecnica Xerox per alleggerire tempi e budget.
Ovviamente, come per tutti i prodotti di questo periodo, si utilizzarono modelli sia umani che canini per agevolare il lavoro degli animatori.
Motore
Pongo è fin da subito il motore dell’azione.
Fra l’altro, l’ironia iniziale è semplicemente sublime: la storia viene introdotta da una voce fuori campo senza volto, che lo spettatore associa ovviamente al giovane uomo che sta suonando il pianoforte…
…ma che invece si rivela essere quella di Pongo, che infatti appella il suo padrone come pet – che indica specificatamente l’animale domestico, in italiano in maniera più ironica lo chiama fido compagno.
E, in effetti, è proprio Rudy ad essere il compagno di Pongo, non il contrario.
Di fatto il cane protagonista si preoccupa per l’arida vita sentimentale del suo padrone, e comincia a sondare il terreno per trovargli una compagna, con una passerella deliziosamente ironica di cani e padroni che si assomigliano fin troppo…
E così, per quanto le dinamiche del primo attoscorrono piuttosto spedite – in men che non si dica Rudy e Anita sono sposati e poco dopo Pongo e Peggy hanno la cucciolata – la dinamica iniziale è ben strutturata, con un’apparente situazione disastrosa che si conclude al meglio.
Ma vi è un ulteriore significato.
Segreto
Le dinamiche de La carica dei 101 sono sottilmente geniali proprio perché parlano direttamente al cuore del bambino.
Infatti, come venne confermato anche dai successivi successi di Genitori in trappola(1998) e, sopratutto, di Toy Story (1995), raccontare un mondo segreto agli adulti, ma assolutamente necessario per gli stessi, presenta un’attrattiva incredibile per il pubblico infantile.
Così i bambini si potevano facilmente identificare in Pongo – non a caso, narratore per la maggior parte del tempo – che mette in atto un piano ben studiato per salvare la situazione più volte…
…senza che spesso gli stessi padroni se ne rendano conto.
Questa dinamica è infatti ancora più rafforzata da questa presunta rete segreta canina (e non) che permette di intervenire nel salvataggio dei cuccioli rapiti dove la stessa polizia londinese è stata incapace di mettere la zampa, sfruttando anche l’ingenuità degli umani – che non pensano che i cani possano essere così intelligenti.
Un elemento che accompagna tutta la narrazione e che raggiunge la sua ideale conclusione quando tutta la famiglia (ormai allargata) torna finalmente a casa davanti agli occhi stupiti di Rudy e Anita – ricalcando in un certo senso il finale di Le avventure di Peter Pan(1953).
Ma c’è di più.
Contemporaneo
Un altro grande punto di forza de La carica dei 101 è il suo essere incredibilmente contemporaneo.
Il diciassettesimo Classico Disney rappresentò infatti molto intelligentemente la nuova grande attrattiva per il pubblico di bambini e adulti: la televisione, che ormai era una costante nei salotti di molti spettatori, oltre ad essere una grande attrattiva per i più piccoli.
Non a caso, la stessa è in più momenti sia l’occasione di gag – come quella splendida del programma Indovina il mio crimine? – ma anche un elemento fondamentale della storia: grazie alla televisione il Sergente Tibbs riesce a far scappare i cuccioli…
…anche se uno di loro rischiava di rimanere indietro proprio perché ipnotizzato dalla stessa.
La televisione, inoltre, permette di portare in scena un quadretto familiare contemporaneo e piuttosto realistico, in cui la famiglia canina si comporta proprio come la sua controparte umana…
…rendendo la visione del programma tv con protagonista l’eroico Fulmine proprio un appuntamento serale per adulti e cuccioli, una sorta di storia della buonanotteriadattata in una veste moderna.
Economico
Crudelia De Mon è un villain piuttosto trasversale.
Da una parte è una perfetta riproposizione del cattivo della storia alla Malefica: un antagonista veramente maligno e senza cuore, che i bambini riescono ad identificare chiaramente sia per il nome, sia per il suo esuberante aspetto.
Non a caso, Crudelia è chiamata anche strega, e per tutta la pellicola getta un’ombra di grande timore nelle vite dei protagonisti, dicendo piuttosto esplicitamente come voglia uccidere questi cuccioli per farci una pelliccia.
Al contempo, è un villain molto comprensibile per un adulto.
Infatti, Crudelia non è altro che una donna ricca e avida, interessata solamente al suo aspetto e ai suoi vestiti, che più volte deride Anita e Rudy per la loro condizione economica e sociale inferiore…
…e che cerca di far leva su di loro proprio per la questione economica: sarebbe stato in effetti molto difficile per questa famiglia piccolo borghese mantenere non meno di diciassette cani, che per questo Crudelia vuole acquistare per una forte somma.
Ma Rudy non ci sta.
Per certi versi il suo personaggio è l’eroe secondario della storia, un self-made man che non solo si impunta per non farsi comprare da Crudelia, ma anzi sfrutta la cattiveria della donna a suo vantaggio per creare una canzone di successo.
Infatti, i soldi non sono mai una vera attrattiva: nella scena finale, quando si scopre che effettivamente la canzone è stata un investimento vantaggioso, Rudy è felice solamente quando ritrova i suoi cani, scegliendo di usare i suoi guadagni non per vivere nel lusso…
…ma per comprare una casa ancora più grande con la sua nuova famiglia.
Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller rappresenta il rilancio della saga storica di Mad Max e il sequel spiritualedi Mad Max oltre la sfera del tuono (1985).
Nonostante abbia ricevuto diversi riconoscimenti agli Oscar di quell’anno, al tempo della sua uscita fu un discreto flop commerciale: con un budget fra i 154 e 185 milioni, incassò appena 380 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla Mad Max: Fury Road?
Mad Max, un anti-eroe perseguitato dal suo passato, si trova involontariamente coinvolto nei complessi giochi di potere di Immortan Joe e della sua Imperatrice, Furiosa.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Mad Max: Fury Road?
Assolutamente sì.
Fury Road è un ottimo esempio di come rilanciare una saga così profondamente legata per estetica e per dinamiche al periodo storico di uscita – insomma, esattamente il contrario di Il risveglio della Forza, che fra l’altro arrivò in sala lo stesso anno…
Infatti Miller confezionò una pellicola che si ricollega in maniera semplice ma funzionale a quanto visto in precedenza, ricostruendo il suo antieroe e il suo mondo ancora una volta con una regia spettacolare e piena di sorprese.
Insomma, da non perdere.
Rinascita
L’incipit di Fury Road è fondamentale.
A ben trent’anni di distanza dall’ultimo capitolo della saga, era necessario per Miller dare un’infarinatura generale del suo protagonista anche alle nuove generazioni di spettatori, assolutamente all’oscuro dei film originali.
Per questo, sceglie di rimescolare un po’ le carte in tavola, riprendere alcuni spunti di Oltre la sfera del tuono – i bimbi sperduti che Max salvava – per raccontare un antieroe solitario, costantemente perseguitato dai suoi rimpianti, che ne definiscono l’iconica pazzia.
E tanto basta.
La personalità di Max è infatti profondamente turbata, tanto che sceglie programmaticamente di non legarsi mai veramente a nessuno, proprio per i dolorosi ricordi di non essere riuscito a salvare le persone a cui più teneva.
E proprio per questo il suo personaggio funge anche da vettore per catapultare – e catapultarsi – nella rinnovata scena politica dominata da Immortan Joe – fra l’altro una vecchia conoscenza, in quanto interpretato dal compianto Hugh Keays-Byrne, il villain di Mad Max (1979).
Succube
Non a caso, per tutto il primo atto Max è succube della situazione.
Spogliato, rasato, reso letteralmente una sacca di sangue alla mercé di uno di War Boys, il suo coinvolgimento nella preparazione della nuova corsa ci permette di gettare uno sguardo al dietro le quinte, alla precisa gerarchia della Cittadella.
Di fatto, Immortan Joe, preparato per presentarsi al pubblico con i suoi simboli distintivi, affama – o, meglio, asseta – il suo popolo mantenendo il totale monopolio sulla seconda risorsa più ricercata in questo nuovo mondo: l’acqua.
E il suo punto di forza è proprio la santificazione.
Immortan Joe non è un semplice dittatore, ma un personaggio che è riuscito a rendersi epico, in quanto immortale e apparentemente imbattibile, già solo andando a rimodellare il respiratore che lo tiene in vita non come un handicap, ma come una maschera feroce e temibile.
Sulla stessa linea, il villain sventa qualsiasi ipotesi di rivolta proprio modellando la sua forza militare intorno ad un mito eroico dal sapore norreno, in cui ogni soldato, anche il più inetto, può sperare di essere accolto nel Valhalla, la valle degli eroi.
Per questo Furiosa è fondamentale.
Ribellione
La ribellione di Furiosa viaggia su più livelli.
Di fatto, la donna vuole tornare alla sua terra d’origine, a quella terra dell’abbondanza da cui è stata rapita in giovane età e a cui ha cercato più volte di fare ritorno, fallendo anche per la sua crescente popolarità agli occhi di Immortan Joe.
Al contempo, Furiosa vuole salvare altre donnesuccubi, seppur in maniera diversa, della Cittadella.
Infatti, Immortan Joe tiene sotto scacco un gruppo di giovani e fertili donne con il solo obbiettivo di rimpolpare le sue file di War Boys, illudendole in una vita piena di lusso e comodità, per renderle sostanzialmente delle schiave sessuali.
E questa illusione, al pari del ricatto dell’acqua, è fortemente penetrata nelle menti di questi personaggi, tanto che in più di un’occasione una di loro ha l’istinto di tornare sui suoi passi, nella prigione dorata forse preferibile alla devastazione del mondo esterno…
E sia Furiosa che le madri sono accomunate dal loro essere indispensabili.
Non a caso, queste giovani donne sono particolarmente consapevoli del loro corpo e di come utilizzarlo a loro favore: particolarmente incisiva in questo senso la scena in cui Angharad minaccia di far saltare il bambino che porta in grembo.
Allo stesso modo, Furiosa è l’unica donna che in qualche modo Immortan Joe rispetta effettivamente, non rendendola solamente un’incubatrice o una fonte di latte materno, ma piuttosto la punta di diamante del suo esercito.
E, a questo punto, sorge una domanda fondamentale…
Centrale
Furiosa è la vera protagonista?
Per certi versi non è l’Imperatrice ad inserirsi nella storia di Mad Max, ma piuttosto il contrario: il protagonista della saga, in maniera in realtà molto tipica,inciampa nelle trame di un altro personaggio…
…e ne diventa parte fondamentale.
E la gestione in questo senso è sublime.
Una scrittura più ingenua avrebbe banalizzato il rapporto fra Max e Furiosa in una relazione amorosa, con una classica dinamica enemy to lovers – sulla falsariga di quello che succede, per certi versi, fra Nux e una delle madri in fuga.
Al contrario, il rapporto di fiducia fra i due personaggi si costruisce gradualmente, arrivando alla comune consapevolezza che entrambi stanno cercando la libertà – Max dalle catene, Furiosa dal controllo della Cittadella – diventando così compagni di fuga.
Ma se il paradiso verde non esiste…
Alternativa
Durante il loro viaggio, i protagonisti si imbattono quasi per caso in un luogo lugubre e a cui non dedicano più di uno sguardo…
…e che invece era effettivamente la loro meta.
Infatti, il felice rincontro con le Molte Madri si frantuma immediatamente davanti alla consapevolezza che il paradiso ricercato è stato ingoiato dalla devastazione che ha ormai avvelenato ogni cosa in questo scenario desertico e mortifero…
…e porta in prima battuta Furiosa ad avere l’istinto di diventare niente come Max: un viaggiatore in fuga, senza una meta, se non il pallido ricordo di un mondo che non esiste più, in una vita definita solo da dolorosi rimorsi.
Per questo, l’intervento di Max è fondamentale.
Il protagonista sceglie di dare a Furiosa una possibilità che ormai ha negato a sé stesso: costruire con le proprie forze un angolo felice in cui vivere all’interno della depressione presente, anche dove sembra più impossibile, proprio smascherando Immortan Joe…
Ma, proprio per questo, Max non può restare: dopo aver salvato la vita a Furiosa e dopo averla messa sul trono, il nostro eroe torna a cavalcare le strade, lasciando la nuova Imperatrice con uno sguardo d’intesa estremamente eloquente:
La bella addormentata nel bosco (1959) è il sedicesimo classico Disney basato sull’omonima fiaba dei Fratelli Grimm e sull’opera di Perrault in I racconti di Mamma Oca (1697).
A fronte di 6 milioni di dollari, fu un pesante insuccesso commerciale:appena 5,3 milioni di incasso, portando ad una perdita finanziaria tale da portare lo stesso Walt Disney a cominciare a disinteressarsi all’animazione…
Di cosa parla La bella addormentata nel bosco?
Il re Stefano e la regina Leah riescono dopo anni ad avere una bellissima bambina. Ma un invito mancato cambierà decisamente le carte in tavola…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere La bella addormentata nel bosco?
Assolutamente sì.
Con mia sincera sorpresa, La bella addormentata nel bosco potrebbe essere fra i miei Classici Disney preferiti di questa fase – e per un motivo molto semplice: la storia di Aurora e Filippo è incredibilmente accessoria, mentre il fulcro della trama è altrove.
Raramente si vede in un film Disney una presenza così preponderante del villain e dei personaggi – almeno sulla carta – secondari, che invece appaiono come i veri protagonisti della stessa – o, comunque, i motori dell’azione.
Insomma, ve lo consiglio molto.
La bella addormentata nel bosco Produzione
La bella addormentata nel bosco rappresentò l’inizio della rottura di Walt Disney con l’animazione.
La lavorazione del film cominciò infatti nel 1951, ma proseguì con grande lentezza quasi fino alla fine del decennio: se inizialmente si pensava di far uscire la pellicola nel 1953, la produzione venne rimandata di ben due anni per l’impegno di Walt Disney nell’apertura di Disneyland.
La produzione riprese effettivamente nel 1956 e si programmò la nuova uscita per il 1957, ma la costruzione del parco assorbì talmente tante risorse e budget che i tempi si allungarono ancora, e Walt Disney visionò il progetto solo nell’agosto del ’57…
…ma con poco ed effettivo interesse.
La direzione artistica si rifece molto ad una produzione precedente e simile: Biancaneve e i sette nani(1937), riprendendo alcune idee scartate da Walt Disney, come tutta la dinamica della cattura del principe e la danza nel bosco fra Aurora e Filippo.
Tuttavia, si presero importanti distanze dal primo Classico: anche se l’ispirazione estetica era simile, Walt Disney volle che questo nuovo prodotto si distinguesse in maniera netta dai precedenti…
…e per questo si scelse di abbandonare lo stile più dolce e arrotondato usato in precedenza per abbracciare invece un tratto più stilizzato e spigoloso, rifacendosi anche all’estetica propria del periodo storico rappresentato.
Inoltre, La bella addormentata nel bosco fu il primo Classico ad essere fotografato secondo il nuovo processo di widescreen – il Super Technirama 70 – riservato nella storia Disney a pochissimi prodotti, ma che permetteva una cura più articolata e complessa per gli sfondi.
Inoltre, fu anche l’ultimo classico Disney inchiostrato a mano: a partire dal successivo La carica dei 101(1961) ci si sarebbe spostati all’uso della xerografia per trasferire i disegni degli animatori dalla carta alla celluloide.
Protagonista
Aurora è così poco protagonista del suo stesso film da non apparire se non a storia già avviata.
Invece, le vere figure centrali sono subito in scena.
Dopo il breve prologo introduttivo che getta le basi della trama, appaiono fin da subito le sagge fate madrine, invitate per benedire la nascita di Aurora con un regalo a testa, dimostrando fin da subito il loro appoggio politico (?) al futuro del regno.
Questo sottile sottofondo è ben definito dall’arrivo di Malefica: i primi a reagire non sono i genitori di Aurora, ma bensì una delle tre fate, Serenella, profondamente offesa di essere definita plebaglia dalla nobile strega.
Ed è sempre la fatina ad affermare che Malefica non è benvoluta in quell’occasione, motivo per cui la Regina Leah, piuttosto impensierita, chiede – o, meglio, prega – la strega di non reagire all’offesa subita.
E la risposta di Malefica è piuttosto subdola…
Possibilità
Malefica avrebbe potuto uccidere Aurora immediatamente.
E invece sceglie una via ben peggiore.
Come si vedrà più avanti anche nel film, la punizione di Aurora non è niente di personalenei confronti della bambina, ma piuttosto una presa di posizione piuttosto forte politicamente parlando da parte della strega.
Infatti, maledicendo la protagonista con un destino crudele, Malefica si pone in una posizione di grande vantaggio rispetto a Re Stefano: la sua minaccia sarà presente sul suo regno e sul suo futuro per i prossimi sedici anni, a meno che…
…a meno che il Re non si faccia perdonare.
Infatti, anche se non viene detto esplicitamente, con la sua risposta Stefano prende una posizione molto chiara: invece che provare a porre rimedio all’offesa, appella Malefica in malo modo – strega, in inglese creature…
…e cerca, molto ingenuamente, di impedire che la profezia si avveri, distruggendo tutti gli arcolai.
E a questo punto la palla passa di nuovo alle fate.
Schema
In quanto veri motori dell’azione positiva della storia, le tre fate scelgono un modo ben più intelligente per proteggere Aurora.
Andando a nascondersi nel bosco, scegliendo abiti per così dire borghesie rinunciando di fatto alla loro magia, il terzetto capisce che il modo migliore per impedire che la maledizione di Malefica faccia il suo corso è di nascondere Aurora.
In questo contesto decisamente serio prende piede l’umorismo piuttosto piacevole della pellicola, finalizzato evidentemente ad ammorbidire una storia con un taglio molto cupo, nonché ricca di momenti al limite dell’orrorifico.
Inoltre, la scena del compleanno di Aurora cerca anche un po’ di ridimensionare le fate.
Non delle abili strateghe e macchinatrici come si era visto all’inizio, ma delle fatine un po’ pasticcione e testarde, che finiscono per rovinare un piano lungo sedici anni per via una contesa che, per quanto umoristicamente davvero gradevole, appare altresì assai sciocca.
Tuttavia, come vedremo anche successivamente, questa dinamica del piano che si rovina in pochi attimi offre anche il fianco ad un sottofondo piuttosto inquietante: la presenza di Malefica, per quanto la si combatta, è sempre in agguato.
E Aurora?
Desiderio
Aurora è la più classica principessa Disney.
Per quanto, come detto, non sia veramente la protagonista della storia, ma bensì una pedina nelle mani di diversi personaggi, ad Aurora viene regalato un ampio segmento centrale per riuscire a definirsi.
Di fatto la principessa non è tanto dissimile da Biancaneve – vive in armonia nel bosco e parla con gli animali – ma è soprattutto dotata di un elemento che si era visto finora solo con Cenerentola: la cosiddetta canzone del desiderio.
Del tutto ignara delle dinamiche politiche che si stanno svolgendo alle sue spalle, Aurora canta il suo desiderio – incontrare il principe dei suoi sogni – definendosi proprio come personaggio quasi onirico, del tutto slegato dalle brutture terrene.
Ed effettivamente il suo sogno si realizza: quello per Filippo – il primo principe effettivamente caratterizzato fino a questo momento – è un innamoramento a prima vista, un amore predestinato – soprattutto politicamente…
Ombra
Malefica è fin troppo sottovalutata.
Per quanto le fate abbiano progettato un piano apparentemente perfetto per salvaguardare il futuro di Aurora, si lasciano facilmente battere non solo facendosi scoprire in maniera piuttosto ingenua, ma soprattutto lasciando Aurora sola nel momento di maggior pericolo.
Purtroppo, la giovane principessa può poco davanti alla maledizione di Malefica: come in trance, si incammina obbediente verso il proprio nefasto destino, accompagnata da un commento sonoro estremamente incalzante…
…e a poco servono i suoi timidi tentativi di sottrarsi ai comandi della strega, finalmente vittoriosa di aver reso inerme il futuro del regno, e di aver così realizzato la sua maligna vendetta nei confronti di Stefano.
E, a questo punto, ancora una volta, la palla passa alle fate.
Campione
La maggior parte dei personaggi sono all’oscuro di quello che sta succedendo.
Le fate scelgono programmaticamente di nascondere la loro grave mancanza, immergendo tutto il castello in un limbo di sonno profondo, al pari di Aurora, così da poter avere il tempo di risolvere la spinosa vicenda.
In particolare, le fate hanno bisogno del loro campione.
Filippo è, al pari di Aurora, una pedina.
Conscia che il principe potrebbe mettergli i bastoni fra le ruote, Malefica non solo lo rapisce, ma lo carica di un destino persino peggiore di quello della principessa: potrà lasciare il castello e tornare dalla sua amata solo quando sarà vecchissimo e sostanzialmente inerme.
E, visto che evidentemente lo stesso è incapace di liberarsi da solo – e di salvare Aurora – le fate devono ancora una volta intervenire non solo per eliminare le sue catene, ma anche per dotarlo degli strumenti per battere Malefica.
Ne segue un duello particolarmente incalzante, in cui la strega fa di tutto per impedire a Filippo di arrivare al castello, persino affrontarlo di persona nelle vesti di un diabolico drago nero, che infine il principe riesce a battere…
…mostrando, per la prima volta, il cadavere di un villain Disney.
E a queste note piuttosto lugubri segue una chiusura invece piuttosto dolce e sognante, che meglio si accompagna alla coppia di innamorati, che danzano fra le nuvole in una perfetta armonia.
La bella addormentata nel bosco storia originale
La bella addormentata di Walt Disney cambiò diversi elementi rispetto alla fiaba originale.
Anzitutto, le fate non erano tre, ma ben sette – addirittura tredici nella versione dei Grimm – e Malefica non era che la più anziana fra loro, che non veniva invitata non per una scelta politica, ma bensì perché viveva nascosta, e non si era neanche sicuri che fosse ancora in vita.
Sempre riguardo alle fate, il loro piano di nascondere Aurora è del tutto inventato: nella storia originale la principessa viveva nel castello e semplicemente una sera incontrava una vecchia con un arcolaio e, non avendolo mai visto, veniva tratta in inganno.
La dinamica del finale è altresì estremamente differente.
Nella storia originale erano le stesse fate a circondare il castello con rovi e spine per proteggere Aurora, e passavano effettivamente molti anni prima che Filippo, che conosceva la storia della principessa, si avventurasse nel maniero per risvegliarla.
Al riguardo, le storie divergono molto: come le versioni più recenti di Grimm e Perrault fanno risvegliare Aurora con un bacio, in altre la ragazza è vittima di violenza sessuale dal principe e viene salvata dai suoi stessi figli che nascono in seguito.
Inoltre, la versione di Perrault aggiunge una seconda parte totalmente assente dalla versione dei Fratelli Grimm.
In questo frangente Filippo e la principessa (che in questo caso non ha nome) hanno due figli, Aurora e Giorno, che però il principe nasconde alla madre, in quanto discende da una famiglia di orchi divoratori di bambini.
La stessa cercherà di farsi servire per pranzo tutta la famiglia del principe, un piano sventato prima dal buon cuore del cuoco – che serve altre pietanze all’orchessa – e poi dall’arrivo tempestivo di Filippo, che impedisce alla madre di gettare i bambini fra le vipere, facendola invece suicidare.