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L’ascesa di Skywalker – La vendetta di Abrams

Star Wars – L’ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams, anche conosciuto come Episodio IX, è l’ultimo capitolo della cosiddetta trilogia sequel.

A fronte di un budget davvero enorme – 416 milioni di dollari – fu un grande successo commerciale – poco più di 1 miliardo di dollari – ma anche la conferma del progressivo abbandono del pubblico, incassando meno del precedente.

Di cosa parla L’ascesa di Skywalker?

Il ritorno di Palpatine risveglia i più grandi timori della Ribellione, mentre Rey si appresta ad affrontare il suo destino…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’ascesa di Skywalker?

Rey, Poe e Finn in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

No…?

L’ascesa di Skywalker è un disperato tentativo di mettere una pezza a Gli Ultimi Jedi (2017) e all’importante cambio di rotta di Rian Johnson, cercando il più possibile di annullarlo e, apparentemente, di dare al pubblico quello che vuole.

Ne risulta un film incredibilmente pasticciato, in cui i personaggi si muovono come marionette, spinti da un posto all’altro da meccanismi della trama e dalle totali inconsistenze della stessa, per un risultato veramente desolante…

Insomma, non mi prendo la responsabilità di consigliarvelo.

Cristo

Leia e Ray in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Uno dei limiti maggiori di L’ascesa di Skywalker è il tentativo di fare due film in uno…

…e, sostanzialmente, di annullare Gli Ultimi Jedi.

Una tendenza che si vede chiaramente fin dalla primissima scena di allenamento di Rey: vengono – per motivi di minutaggio – saltati a piè pari i momenti di effettivo incontro e scontro di Rey con la Forza, mostrandocela fin da subito come una Jedi incredibilmente capace.

Ed è solo l’inizio.

Ray in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Rey – ma anche Kylo – viene premiata con dei poteri veramente eccessivi – ma del tutto necessari per riuscire a portare avanti la trama – che avrebbero avuto un incredibile bisogno di essere introdotti e giustificati

Ne consegue che la protagonista non solo è capace di controllare i fulmini – tecnica incredibilmente complessa, soprattutto per un Jedi – ma di possedere anche poteri curativi al limite del cristologico, programmaticamente introdotti nella scena dell’incontro col serpente.

E non è neanche l’aspetto peggiore.

Soluzioni 

Ray, Poe e Finn in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

La trama e i personaggi vivono di deus ex machina.

Tutto il loro viaggio è puntellato da continui salvataggi e soluzioni servite su un piatto d’argento, ottenute veramente con poca fatica – Lando aveva sempre da parte il pugnale, C3-PO riesce a leggere la lingua Sith, la spia all’interno del Primo Ordine si rivela e li aiuta…

E ogni tentativo di rendere anche solo più drammatica o un minimo avvincente la loro ricerca cade inevitabilmente nel vuoto, in quanto tutti i possibili errori vengono risolti felicemente in pochissimo tempo, anche contro ogni logica.

Così Chewbacca per qualche motivo era su tutt’altra navicella, così Zorii Bliss passa dal voler uccidere Poe Dameron a regalargli la sua unica possibilità di costruirsi una nuova vita, per non parlare di come un pugnale riesce a corrisponde perfettamente alle rovine distrutte dal mare della Seconda Morte Nera…

Ma c’è un meccanismo della trama ancora più gustoso.

Presentimento

Ray e Poe in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Ogni qual volta che in L’ascesa di Skywalker non sanno come giustificare un momento della trama, si usa il presentimento.

Rey e Finn sono pieni di presentimenti e sensazioni del tutto ingiustificate, che permettono loro di prendere la scelta giusta – e il momento più alto è indubbiamente l’epifania di Finn su come distruggere la flotta di Palpatine e su quale fra le diverse navi prendere si mira.

Ray in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Questa dinamica è particolarmente e tragicamente rivelatoria di un’incapacità di scrittura già presente in Il risveglio della Forza (2015), ma che in questo caso diventa ancora più evidente per il suddetto desiderio di incastrare due film in una sola pellicola.

Oltretutto, questo elemento è anche più tragico nel finale, in cui si mostra tutta l’incapacità di costruire in maniera convincente l’alleanza dell’intera Galassia con la nuova grande minaccia di un morto redivivo…

Confusione

Palpatine in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Proprio come questo film, Palpatine non sa cosa vuole fare.

Lasciando anche da parte l’assurdità della sua rinascita dopo la sua morte in Il ritorno dello Jedi (1983), questa pellicola riesce a rendere il principale antagonista della saga un personaggio inconsistente, non riuscendo a dargli un chiaro piano di azione.

Probabilmente l’idea sulla carta era di portare in scena un villain nell’ombra, che cercava di manipolare Kylo per fare in modo che gli portasse la sua erede, così da farle prendere il suo posto come nuova Imperatrice del Final Order.

Ray in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Nel concreto, Palatine è totalmente confuso.

Parte dal voler – senza alcun motivo – eliminare Rey – cosa che poteva tranquillamente accadere – per poi dirle esplicitamente di ucciderlo per poterla possedere, per poi ricordarsi stupito – nonostante fosse il suo stesso piano – della Dualità della Forza.

Insomma, un villain introdotto all’ultimo dopo che Johnson aveva distrutto il vero cattivo della saga – Snoke – andando quindi a ripiegare su quello che Abrams sa fare meglio – e peggio: il fanservice esasperante.

Ombra

Ma il vero villain nell’ombra è Kylo.

Dovendo forzatamente riportare in scena Palpatine, il film finisce per mettere in ombra quello che dovrebbe essere il vero antagonista – e protagonista – di questo film, che finisce solo per rincorrere Rey e rimanere drammaticamente in secondo piano.

Un problema che si vede molto chiaramente nella scena della sua redenzione: un arco evolutivo che avrebbe dovuto svolgersi durante i tre film, ma che viene invece ridotto a pochi, patetici momenti.

Sembra insomma che basti una voce dall’etere della madre – con cui finora Kylo non aveva avuto nessun contatto – e il confronto con il fantasma del padre – oppure, secondo i produttori, il ricordo interattivo di Han Solo – per fargli cambiare idea.

E così diventa ancora più inconsistente il suo sacrificio, che ricalca quello di Anakin, per raccontare la storia di un villain vuoto e pasticciato, che non ha mai avuto un minimo di profondità…

…la stessa che manca al finale, in cui Rey si appropria di un nome che, evidentemente, non le appartiene.

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Lilli e il vagabondo – I terribili cani borghesi

Lilli e il vagabondo (1955) di registi vari è il quindicesimo Classico Disney e il primo uscito sotto la Buena Vista Distribution.

A fronte di un budget di 4 milioni di dollari, fu il più grande incasso per la Disney dai tempi di Biancaneve e i sette nani (1937), con 6.5 milioni di dollari al botteghino.

Di cosa parla Lilli e il vagabondo?

Inghilterra, 1909. Lilli è una cocker amata e coccolata dalla sua famiglia. Ma sta per arrivare un intruso nella sua vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Lilli e il vagabondo?

In generale, sì.

Lilli e il vagabondo non è il più indimenticabile prodotto della Disney di questo periodo, ma è comunque una visione piuttosto piacevole, rimasta nella memoria degli spettatori per diverse scene iconiche –  di cui una piuttosto inquietante…

I suoi più importanti difetti sono rappresentati da una trama che funziona più ad episodi, con dei collegamenti fra i diversi momenti del film non sempre centrati e del tutto credibili, ma che possono nel complesso essere perdonati.

Lilli e il vagabondo Produzione

La storia di Lilli e il vagabondo fu ispirata ad una dinamica reale.

Già nel 1937 Joe Grant propose una prima idea della storia, facendo riferimento a come la sua cocker fosse stata messa da parte con l’arrivo del figlio, e negli anni sviluppò diverse idee e concept…

…ma nessuna che soddisfò Walt Disney.

Il fondatore della casa di Topolino era infatti scettico proprio sulla protagonista e sulla sua storia, troppo poco intrigante e con poca azione.

L’idea vincente arrivò all’inizio degli Anni Quaranta, quando Disney lesse su un quotidiano la breve storia Happy Dan, The Whistling Dog e propose a Grant di inserire il personaggio di Biagio.

Il lavoro continuò anche dopo l’abbandono di Grant dello studio, ma la pellicola prese forma solamente nel 1953, sulla base degli storyboard di Grant e sul racconto sopra citato.

Uno dei cambiamenti più significativi – o potenziali tali – fu la scena iconica degli spaghetti: Walt Disney era deciso fino all’ultimo a tagliarla, considerandola troppo sciocca e poco efficace.

Ma uno degli animatori, Frank Thomas, era talmente convinto di volerla inserire che la animò senza sceneggiatura, riuscendo a stupire Walt Disney che infine si convinse a mantenerla all’interno della pellicola.

Lilli e il vagabondo fu anche il primo film Disney girato col Cinemascope, quindi con un taglio dello schermo più ampio.

Questo cambiamento pose diversi problemi agli animatori, che potevano contare meno sui primi piani e avevano problemi a rendere i personaggi dominanti in una scena che altrimenti sarebbe apparsa piuttosto vuota.

Quadretto

La pellicola si apre con un quadretto familiare agrodolce.

L’arrivo di Lilli nella nuova casa è definito da un primo tentativo dei suoi padroni di addomesticarla, costringendo la cucciola a dormire nella cuccia in fondo alle scale che è stata preparata apposta per lei, con una dinamica che mi ha davvero stretto il cuore...

Ma questo è solo il primo passo della conquista di Lilli del cuore dei suoi genitori.

Come ogni bravo cane domestico, fin dal suo risveglio Lilli definisce lo spazio della casa e lo protegge, fungendo da sveglia forzata per i suoi padroni, doppiato il giardino e scacciando gli intrusi, per poi tornare con il giornale fresco di giornata in bocca.

E questa simpatica gag del quotidiano stracciato in realtà rivela molto di più: la presenza di Lilli ha illuminato la vita della famiglia, spogliandola di molte preoccupazioni e riuscendo finalmente a comporre un quadro famigliare appagante e genuinamente felice…

…ma è davvero così?

Seme

Biagio è, nel suo simpatico modo, un sobillatore.

La pellicola ci regala una breve introduzione del suo personaggio, uno spirito libero che nessuno è riuscito ad ingabbiare, che si rifiuta di far parte di una sola famiglia, ma di averne una per ogni giorno della settimana, arrivando non poco sottilmente a disprezzare l’alternativa.

E l’alternativa è proprio Lilli.

Il randagio si intrufola nella vita della protagonista nel momento di maggiore fragilità, dando voce e concretezza ai suoi dubbi e perplessità: un figlio in arrivo, per cui verrà inevitabilmente messa da parte e ridotta a mera presenza in una fredda cuccia nel giardino.

Questa inquietudine viene in prima battuta sventata dall’effettivo comportamento dei genitori, solo all’inizio piuttosto irrazionali nei loro comportamenti, ma che infine riescono infine a includere Lilli nella nuova realtà familiare senza troppi problemi.

Ma è una calma apparente…

Intruso

Per quanto iconico, lo snodo narrativo della zia Sara mi ha poco convinto.

La famiglia di Lilli abbandona su due piedi cane e figlio e li lascia alle cure di questa donna velenosa e piena di pregiudizi nei confronti dei cani, che si introduce in casa con una nuova minaccia nel taschino.

Così il siparietto inquietantissimo dei gatti siamesi che fanno a pezzi la casa e fanno ricadere la colpa su Lilli è evidentemente un meccanismo della trama per spingere definitivamente la protagonista nelle zampe di Biagio.

Tuttavia, la parte centrale è anche la più piacevole.

Nel loro scorrazzare, Biagio e Lilli prendono diverse vesti: rubagalline, venditori improvvisati e infine una coppia di innamorati nell’indimenticabile scena della pasta da Tony, una breve parentesi romantica prima del picco drammatico della pellicola.

Borghese

Il finale mi convince a tratti.

Mi hanno leggermente tediato le dinamiche del risentimento di Lilli nei confronti di Biagio, che si rifiuta di essere solamente la sua prossima conquista, e che già cerca di condurlo verso un suo snaturamento, da cane di strada a docile animale domestico.

Al contrario, piuttosto avvincente ed incalzante la scena del diabolico ratto che insidia la casa ed il bambino, e che permette alla coppia di rafforzare la fiducia nei confronti di Lilli, e infine di accogliere il randagio come nuovo membro della famiglia.

E proprio questa chiusura soffre di un taglio netto e sbrigativo.

Biagio ha presenta un cambio di carattere e di vita senza che venga mostrato alcun tipo di rimpianto, alcuna effettiva motivazione, se non l’affetto nei confronti di Lilli, che comunque non è abbastanza esplorato per giustificare questo cambiamento.

Eppure, questo finale che oggi fa sorridere, probabilmente per il pubblico degli Anni Cinquanta era la conclusione perfetta: un personaggio un po’ scapestrato, una mina vagante, che finalmente metteva la testa a posto e diventava un padre di famiglia squisitamente borghese.

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Gli Ultimi Jedi – Farò il mio Star Wars…

Star Wars – Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson, anche conosciuto come Episodio VIII, è il secondo capitolo della saga sequel.

Fin da subito si rivelò un prodotto assai divisivo: nonostante fu un grande successo commerciale – 1.3 miliardi di dollari di incasso per un budget di 300 milioni – il risultato al box office fu decisamente inferiore rispetto al precedente – e probabilmente influì sul flop del successivo Solo – A Star Wars Story (2018).

Di cosa parla Gli Ultimi Jedi?

Dopo aver ritrovato Luke Skywalker, Rey continua nella sua scoperta della Forza…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gli Ultimi Jedi?

Rey in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Ancora una volta, dipende.

Considero questa pellicola leggermente migliore de Il risveglio della Forza (2015): a livello di gusto strettamente personale, ha un umorismo che, per quando non ci azzecchi nulla con la saga, io personalmente apprezzo, e che almeno mi ha strappato qualche risata.

Ma, soprattutto, Episodio VIII riesce a risolvere un problema del capitolo precedente: rendere un minimo più credibili gli archi narrativi dei protagonisti, pur essendo peggiore per il resto nella gestione della storia, con un eccesso ingiustificato di personaggi e situazioni che, in ultima analisi, si rivela incapace di gestire.

Ma come avventura a sé stante potrebbe anche intrattenervi.

Posizione

Luke Skywalker in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Con il primo confronto fra Luke e Rey, Rian Johnson spiega chiaramente le sue intenzioni.

Ovvero, gettare dalla finestra il lavoro di Abrams.

In questo senso è veramente difficile capire quali parti della pellicola possano essere ricondotte alle poche direttive lasciate dal regista del primo film – il fanservice esasperante? Lo scheletro narrativo della storia di Finn? – ma tendenzialmente è chiaro che il nuovo regista ebbe sostanzialmente carta bianca.

E questo è un problema a tratti.

Leia Skywalker in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Di fatto, Johnson fece il suo Star Wars, che, soprattutto per l’avventura di Finn e Rose, ricorda molto più Solo che qualsiasi altro film della saga – e nel senso più negativo possibile: per me, semplicemente, spesso non sembra di star vedendo una storia ambientata nella Galassia Lontana Lontana.

Tuttavia, col senno di poi, alcuni spunti erano potenzialmente interessanti.

In particolare, Rey.

Oscuro

Rey in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Rey poteva essere nessuno.

La tendenza generale di Johnson era di aprire nuovi orizzonti alla saga con protagonisti dal passato oscuro, cercando finalmente di smarcare Star Wars dalla famiglia Skywalker, per evitare che diventasse una soap opera.

In questo modo la saga avrebbe potuto aprirsi a nuovi personaggi e nuove storie, senza dover sempre ricollegare tutto in maniera forzata, finendo per minare le possibilità di una storia che altrimenti si sarebbe potuta espandere in tantissime direzioni.

Rey in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Infatti, Rey viene raccontata semplicemente come un personaggio predestinato a diventare l’altra metà della Forza, nonostante non abbia nessun effettivo legame con la famiglia di Kylo, apparente antagonista che cerca disperatamente di salvare, ricalcando la storia di Luke in Il ritorno dello Jedi (1983).

Nonostante sia sicuramente un’idea ridondante, tutto sommato nella sua esecuzione tenta quantomeno di rendere più tridimensionali i suoi protagonisti, anche con il continuo confronto fra Luke, Rey e Kylo, che lascia molto più spazio di evoluzione ai personaggi di quanto non avesse fatto Episodio VII.

Genuino

Luke Skywalker in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

La gestione di Luke mi convince a metà.

Da una parte non mi dispiace l’idea di decostruire il personaggio, portandolo totalmente al suo opposto: da eroe che non si fermava davanti a nulla, a figura decaduta ed estremamente sfiduciata nei confronti del futuro della Forza e degli Jedi.

D’altra parte, capisco che questa non era – comprensibilmente – l’intenzione né di Abrams né di Mark Hamill stesso, che avrebbe voluto probabilmente raccontare il personaggio come un novello Yoda, che addestrava Rey per portarla ad essere pronta a scontrarsi con la sua nemesi.

Luke Skywalker e Leia in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

E, anche se mi dispiace vederlo tolto di scena nel giro di un film, mi convince tutto sommato il ruolo che ha nel finale, in cui gabba un Kylo così immaturo e accecato dalla frustrazione da rendersi neanche conto di star combattendo contro un fantasma.

Non forse la fine migliore, ma non sono sicura che Abrams avrebbe fatto meglio…

Discordanze

Fra Gli ultimi Jedi e L’ascesa di Skywalker (2019) c’è stato un inevitabile dialogo discordante.

Passando da film in film, i due registi presero e disfarono costantemente il lavoro dell’altro: se nel primo capitolo Kylo si mostrava per la maggior parte a volto coperto, nel sequel Johnson lo costringe a distruggere la maschera, la stessa che Abrams gli farà riparare…

…allo stesso modo Snoke, che nel primo capitolo poteva godere di una presenza scenica particolarmente minacciosa – sovrastava sempre il resto dei personaggi ed era quasi evanescente – sotto la gestione Johnson viene riportato con i piedi per terra e reso sostanzialmente sacrificabile.

E, come vedremo, questo sarà il più grande sgarbo a Abrams.

Ma il personaggio ancora una volta sacrificato è Finn.

Nel sequel vengono rimischiate le carte in tavola: il personaggio è più o meno forzatamente allontanato da Rey e fornito di un nuovo interesse amoroso, Rose, uno delle tante new entry portate alla ribalta da Johnson ed immediatamente ridotte alle retrovie poi da Abrams.

Oltretutto la sua storia sembra del tutto indipendente da quella di Rey per finalità e per taglio narrativo, deviando ancora una volta dal seminato di Abrams, costruendo una trama che viaggia ma su due strade parallele che a malapena si incontrano nel finale…

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Le avventure di Peter Pan – L’ombra dell’infanzia

Le avventure di Peter Pan (1953) di Hamilton Luske, Clyde Geronimi e Wilfred Jackson è il tredicesimo Classico Disney basato sull’opera teatrale Peter & Wendy (1904) di J. M. Barrie.

A fronte di un budget di 4 milioni di dollari, fu nel complesso un discreto successo commerciale, con 8 milioni di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Le avventure di Peter Pan?

Wendy e i suoi fratelli vivono nel sogno di Peter Pan. Ma i sogni sono belli quando rimangono tali…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Le avventure di Peter Pan?

Assolutamente sì.

A differenza di quello scandalo di Peter Pan & Wendy (2023), il Classico del 1953 è un’ottima trasposizione dello spettacolo di J. M. Barrie, riuscendo a smussare gli angoli quando serve, senza però evadere la profonda critica e morale che pervade l’opera originale.

Infatti non mancano, come d’altronde tipico della Disney del primo periodo, note fra il drammatico e persino l’inquietante, in maniera però più sottile e meno esplicita rispetto ad altri prodotti di quest’epoca, con significati ulteriori comprensibili forse solo ad una rilettura più adulta…

Peter Pan Produzione

Le avventure di Peter Pan doveva essere il secondo film di Walt Disney.

Il fondatore della casa di Topolino aveva un particolare amore per l’opera di J. M. Barrie, ma poté acquisire i diritti solo nel 1939, e, a cavallo fra i due decenni, esplorò diverse idee di trasposizione.

Inizialmente la storia doveva essere molto più vicina all’originale, molto più cupa, e si pensò persino di scrivere la trama dal punto di vista di Nana, che seguiva i bambini nell’Isola che non c’è, oppure di lasciare indietro John quando questo si dimostrava troppo cinico e noioso per partecipare all’avventura.

La produzione fu interrotta con l’arrivo della guerra, che costrinse la casa di produzione a creare solo film propagandistici, mettendo in pausa non solo questa idea, ma anche quella di Alice nel Paese delle Meraviglie (1951).

Nei primi anni del dopoguerra la Disney era in crisi finanziaria e non cominciò a ripensare all’opera fino al 1947, nonostante le perplessità di Roy Disney, fratello del fondatore, sull’attrattiva dell’operazione.

A differenza di molti prodotti precedenti, le scene in live action non furono ricalcate, ma solamente utilizzate come riferimento, perché altrimenti le animazioni sarebbero state troppo rigide ed innaturali.

Crescere

Wendy non ha (più) bisogno dell’infanzia.

A differenza dell’altra ottima traspirazione del 2003, Wendy è solo a parole turbata dalla volontà del padre di farla crescere, dal forzato abbandono della camera dell’infanzia: i suoi comportamenti raccontano una ragazzina già sulla via di abbandonare l’ingenuità infantile.

Infatti, fin da subito si dimostra piuttosto intraprendente nelle sue decisioni, andando persino a scavalcare l’autorità paterna, mostrandosi anche in seguito e a più riprese per nulla sprovveduta né ingenua come invece i suoi fratelli.

Non a caso la sua travolgente accoglienza sconvolge sulle prime Peter, venuto solo per recuperare la sua ombra, ma che invece cede quasi subito alle cure di Wendy, e turba solo parzialmente la serena crescita della protagonista

…cercando di trascinarla con sé verso il terribile sogno dell’infanzia infinita.

E in questo senso, la figura di Peter ha tutto un altro sapore.

Ombra

Peter Pan è, per certi versi, il vero antagonista della sua stessa pellicola.

Proprio come J. M. Barrie l’aveva concepito come spirito e rappresentazione dell’infanzia più caotica e distruttiva, quando Wendy svela alla madre che sta aspettando l’arrivo del ragazzo eternamente giovane la stessa è colta da un senso di inquietudine – e a ragione…

Infatti, Peter è un’ombra che penetra l’infanzia della protagonista proprio quando questa sta per abbandonarla, conducendola in luogo dove tutto è permesso, persino una vita feroce, selvaggia e, soprattutto, fuori dal controllo e dalle pressioni degli adulti per crescere al più presto.

Di fatto Disney scelse di annullare quasi ogni tipo di connessione romantica fra i due personaggi…

…mettendoli anzi in costante contrasto, proprio a partire dalla scena delle sirene, in cui più volte Peter si dimentica di Wendy, e lascia senza troppe preoccupazioni che sia maltratta dalle dispettose donne pesce.

Ma il mondo di Peter è pura finzione.

Finzione

Passando da un quadro all’altro proprio come a teatro, la missione di John e di Michael è estremamente rivelatoria.

Nonostante la lotta con gli indiani sia piuttosto violenta, la stessa viene subito rivelata come parte di un eterno gioco delle parti, proprio come se gli stessi fossero solo parte di una delle tante fantasie infantili dei bambini sperduti, senza che la realtà debba mai venire a bussare alla porta…

…o forse sì? 

L’unico che può davvero spezzare la finzione è Uncino.

Fin da subito il suo personaggio è caricato di un nutrito numero di gag con un umorismo piuttosto dark – dai vari assassini ingiustificati alla dinamica della presunta testa mozzata durante la rasatura – che si concretizzano infine in un effettivo tentativo del pirata di farla finita con Peter Pan.

Ed infatti è proprio Uncino quello che causa per la prima volta un cambio delle carte in tavola: il rapimento di Giglio Tigrato spinge il capo tribù a minacciare di uccidere in maniera anche piuttosto violenta i bambini sperduti, e così di mettere anche lui un punto al gioco eterno. 

E i giochi sono fatti di ruoli…

Ruolo

Wendy non vuole sottostare ad un ruolo.

Questo elemento si vede molto bene nella scena della festa con gli indiani, quando una donna della tribù cerca di costringerla a sottostare ad un ruolo – la figura femminile dedita alla cura del focolare – e, proprio in quel momento, Wendy, come Uncino, decide che il gioco è finito.

A questa improvvisa realizzazione segue un’opera di persuasione nei confronti dei bambini sperduti e soprattutto dei fratelli, riportati alla ragione, riportati nelle braccia accoglienti quanto educative della madre – ruolo che, comprensibilmente, Wendy non vuole ancora ricoprire.

Ma, davanti a questo picco di drammaticità, il finale è un po’ buttato via.

A questo punto era abbastanza comprensibile che Disney volesse deviare dal seminato dell’opera in maniera significativa.

La chiusura del Classico è infatti un lieto fine pieno di speranza, in cui il sogno di Peter non è infranto, che anzi viene ricordato con commozione dagli stessi genitori, che forse un tempo erano stati sull’Isola che non c’è…

Ma l’idea di J. M. Barrie era ben diversa…

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Il risveglio della Forza – The Fast Wars Saga

Star Wars – Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams, anche chiamato Episodio VII, è il primo capitolo della cosiddetta saga sequel.

A fronte del budget più alto mai investito fino a quel momento per un film di Star Wars – ben 447 milioni di dollari – incassò 2 miliardi di dollari, posizionandosi – al tempo – al terzo posto fra i film col maggiore incasso di sempre.

Di cosa parla Il risveglio della Forza?

Diversi anni dopo Il ritorno dello Jedi, la Galassia è di nuovo sconvolta da una nuova realtà tirannica nata dalle ceneri dell’Impero: il Primo Ordine. Ma c’è ancora speranza…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il risveglio della Forza?

Dipende.

La mia prima e ingenua visione di Il risveglio della Forza di ormai diversi anni fa mi lasciò complessivamente soddisfatta, anzi piacevolmente sorpresa da un prodotto da cui onestamente non mi aspettavo nulla – del tutto ignara di quello che sarebbe successo dopo…

E invece, ad una nuova visione più consapevole, mi sono resa conto che quello che consideravo l’unico capitolo davvero salvabile della nuova trilogia, è in realtà un film scritto in maniera estremamente approssimativa, che non funziona né come film di Star Wars né come film autonomo.

Ma se siete fanatici della saga al punto da emozionarvi anche per un remake così blando, probabilmente vi divertirete molto.

Introduzione

Daisy Ridley in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Come primo capitolo Il risveglio della Forza aveva principalmente il fine di introdurre i nuovi personaggi.

Eppure, è proprio su questo fronte che fallisce.

L’elemento più eclatante in questo senso è la gestione di Rey, la nuova eroina della saga, che risulta nient’altro che un contenitore vuoto, piegato alle esigenze della trama, incapace di esistere come personaggio autonomo, e incapace di anche il più blando confronto con la sua controparte: Luke.

E la mancanza di una caratterizzazione si nota particolarmente nel rapporto con BB-8.

Tutta la dinamica col piccolo droide fa evidentemente il verso all’analogo incipit di Una nuova speranza (1977), ma manca ingenuamente dello stesso respiro che definisca il rapporto fra i due personaggi, al punto che il picco drammatico – il tentativo di comprare BB-8 – risulta del tutto inefficace.

Ma Rey non è da sola…

Mancanza

John Boyega in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Se Rey tutto sommato può godere di un minimo di minutaggio introduttivo, il personaggio davvero più ingiustamente sacrificato è Finn.

Memore anche di Clone Wars, sarebbe stato potenzialmente molto interessante approfondire la storia di un clone ribelle, che però manca totalmente di un’introduzione – se non molto tardiva – portando in scena un personaggio con un arco evolutivo improvviso e, ancora una volta, inefficace.

Ma il suo personaggio ha un trattamento anche peggiore se si pensa al rapporto con Rey.

John Boyega e Daisy Ridley in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Nelle intenzioni probabilmente si voleva creare un classico pattern di compagni di avventure che diventano anche innamorati, ma la gestione è stata un vero disastro – e neanche del tutto per colpa di Abrams…

L’unico momento vagamente credibile è quando si ritrovano nel finale sullo Star Destroyer, ed effettivamente Rey si dimostra decisamente riconoscente nei suoi confronti – ma perché a questo punto il film presuppone che loro abbiano già stretto un rapporto.

Ma parliamo di Han Solo.

Solo

Harrison Ford e Carrie Fisher in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

La gestione di Han Solo è quella che, nel complesso, mi ha convinto leggermente di più.

Ovviamente non per il rapporto con Rey, per cui diventa sostanzialmente una figura paterna nel giro di una fuga sul Millennium Falcon, ancora una volta negando ai personaggi il giusto respiro per sviluppare un rapporto…

…ma per la dinamica con Leia e con Kylo, per cui il film poteva contare sull’eredità di una storia d’amore iconica e su due attori di particolare valore – che comunque recitavano veramente al minimo delle loro possibilità.

Harrison Ford e Adam Driver in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Per questo, nel complesso, l’incontro fra padre e figlio funziona, e non solamente perché vediamo morire sullo schermo uno dei personaggi più amati della saga, ma perché nel complesso la dinamica è efficace e coinvolgente, grazie a due personaggi che, per diversi motivi, non sono totalmente da buttare.

Eppure, con Kylo ci provano in tutti i modi…

Eredità

Sulla carta riportare in scena sostanzialmente la storia di Anakin non era del tutto disastrosa.

Una scelta che si inserisce nell’idea di un soft reboot della trilogia classica, e che ancora una volta può contare sull’affezione del pubblico verso un personaggio estremamente rivalutato nel tempo, e che trova nelle capacità attoriali di Driver una nuova incarnazione complessivamente dignitosa.

Sicuramente in questo senso non aiuta la caratterizzazione di un villain che si comporta come un ragazzino ribelle, che però si rivela più interessante nella scena del primo confronto con Rey, quando Kylo cerca di penetrarle la mente, ma viene battuto al suo stesso gioco, mandando a pezzi il suo già fragile ego.

Adam Driver e Daisy Ridley in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Ma, ancora una volta, Rey è il crocevia di tutti i problemi.

Probabilmente l’idea era di definire fin da subito le diverse tendenza dei personaggi, uno verso il Lato Chiaro, l’uno verso il Lato Oscuro, con anche un labile tentativo di Kylo di portare la ragazzina dalla sua parte, quando questa dimostra le sue incredibili capacità di dominare la Forza.

Ma, per l’ennesima volta, non solo manca un’adeguata costruzione di questo rapporto, ma ci sono proprio degli effetti buchi di trama: Rey sembra comprendere immediatamente e senza alcuna spiegazione il funzionamento della Forza e di come controllarla…

…riuscendo fin da questo film ad incarnare il modello della Mary Sue per eccellenza.

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Il sacrificio del cervo sacro – Un pretenzioso rituale

Il sacrificio del cervo sacro (2017) è la seconda collaborazione di Yorgos Lanthimos con Colin Farrell, nonché il suo secondo film hollywoodiano dopo The Lobster (2015).

A fronte di un budget di 3 milioni di dollari, è stato nel complesso un buon successo commerciale, con 10 milioni di incasso.

Di cosa parla Il sacrificio del cervo sacro?

Steven Murphy è uno stimato cardiologo con una famiglia apparentemente felice. Ma nasconde un importante segreto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il sacrificio del cervo sacro?

Nicole Kidman e Colin Farell in una scena di Il sacrificio del cervo sacro (2017) di Yorgos Lanthimos

Dipende.

Purtroppo ho veramente poco apprezzato questa pellicola: mi è sembrata così piena di idee interessanti, ma al contempo davvero così poco efficace nel realizzarle, non riuscendo sostanzialmente mai a raccontare in maniera credibile i personaggi e le loro dinamiche.

Una situazione che ho trovato a tratti esasperante, nello specifico nei momenti in cui sembrava che Lanthimos volesse stupire lo spettatore, più che riuscire a creare delle scene che riuscissero a suscitare dei sentimenti sinceri e naturali nello stesso.

Peccato.

Tensione

Colin Farell in una scena di Il sacrificio del cervo sacro (2017) di Yorgos Lanthimos

Le dinamiche del primo atto sono quelle che ho trovato più pretenziose.

Per lunghi tratti Lanthimos cerca di costruire un certo tipo di tensione ed inquietudine, con alcuni trucchi registici purtroppo necessari: dalla musica lugubre e tesa, fino ai personaggi che parlano senza che si senta la loro voce, tutto serve a creare un’inquietudine di fondo che altrimenti da sola la messinscena non riuscirebbe a sostenere.

E in effetti molti elementi che avrebbero potuto nutrire meglio la scena e renderla più viva e credibile sono del tutto mancanti: mancando l’antefatto, mancando la costruzione del rapporto e la sua esasperazione, lo spettatore viene catapultato nell’atto finale di un rapporto ormai sviluppato.

E per questo il colpo di scena è poco funzionale.

Disturbo

Nicole Kidman in una scena di Il sacrificio del cervo sacro (2017) di Yorgos Lanthimos

Più che un effettivo plot twist, è come se Martin dovesse raccontare in che direzione deve andare la trama.

Ed è veramente un peccato.

L’idea centrale della trama poteva essere davvero interessante, e in generale l’atto centrale è quello che funziona meglio e senza troppe sbavature, grazie proprio all’unico personaggio che effettivamente riesce a rendersi sufficientemente tridimensionale.

Infatti il protagonista è l’unico che sembra avere delle reazioni credibili, al contrario degli altri personaggi – compreso il personaggio di Barry Keogan – che sembrano davvero delle banderuole che si piegano ogni volta alle necessità della trama.

Dio

Barry Keogan in una scena di Il sacrificio del cervo sacro (2017) di Yorgos Lanthimos

Martin è un dio?

A differenza del resto della produzione di Lanthimos, in questo caso è presente un elemento fantastico che dovrebbe reggere l’intera trama, e che evidentemente Lanthimos non voleva spiegare, e che proprio per questo risulta così poco funzionante nell’economia narrativa.

Barry Keogan in una scena di Il sacrificio del cervo sacro (2017) di Yorgos Lanthimos

Di fatto non sarebbe stato effettivamente necessario raccontare come fosse possibile che Martin potesse piegare gli eventi a suo favore, ma sarebbe bastato costruire un minimo il perché fosse capace di tali atti – mentre così ne risulta una voragine narrativa che azzoppa la storia.

Oltretutto la presenza di questo personaggio è terribilmente scostante, e anche in questo senso si sarebbe potuto fare molto di più per mostrare un personaggio che osserva dall’esterno gli avvenimenti, e che ricorda costantemente al protagonista la minaccia che sta vivendo.

Estetica

Raffey Cassidy in una scena di Il sacrificio del cervo sacro (2017) di Yorgos Lanthimos

I personaggi tuttavia peggio caratterizzati sono i figli.

In questo senso nel terzo atto il film vive di un taglio grottesco molto fine a sé stesso, in cui i personaggi si muovono a carponi per finalità puramente estetiche, con una dinamica che si inserisce proprio all’interno dei loro comportamenti funzionali solo alla trama e alla volontà di stupire lo spettatore.

Così queste figure sono a tratti disperate, arrivando a pregare il padre di non ucciderli, ora sembrano invece immersi in un sogno, in particolare Kim, che ora sembra succube di Martin, ora sembra sicura di non essere uccisa, ma che infine arriva nuovamente a pregare il padre di risparmiarla.

Così questi personaggi occupano fin troppo la scena e tolgono invece respiro all’evoluzione del dilemma morale di Steven, che si riduce infine ad una sorta di roulette russa per evitare che la sua famiglia venga sterminata, con una chiusura che non racconta di fatto nulla sulle conseguenze della sua scelta…

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Alice nel Paese delle Meraviglie – Una morale impossibile

Alice nel Paese delle Meraviglie (1951) è il tredicesimo Classico Disney, tratto dal romanzo di Lewis Carroll Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie (1865) – e in parte dal sequel del 1871 dello stesso autore.

Purtroppo, a fronte di un budget di 2 milioni di dollari, incassò appena 2.4 milioni nella sua prima distribuzione, portando ad una perdita consistente per l’azienda.

Di cosa parla Alice nel Paese delle Meraviglie?

Walt Disney riprese le avventure del classico di Carroll non apportando particolari cambiamenti, ma semplicemente cercando di piegare la narrazione ad una morale più adatta al suo tempo.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Alice nel Paese delle Meraviglie?

Assolutamente sì.

Nonostante contenga dei frangenti genuinamente angoscianti – ma niente di nuovo per la Disney di questo periodo – Alice nel Paese delle Meraviglie è una visione davvero piacevole, che porta in scena con una buona fedeltà l’opera di Carroll.

L’unico grande difetto è il tentativo di piegare la storia in direzioni del tutto innaturali per la stessa: nello specifico, la volontà di dargli una morale – il romanzo di 1862 è volutamente amorale – rendendo spesso Alice meno incisiva nei suoi comportamenti.

Ma, nel complesso, è una visione davvero da non perdere.

Alice nel paese delle meraviglie Produzione

Alice nel paese delle meraviglie era il sogno d’infanzia di Walt Disney.

Come altri bambini della sua generazione, il libro di Carroll era parte della sua formazione scolastica, che lo portò nel 1923, quando era ancora un regista ventunenne, a produrre un cortometraggio liberamente ispirato alla storia, col titolo Il Paese delle Meraviglie di Alice.

Nel 1932 cominciò a pensare di creare un lungometraggio misto live action e animazione, ma due eventi gli fecero cambiare idea.

Ovvero, le nuove prospettive aperte con il successo di Biancaneve e i sette nani (1937) e, soprattutto, la Paramount che lo anticipò sui tempi, creando il terzo lungometraggio live action basato sull’opera di 1865.

Walt Disney infatti si approcciava ad un mercato in cui erano già usciti tre cortometraggi dedicati (dal 1903 al 1915), e tre lungometraggi in live action, di cui quello del 1937 era già il secondo con dialoghi.

I lavori iniziarono effettivamente nel 1938, quando venne registrato il marchio e venne creato la prima proposta, che venne però bocciata da Disney perché troppo basata sulle illustrazioni originali del libro – troppo difficili da animare – e con una storia troppo cupa per essere vendibile.

La produzione ricominciò però solamente dopo la guerra, nel 1945: la nuova versione aveva un taglio artistico ben più moderno, definito da colori più accesi e stravaganti, e la sceneggiatura venne riscritta mettendo più in evidenza il lato surreale dell’opera di Carroll piuttosto che le parti più dark.

Solo nel 1946, però, decise definitivamente di fare un prodotto solo animato.

Alice nel paese delle meraviglie scene tagliate

Nonostante nel complesso si cercò di stare molto vicini al romanzo, inserendo anche delle battute in maniera diretta, furono diversi i tagli.

In particolare, venne tagliata l’importante scena (che copre un intero capitolo nel libro) della Duchessa Brutta, mentre l’incontro con l’inquietante Ciciarampa venne sostituito con l’iconico racconto de Il tricheco e il carpentiere.

Per contro, venne scritto un numero piuttosto nutrito di canzoni per il film, e molte ebbero spazio nella pellicola, anche se per pochi secondi.

Creare

L’incipit di Alice nel paese delle meraviglie è significativo per più motivi.

Anzitutto, funge da prologo piuttosto eloquente della storia, grazie alle parole di Alice che ci guidano per il mondo senza senso che sta per creare – e per vivere – e che comincia ad esistere quando la bambina tocca lo specchio d’acqua – specifico riferimento al sequel del 1871, in cui Alice attraversa lo specchio.

D’altra parte, definisce questa Alice cinematografica in una maniera simile ma al contempo diversa rispetto alla sua controparte cartacea.

Infatti, anche se entrambe entrano in un sogno, lo fanno l’una – quella animata – per un effettivo desiderio di evasione dal noioso presente – l’altra – quella originale – più che altro spinta dalla curiosità.

Elemento che sarà determinante nel finale.

Succube

Alice più che esplorare questo mondo meraviglioso, ne sembra in molti tratti succube.

Infatti, dall’impossibile girotondo con gli uccelli sulla spiaggia alle brutte maniera del bruco, fino all’esplicito bullismo dei fiori, tanto belli quanto elitari, la protagonista vive un sogno ostile e su cui non sempre riesce a rivalersi.

Una situazione non in realtà particolarmente dissimile dal romanzo di partenza, almeno per quanto riguarda i modi piuttosto scostanti ed imprevedibili con cui i vari personaggi si rapportavano con Alice…

…ma con la grande differenza che la protagonista di Carroll era molto più in controllo della situazione.

Invece il senso di smarrimento della Alice disneyana è definito da due elementi.

Anzitutto, il suo disperato tentativo di mettersi sulle tracce del Bianconiglio, non per una vera motivazione, ma più che altro per quello che il personaggio rappresenta: una figura che apparentemente riesce a passare dal sogno alla realtà a cui, alla fine, Alice vuole tornare.

E proprio qui sta la differenza fondamentale.

Amorale

Alice nel paese delle meraviglie di Carroll è un racconto programmaticamente amorale.

La grande differenza fra l’opera del 1865 e altri romanzi per l’infanzia era proprio come la protagonista non vivesse la sua avventura per ricevere un insegnamento, ma piuttosto per educarsi da sola davanti alle varie insidie di questo mondo meraviglioso.

Proprio per questo, particolarmente d’impatto era la conclusione dell’avventura, in cui Alice chiosava siete solo un mazzo di carte, e in quel momento riprendeva il totale controllo sul sogno – e si risvegliava – dopo un’avventura di cui lei stessa aveva definito i modi e i tempi.

Al contrario, la Alice di Walt Disney viene dipinta come una ragazzina fin troppo curiosa e scostante, che si incastra in una vicenda da cui non riesce a scappare, arrivando prima ad essere francamente stufa di tutto questo nonsense, per poi rattristarsi, convinta di non essere capace di seguire neanche i suoi stessi consigli.

Così la chiusura del film, per quanto erediti la suddetta battuta del libro, si risolve invece con Alice ancora una volta tormentata dal suo sogno, che fugge disperatamente verso la sua via d’uscita – il risveglio – con una conclusione che in realtà non risolve nulla, anzi lascia un certo senso di angoscia…

Scelta che, fra l’altro, potrebbe aver influito sull’insuccesso del film.

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The Lobster – Un’occasione sprecata?

The Lobster (2015) è la prima avventura hollywoodiana di Yorgos Lanthimos, nonché la prima collaborazione con Colin Farrell, che fu protagonista anche per il successivo Il sacrificio del cervo sacro (2017).

A fronte di un budget di appena 4 milioni di dollari, fu nel complesso un ottimo successo commerciale, con 18 milioni di incasso.

Di cosa parla The Lobster?

In un mondo immaginario, le persone possono esistere solo all’interno di una coppia. Altrimenti vengono trasformati in animali.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Lobster?

In generale, sì.

The Lobster è il film che mi ha fatto approcciare e – almeno inizialmente – innamorare della filmografia di Lanthimos.

Tuttavia, ad una nuova visione ad anni di distanza, e dopo aver visto altro di sua produzione, non mi ha lasciato con un buon sapore in bocca: a fronte di una prima parte che regala riflessione piuttosto graffiante e ancora attualissima, ne segue una seconda parte molto fine a sé stessa e, per me, davvero poco stimolante.

Peccato.

Sistematico

In The Lobster vita di coppia non è una possibilità, ma un’imposizione.

La vita all’interno dell’hotel dei cuori solitari viene scandita ora da momenti di socialità forzata e innaturale, ora dalla totale mancanza di identità: ogni persona è costretta ad una divisa anonima per permettere a tutti di avere le stesse possibilità…

Ancora più grottesco l’atto della stimolazione interrotta, che rende gli ospiti schiavi non solo delle ansie e delle preoccupazioni sul proprio destino, ma sostanzialmente dei frustrati sessuali, che ricercano la vita di coppia più per necessità che per un effettivo desiderio.

Ma l’alternativa è davvero migliore?

Compromesso

La ricerca del partner si tramuta facilmente in disperazione.

L’alloggio all’hotel è in sostanza un test per mettere alla prova la capacità dell’individuo di trovare un suo posto nel sociale.

Infatti, ci sono solo due strade: riuscire a trovare in pochissimo tempo la persona con cui passare la vita, oppure rendersi utile nel tranciare i rami secchi della società, e così ottenere un tempo maggiore per affermarsi dal punto di vista relazionale.

Altrimenti, non resta che arrendersi al labile compromesso.

Che sia passare la vita a prendere testate o diventare persone ciniche e senza cuore, tutti i mezzi sono validi per creare la presunta nuova coppia perfetta da invidiare, che cela abilmente i suoi contrasti interni, magari cercando di colmare i vuoti con i figli…

Perché, al di fuori delle relazioni, si perde l’umanità.

Animale

Una persona che vive senza amore non merita di essere umana.

L’individuo viene schiacciato, gli viene tolta la parola e viene escluso dalla società umana, costretto a vivere il resto della sua esistenza come un animale a sua scelta, con la labile ma essenziale possibilità di realizzarsi sessualmente nella sua seconda vita.

L’aspetto animalesco si trasla anche nel trattamento dei loners, che effettivamente vengono trattati come degli animali da riportare dentro il recinto, per poi essere puniti neanche con una morte semplice e dignitosa, ma piuttosto con la definitiva trasformazione in bestie.

Ma è così diverso dal reale?

Reale

Per certi versi, il mondo di The Lobster è un’esasperazione di secoli di storia umana.

Anche se col tempo ci stiamo avvicinando ad una maggiore consapevolezza sul tema, siamo ancora del tutto immersi nell’eredità di secoli di imposizioni sociali e fiumi di inchiostro che hanno messo in luce l’assoluta necessità della vita di coppia.

E, anche se non abbiamo un’organizzazione così sistematica, nondimeno la società in cui viviamo ci spinge a pensare di essere incompleti senza un’altra persona accanto, offrendoci anche un breve tempo per riuscire a trovare una sistemazione, finendo altrimenti per subire la vergogna sociale.

Infatti è ancora oggi piuttosto normale stigmatizzare persone che non sono all’interno di una relazione, continuamente additate come individui sfortunati e infelici, andando invece a premiare la formazione di nuove coppie – a prescindere se siano sane o meno.

E perché non portare questo ragionamento fino in fondo?

Spreco

Della seconda parte del film non so davvero cosa farmene.

Arrivati a metà pellicola, c’era ancora diverso margine per approfondire anche in maniera più drammatica e grottesca le implicazioni di questo mondo più o meno surreale, per mettere un punto a questa importante esasperazione e lasciarci con una riflessione di un certo spessore.

E invece Lanthimos ha preferito chiudere il film con una storia d’amore molto fine a sé stessa, giusto per completare l’esplorazione del mondo che ha creato, mostrandone l’altra faccia – quella dei single per forza – con una chiusura aperta che mi ha lasciato estremamente indifferente…

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Civil War – Il limite dell’indifferenza

Civil War (2024) è forse l’ultimo (?) film di Alex Garland, che porta in scena la sua nuova zampata nei confronti degli Stati Uniti e delle sue contraddizioni.

A fronte di un budget di 50 milioni – il più alto mai investito dalla A24 – ha aperto molto nel primo weekend, con 49 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Civil War?

In futuro prossimo e molto possibile, un gruppo di giornalisti attraversa gli Stati Uniti devastati dalla guerra civile per raggiungere Washington prima che il Presidente venga assassinato…

Vi lascio il trailer, ma vi sconsiglio di guardarlo perché fa sembrare il film come quello che non è…

Vale la pena di vedere Civil War?

Assolutamente sì.

Civil War rappresenta una sorta di controparte contemporanea di La zona d’interesse (2023): Garland ci racconta un futuro purtroppo molto meno lontano di quello che si potrebbe pensare, prendendo come spunto l’Assalto al Campidoglio del 2021.

Ne deriva un ritratto degli Stati Uniti veramente anomalo per il cinema americano, in cui paradossalmente si concretizza il più grande sogno che ogni bravo statunitense porta nel cuore: ribellarsi al potere costituito grazie alle armi che lo stesso gli ha permesso di imbracciare.

Insomma, da riscoprire.

Ruolo

La colonna portante di Civil War è fin da subito drammaticamente rivelata.

Dopo aver liquidato distrattamente le parole dell’ormai inutile Presidente, in un attimo la protagonista, Lee, volge la sua attenzione al vero focus del suo lavoro: catturare momenti di reale e vendibile violenza per nutrire il suo pubblico.

Infatti dal suo lato della barricata si sviluppa il primo polo estremo degli Stati Uniti: un’attenzione maniacale, continua e sempre affamata di nuova, succosa e sanguinosa violenza da divorare, sempre più efferata e disumana finché…

…finché non ci lascia indifferenti.

E Lee è profondamente indifferente.

Dopo aver vissuto in prima persona una galleria piuttosto nutrita di brutalità, non ha più alcuna remore a cogliere i momenti in cui le armi vengono puntate, le interiora emergono, le teste scoppiano e i denti volano, protagonisti di scatti indimenticabili…

Ma la sua strada deve essere solitaria.

Eredità

Lee non vuole che Jessie la segua.

E in nessuno modo.

La ragazzina vorrebbe ripercorrere le orme del suo idolo: riuscire ad approfittare di ogni situazione, anche – e sopratutto – la più sconvolgente ed emotivamente devastante per portare a casa quelle fotografie che nessun altro sarebbe capace di scattare.

Ma purtroppo Jessie non riesce ad essere indifferente, anzi spesso si lascia ancora profondamente sconvolgere dalle immagini degli Stati Uniti che divorano se stessi, che si sentono legittimati ad essere protagonisti di quella violenza sopita, ma sempre presente, che finalmente trova il suo sfogo.

Ma l’alternativa è essere un cane sciolto.

Fin dalla sua prima scesa in campo, Jessie è spesso tenuta al guinzaglio, ora da Joel, ora da Lee, che cercano di stringerla a sé per impedirle di farsi troppo trasportare dal momento, di avvicinarsi troppo a quella violenza di cui vuole essere solo spettatrice

…ma di cui invece diventa inevitabilmente protagonista: il primo passo falso è il passaggio da una macchina all’altra, inizialmente assolutamente innocuo, anzi molto divertito, ma, che attraverso un drammatico climax, porta la protagonista prona su una pila di cadaveri.

Ma quel devastante risveglio non è abbastanza.

E non solo per lei.

Sentimento

Gli Stati Uniti hanno scelto da che parte stare.

Da una parte si sviluppa una escalation di violenza, sia indiretta che direttissima: si passa da un pubblico affamato di conoscere i dettagli più raccapriccianti della vicenda, per arrivare ad una radicalizzazione di sentimenti già profondamente radicati e difficili da scalzare.

Infatti, oltre al semplice emergere della violenza sopita, molti statunitensi hanno finalmente l’occasione per dare sfogo ai più disparati sentimenti di odio razziale – e non solo – che ben sono rappresentati nella scena con protagonista Jesse Plemons, che elimina sistematicamente dalla sua vista chiunque non sia un vero nord americano.

Altrimenti si può essere solo – e davvero – indifferenti.

Più volte nei loro racconti sia Jessie che Lee raccontano – e si distinguono – i loro genitori, che hanno scelto un placido isolamento nelle loro fattorie, immersi nella loro indifferenza e nella loro totale ignoranza del presente.

Un sentimento che è ancora più esacerbato nella ridente cittadina in cui i protagonisti si concedono una pausa, dove i suoi abitanti hanno programmaticamente scelto di non far parte del conflitto…nondimeno ricorrendo alla violenza per chiunque voglia turbare il loro equilibrio.

Sfuggire dalla violenza, insomma, è ormai impossibile.

Dopo

Il finale si definisce negli opposti.

Nonostante la sua morale ferrea, Lee è stata troppo brutalmente messa davanti ad una violenza che non può più derubricare come estranea, e crolla momentaneamente in un doloroso attacco di panico, sentendosi intrappolata in un vortice di brutalità senza via d’uscita.

Al contrario, il dolore dell’essere messa ripetutamente in faccia alla morte, sembra accendere l’entusiasmo di Jessie, che si sente sempre più sicura, sempre più audace e sfacciata nel mettersi nel mezzo del fuoco incrociato per catturare i momenti migliori.

E Lee cerca di salvarla.

Ma non dalla morte.

La donna cerca di salvare la ragazzina dal suo diventare come lei – se non peggio: una reporter interessata solamente all’ultimo scatto sensazionalistico, del tutto indifferente, anzi fin troppo entusiasta, davanti alla possibilità di partecipare e documentare la distruzione del suo stesso paese.

E infatti nel finale assistiamo all’ultimo capitolo dell’autodistruzione degli Stati Uniti, ormai guidati da una furia cieca che li porta a lasciare da parte ogni sentimento, ogni rimorso, ogni logica per fare semplicemente fuoco sul nemico.

Ma arriverá mai il momento di mettere via le armi?

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Cenerentola – Il sogno passivo

Cenerentola (1950) è il dodicesimo Classico Disney e uno dei più amati e celebrati della produzione della Casa di Topolino.

Infatti, a fronte di un budget di 2.2 milioni di dollari, incassò 4.2 milioni di dollari solo in America, diventando il più grande incasso di Walt Disney da Biancaneve e i sette nani (1937).

Di cosa parla Cenerentola?

Disney riprese il classico popolare Cinderella e lo ripropose in una veste più a misura di bambino, mettendo al centro una protagonista piena di sogni (e che li realizza tutti).

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Cenerentola?

Assolutamente sì.

Non è un caso che Cenerentola fu un successo quasi al pari di Biancaneve: le due storie si somigliano moltissimo, anche se personalmente preferisco il Classico del 1950, che crea un climax narrativo più efficace e intrattenente.

Allo stesso modo, anche questa pellicola non manca di ampi inserti di siparietti comici con protagonisti gli animali, ma in maniera ancora più incisiva rispetto al Classico fondativo, ed evolvendo ulteriormente e in maniera decisiva la figura dell’aiutante.

Insomma, da riscoprire.

Cenerentola Produzione

Cenerentola segnò il grande ritorno della Disney.

Dopo i difficoltosi anni della guerra che avevano messo a dura prova l’idea di produrre lungometraggi e avevano minato le entrate aziendali, le buone rendite degli ultimi cortometraggi invogliarono Walt Disney a tornare su produzioni come Biancaneve.

La storia classica e anche piuttosto orrorifica di Cenerentola fu integrata con sequenze comiche e di effetto, oltre a diversi cambiamenti di trama.

Come ogni produzione Disney del periodo, la ricerca della credibilità scenica fu al centro della creazione dell’opera.

La direzione artistica fu affidata a Mary Blair, che aveva già lavorato a diversi cortometraggi e la cui scelta ricadde in una precisa connessione fra le ambientazioni e i personaggi, a differenza di precedenti classici come Dumbo (1940) e Bambi (1942).

Vennero inoltre utilizzati diversi effetti speciali per diverse scene, da quella in cui Cenerentola si vede riflessa nelle bolle di sapone, all’apparizione della Fata Madrina, che doveva apparire luccicante – gli stessi vennero utilizzati anche per Trilli in Le avventure di Peter Pan (1953).

Ci furono diversi cambiamenti e tagli durante la produzione.

Anzitutto, inizialmente il principe aveva un ruolo e uno spazio ben più importante: veniva mostrato sia all’inizio a caccia, sia alla fine quando rincontrava Cenerentola nelle sue vere sembianze.

La sequenza del vestito vedeva originariamente protagonista Cenerentola, che si immaginava di moltiplicarsi in un esercito di cameriere per venire a capo del suo enorme carico di lavoro.

Altra scena tagliata mostrava Cenerentola che origliava la sua famiglia mentre parlava della misteriosa ragazza del ballo, mostrandosi piuttosto divertita: Walt Disney scelse di eliminare la scena perché la faceva sembrare troppo dispettosa.

Miglioramento

L’incipit di Cenerentola è assai simile a quello di Biancaneve.

Tuttavia, a più di dieci anni di distanza dal primo Classico, l’antefatto si mostra ben più strutturato – e anche particolarmente adulto: il sogno di un’infanzia idilliaca viene distrutto dall’intrusione della matrigna e dalle sue terribili figlie…

…che, dopo la scomparsa improvvisa – e forse voluta? – del padre della protagonista, ne sperperano il denaro e bullizzano sistematicamente Cenerentola, rendendola serva nella sua stessa casa, fino ad arrivare al presente piuttosto desolante della storia.

Ma non basta ad abbattere la protagonista.

Bontà

Cenerentola è un esempio positivo.

Nonostante viva una vita da incubo, la protagonista non si è mai lasciata scoraggiare e non ha mai smesso di sperare nella realizzazione dei suoi sogni, ancora intatti nella sua mente e che, come dice lei stessa, nessuno le potrà mai sottrarre.

Tuttavia, il suo grande limite è l’essere spesso drammaticamente passiva.

Il suo sogno Cenerentola lo avvera più per interventi esterni che per la sua agency, proprio per la natura stessa del personaggio e di quello che rappresenta: la sua naturale piacevolezza merita di essere premiata e per questo attrae la bontà anche degli altri.

Infatti, nonostante sia animata da tanta buona volontà che la porta a continuare a sognare e a non perdere le speranze, al contempo è poco attiva nel concretizzare i suoi sogni: la sua partecipazione al ballo è merito prima dei topini e poi della Fata Madrina, deus ex machina per eccellenza…

…e il suo conquistare il principe non sembra altro che una naturale conseguenza, il destino che si avvera, e persino la sua vittoria – riuscire a mostrare di essere quella ragazza – è merito più del regalo della sua protettrice che le ha lasciato la scarpetta.

E senza i topolini probabilmente sarebbe rimasta rinchiusa dentro alla sua stanza…

Attesa

I villain entrano effettivamente in scena molto tardi.

Buona parte del primo atto del film è dedicata al conflitto fra Lucifero e i topolini, ritardando invece l’apparizione di quelli che dovrebbero essere i veri antagonisti della storia: le sorellastre e la matrigna, la cui malvagità è costruita molto gradualmente.

Infatti il vero spunto per il primo effettivo maltrattamento di Cenerentola è il presunto scherzo che la protagonista avrebbe fatto alle due sorelle, per cui Lady Tremaine, in agguato nell’ombra, la punisce aspramente, caricandola ulteriormente di lavoro.

E, come Cenerentola è più passiva che attiva, la matrigna è un villain indiretto.

Solamente nell’ultimo atto agisce direttamente per mettere i bastoni fra le ruote alla protagonista, mentre per il resto della pellicola resta più che altro nell’ombra, tirando le fila per danneggiare in maniera più sottile e spietata la sua figlioccia.

Non a caso, non le nega la possibilità di andare al ballo, ma la carica di lavoro per renderglielo impossibile, così come non le distrugge l’abito, ma piuttosto istiga le sue vendicative figlie a farlo a pezzi, rimanendo in entrambi i casi ai margini della scena.

Intrusione

In maniera non tanto diversa da Bambi (1942), anche Cenerentola è ricco di intrusioni di personaggi secondari.

E la grande differenza con Biancaneve, la protagonista esce di scena per lunghi tratti, lasciando un sorprendente spazio di autonomia ai personaggi animali, nello specifico nella scena del confezionamento dell’abito, dove i veri protagonisti sono Lucifero, Gus Gus e Giac.

E il e proprio la loro rappresentazione piuttosto è variegata

Se da una parte infatti i topolini sono decisamente più umanizzati, parlando – pur in maniera stentata – e indossando abiti umani, ricordandosi solo per pochi tratti di essere dei roditori – quando scappano nei buchi della parete o quando usano la loro coda come filo per le perle…

…Lucifero non è nient’altro che un gatto che si comporta da gatto, che non ha altro interesse se non essere dispettoso, catturare i topolini e mettersi in mezzo nei piani degli eroi della storia, ma senza nessuna particolare malizia nelle sue intenzioni.

Eppure, è molto più attivo di Cenerentola…