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The Marvels — Un film ad ostacoli

The Marvels (2023) di Nia DaCosta è il sequel di Captain Marvel (2019).

A differenza del primo capitolo, la pellicola è stata un pesante flop commerciale: con budget di circa 220 milioni di dollari, ha incassato appena 206 milioni in tutto il mondo…

Di cosa parla The Marvels?

Per uno strano incrocio di eventi e destini, Carol Danvers, Monica Rambeau e Kamala Khan si ritrovano coinvolte in un’avventura per la salvezza della galassia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Marvels?

Dipende.

Di per sé The Marvels è un film di qualità medio-bassa per l’MCU: non arriva ai picchi di orrore di Ant-Man and the Wasp: Quantumania (2023), ma al contempo è del tutto evidente come sia un prodotto piuttosto scarso – per scrittura, finalità e montaggio.

Da persona che si è lasciata per anni facilmente coinvolgere nell’umorismo anche molto sempliciotto targato Marvel, sono rimasta piuttosto fredda, anzi quasi imbarazzata, davanti ai tentativi di rendere simpatici e affabili due personaggi così freddi e seri come Carol Danvers e Monica Rambeau.

Ma l’errore più grande di questa pellicola è indubbiamente il suo sconvolgente gatekeeping: pur avendo visto entrambi i prodotti introduttivi dei personaggi – Wandavision (2021) e Ms. Marvel (2022) – mi sono ritrovata comunque confusa dalla totale mancanza di una reintroduzione degli stessi.

E se ero confusa io, posso solo immaginare come si sia sentito chi non sa neanche di chi si sta parlando…

Diversa

Carol appare fin da subito diversa.

Se il suo personaggio aveva preso una direzione caratteriale inedita fin dalla post-credit di Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli (2021), in The Marvels è fin da subito presentata come molto più ironica, affabile, pasticciona.

E così anche per il modo di vestire: se nel primo film prediligeva colori scuri e decisi, in questo caso opta per un abbigliamento molto più simpatico, quasi ironico, che ha il suo picco nella molto discutibile scena in cui diventa una principessa.

Un tentativo che si sposa perfettamente con tutte le difficoltà sia di riproporre in maniera vincente questo personaggio sullo schermo, poco spendibile sia a livello caratteriale – all’inizio appariva fredda e distante – sia per i suoi poteri spropositati.

Ma più che un tentativo di cambiamento, è un tentativo di adattamento.

Uniformare

In The Marvels, Carole deve essere sempre meno simile a sé stessa…

…e sempre più vicina a Ms. Marvel.

La serie di Kamala Khan è il punto di riferimento per il taglio della pellicola – o, almeno, il taglio che la pellicola avrebbe voluto avere – cercando di rendere il più possibile ironiche e divertenti le scene di combattimento quanto di team building.

Si passa così dall’assurdità del primo scontro – con lo scambio continuo ed imprevedibile fra le tre protagoniste – alle scene di training del terzetto, fino a momenti fra il comico e il grottesco di Goose e la sua famiglia che divorano l’equipaggio…

E se questo cambiamento tutto sommato potrebbe pure funzionare grazie alle capacità attoriali di Brie Larson, lo stesso non si può assolutamente dire per Monica Rambeau, personaggio nato in un contesto estremamente drammatico – ricordato anche nella pellicola…

…e i cui gli accenni comici – come quando non vorrebbe volare per salvare Ms. Marvel – mal si adattano alla figura più fuori luogo del terzetto: per quanto ci si sforzi in quella direzione, purtroppo il personaggio di Teyonah Parris è totalmente agli antipodi rispetto a Ms. Marvel.

Elemento che aggrava ancora di più il gatekeeping selvaggio della pellicola.

Ostacolo

The Marvels è una pellicola davvero poco accessibile.

Che sia per via di tagli in fase di post-produzione, che sia per una visione ormai tramontata di stretta connessione fra serie tv e cinema, in ogni caso il pubblico generalista si è trovato totalmente spaesato davanti a due personaggi di cui non sapeva nulla.

Discorso meno grave per Ms. Marvel, di cui quantomeno si recupera il taglio ironico e la regia frizzante ed originale della sua serie di riferimento, nonché le simpatiche dinamiche familiari – anche se le stesse, senza aver visto la serie, risultano molto meno godibili.

Monica Rambeau è invece un mistero.

Oltre alla già citata difficoltà di adattare un personaggio così drammatico ad un contesto così fortemente ironico, si aggiunge la totale mancanza di reintroduzione del suo personaggio, con pochi accenni alle dinamiche di Wandavision e un maggiore focus sul rapporto con Carol.

Tuttavia, trovo piuttosto ingenuo sperare di coinvolgere emotivamente lo spettatore con un collegamento così debole, riferito non solo ad un film di diversi anni fa, ma soprattutto ad un personaggio che, per ovvi motivi, in Captain Marvel era interpretato da un’altra attrice.

E non è neanche l’aspetto peggiore della pellicola.

Quota

L’elemento più incomprensibile, anzi genuinamente ridicolo di The Marvels, è il suo villain.

Nonostante l’MCU abbia raramente brillato per i suoi antagonisti, in questo caso il villain di Captain Marvel aveva un’importanza non da poco, in quanto doveva giustificare i decenni di assenza della protagonista dall’universo cinematografico.

Purtroppo, la vicenda raccontata è ben poco efficace, e anzi toglie valore alla storia stessa di Captain Marvel, i cui problemi sembrano sostanzialmente limitati ad uno dei tanti mondi che avrebbe liberato dall’Intelligenza Suprema.

Ma il villain diventa praticamente parodistico per l’interpretazione dell’attrice, Zawe Ashton, costantemente sopra le righe, inutilmente eccessiva a dei livelli tali che è incredibile come non sia stata candidata ai Razzie Awards.

Per il resto, il villain si integra nella costante mediocrità del film, proponendo una motivazione banale e già ampiamente esplorata, e a cui la pellicola non sembra neanche particolarmente interessata, concedendogli un minutaggio abbastanza limitato.

Dove si colloca The Marvels (2023)?

Vista la quantità di personaggi presenti, The Marvels si colloca in maniera abbastanza precisa nell’universo MCU.

Il film è ambientato nell’autunno del 2025, subito dopo Ms. Marvel – a cui si collega direttamente – e Hawkeye (2021) – che era ambientato nel Natale del 2024 – e probabilmente anche dopo Secret Invasion (2023).

La pellicola si colloca nella Fase 5 e nella Saga del Multiverso.

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Captain Marvel – Un simbolo vuoto

Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck è stato uno dei più grandi successi commerciali dell’MCU – che fosse per il personaggio o per la vicinanza ad Endgame (2019), è ancora un mistero.

Infatti, a fronte di un budget di 152 milioni di dollari, ha incassato 1,1 miliardi di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Captain Marvel?

Vers fa parte della Starforce, una potente squadra di nobili guerrieri dell’impero Kree. Ma niente è quello che sembra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Captain Marvel?

Brie Larson in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

Dipende.

Già al tempo dell’uscita fu piuttosto palese che Captain Marvel fosse niente più che un film molto medio dell’MCU, con un ottimo reparto tecnico – viene da piangere se confrontiamo la CGI di questo film con quella di Secret Invasion (2023) – e una struttura abbastanza classica.

Appare altresì piuttosto evidente, soprattutto ad una revisione ad anni di distanza, quanto la pellicola vada incasellata all’interno delle nuove tendenze del cinema post-metoo, con una Marvel che propose un film bandiera per far vedere di essere dalla parte giusta...

…finendo per produrre un prodotto estremamente vuoto e fine a sé stesso.

Costretta

Brie Larson e Jude Law in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

L’incipit risulta molto più eloquente a visione conclusa.

La protagonista si trova fra due fuochi – il suo caposquadra e allenatore, Yon-Rogg, e la Suprema Intelligenza con un aspetto misterioso – accomunati dalla volontà di limitarla nell’espressione dei suoi poteri e del suo potenziale.

Ma, oltre ad essere frustrata, Vers è totalmente indottrinata dalla propaganda politica dell’Impero Kree, che vorrebbe schiacciare totalmente il popolo degli Skrull – il quale, sulle prime, appare infatti piuttosto ostile ed intrigante.

Brie Larson in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

Una situazione iniziale che metanarrativamente racconta tutt’altro.

La condizione della protagonista vorrebbe in altri termini rappresentare la situazione di donna media all’interno della società in cui vive, la quale cerca costantemente di soffocare le sue potenzialità e di tenerla sotto controllo, tramite una propaganda spicciola e pressioni sia fisiche che psicologiche.

Questa volontà così squisitamente politica finisce involontariamente per depotenziare la protagonista stessa, che manca totalmente di un arco evolutivo, fondamentale in ogni origin story per rendere l’eroe interessante e vicino allo spettatore.

Limitata

Brie Larson in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

In altre parole, Captain Marvel è un personaggio totalmente fine a sé stesso.

Carol Danvers è infatti una figura già arrivata, che non deve veramente affrontare nessuna sfida fondamentale per diventare effettivamente un’eroina, ma il cui punto di arrivo è semplicemente la scoperta del suo vero potenziale.

Ma, nel frattempo, pur subendo le costrizioni imposte dai Kree, la protagonista è comunque un personaggio potente ed irriverente, i cui errori sono sostanzialmente inutili nell’economia narrativa, vista la facilità con cui li risolve…

Brie Larson in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

…risultando così talmente perfetta da apparire per questo fredda, distante, potendo soddisfare solamente le necessità immediate del basso ventre del pubblico di quel periodo, ma rendendola sostanzialmente un personaggio senza futuro.

Non a caso, il film stesso si affretta a spiegare retroattivamente e in più momenti la mancata presenza del personaggio nelle avventure degli Avengers fino a quel momento, risultando però, in ultima analisi, ben poco credibile.

Importanza

Brie Larson in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

Captain Marvel non è un personaggio importante.

Neanche il tempo di essere introdotta, Carol Danvers fu messa immediatamente da parte nel film successivo: in Endgame ritorna solamente alla fine della battaglia, risultando comunque l’elemento meno interessante della scena, quasi un deus ex machina.

A posteriori, insomma, Carol Danvers rappresenta la poca lungimiranza dell’MCU post-Endgame, proprio nella scelta di introdurre un personaggio ben poco riutilizzabile, che non conquistò il cuore del pubblico, ma che anzi venne sempre più odiato negli anni.

Brie Larson in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

E risulta particolarmente sconfortante che il primo personaggio femminile protagonista di un film dell’universo cinematografico ottenne una gestione così ingenua e superficiale, capace, come detto, solamente di guardare alle necessità immediate del pubblico…

…e invece totalmente incapace di costruire un’eroina tridimensionale e sfaccettata, della cui storia avremmo potuto appassionarci nei film successivi, portando invece ad un’icona vuota, che diventerà la futura protagonista di uno dei più pesanti flop della Marvel.

Contorno

Brie Larson e Samuel Jackson in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

Paradossalmente, la parte più interessante di Captain Marvel è il suo contorno.

Se infatti mettiamo da parte le sequenze prettamente dedicate alla protagonista, il film è una spy story anche piuttosto intrigante nelle sue dinamiche – ovviamente dimenticandoci da come queste siano state in seguito mal sfruttate in Secret invasion…

In particolare, il personaggio che rimane più positivamente impresso è il giovane Fury, che rappresenta anche la linea comica della pellicola, assolutamente necessaria a fronte del carattere così freddo e insapore della protagonista.

Brie Larson e Samuel Jackson in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

Meno convincente invece, come detto, il tentativo di incasellamento e di importanza retroattiva per questo film, in particolare nello smaccato tentativo di collegare direttamente il personaggio agli Avengers.

Per questo a mio parere sarebbe stato molto più intelligente creare una storia di maturazione realistica e coinvolgente – come poteva essere quella del poco precedente Spider-Man: Homecoming (2017) – anche sacrificando il collegamento diretto con l’universo di appartenenza.

Dove si colloca Captain Marvel (2019)?

Captain Marvel si colloca nella preistoria dell’MCU: essendo ambientato nel 1995, volgarmente potremmo dire che si trova fra Captain America (2011) e Iron Man (2008).

E, proprio come il primo film di Steve Rogers, entrambe le post-credit collegano il film ad Avengers: la prima direttamente al successivo Endgame, la seconda – anche se più alla lontana – a The Avengers (2012)

Anche se alcuni folli consigliano, nella visione cronologica dell’MCU, di guardarlo dopo il film sul primo vendicatore, Captain Marvel è uno degli ultimi titoli dell’affollata Fase 3, conclusiva della Saga dell’Infinito.

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The Holdovers – Il club dei soli

The Holdovers (2023) di Alexander Payne è stata la grande rivelazione della stagione dei premi 2024, facendo incetta di riconoscimenti.

A fronte di un budget di circa 70 milioni, si sta purtroppo rivelando di un grande insuccesso commerciale, con appena 30 milioni di incasso…

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per The Holdovers (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Miglior sceneggiatura originale
Migliore attore protagonista a Paul Giamatti
Miglior attrice non protagonista a Da’Vine Joy Randolph
Miglior montaggio

Di cosa parla The Holdovers?

Paul Hunham è un bisbetico professore di un collegio, che si trova a dover gestire un gruppo di adolescenti durante le vacanze natalizie…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Holdovers?

Dominic Sessa e Paul Giamatti in una scena di The Holdovers (2023) di Alexander Payne

Assolutamente sì.

The Holdovers è stata una piccola scoperta di quest’anno, per una commedia piacevolissima ed estremamente irriverente, che però riesce a rimanere sempre con i piedi per terra e a non scadere mai nel facile dramma – per quanto ce ne fossero tutti i presupposti…

Paul Giamatti e la stella nascente Dominic Sessa sono una coppia irresistibile in una storia agrodolce e che non manca di interessanti colpi di scena, oltre ad una morale di fondo che per lunghi tratti mi ha ricordato L’attimo fuggente (1989).

Insomma, da non perdere.

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Prova a prendermi – La fuga eterna

Prova a prendermi (2002) è uno spy-movie firmato da Steven Spielberg con un terzetto di attori d’eccezione: Tom Hanks, Christopher Walken e un giovane Leonardo di Caprio.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 52 milioni di dollari – fu un ottimo successo commerciale, con 408 milioni di dollari di incasso.

Di cosa parla Prova a prendermi?

New York, 1964. Frank è un giovane studente con una certa passione per il role play…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Prova a prendermi?

Leonardo di Caprio in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

Prova a prendermi è una piacevolissima spy-story con un cast di grandi talenti, fra cui spicca un brillante Leonardo di Caprio, che già qui dimostrava le sue incredibili capacità recitative, tanto da riuscire a portare in scena un personaggio estremamente complesso e variegato.

Personalmente ho anche apprezzato che, a differenza del poco successivo The Terminal (2004), in questo caso il film non si perde in un buonismo un po’ fine a sé stesso, non mancando comunque di un finale estremamente appagante.

Insomma, da vedere.

Orme

Leonardo di Caprio e Christopher Walken in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Le tendenze criminali di Frank sono ereditarie.

Il ragazzo ha passato tutta la sua vita ad osservare, anzi ad essere coinvolto nelle truffe del padre, apprendendo un insegnamento fondamentale: l’apparenza e la convinzione sono la chiave del successo di ogni con artist.

E se si aggiunge la lusinghiera corruzione…

Leonardo di Caprio in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Un gioco che prosegue finché non è il figlio stesso a volersi mettere in gioco, in maniera così brillante e convincente da riuscire a condurre una settimana intera come insegnante, arrivando persino ad organizzare un viaggio scolastico…

Una scelta che dovrebbe essere durante punita dal padre, ma che invece viene promossa con una risata condivisa.

Ma Frank è cieco di fronte a tutto il resto.

Persecuzione

Christopher Walken in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Nonostante Frank Senior si sente come il topo furbo che è riuscito a gabbare il sistema…

…in realtà è affogato nello stesso.

Questa sua passione per le truffe lo porta infatti a distruggere dall’interno la sua famiglia, a vivere sostanzialmente perseguitato dall’IRS, e, soprattutto, a passare un’errata convinzione al figlio, che sente come di poter riscattare la memoria del padre con una truffa nuova di zecca.

Ma il giovane protagonista è ancora più ingenuamente miope davanti alla sensazione del padre di essere costantemente osservato, controllato, di non poter vivere serenamente neanche il regalo di un figlio per paura di essere messo dietro le sbarre…

Ruolo

Leonardo di Caprio in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Per interpretare un personaggio, la preparazione è fondamentale.

Frank si destreggia fra un ampio di ventaglio di ruoli primari e secondari, accettando persino situazioni di estremo disagio – assolutamente fondamentali ai fini narrativi per raccontare anche le debolezze di un protagonista apparentemente così infallibile.

Così comincia con un’importante ricerca sul campo, che lo porta a farsi raccontare da personaggi totalmente ignari tutte le informazioni necessarie per poter prendere parte al primo ruolo – il pilota – scoprendo ogni volta nuovi modi per riscattare assegni sempre più importanti.

Leonardo di Caprio in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Ma se la mascherata del pilota è tutto sommato moralmente innocua, altro discorso è quando il protagonista si finge dottore per farsi assumere in ospedale, in realtà usando la sua posizione come un trampolino per sistemarsi con un matrimonio di comodo.

E, proprio a quel punto, la facciata comincia a cadere a pezzi.

Maschera

Tom Hanks in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Carl è l’unico vero amico del protagonista.

Nonostante infatti cerchi costantemente di mostrarsi circondato da belle donne e da uomini che vorrebbero essere al suo posto, in realtà Frank è un individuo estremamente solo, che non può parlare realmente con nessuno dei suoi veri sentimenti e delle sue paure.

Per questo l’agente dell’FBI, inizialmente gabbato da un inganno assolutamente improvvisato – basato sempre sulla distrazione creata al momento giusto, andando a scavare i più profondi sentimenti e preoccupazioni di chi ha davanti…

…è l’unico che riesce davvero ad inquadrare il protagonista, l’unico che conosce la sua vera faccia, ed anche l’unico interlocutore a cui Frank si rivolge quando si sente del tutto abbandonato a sé stesso, nonostante così si metta costantemente in pericolo…

Prigione

Leonardo di Caprio in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Fino agli ultimi momenti, Frank deve scegliere fra l’essere braccato o l’essere rinchiuso.

E il concetto di prigione nel suo caso è piuttosto ampio.

La galera è sia quella fisica – in Europa o negli Stati Uniti – sia quella provvisoria – l’aereo – sia, infine, gli uffici dell’FBI in cui è costretto a lavorare finché lo stesso Carl non deciderà diversamente – in una condizione che, per quanto molto vantaggiosa, gli appare estremamente angosciante.

In ogni occasione, anche quelle più improbabili e già perse in partenza, Frank tenta comunque la fuga – in particolare dall’aereo, riuscendo a svitare il gabinetto e sfilarsi da sotto al velivolo che sta atterrando…

Leonardo di Caprio e Tom Hanks in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Per questo nel finale Carl capisce che deve cambiare tattica.

Avendo ormai compreso che, pur dopo quattro anni, Frank sta cercando ancora un’occasione per scappare, l’agente lo intercetta solamente per ricordargli a cosa sta andando incontro – la prigione o una vita come quella del padre, braccato e paranoico – per poi lasciargli la libertà di scelta.

Così una perfetta regia ci accompagna verso un finale che riesce a tenere con il fiato sospeso fino all’ultimo minuto, mostrando infine un Frank che è finalmente riuscito ad essere in pace con sé stesso e ad accettare una vita forse meno eccitante, ma certamente più serena.

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The Terminal – Un semplice buonismo

The Terminal (2004) di Steven Spielberg rappresenta uno dei titoli più noti della prolifica carriera di Tom Hanks, che aveva già lavorato con il regista statunitense pochi anni prima con Salvate il soldato Ryan (1998).

A fronte di un budget abbastanza importante per il tipo di film – 60 milioni di dollari – fu un ottimo successo commerciale, con quasi 220 milioni di incasso.

Di cosa parla The Terminal?

Viktor Navorski è appena arrivato a New York senza saper parlare quasi una parola di inglese. Le cose si complicheranno quando la sua patria cesserà di “esistere”…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Terminal?

Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

In generale, sì.

Nel complesso The Terminal è un film molto piacevole ed intrattenente, che anzi per certi versi affronta temi non semplici da trattare – immigrazione, persecuzione politica, barriere linguistiche – pur qualche semplificazione e ingenuità.

Tuttavia, a mio parere la pellicola si perde leggermente nella sua seconda parte, quando tende a scadere in un buonismo in realtà piuttosto tipico della filmografia di Spielberg di questo periodo, rendendo nel complesso la storia fin troppo semplice e sentimentale nelle sue risoluzioni.

Realizzazione

Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

Prima di farci immergere nella trama, The Terminal dedica qualche minuto iniziale per raccontare la realtà in cui la stessa si muove.

Non un semplice aeroporto, ma una delle più importanti porte d’accesso agli Stati Uniti all’indomani dell’11 settembre, evento che ha cambiato per sempre la burocrazia e i controlli di sicurezza – come raccontato anche nel precedente Minority Report (2002).

Curiosamente all’inizio la pellicola privilegia un taglio comico, giocando sulle difficoltà della barriera linguistica del protagonista, che sembra totalmente inconsapevole di quello che gli sta succedendo intorno.

Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

Per questo la realizzazione è ancora più sofferta.

Quasi per caso, Viktor si trova davanti agli occhi la scoperta della distruzione della sua patria, e comincia così un tragico inseguimento di quelle immagini così poco chiare, eppure così rivelatorie riguardo la sua nuova condizione.

E così anche il suo tentativo di sfuggire da quella gabbia burocratica è del tutto inutile per un uomo senza patria, un individuo solo nel mezzo di una folla, intrappolato in un incomprensibile cul-de-sac.

Inventiva

Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

La bellezza del personaggio di Viktor è la sua inventiva.

Sulle prime il protagonista infatti se la cava praticamente senza alcun aiuto esterno, prima imparando a masticare l’inglese grazie all’ingegnoso utilizzo di due versioni diverse dello stesso libro, poi con il trucco dei carrelli.

E, nonostante i diversi ostacoli lungo la strada, diventa un personaggio chiave per la vita di molti personaggi, riuscendo sia a farsi benvolere dalla classe lavoratrice, sia a sopravvivere all’ambiente ostile dell’aeroporto.

Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

Questo aspetto diventa forse leggermente eccessivo nella seconda parte, quando il protagonista si improvvisa muratore, nonostante a mio parere la sequenza si salvi per la piacevole comicità che la pervade.

Secondo lo stesso ragionamento, mi ha convinto a tratti il rapporto con gli altri personaggi dell’aeroporto: se sulle prime, ad esempio, il favore di Viktor nei confronti di Enrique è una situazione piacevole e divertente, diventa francamente melenso quando, dopo solo pochi mesi, il personaggio si sposa con Dolores.

Diverso il discorso per il rapporto con Frank Dixon.

Nemico

Il personaggio di Stanley Tucci mi intriga e mi confonde allo stesso tempo.

Se infatti Frank Dixon è indubbiamente un personaggio negativo, superficiale e tirannico, che cerca in ogni modo di rimuovere una figura così intrusiva e ingestibile come Viktor dal suo prezioso aeroporto, anche con trucchi veramente meschini…

…allo stesso modo non mi è chiaro cosa Spielberg volesse raccontare, in quanto sarebbe forse troppo idealistico pensare che questo personaggio sia una rappresentazione piuttosto negativa dell’atteggiamento tutto statunitense nei confronti delle minoranze, specificatamente degli immigrati…

Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

Tuttavia, il suo contrasto con il protagonista è l’elemento più funzionante della pellicola.

Nonostante infatti Frank cerchi costantemente di domarlo, Viktor rimane fino all’ultimo un personaggio per lui di fatto incomprensibile, nonostante sia guidato da sentimenti umanitari e patriottici molto semplici ed immediati.

Mi ha particolarmente colpito la scena in cui il capo della sicurezza cerca di convincere il protagonista di non voler ritornare in patria, proprio per le condizioni terribili in cui questa versa, rimanendo sbigottito davanti all’istintiva fedeltà che Viktor dimostra verso il suo paese:

Is home. I am not afraid from my home.

È casa mia, non ho paura.
Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

Ma il momento più emozionante è indubbiamente quando il protagonista diventa definitivamente paladino degli ultimi, nella scena in cui riesce a sfruttare la barriera linguistica per salvare un uomo che sta solo cercando di portare le medicine al padre malato.

La situazione si aggrava quando infine Viktor può tornare a casa, ma sceglie di non farlo per portare a termine la missione lasciatagli dal padre, quando finalmente le sue benevole azioni passate gli vengono in aiuto nella forma del supporto collettivo degli altri personaggi.

E proprio qui sta il punto.

Buonismo

Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

L’unico elemento che veramente non mi ha convinto della pellicola è il suo buonismo, nello specifico nella seconda parte.

Era evidentemente necessario offrire allo spettatore un collegamento emotivo semplice ed immediato con il protagonista, così da portare ad un finale emozionante e coinvolgente, in cui Viktor riesce finalmente a dare valore all’eredità del padre.

Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

E se su questo elemento nel complesso posso dirmi soddisfatta, meno mi ha convinto la relazione con Amelia, sulle prime veramente piacevole, alla lunga invece eccessivamente smaccata, con anche una conclusione troncata un po’ anti-climatica.

Per certi versi lo stesso discorso si può applicare alla vicenda di Gupta Rajan, che sceglie infine di sacrificare la propria libertà personale per permettere al protagonista di realizzare il suo sogno, che però è obiettivamente meno importante…

Un semplicismo, insomma, che infine non mi ha lasciato un buon sapore in bocca…

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2021 Avventura Dramma familiare Drammatico Film i miei film preferiti

Il potere del cane – Storia di un uomo fragile

Il potere del cane (2021) di Jane Campion è stato uno dei protagonisti della stagione degli Oscar 2022, pur venendo sistematicamente derubato proprio in quell’occasione…

Il film ha ricevuto una distribuzione limitata nelle sale, con un incasso stimato di circa 270 mila dollari, per poi essere rilasciato direttamente su Netflix.

Di cosa parla Il potere del cane?

1925, Stati Uniti. Rose è disperata dopo la perdita del marito, dovendo gestire da sola un ristorante e con un figlio da crescere. Ma una novità sta per bussare alla sua porta…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il potere del cane?

Assolutamente sì.

Purtroppo sono estremamente di parte, perché Il potere del cane è uno dei miei film preferiti in assoluto.

Jane Champion confeziona un’opera di una rara eleganza registica e di scrittura, intrecciando una trama enigmatica e complessa, eppure chiarissima da leggere una volta compresi i simboli principali interni alla narrazione.

Una riflessione ambientata in un passato molto oscuro e lontano, ma nondimeno estremamente vicino al presente per molte delle sue dinamiche, in una pellicola che, pur in maniera diversa, presenta una riflessione sulla fragilità del maschile simile a Men (2022).

Insomma, da non perdere.

Opposto

Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Il primo atto è tanto oscuro quanto diretto.

Si definiscono immediatamente gli opposti – Phil e Peter – nonostante inizialmente il giovanissimo figlio di Rose appaia come personaggio di contorno: il ragazzo sulle prime sembra delicato, fragile, proprio come i fiori di carta che usa per decorare la tavola.

Tuttavia, nonostante Phil cerchi immediatamente di derubricare i suddetti fiori all’identità del personaggio – un maschile femmineo e, per questo, deplorevole – in realtà gli stessi raccontano i tentativi di cura di Peter nei confronti della madre, proprio cercando di abbellire quel mondo sporco e selvaggio in cui sono costretti a vivere.

Benedict Cumberbatch in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Ma proprio nei fiori Phil ricerca la sua definizione.

Il suo atteggiamento al riguardo rappresenta il rapporto del personaggio con quello che considera debole – e, spesso, anche femminile: Phil si impadronisce dei fiori, passa il dito all’interno del bocciolo come se fosse una vagina e, infine, li distrugge.

Parallelamente l’uomo addita insistentemente il vero autore del centrotavola, proprio per delineare la fondamentale distanza fra i due: da una parte l’uomo forte e selvaggio – Phil – dall’altra il ragazzino effeminato e fragile – Peter.

Fragile

Benedict Cumberbatch e Jessi Plemons in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Il rapporto fra Phil e George si può leggere in due direzioni.

Phil si comporta col fratello in parte con lo stesso atteggiamento che aveva nei confronti di Peter: cerca continuamente di sminuirlo – soprattutto all’inizio lo chiama sempre fatso, grassone – ma, al contempo, anche di avvicinarlo a lui.

Innumerevoli sono infatti i tentativi di riportare la memoria – e il presente – ad un’epoca più felice, più semplice, con dei ruoli di genere molto chiari e stringenti – particolarmente spicca la battuta riguardo alla donna che non si poteva scopare se non aveva un sacchetto in testa.

Jessie Plemons in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Ma George non ci sta.

Il più delle volte risponde al fratello e alle sue provocazioni con un disinteressato silenzio, scegliendo piuttosto di parlargli per condurlo verso un mondo più civile e contemporaneo, con un atteggiamento piuttosto sereno, ma nondimeno ammonitore.

Anzi, George in più momenti cerca proprio apertamente di insidiare il comportamento distruttivo del fratello: proprio in quest’occasione, Phil dimostra tutta la sua fragilità, particolarmente quando non riesce poi ad essere così gradasso quando il fratello lo ammonisce, dicendogli che ha fatto piangere Rose.

Tramonto

In generale, Phil rappresenta evidentemente un mondo ormai sulla via del tramonto: il mondo dei cowboy, dell’avventura, della vita semplice e materiale, in cui la definizione del vero maschile era incredibilmente semplice ed immediata.

E infatti il suo modo di vestire è l’ultimo baluardo di quell’età d’oro perduta: il suo personaggio predilige un abbigliamento pratico, che non si orna che di pochi vezzi, la cui usura e sporcizia sottolineano ancora di più il suo lato più selvaggio e indomabile – o presunto tale.

Jessie Plemons e Kirsten Dust in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Al contrario George, pur andando a cavallo e lavorando all’interno di un contesto rurale, sceglie un abbigliamento molto più elegante e borghese, più urbano, in un contesto storico in cui la modernità rampante stava sempre più strozzando il sogno del far west.

E proprio per questo sceglie di accogliere in questo mondo anche Rose, nella quale trova un’affinità di spirito, mostrandogli un’inedita gentilezza e cura, scegliendo fra l’altro di agire alle spalle del fratello, sfuggendo al suo insostenibile giudizio.

Integrazione

Kirsten Dust in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Ma Rose non ha la stessa forza d’animo.

La donna viene insidiata da più parti: anzitutto da Phil, che la disprezza apertamente, che la chiama cheap schemer squallida calcolatrice – e che respinge i suoi tentativi di avvicinamento, di fatto bullizzandola.

L’uomo trova infatti in questa donna così fragile la preda perfetta della sua meschinità, da cui la vedova è incapace di difendersi, in particolare nella splendida scena del pianoforte, in cui subdolamente Phil risponde alle sue note incerte con la sicura melodia del suo banjo.

Jessi Plemons e Kirsten Dust in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Ma, al contempo, Rose non riesce neanche ad integrarsi nel mondo del marito.

Nonostante infatti George cerchi più volte di spingerla – in maniera a tratti quasi assillante – a mostrare il meglio di sé e a diventare la moglie perfetta, Rose respinge più volte e timidamente questi tentativi, particolarmente con la già citata dinamica del pianoforte.

Al punto che, alla cena col governatore e i suoceri, nonostante sia stata tirata a lucido, appare fuori posto sia nel momento in cui servono i drink – rimanendo con in mano il vassoio come una squallida cameriera – sia quando è così insicura da non riuscire a suonare alcunché.

Apparenza

Quando Peter arriva al ranch, sembra essere la nuova preda di Phil.

In realtà fin da subito intravediamo le prime crepe in quell’apparenza del giovane introverso e fragile, in particolare per la dinamica del coniglio: sulle prime sembra che Peter lo catturi per voler far divertire la madre…

…in realtà bastano poche scene per mostrare come il vero interesse del ragazzo per quell’animale fosse di studiarne le interiora, capire cosa nasconde veramente dentro di sé, fra l’altro in maniera brutalmente asettica.

Benedict Cumberbatch in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

E, proprio come il coniglio, Peter osserva Phil.

Infatti, nella sua apparente timidezza, il giovane nasconde in realtà la sua vera natura da osservatore e macchinatore: assiste prima con amarezza alla condizione ormai delirante della madre, per poi intrufolarsi nel cuore di Phil.

Così scopre le riviste pornografiche omosessuali che l’uomo nasconde, scopre il suo rifugio segreto dove veramente il personaggio si mette a nudo, l’unico luogo dove veramente può ripensare al suo rapporto indubbiamente sessuale col compianto Bronco Henry.

Questa rivelazione sembra così alterare gli equilibri.

Corda

Benedict Cumberbatch e Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Per la definizione del rapporto fra Phil e Peter, la corda è l’elemento chiave.

La cima sulle prime rappresenta la minaccia subdola nei confronti del ragazzo: nel loro enigmatico dialogo, Phil sembra giocare con la sua preda, senza attaccarla direttamente, ma facendole intendere di star meditando il modo in cui eliminarla.

In realtà è lo stesso Peter che sta giocando con lui: dopo essersi reso protagonista di una piccola passerella per farsi vedere dal resto del gruppo nella sua apparente fragilità, il ragazzo si avvicina a Phil e comincia a compiacerlo in maniera particolarmente subdola.

Benedict Cumberbatch in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Infatti, sulle prime gli mostra un rispetto artificioso e irreale, con un tipo di atteggiamento ossequioso del tutto estraneo ai modi rozzi di Phil, non cedendo subito alla richiesta di chiamarlo per nome, ma invece insistendo con questo cerimoniale il tanto che basta da fargli credere di essere totalmente ingenuo ed incapace.

Poi, al momento giusto, comincia invece a cedere ed accettare di chiamarlo Phil, riuscendo così a compiacerlo, facendogli credere di avergli insegnato qualcosa e di aver fatto un passo in più verso il suo mondo.

In questo senso, l’intreccio della corda rappresenta anche l’intreccio del rapporto.

Caccia

Benedict Cumberbatch e Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Per comprendere il finale, sono due i momenti fondamentali.

Il primo è quando Phil e Peter vanno a fare una cavalcata insieme, e l’uomo lo coinvolge in questo gioco infantile e lugubre dello stanare il coniglio, quasi come se volesse metterlo alla prova.

Proprio in quell’occasione, Peter racconta tutto della sua personalità e delle sue intenzioni, senza che Phil se ne renda conto: prima afferra il coniglio e lo rassicura, poi, con un colpo secco, gli spezza il collo.

Benedict Cumberbatch e Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Quel coniglio, con la zampa ferita, è esattamente la rappresentazione di Phil che si è ferito la mano, ma che è talmente rozzo e disattento da scegliere di non curarla adeguatamente, lasciando aperto il fianco all’attacco di Peter.

E così, nonostante il ragazzo gli dica anche esplicitamente di essere ben meno fragile di quanto sembri – sia per aver gestito da solo la morte del padre, sia ricordando le parole dello stesso genitore Phil continua superficialmente a non vedere.

Ruolo

Benedict Cumberbatch e Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Peter sta ricreando il sogno di Phil.

Prima osserva attentamente l’atteggiamento dell’uomo, ne assorbe i racconti e i significati, e, soprattutto, capisce quello che nessun altro è riuscito prima a capire, a vedere: l’ombra feroce del cane sulle colline.

Un’ombra che può essere letta in due direzioni: il comportamento di Phil, che si nasconde dietro ad un’apparenza fragile e vorace, e il passato di Bronco Henry che l’uomo porta sempre con sé, ma con un significato che non vuole che nessun altro conosca.

Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

E così, quando Peter riesce a vedere quell’ombra che era solo negli occhi di Phil, l’uomo diventa definitivamente la preda della sua macchinazione.

In questo senso, Peter opera per ricreare le condizioni del rapporto con Bronco, in cui prende il ruolo che un tempo era stato del giovane Phil – non a caso lo stesso gli dice che al tempo aveva la sua stessa età – mentre l’uomo diventa il compianto maestro.

Cacciatore

Da bravo cacciatore, Peter deve procurarsi un’arma.

Dall’osservazione di Phil, gli salta subito all’occhio come, nella sua disattenzione, si rifiuti di utilizzare i guanti quando tocca gli animali – si vede in particolare quando castra il toro a mani nude – una scelta particolarmente pericolosa con una profonda ferita sulla mano…

Così, dopo essersi informato sulla causa più comune della morte del bestiame – l’antrace, una malattia infettiva degli animali, che può essere anche trasmessa all’uomo – si avventura per ricercare le carcasse di uno dei bovini infetti.

Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Ma un cacciatore deve soprattutto cogliere le occasioni.

In questo senso Rose finisce inconsapevolmente per offrire a suo figlio la chiave per la sua stessa salvezza, regalando le tanto amate pelli di Phil agli indiani, rendendo in questo modo l’uomo furioso ed isterico, e, per questo, ancora più manipolabile.

Così Peter si inserisce abilmente in questa situazione, prima ricercando il primo vero contatto fisico con Phil, poi proponendogli un’alternativa – le pelli che ha tagliato per lui – che sancisca il definitivo stringimento del loro rapporto.

Morte

Benedict Cumberbatch e Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Negli ultimi momenti de Il potere del cane, la corda si arricchisce di significati.

Per Phil ormai la stessa non è più simbolo della morte di Peter, come era nelle sue intenzioni iniziali, ma piuttosto del suggello del loro rapporto, inevitabile nel momento in cui il ragazzo sembra rivelare i suoi veri sentimenti – voglio diventare come te.

Così segue una scena notturna, in cui probabilmente il loro rapporto finalmente si consuma sessualmente, con un Peter piuttosto lusinghiero e ammiccante, che distrarre Phil mentre lo stesso sta fabbricando il suo cappio.

Benedict Cumberbatch e Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Infatti, una rapida inquadratura sulle mani di Phil immerse nell’acqua rivela come l’uomo stia armeggiando con delle pelli infette quando ancora la ferita della sua mano è aperta e addirittura perde sangue…

Così giorno seguente si apre con un Phil ormai totalmente sconfitto, preda della sua malattia, che veste per la prima volta abiti borghesi – gli stessi che indosserà nella sua bara – e che cerca disperatamente Peter per dargli la corda, simbolo del loro rapporto.

E così finalmente il nemico è stato sconfitto: Phil, il cane, è sottoterra, la corda è riposta sotto al letto, Rose potrà vivere una vita più serena ed integrarsi nella buona società, con un Peter che osserva felicemente dalla finestra della sua stanza la ritrovata felicità della madre.

Il potere del cane significato

Il titolo del film fa riferimento ad un passo dei Salmi:

Erue a framea animam meam et de manu canis unicam meam

Salmi, 22,20

La prima parte nella Vulgata Latina è piuttosto intuitiva: Sottrai Eruela mia animaanimam meam dalla spada a framea.

Più complessa invece la seconda parte, in particolare nel significato di unicam meam: letteralmente significa la mia unica, e può far riferimento sia all’anima – l’unica che ho – sia ad un affetto – l’unica donna, affetto, amore che ho.

Immediato invece il significato del passo fondamentale: de manu canis, ovvero dal potere mănŭs ha una marea di significati, da azione fino, appunto a potere e violenzadel cane.

Tuttavia, Jane Champion fa indubbiamente riferimento alla traduzione in inglese del passo – anche citata nel film – che prende una strada interpretativa ben precisa:

Deliver my soul from the sword; my darling from the power of the dog.

Salmi, 22,20

In questo senso quindi si intende che Peter vuole liberare my darling, ovvero la sua amata e cara madre dal potere del cane, che nella visione biblica rappresenta le pulsioni irrefrenabili dell’animo, proprie di un animale che al tempo era considerato sporco, caotico ed imprevedibile.

Quel cane è infatti proprio Phil stesso, che applica la sua forza, il suo potere prevaricatore su Rose per annientarla – e, senza l’intervento di Peter, ce l’avrebbe anche fatta – con il suo atteggiamento violento e caotico.

Ma, all’opposto, l’uomo viene sconfitto non tramite la stessa forza subdola che lui è solito applicare, ma piuttosto diventando vittima del sottile inganno psicologico di Peter, che lo rende sempre più debole e incapace di difendersi e che, infine, ne determina la morte.

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Poor Things – La femme sauvage

Poor Things (2023) rappresenta la seconda collaborazione dopo La Favorita (2018) fra Tony McNamara e Yorgos Lanthimos, regista greco ormai affermato nel panorama hollywoodiano.

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 35 milioni di dollari – dopo un mese di programmazione negli Stati Uniti ha incassato appena 17 milioni…

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Poor Things (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Migliore regista
Miglior sceneggiatura non originale
Migliore attrice protagonista a Emma Stone
Migliore attore non protagonista a Mark Ruffalo
Miglior montaggio
Migliore fotografia
Migliore scenografia
Migliori costumi
Miglior colonna sonora
Miglior trucco e acconciatura

Di cosa parla Poor Things?

In una Londra vittoriana ucronica, Godwin Baxter è un chirurgo di grande fama, particolarmente avvezzo alla sperimentazione umana…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Poor Things?

Dipende.

Poor Things è un film incredibilmente ambizioso e squisitamente provocatorio, facilmente avvicinabile a Barbie (2023) per tematiche e dinamiche, pur con un taglio molto più maturo e sfacciato, soprattutto per l’importante presenza di nudi e di scene erotiche.

Per questo, non la considero una pellicola esattamente per tutti i palati.

In generale, il messaggio di fondo è ben raccontato, pur inciampando in certi momenti in un didascalismo quasi pedante – ma pur sempre ben contestualizzato – e in qualche sbavatura di eccessivo virtuosismo che non mi ha del tutto convinto.

Ma, se questi elementi non vi disturbano, lo potreste facilmente amare.

Nascita

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Poor Things è quasi del tutto sorretto dalla splendida recitazione vocale e corporea di Emma Stone.

Soprattutto nel primissimo atto era fondamentale rendere credibile il comportamento di Bella, una bambinona incapace di muoversi senza barcollare, con un vocabolario limitato a poche parole e un linguaggio sgrammaticato e stentato.

Particolarmente in questo senso efficace la messinscena dei suoi capricci, propri di un qualunque bambino che cerca costantemente di capire i propri limiti sociali, e che per questo si comporta in maniera quasi selvaggia pur di ottenere quello che vuole.

Willem Dafoe in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Ovvero, nel caso di Bella, la libertà.

Piccata e piuttosto graffiante la sua scoperta della sessualità – in un contesto in cui nessuno si è preoccupato di spiegargliela – fra l’altro rappresentata da un simbolo piuttosto eloquente e che ben si integra nella simbologia piuttosto intuitiva del Paradiso Terrestre prima della Caduta.

Non a caso Bella, novella Eva, si masturba per la prima volta con una mela, simbolo della Conoscenza, mentre sia il suo creatore – che lei chiama God, Dio – sia il futuro marito, Max – Adamo – cercano di limitarla e rinchiuderla all’interno di uno stringente regolamento sociale.

Scoperta

Il secondo atto è il momento della scoperta.

Del tutto ignara delle dinamiche sociali che le impedirebbero di vivere al di fuori del futuro matrimonio, Bella si sottrae all’eden di Godwin – che le concede benevolmente il libero arbitrio – e si lascia conquistare dalle tentazioni di Duncan, che le promette la tanto ricercata libertà.

In realtà, questo ingannevole casanova vorrebbe solamente approfittarsi di lei, usandola come la classica amante usa-e-getta, cercando fra l’altro fin da subito di porre un ulteriore controllo su di lei – piuttosto tipico per le figure femminili di oggi e di ieri.

Ovvero, il controllo sul cibo.

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Non a caso, fra le prime esperienze che Bella si concede mentre vaga nella città, vi è il rimpinzarsi di quei dolci che Duncan gli aveva negato, finendo per utilizzare il suo amante solamente come strumento per esplorare e godere delle meraviglie dell’esperienza sessuale.

Ma al di sotto della maschera da bambina capricciosa, la protagonista è semplicemente una donna che si rifiuta sistematicamente di sottostare a qualunque tipo di norma sociale – nel sesso quanto nelle chiacchiere futili – desiderando solamente esplorare il mondo terreno ed erotico.

Per questo, Duncan cerca ancora di più di rinchiuderla.

Recinto

Emma Stone e Mark Ruffalo in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Facendola entrare con l’inganno dentro ad un baule, Duncan cerca di riportare Bella in un recinto.

In realtà la crociera è il momento di maggiore esplorazione di Bella, che comincia anche il suo viaggio intellettuale, arrivando fino alla scoperta del lato più marcio di una società macchiata da un profondo e apparentemente insanabile classismo.

Tuttavia, in questa sequenza si trova anche uno dei pochi elementi che non mi hanno convinto nel film.

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Per quanto evidentemente Poor Things voglia abbracciare un femminismo intersezionale e anticapitalista, fallisce nel portare una narrazione incisiva al riguardo, soprattutto considerando quanto spazio invece concede al tema dell’esplorazione sessuale.

La perdita dei soldi sembra infatti quasi un meccanismo della trama per passare all’atto successivo, ripreso solamente dai discorsi proto-socialisti in cui la protagonista si imbatte, ma che vengono affrontati in maniera molto superficiale e senza un adeguato approfondimento.

Identità

Emma Stone e Mark Ruffalo in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Il penultimo atto è per certi versi quello più difettoso.

Il punto più interessante è rappresentato dalla varietà delle esperienze di Bella, che si sottrae ancora una volta alla dicotomia sociale che la vorrebbe incasellare solamente in un ruolo – o madre di famiglia o troia – scegliendo invece di utilizzare il suo corpo come fonte di guadagno – e senza alcuna vergogna.

Così il film ci mette davanti ad una delle sue più graffianti provocazioni.

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Secondo Poor Things, se non vivessimo in una società così bigotta, la prostituzione – in questo caso ovviamente idealizzata – potrebbe essere lo strumento attraverso il quale le donne otterrebbero la propria libertà – sessuale e, soprattutto, economica.

Messaggio indubbiamente interessante – articolato anche nelle ulteriori rivendicazioni di Bella riguardo la scelta del partner – che però è stato forse eccessivamente diluito all’interno di un atto che a tratti sembra quasi un intermezzo non così essenziale all’economia narrativa…

Vendetta

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

L’ultimo atto è il momento della verità.

Bella si ricongiunge con la sua famiglia, soprattutto con i due goffi personaggi maschili – Godwin e Max – che si rivelano benevoli nei suoi confronti, riuscendo infine ad arrivare al matrimonio, ma finalmente con condizioni non opprimenti come quelle inizialmente pensate.

Questo momento di apparente ricongiunzione viene però interrotto dall’inizio dell’avventura definitiva della protagonista, che sceglie volontariamente di reimmergersi nel suo misterioso quanto doloroso passato, pur decisa di non farsi nuovamente sottomettere dallo stesso.

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Infatti, il suo alter ego viveva il più classico dei drammi di una nobildonna dell’epoca.

Ovvero, essere intrappolata in matrimonio violento ed opprimente, con un marito crudele ed oppressivo, a cui si era trovata ancora più legata per via del parto imminente, riuscendo a salvare sé stessa solo tramite il suicidio.

La sua condizione – come quella di Bella – era ancora più aggravata dal peso della colpa che le veniva messa sulle spalle, legata prima e dopo alla sua sessualità, talmente esuberante da essere considerata sostanzialmente isterica e, per questo, da domare.

Tuttavia, lo scioglimento della vicenda sembra più che altro ideologico.

Morale

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Se fino a questo momento Bella era un personaggio sostanzialmente positivo, diventa incredibilmente grigio quando sceglie di sparare al marito ed infine di sottoporlo ad un trattamento simile a quello che lei stessa aveva subito, ma in maniera molto più crudele.

Anche se questo finale narrativamente parlando è del tutto coerente, rappresenta anche una scelta che, soprattutto nel contesto del finale in cui evidentemente il femminile è infine dominante, offre forse il fianco ad un tipo di femminismo più radicale e vendicativo che non mi sento di accogliere…

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Al riguardo, si viaggia nel periglioso terreno dell’interpretazione personale.

Se infatti da una parte si potrebbe dire che non è corretto considerare Bella come un personaggio effettivamente positivo e rappresentativo del femminile, proprio per la sua apatia e a tratti anche crudeltà…

…allo stesso modo sarebbe stato molto più intelligente inserire un elemento veramente mancante nella pellicola.

Ovvero, un’effettiva maturazione di Bella dal punto di vista relazionale, non solo attraverso la liberazione sessuale, ma anche con la presa di consapevolezza del rispetto necessario fra le parti all’interno di una relazione sana.

Invece alla fine sembra che Bella voglia più sminuire Max che riappacificarsi con lui, in un finale in cui i ruoli sembrano definiti all’interno di una gerarchia, e non di uno stato di parità…

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Jojo Rabbit – Una risata vi seppellirà

Jojo Rabbit (2019) è probabilmente il film più iconico e amato della filmografia di Taika Waititi.

A fronte di un budget di appena 14 milioni di dollari, fu un ottimo successo commerciale, con 90 milioni di incasso.

Di cosa parla Jojo Rabbit?

Germania, 1945. Jojo è un ragazzino di appena 10 anni che sta per entrare nella gioventù hitleriana. E il suo amico immaginario è tutto un programma…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Jojo Rabbit?

Assolutamente sì.

Jojo Rabbit è stata una ventata di freschezza nella trattazione di un tema piuttosto impegnativo – l’olocausto – da parte di un regista di origine ebraica che ha scelto di rispondere forse nella maniera migliore possibile al mito di uno dei più crudeli dittatori della storia umana:

con una risata.

Così, pur senza mancare di pennellate piuttosto drammatiche, Jojo Rabbit è una splendida satira sociale che deride in maniera brillante una parentesi storica per certi tratti ancora piuttosto incomprensibile, svelandone la grottesca assurdità.

Coniglio

Roman Griffin Davis in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Jojo è figlio del nazismo.

Una pagina bianca che è stata scritta fin dalla più tenera età da una spietata mitologia che raccoglieva gli umori disillusi di una Germania spezzata dal primo conflitto mondiale, e li orientava verso un nemico semplice, immediato, e facilmente demonizzabile.

Un’occasione anche per permettere di sfogare una certa violenza sopita, ma piuttosto spietata, che nel contesto nazista veniva anzi incoraggiata al fine di portare alla vittoria sia della razza ariana, sia, più in generale, di un intero paese bramoso di dominare finalmente il mondo.

Roman Griffin Davis e Taika Waititi in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

In questo contesto, Jojo è una flebile speranza.

Nonostante il bambino sia stato allevato per la guerra, si atteggia solamente a parole come un fedele soldato, dicendo anzi di adorare l’idea di uccidere, ma ritrovandosi del tutto incapace alla prova dei fatti, quando non riesce a togliere la vita neanche ad un animale – figurarsi ad un altro essere umano…

E così, volendo essere reintegrato nella sua comunità, lancia in prima linea per dimostrare il suo valore, regalandosi in realtà la più grande conquista a cui un cittadino europeo poteva ambire in quel momento storico: diventare sostanzialmente un invalido, non potendo così essere ulteriore carne da macello nel campo di battaglia.

Padre

Roman Griffin Davis e Taika Waititi in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Hitler è una figura paterna.

Nella mente di Jojo il dittatore tedesco è comico e paradossale – anche nell’aspetto, soprattutto per quegli occhioni blu – e nello stesso Jojo ritrova quel padre ormai assente da tanti anni, ma che, a differenza del suo vero genitore, lo incoraggia amorevolmente ad unirsi al club dei nazisti.

Ma la bellezza di questo Hitler immaginario è proprio il definire l’evoluzione del protagonista e la sua graduale presa di coscienza verso la verità sul nazismo, diventando gradualmente sempre più simile alla figura storia e meno al migliore amico dei sogni.

Roman Griffin Davis e Scalett Johansson in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

A questa figura si contrappone Rosie, la madre, che per nulla si integra nel modello di donna ariana sognato del nazismo, ma anzi è una donna amorevole quanto determinata, nonché profondamente ribelle, anche se quasi arresa davanti al pensiero radicale del figlio.

Infatti il suo personaggio cerca solo timidamente di far cambiare idea a Jojo, consapevole di come questo comportamento sia solo una fase dovuta al periodo storico sbagliato in cui è nato e, al contempo, alla mancanza di una figura paterna.

Adulto

Roman Griffin Davis e Thomasin McKenzie in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Elsa è fondamentale per la maturazione di Jojo.

La splendida sequenza introduttiva del suo personaggio in chiave horror ricalca proprio il pensiero deviato del protagonista – e di molti altri tedeschi – nei confronti di questi esseri mostruosi e sempre più incomprensibili, di cui Jojo sulle prime ha genuinamente paura.

Roman Griffin Davis e Thomasin McKenzie in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Tuttavia, la scelta di non denunciare la presenza della ragazza in casa sua è la prima decisione matura del protagonista, che preferisce infine proteggere la sua famiglia piuttosto che essere effettivamente fedele ad Hitler, cominciando così la sua maturazione.

Così i primi contatti pacifici fra Jojo e Elsa sono i numerosi e divertenti scambi riguardo alla vera natura del popolo ebraico, in occasione dei quali il protagonista cerca di sembrare adulto e severo, facendosi in realtà facilmente deridere dalla ragazza e dal suo assurdo racconto.

Sorella

Thomasin McKenzie in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Rosie cerca in più momenti di trasmettere al figlio sentimenti più gentili e estranei alla propaganda nazista…

…a cui Jojo in realtà arriva in autonomia.

La dinamica intorno alla dispettosa lettera di rottura di Nathan è infatti solo l’ulteriore dimostrazione di quanto questo ragazzino sia un animo gentile e ancora non veramente corrotto, proprio dimostrando di pentirsi immediatamente per aver ferito persino un’ebrea come Elsa.

Così fra i due comincia ad intrecciarsi una sorta di gioco delle parti, prima con le finte lettere di Nathan – con cui indirettamente Jojo esprime i suoi sentimenti per la ragazza – poi con Elsa che prende progressivamente il posto della sorella perduta.

Il picco drammatico in questo senso è la splendida scena dell’ispezione a sorpresa della Gestapo, che alterna momenti genuinamente comici – la gag del Hail Hitler! – a sequenze di profonda tensione, soprattutto quando, con grande coraggio, Elsa si traveste da ragazza ariana per non farsi scoprire.

Ma questa scena è soprattutto rivelatoria per un altro personaggio.

Alleato

Sam Rockwell in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Lo strambo Capitano Klenzendorf è il più grande alleato di Jojo.

L’uomo, al pari della madre, è un emarginato nascosto all’interno del nazismo, un personaggio che svela progressivamente la sua vera identità tramite una serie di indizi sempre più importanti, apparendo infine del tutto lontano dalla figura del militare indottrinato che pareva inizialmente.

La pellicola fa infatti intendere che in realtà il capitano sia un personaggio queer, e che abbia con ogni probabilità una relazione con il fidato Freddy Finkel – non a caso, i due sono quasi sempre in scena. insieme.

Sam Rockwell in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Ma, soprattutto, l’uomo è alleato di Jojo perché cerca costantemente di proteggerlo.

La bici di Rosie che si porta dietro quando arriva durante l’ispezione, insieme alla raccomandazione al bambino di restare a casa, ci racconta in maniera piuttosto eloquente come non solo il capitano fosse stato testimone dell’impiccagione della madre di Jojo, ma come probabilmente sapesse anche di Elsa.

Ma ancora più importante è il momento in cui il suo personaggio salva Jojo dalla sicura morte, in un momento di isteria di fine guerra in cui gli Alleati – rappresentati sorprendentemente in maniera non troppo benevolente – avrebbero giustiziato persino un bambino solo perché indossava i simboli del nemico.

Nemico

Taika Waititi in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Negli ultimi momenti della pellicola Jojo è disperso.

Per questo si concede un’ulteriore cattiveria nei confronti di Elsa.

Infatti, dopo la tragedia della morte della madre – nella toccante quanto brillantemente diretta scena delle scarpe – il protagonista vive un’ulteriore angoscia: la possibilità che ora, finita la guerra e la persecuzione antisemita, persino Elsa, la sua neoacquisita sorella maggiore, lo lasci solo.

Jojo quindi si perde in un vagare disperato fra le rovine, accompagnato da una graduale consapevolezza della vacuità del nazismo e della guerra stessa…

…a partire da quella splendida uniforme di carta che rappresentava il successo dell’amico Yorki, ma che invece alla fine, proprio come i giovani soldati che tornano abbattuti dalla trincea, racconta tutta la fragilità e la vacuità della propaganda bellica.

Roman Griffin Davis in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Infine, la scoperta della morte del suo mito rappresenta la definitiva presa di coscienza di Jojo, che vede finalmente Hitler per quello che veramente era – un fanatico dittatore – e di cui decide finalmente di liberarsi con una puntuale defenestrazione.

La chiusura del film racconta infine quanto il protagonista sia cambiato in così poco tempo, accettando l’altro grande insegnamento della madre: il ballo che celebra la ritrovata libertà e lo sguardo verso un futuro più promettente.

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Minority Report – La sicura illusione

Minority Report (2002) rappresenta la prima prolifica collaborazione fra Steven Spielberg e Tom Cruise, che al tempo ancora si destreggiava fra i maggiori autori hollywoodiani.

A fronte di un budget abbastanza importante – 102 milioni di dollari – fu nel complesso un buon successo commerciale, con 358 milioni di incasso.

Di cosa parla Minority Report?

2054, Washington. John Anderson è a capo del cosiddetto programma Precrime, che dovrebbe predire i delitti prima che avvengano…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Minority Report?

Tom Cruise in una scena di Minority Report (2002) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

Minority Report è un incredibile thriller fantascientifico che riesce a sorprendere grazie ad una costruzione del mistero e della tensione semplicemente perfetta, pur non puntando particolarmente sulle classiche dinamiche da action adrenalinico che hanno reso famoso il suo attore protagonista.

Piuttosto l’intreccio del mistero e i continui colpi di scena bastano da sé per rendere questa pellicola un piccolo gioiello della fantascienza dei primi Anni Duemila.

Insomma, da riscoprire.

Preparazione

Tom Cruise in una scena di Minority Report (2002) di Steven Spielberg

Anche se la primissima sequenza potrebbe apparire pedante, in realtà è del tutto necessaria ai fini della narrazione.

Infatti, la pellicola lascia ampio spazio per la trattazione di un caso tipo, in modo che per gli eventi successivi lo spettatore abbia ben chiare le coordinate del mondo in cui la vicenda si muove, proprio in prospettiva di una ulteriore complicazione della stessa.

La soluzione proposta dal Precrime è assolutamente avveniristica, sembra anzi la ricetta vincente per la risoluzione del dilagante problema della criminalità negli Stati Uniti, andando proprio a fare leva su un dibattito ancora piuttosto attuale.

Samantha Morton in una scena di Minority Report (2002) di Steven Spielberg

Ovvero, la sicurezza collettiva a discapito della privacy del singolo.

Una situazione pure più pressante all’indomani dell’11 settembre, in cui la caccia alla potenziale minaccia nazionale era all’ordine del giorno, che in Minority Report viene riletta in chiave fantascientifica…

…ma risulta abbastanza facile nel futuro prossimo immaginare al posto dei Precog dei computer particolarmente abili.

Scricchiolio

Tom Cruise in una scena di Minority Report (2002) di Steven Spielberg

La sconvolgente scoperta di essere un futuro killer è il primo scricchiolio di un sistema apparentemente perfetto.

La previsione di per sé è infatti vanificata dalla presenza della stessa, in quanto – come si vede anche chiaramente nella pellicola – già solamente cercare di prevedere un evento futuro porta ad influire sullo stesso, vanificando così la veridicità della predizione.

In particolare, il paradosso del Precrime è fin da subito sottolineato da Danny Witwer: la previsione presuppone l’annullamento del libero arbitrio, della possibilità che la persona ci ripensi, andando a punirla per un crimine che, di fatto, non ha mai commesso.

Tom Cruise in una scena di Minority Report (2002) di Steven Spielberg

Il problema risulta particolarmente evidente quando Iris Hineman, la creatrice del sistema di previsione, rivela al protagonista che i Precog sono frutto di esperimenti umani che si sono risolti nel terzetto presente, che si regge però tutto sul personaggio di Agatha.

In questo modo si vanifica la spiegazione di Wally, il curatore dei Precog, che cerca di convincere il seccante agente del Dipartimento di Giustizia che le sue creature non sono umane – quindi non possono sbagliare – cercando di farle apparire come macchine.

O, ancora meglio, come oracoli.

Occhio

Una volta che la dottoressa gli ha affidato la sua missione per liberarsi dal suo infausto destino, John comincia immediatamente a sentire il peso della sua identità, in particolare dei suoi occhi, elemento imprescindibile per l’identificazione di una persona in Minority Report.

Così Spielberg raccoglie l’ossessione propria di Philip Dick, autore dell’opera ispiratrice della pellicola, ovvero quella del progresso unitamente positivo e negativo, secondo una visione per cui le nuove tecnologie donano all’uomo il progresso, ma anche la sua perpetua disfatta.

Per questo il protagonista è costretto a rimuovere l’elemento più distintivo della sua identità.

Samantha Morton in una scena di Minority Report (2002) di Steven Spielberg

Gli occhi.

La pericolosa e dolorosissima operazione gli permette infatti di sottrarsi al feroce intervento dei ragni, macchine del tutto legittimate a terrorizzare ed immobilizzare chiunque serva, intrufolandosi in una serie di scenette familiari che raccontano proprio la penetrazione invasiva dell’occhio giudicante del Governo.

Un’operazione che funge da appendice al tema di fondo della pellicola stessa, ovvero una prospettiva di sempre maggiore rinuncia alla propria incolumità e privacy per favorire il bene comune, secondo una dinamica già in realtà presente nella società odierna.

Edipo

Tom Cruise in una scena di Minority Report (2002) di Steven Spielberg

La corsa del protagonista è dettata da una ossessiva quando ingenua illusione.

La presenza di un Minority Report, appunto.

Cercando di svelare il neo principale del Precrime, in realtà John arriva a comprendere la debolezza di fondo di tutta l’operazione, che nel suo stesso tentativo di negare la possibilità del libero arbitrio, si dimostra invece fallibile e manipolabile.

In questo senso appare piuttosto ovvio il parallelismo con il mito di Edipo, a cui l’oracolo aveva predetto un destino tremendo, che l’eroe tragico, proprio per la mancanza di alcune conoscenze fondamentali, aveva infine realizzato.

E il destino sembra avere la meglio su entrambi i protagonisti, i quali, pur cercando di sottrarsi a quello che sembra ormai scritto, inevitabilmente lo realizzano: Edipo uccide il padre e giace con la madre, mentre John, pur scegliendo di appellarsi alla propria volontà, finisce comunque per uccidere Leo Crow e per essere arrestato.

E infine, non sembra esserci un’alternativa.

Alternativa

Lamar è la chiave per il fallimento del Precrime.

Tramite la sua macchinazione, viene rivelata la fallibilità dei Precog, dovuta non tanto alle abilità degli stessi, ma soprattutto al filtro dell’occhio umano che inevitabilmente si pone fra la previsione e la risoluzione del crimine: un occhio, come abbiamo visto, facilmente manipolabile.

Infatti, Lamar Burgess ha cercato di proteggere la sua creazione proprio andandosi ad inserire nelle pieghe del sistema, nei suoi punti deboli, riuscendo così a creare un delitto costruito ad arte che potesse eliminare l’unico ostacolo che si poneva fra lui e il successo del Precrime.

Così nell’atto finale Lara, avendo ormai assistito allo svelamento dell’inganno del Precrime, proprio per via della fallibilità umana del suo stesso direttore, diventa agente attivo per lo scioglimento della vicenda, realizzando l’altra profezia indiretta che aveva ricevuto il marito:

In un mondo di ciechi, l’uomo con un solo occhio è ricco.

Ed infine è proprio Lamar a smentire ancora più platealmente la fallibilità del progetto, scegliendo infine di non essere l’assassino di John, ma piuttosto di sé stesso, portando ad una chiusura del film ben più speranzosa del romanzo di partenza, ma che forse appare come un’ipotesi fin troppo ottimista per il futuro che ci attende…

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Salvate il soldato Ryan – La guerra delle lacrime

Salvate il soldato Ryan (1998) è una delle opere più note della filmografia di Steven Spielberg, che gli valse il secondo Oscar per la regia.

A fronte di un budget medio – 70 milioni di dollari – fu un grandissimo successo commerciale, con 481 milioni di dollari di incasso.

Di cosa parla Salvate il soldato Ryan?

La pellicola è una riscrittura piuttosto fantasiosa della vera storia dei Fratelli Niland, concentrandosi sul salvataggio dell’ultimo fratello rimasto.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Salvate il soldato Ryan?

Dipende.

A me personalmente questa pellicola ha profondamente infastidito, in quanto è ubriaca di una mentalità tutta statunitense – la guerra degli eroi, l’idea di star combattendo per liberare il mondo… – che non posso sopportare.

Come se non bastasse, il film manca di una qualsiasi riflessione sul tema.

E, dal momento che in quegli anni uscirono ripensamenti splendidi come La sottile linea rossa (1998) e Vittime di guerra (1989), per quanto mi riguarda è una mancanza difficilmente perdonabile.

Ma se cercate un classico film statunitense sulla guerra, è il prodotto per voi.

Sensazionalismo

La sequenza di combattimento iniziale vorrebbe essere incredibilmente scioccante…

…e per me non è nient’altro che questo.

Questa narrazione così dolorosa e intensa non mi è parsa altro che la rappresentazione di una costante della pellicola: il continuo tentativo di sconvolgere e, soprattutto, di strappare la lacrima facile allo spettatore, sviscerando il più possibile il dolore dei personaggi.

Tuttavia, cos’altro posso trarre da suddetta sequenza?

Un incipit che manca totalmente di un retroterra riflessivo, addirittura di una qualunque introduzione dei personaggi che mi faccia empatizzare con loro, rendendoli delle mere vittime di un bagno di sangue in cui lo spettatore statunitense vede i suoi ragazzi sacrificarsi per la patria comune.

E, anche senza andare a scomodare la ben più efficace scena analoga de La sottile linea rossa, anche solo ricordando il più semplice Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022), io in questa scena vedo solamente dei giovani pieni di sogni resi carne da macello per il primo capitolo della virtuosa liberazione del mondo statunitense.

Famiglia

La famiglia è il nucleo emotivo di Salvate il soldato Ryan.

Il senso stesso della storia – ricordiamolo, del tutto inventata – è quello di conservare una famiglia americana che altrimenti sarebbe del tutto distrutta dalla guerra, come una sorta di favore che lo stato concede ad una madre che ha già sacrificato tre figli sull’altare della libertà.

Di fatto la pellicola ingentilisce una legge effettivamente esistente, la Sole Survivor Policy, promulgata a seguito della disastrosa vicenda dei Fratelli Sullivan, e a cui il cappellano Francis Sampson si appellò per far rimpatriare l’ultimo dei fratelli Niland – il soldato James Francis Ryan nel film.

Così il film regala smaccatamente al governo statunitense un merito immeritato, inventandosi una storia poco credibile, unicamente per portare avanti l’idea della bontà dell’operazione bellica, tanto da rendere il Generale Marshall un padre generoso che riporta alla madre l’ultimo dei figli che è riuscito a non mandare al macello.

La famiglia è anche presente nella scena in cui i soldati salvano una bambina dal campo di guerra, momento che ha ben poco significato nell’economia narrativa del film, ma che serve ad aggiungere un ulteriore elemento di emotività in una scena che già di per sé vorrebbe essere piuttosto toccante.

Oltretutto, la madre è richiamata in più momenti della pellicola nelle ultime parole dei vari soldati caduti in combattimento, volendoli proprio rendere il più possibile i figli del pubblico stesso…

… ma mancando ancora una volta di una seria riflessione riguardo alle dinamiche del fronte e dei giovani ingannati da una propaganda pensata unicamente per motivi politici.

E non è neanche la parte peggiore.

Merito

L’elemento a mio parere più genuinamente agghiacciante è il concetto del merito.

Il capitano Miller afferma chiaramente che il salvataggio di Ryan è il suo modo per meritarsi di tornare a casa, come a dire che, senza un sacrificio che determini il valore del singolo, questo non si meriti effettivamente di uscire da questo incubo, questo impegno che si è preso verso la propria patria benevola e verso il mondo intero.

In questa specifica circostanza storica – a differenza degli eventi bellici successivi – risulta in effetti incredibilmente semplice prendersi dei meriti per aver salvato il mondo, soprattutto giocandosi la carta sempreverde della lotta contro il nazismo

…nonostante ridurre le intenzioni statunitensi solamente a quello – soprattutto avendo in mente il come hanno concluso la guerra – è incredibilmente naif.

Così vediamo i soldati venire progressivamente macellati, con una pellicola che tocca solo superficialmente il concetto di umanità che, in determinate circostanze, gli permette di evitare di ammazzare altri uomini solo perché con una divisa di un altro colore, senza mostrare mai l’effettivo dramma del fronte e senza di fatto mai rifletterci con onestà.

E, allo stesso modo, il Capitano Miller è solo l’ultima vittima che muore per Ryan, il quale, in un senso più generale, può essere letto come gli Stati Uniti stessi osservano pensosi i loro morti, chiedendosi infine nelle lacrime, se la loro morte è servita a qualcosa, se si sono meritati questa tragedia umana e se hanno vissuto una vita onesta e che meritava di essere salvata.

Lascio a voi la risposta.