The World’s End (2013) di Edward Wright è il terzo e conclusivo capitolo della cosiddetta Trilogia del cornetto, dopo Shaun of the dead(2004) e Hot Fuzz(2007).
A fronte di un budget di più del doppio rispetto al precedente – 20 milioni di dollari – fu un mezzo disastro commerciale, con 46 milioni di dollari di incasso.
Di cosa parla The World’s End?
Gary King è un bambino troppo cresciuto che rimane ancora ancorato alle dinamiche della sua adolescenza, mentre tutti gli altri sono andati avanti senza di lui…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere The World’s End?
Dipende.
A differenza dei suoi predecessori, The World’s End manca della brillantezza umoristica e narrativa tipica di Wright, che ebbe la sua ultima dimostrazione in Scott Pilgrim vs. the World (2010), per poi rivolgersi a pellicole più drammatiche.
Nella conclusione della trilogia troviamo un umorismo molto più caciarone, basato su dinamiche che alla lunga appaiono quasi ripetitive, e con una morale che mi ha davvero poco convinto.
Insomma, se volete concludere la trilogia, dategli una chance, ma non aspettatevi molto.
Indietro
Gary King è rimasto indietro.
Tutto il racconto introduttivo, che cerca debolmente di ricordare quello del precedente film, mostra un sogno meraviglioso della fine dell’adolescenza, il punto di arrivo di una storia di successi, che però è risultata infine monca.
Uno smacco nella memoria del protagonista, che tenta disperatamente e furbescamente di risolvere, andando a raccattare un improbabile gruppo di amici d’infanzia ormai cresciuti e con molte responsabilità sulle spalle.
Da qui parte un inevitabile e – almeno idealmente – comico contrasto.
Ma quanto può durare?
Statico
La linea comica principale della pellicola è debole.
O, almeno, lo è considerando i precedenti.
Anche gli altri due capitoli si basavano sul contrasto fra il protagonista e il mondo che lo circondava, ma erano anzitutto caratterizzati da una verve umoristica molto più originale e brillante…
…e, soprattutto, non si trattava di un contrasto statico: come in Shaun of the dead il protagonista passava dall’essere un personaggio passivo ad uno attivo e risolutore, allo stesso modo in Hot Fuzz Nicholas Angel trovava infine una nuova identità.
E in TheWorld’s End?
Nel terzo capitolo Gary King è costantemente portato al centro della scena come elemento comico in maniera quasi esasperante, con i suoi comprimari che lo detestano apertamente e che criticano ogni suo atteggiamento.
E, in aggiunta, King non cambia mai – ed è una grande mancanza: se fino adesso Wright ci aveva abituato ad evoluzioni graduali ed organiche, in questo caso l’apice del personaggio è nella sua rivelazione finale, che però non determina un cambiamento.
Anzi…
Inverso
Il mondo si adegua a Gary King.
E vive una sorta di involuzione.
Gli alieni conquistatori cercano di imporre sulla Terra un miglioramento consistente, così che la stessa possa diventare un pianeta papabile per far parte di un’organizzazione intergalattica, e non rimanere l’anello debole della catena.
Una presenza significativa per l’umanità, che ha potuto ispirarsi a questa cosiddetta Rete per progredire nel suo avanzamento tecnologico, pur dovendo inconsapevolmente sacrificare molte persone in funzione di robot.
E qui si trova l’altra debolezza della pellicola.
Per quanto le morali del resto della trilogia fossero fondamentale piccole e intime, nondimeno erano di valore.
Nel caso di The World’s End invece assistiamo ad una risoluzione abbastanza discutibile, in cui Gary King sembra disposto a sacrificare secoli di avanzamento tecnologico in funzione di un proprio capriccio personale.
Infatti, infine il protagonista sembra l’unico ad aver guadagnato dal nuovo status delle cose, diventando il leader di un gruppo di Vuoti, andando così a realizzare il suo sogno adolescenziale di gloria e di riconoscimento sociale.
Pinocchio (1940) è il secondo classico Disney basato sul romanzo per ragazzi di Carlo Collodi Le avventure di Pinocchio (1881 – 1883).
Nonostante fosse uscito poco dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, fu un grande successo commerciale: a fronte di un budget di 2,6 milioni di dollari, incassò 38 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla Pinocchio?
Walt Disney prende le mosse dal classico di Collodi per raccontare sofferte quanto educative avventure di Pinocchio.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Pinocchio?
Assolutamente sì.
Rispetto a Biancaneve (1937), Pinocchio si distingue per un impianto narrativo più solido, una collezione di avventure dal forte sapore educativo, che non manca comunque di una componente quasi orrorifica.
Infatti, riscrivendo il protagonista in una veste più positiva ed ingenua, le sfortune di Pinocchio hanno un impatto molto più potente, volendo mostrare le insidie del mondo e il come riuscire ad evitarle affidandosi alle giuste figure adulte.
Pinocchio tecnica animazione
Pinocchio non doveva essere un film.
La storia venne proposta a Disney a più riprese e da diverse persone, inizialmente neanche come un lungometraggio, che cominciò a prendere forma solamente nel 1937.
Il punto di svolta fu la lettura di Walt Disney di una versione tradotta dell’opera di Collodi, che gli permise di innamorarsi della storia e di abbracciare finalmente il progetto, che inizialmente doveva essere il terzo classico Disney.
Invece, per via dei problemi produttivi di Bambi (1942), la produzione venne anticipata.
Ma ci volle un intero anno prima che i lavori partissero.
La prima versione del film fu incredibilmente ostica, per via della difficoltà degli argomenti e della natura della storia, che presentava un protagonista abbastanza negativo e pochi momenti di comicità.
La prima stesura fu presa e cestinata da Walt Disney, facendo ricominciare la produzione da zero.
Estetica Pinocchio
L’estetica fu profondamente contaminata.
Nonostante Pinocchio sia ambientato in Italia, gli spazi e i vestiti dei personaggi ricordano più la Baviera, con anche elementi più moderni e propri della cultura statunitense, come la sala da biliardo nel Paese dei Balocchi.
Il reparto produttivo si sbizzarrì nella creazione di elementi da cui prendere spunto, con centinaia di oggetti di scena fra marionette, orologi e miniature dei personaggi, per la prima volta nella storia della Disney.
Fra le prime idee scartate, la più importante fu il character design di Pinocchio: nato come una marionetta pagliaccesca, per volontà dello stesso Disney la sua identità traslò progressivamente sempre di più verso una immagine umana e accessibile.
Così fu anche più umanizzata la figura del Grillo, il primo personaggio Disney aiutante e guida del protagonista.
Il grillo risulta infine non tanto un insetto, ma più un piccolo omino cortese e un po’ dongiovanni, messo sempre alla prova per la sua piccola statura davanti a personaggi negativi giganteschi e minacciosi.
Ancora una volta per le animazioni ci si affidò a malincuore al rotoscopio, ma in maniera differente rispetto a Biancaneve.
Infatti, l e scene in live actionnon vennero semplicemente ricalcate per la pellicola animata, ma decisamente ampliate per dare maggiore dinamicità e realismo ai personaggi.
Per la voce di Pinocchio si scelse il giovanissimo cantante Dickie Jones, mentre il Grillo prese la voce di Cliff Edwards, e la Fata Turchina fu fatta sul modello di Evelyn Venable, anche modella per il logo della Columbia Pictures.
Intuibile
Se si confronta col Pinocchio di Collodi, ma anche con la riproposizione in stop-motion di Guillermo del Toro, il personaggio di Geppetto è molto meno caratterizzato: non sappiamo molto sul suo carattere né sulla sua storia.
Possiamo solo intuirlo dal contesto e dalle parole della Fata Turchina: Geppetto è un uomo buono che ha fatto tanto bene agli altri, probabilmente tramite le sue creazioni, e che vive senza figli, ma con due pimpanti animali da compagnia.
In questo modo, proprio come il Principe Azzurro, Geppetto è un personaggio con una funzione molto stringente: rappresentare la figura genitoriale buona ma anche apprensiva, che più che guidare, cerca di proteggere Pinocchio dal farsi del male da solo.
E proprio sta qui il punto della storia.
Ingenuo
Paradossalmente, il Classico Disney è per certi versi più educativo del romanzo di Collodi.
Infatti, come vedremo in coda, il personaggio originale era molto più cattivo e dispettoso, quindi rappresentava in maniera molto semplice ed immediata la sorte sfortunata di un bambino disobbediente, che infine veniva premiato per aver invece imboccato la retta via.
Al contrario, il Pinocchio disneiano è un bambino qualunque, preda della sua stessa ingenuità che lo porta a lasciarsi adescare dalla prima proposta allettante, dal primo adulto di cui si fida ciecamente, diventando così preda delle peggiori macchinazioni.
Insomma, Walt Disney sembra voler ammonire i bambini del suo tempo di dare fede alle parole dei propri genitori ed educatori, perché dette solamente per il loro bene, e invece di guardarsi dalle proposte di successo facile e fin troppo allettante.
Altrimenti le conseguenze sono terribili…
Animale
Pinocchio è quasi orrorifico.
Il protagonista viene infatti non solo ripetutamente privato della sua libertà, ma proprio anche della sua stessa umanità: già piuttosto raccapricciante l’idea di diventare un fenomeno da baraccone chiuso in una gabbia da Mangiafuoco…
…ma ancora più devastante è la disavventura del Paese di Balocchi.
Agli occhi dello spettatore odierno tutta la situazione appare davvero brutale, fin dalle eloquenti conseguenze di Pinocchio che si fa provocare da Lucignolo, aspirando il sigaro in maniera esagerata.
Ma l’apice dello sconvolgimento è la scoperta della vera natura del luogo e del piano del Postiglione, che rapisce i bambini per trasformarli in asini da mandare a lavorare – e a morire – nelle miniere di sale.
E al riguardo salta all’occhio un elemento ancora più agghiacciante…
Minaccia
La maggior parte delle storie Disney sono a lieto fine.
E un aspetto fondamentale delle conclusioni è la sconfitta dell’antagonista, proprio con un’idea del bene che sconfigge il male, nel caso dei cattivi Disney con delle morti o degli annientamenti spesso non per azione dei protagonisti, ma per una sorta di autodistruzione.
In Pinocchio questo elemento è drammaticamente mancante.
Che sia voluto o meno, per quanto la conclusione sia positiva, le varie minacce che hanno insidiato il protagonista durante le sue disavventure sono ancora presenti in agguato, e Pinocchio potrebbe ricaderci in ogni momento se non starà abbastanza attento.
E se la furba Volpe è riuscita ad ingannarlo per ben due volte di fila, cosa impedisce alla stessa o ad altri antagonisti di imbrogliarlo nuovamente?
Maturazione
La maturazione di Pinocchio è fondamentale.
Con un classico deus ex machina, la Fata Turchina offre al protagonista l’occasione per riscattarsi, dal momento che le sue ingenuità hanno influenzato anche la drammatica sorte di Geppetto, il personaggio che meno di meriterebbe una morte così tragica e sfortunata.
Così l’insegnamento finale è anche più importante: Pinocchio si ingegna, passa dall’essere un personaggio passivo e guidata da altri – il Grillo e la Fata – a figura invece attiva e risolutiva, trovando la Balena e riuscendo a salvare sia sé stesso che Geppetto.
Ed è per questo che infine viene premiato.
Pinocchio favola originale
Come per Biancaneve (1937), anche per Pinocchio Walt Disney ha cercato di ammorbidire la storia di Collodi per renderla più a misura di bambino.
Una dei cambiamenti più fondamentali è il ruolo del Grillo Parlante: se nel Classico Disney è la voce narrante e la guida morale del protagonista, nel romanzo è solo uno dei tanti animali parlanti presenti nella storia.
Anzi, il grillo di Collodi subisce una tragica fine: scocciato dall’ingombrante presenza della sua coscienza, Pinocchio lo schiaccia e così si libera della stessa, che poi ricomparirà sotto forma di fantasma.
E, sempre parlando di animali, la Disney scelse di rendere in maniera molto più diretta i personaggi animali, dandogli un aspetto antropomorfo, mentre nella favola originale gli stessi hanno semplicemente il dono della parola.
Per quanto sia rimasta vicino all’opera originale per la terribile figura della balena, in realtà per Collodi era un altro animale: un gigantesco pescecane!
Anche i caratteri dei personaggi sono stati piuttosto rimodulati.
Se il Pinocchio di Walt Disney è un personaggio molto infantile e ingenuo, un bambino che si lascia facilmente abbindolare, il protagonista di Collodi è invece molto più dispettoso e cattivo.
Allo stesso modo, se il Mangiafuoco della Disney è un effettivo villain, anche piuttosto terrorizzante, al contrario nell’opera di Collodi è un personaggio piuttosto burbero, ma tutto sommato di buon cuore.
In ultimo, la Fata Turchina per la Disney è un personaggio quasi divino, un effettivo deus ex machina in più momenti, mentre per Collodi era una figura più umana: una bambina con i capelli turchini.
Hot Fuzz (2007) è il secondo capitolo della cosiddetta Trilogia del cornetto di Edward Wright, in questo caso parodia del genere action poliziesco.
A fronte di un budget di appena 8 milioni di dollari, fu un incredibile successo commerciale: 80 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla Hot Fuzz?
Nicholas Angel è il miglior poliziotto di Londra. E, proprio per questo, viene trasferito ad una apparentemente monotona cittadina di campagna…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Hot Fuzz?
Assolutamente sì.
Personalmente apprezzo Hot Fuzz anche di più dello già splendido Shaun of the dead(2004): pur nel suo surrealismo, questo secondo capitolo racconta delle dinamiche grottescamente reali e proprie di comunità grette e chiuse in sé stesse.
Particolarmente brillante riportare in scena gli stessi attori, ma con dei ruoli diversi, in particolare un Simon Pegg in massima forma, che segue un percorso del tutto opposto rispetto al suo precedente personaggio, dimostrando la sua grande versatilità attoriale.
Insomma, da non perdere.
Inverso
Angel sulle prime appare artificioso e irreale.
Ma è del tutto voluto.
Wright prende le mosse dai più classici incipit del cinema del genere che parodizza – l’action e il poliziesco – raccontando fin da subito un personaggio che appare invincibile, il potenziale protagonista di un’avventura adrenalinica…
…in realtà accogliendoci con un aggancio piuttosto frenetico che ci accompagna al cambio di scenario forzato, con una splendida sequenza dal sapore agrodolce, in cui tutti sembrano essersi coalizzati contro il nostro sfortunato protagonista.
In questo senso, Simon Pegg prende un percorso inverso rispetto a Dawn of the dead.
Infatti, se nel precedente capitolo il protagonista era immobile al punto che gli altri personaggi cercavano di spronarlo a smuoversi, in questo caso si tratta invece di un personaggio fin troppo attivo – e che, per questo, viene castigato.
Contrasto
Angel viene forzato in una realtà ostile e aliena.
Infatti è impossibile per un personaggio così scaltro e costantemente all’erta come il protagonista, con un senso di giustizia e dell’ordine ferreo ed imprescindibile, integrarsi in un contesto basato sul piegare le regole al fine della conservazione della comunità.
Non a caso, basta una serata al pub di paese per portare dietro le sbarre metà della gioventù locale, azione del tutto inutile in una situazione politica talmente precaria che basta una notte perché tutto lo sforzo venga vanificato…
Ma il contrasto sta anche nella stessa identità di Angel.
Il suo personaggio sembra veramente uscito dall’action più becero, ma è anche come se fosse stato prosciugato di tutto il possibile divertimento e fascino che deriverebbe dal genere, risultando in un uomo definito solo dalle regole e dalla rigida disciplina.
Non a caso, un primo punto di arrivo della sua evoluzione è l’accettare di aprirsi all’esperienza dell’avventura più esageratamente adrenalinica, con la visione di due classici del genere: Bad Boys II (2003) e Point Break (1991).
Per questo, la crescita dei due protagonisti è reciproca.
Superficie
Il mantenimento dell’ordine cittadino è basato totalmente sull’apparenza.
E Danny ne è la principale vittima.
La sua storia familiare racconta proprio come questo ragazzino orfano di madre sia rimasto sotto il rigido controllo paterno, forte del lutto incolmabile appena subito, per poi farsi totalmente abbindolare dalla narrazione di cui Frank Butterman è il principale artefice.
Per questo, Angel è la sua guida.
Seguendo il suo mantra di ferro per cui sta sempre succedendo qualcosa, il protagonista porta l’attenzione su dei comportamenti apparentemente innocui, ma che in realtà, come si scoprirà nel finale, nascondono molto di più.
Una rigidezza che deve ancora di più scontrarsi con l’ottusità della polizia e della comunità in generale, che sembra incapace di comprendere – ma anche solo di notare – quello che sta sostanzialmente accadendo sotto i loro occhi.
Ma anche Angel pecca di superficialità.
Ovvio
La soluzione al mistero sembra già scritta.
Ogni indizio punta sull’ambigua figura di Simon Skinner, che fin dalla sua prima apparizione sembra raccontarsi come il principale artefice della lunga serie di incidenti che avvengono nella città.
E la motivazione non potrebbe che essere che la più classica trama politica, in cui un importante membro della comunità trama alle spalle della stessa per potersi arricchire, operando delle eliminazioni sistematiche senza aver paura di essere scoperto.
Ma è troppo ovvio.
Wright raccoglie la più classica dinamica del genere – il colpevole più ovvio non è mai il vero colpevole – e la riscrive in una soluzione del mistero surreale e parossistica, che però racconta al contempo anche una realtà più credibile di quanto si potrebbe pensare.
Di fatto la setta segreta che tira le fila della città nell’ombra non è altro che l’esasperazione di una tendenza molto tipica delle realtà provinciali di dimostrarsi incredibilmente gelose e insofferenti per ogni elemento estraneo che possa turbare il quieto vivere.
E questa risoluzione non può richiedere che un eroe.
Eroe
Per risolvere la situazione, Angel non può solo essere un poliziotto.
Deve diventare un eroe.
E questa trasformazione avviene proprio grazie a Danny, che costantemente lo forza per far coincidere la sua idea di lavoro di poliziotto con l’immaginario del tipo di film che Hot Fuzz stesso parodizza…
…finché non convince anche Angel a farne parte.
Un cambiamento fondamentale che avviene proprio quando finalmente il protagonista sceglie non solo di aprirsi con Danny, ma anche di lasciarsi guidare verso una visione del mondo e della loro professione più avvincente e meno rigida.
In questo modo, Angel può riscoprirsi l’eroe della storia, che salva la città in maniera piuttosto rocambolesca, rispondendo ad una violenza davvero al limite dell’assurdo con un eroismo ancora più esagerato.
Cosa ci insegna Hot Fuzz?
La morale di Hot Fuzz è sottile quanto gratificante.
Nel finale Angel decide di rimanere a Gloucestershire proprio perché capisce che la bellezza del suo lavoro se la può creare lui stesso, vivendo ogni giorno come una piccola avventura piena di sorprese.
Ad un livello più generale, Wright ci invita a riscoprire la bellezza di quella quotidianità che ci sembra così monotona, proprio con l’idea che anche da poco possano nascere storie incredibili…
…proprio come da poco budget possono nascere piccoli cult indimenticabili.
Hot Fuzz ketchup
Nella gestione della violenza si racchiude la poetica stessa di Hot Fuzz.
Nonostante si tratti di una commedia, il film non si risparmia di mostrare diversi momenti apertamente splatter di cui i più eclatanti sono sicuramente la morte di Tim Messenger e il dolorosissimo incidente di Skinner.
Allo stesso modo, Wright si diverte moltissimo a giocare sulla finzione.
Oltre alla apparentemente cruentissima scena in cui Danny si infilza l’occhio, indimenticabile la scena in cui Cartwright vuole vendicare la morte del compagno quando questo è solo coperto di salsa al pomodoro.
Splendide gag che raccontano la sublime ironia del film, che riesce a stupire nella sua combinazione fra la violenza più scioccante e l’ironia più surreale.
Hot Fuzz Zombie
Hot Fuzz racchiude dei simpaticissimi rimandi al precedente Shaun of the dead.
Anzitutto, quando Angel cerca di spiegare a Danny come qualcosa sta sempre succedendo intorno a loro, fa il verso alla scena del pub nel precedente film in cui gli stessi attori fantasticano sulle vere identità degli avventori.
Allo stesso modo, Nick Frost prende il posto di Simon Pegg nella scena delle staccionate.
Se infatti nel primo film Shaun millantava di saper saltare perfettamente di giardino in giardino, ma alla fine cadeva al primo ostacolo, in questo caso tocca a Danny distruggere l’eroismo del momento.
Infine, piccoli riferimenti agli zombie si vedono nei vari scambi fra Skinner e Angel all’interno del supermercato, in cui il protagonista addita i sottomessi del direttore e questi si comportano in maniera molto simile a degli zombie senza cervello…
Biancaneve (1937) di David Hand è il primo Classico Disney in assoluto, la prima grande scommessa di Walt Disney di colmare un vuoto del mercato che nessuno pensava andasse colmato: creare un lungometraggio animato.
Infatti, a fronte di un budget di appena 1.5 milioni di dollari – circa 32 milioni oggi – fu un enorme successo commerciale, fra i più grandi incassi nella storia dell’animazione, incassando complessivamente 418 milioni di dollari.
Di cosa parla Biancaneve?
Walt Disney riprese le mosse dal classico dei Fratelli Grimm, cercando il più possibile di alleggerire la storia, ma mantenendo comunque non pochi elementi grotteschi…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Biancaneve?
Assolutamente sì.
Biancaneve è una pietra miliare nella storia del cinema, che sorprende ancora oggi per la grande attenzione al dettaglio e alla cura per una tecnica di animazione sostanzialmente avanguardistica, che dà il meglio di sé nei momenti più orrorifici.
D’altra parte, il primo Classico Disney è anche un compromesso storico con un’animazione al tempo dominata da cortometraggi con gag e storie minuscole, cercando di dare un più ampio respiro ad una storia che, tutto sommato, non ne ha molto.
Insomma, da riscoprire.
Biancaneve tecnica animazione
I Walt Disney Studios non sapevano animare le persone
La maggior parte della produzione fino a quel momento era stata quasi esclusiva di personaggi di animali antropomorfi, con il primo test su personaggi invece umani con il corto La dea della primavera (1933), la cui protagonista fu di grande ispirazione per le animazioni di Biancaneve.
Il character design fu un altro ostacolo importante: mancando un’iconografia fissa, gli animatori avevano grande libertà in merito, seguendo le direttive di Walt Disney, che voleva un personaggio innocente e affabile, la ragazza della porta accanto.
Il punto di svolta fu il coinvolgimento di Grim Natwick, autore di Betty Boop: nonostante Walt Disney non volesse un personaggio così sensuale, ammirava le capacità dell’animatore che aveva dato vita a diversi personaggi femminili.
E così, infine, Biancaneve divenne mora.
Nella fase produttiva, furono essenziali i modelli umani.
La principale ispirazione fu Marge Champion, al tempo ballerina e attrice quattordicenne, i cui movimenti vennero ampiamente studiati per rendere il più possibile credibile il personaggio, soprattutto nei momenti di danza.
E, nonostante le diverse opposizioni interne, venne ampiamente utilizzato il rotoscopio, in cui le scene venivano ricalcate da partire da una pellicola filmata in precedenza, in quantità e modalità diverse a seconda delle necessità.
Minimo
L’incipit di Biancaneve deriva da un grande compromesso.
Come vedremo più avanti, la riduzione ai minimi termini dell’antefatto fu necessaria in quanto l’incipit originale era fin troppo inquietante per un film per bambini: semplicemente, all’inizio scopriamo la bruciante invidia di Grimilde per la protagonista.
E il dialogo della strega con lo Specchio, da cui finisce infine per essere ammonita, è funzionale all’introduzione di Biancaneve stessa, raccontata come una ragazzina dall’aspetto piacente, nonostante i tentativi della Regina di imbruttirla.
Infatti, mancando di un antefatto esplicativo, Biancaneve punta molto sulla caratterizzazione della sua protagonista.
Nella sua prima apparizione Biancaneve è idillica, quasi bucolica,soprattutto per la simpatia che gli animali provano per lei – e non, per esempio, per i nani, da cui in seguito scapperanno – e per la sua voce angelica che illumina la scena.
Una voce che attira anche le attenzioni del Principe Azzurro, la cui interazione racconta un altro lato di Biancaneve: la ragazza si dimostra molto timida e riservata quando viene approcciata da uno sconosciuto, dovendosi far convincere per uscire dal suo nascondiglio.
Ma proprio questo è il momento di svolta.
Contrasto
Il primo atto vive di contrasti.
Il piano malvagio di Grimilde è in aperto contrasto estetico e simbolico con il candore di Biancaneve, che qualche scena dopo ritroviamo immersa in un delizioso quadretto naturale, con il cacciatore che la osserva da lontano.
Lo stesso sembra proprio penetrare con la sua ombra inquietante sul corpo di Biancaneve proprio per violarlo, ricredendosi all’ultimo e incoraggiandola a scappare, diventando per questo la causa del profondo turbamento della protagonista.
Infatti, nella splendida sequenza della foresta, vediamo concretizzarsi le paure di Biancaneve, con quel panorama, fino ad un attimo prima era armonioso e accogliente, che si rianima in maniera orrorifica per afferrarla, ferirla, rapirla.
Sequenza che si ricompone quando la ragazza si getta a terra disperata, e quegli occhi malvagi che sembravano minacciarla dall’ombra si rivelano essere propri di creature invece gentili e curiose, che si avvicinano timidamente a lei.
Da qui, infatti, comincia la parte più serena della narrazione.
Parentesi
La parte centrale è ricca di siparietti.
Una sorta di parentesi narrativa confortevoleall’interno di due atti invece carichi di atmosfere lugubri e inquietanti, dove si susseguono le simpaticissime gag prima con gli animali, e poi con i nani stessi.
E i nani, definiti da tratti che ne raccontano a colpo d’occhio la personalità e le caratteristiche fondamentali, essenziali per l’identificazione immediata del pubblico infantile di riferimento, sono la punta di diamante della pellicola.
Allo stesso tempo, importanti anche i contenuti educativi.
Biancaneve si rivela in poco tempo tutto tranne che una sciocca ragazzina, ma piuttosto una figura materna persino ammonitrice nei confronti dei nani, che sembrano quasi i suoi bambini, a cui ordina di lavarsi per bene prima di mettersi a tavola.
In questo contesto si sviluppa anche il piccolo arco evolutivo di Brontolo, che viene infine vinto dalla innegabile piacevolezza e simpatia della protagonista, proprio in prossimità del momento in cui dovrà difenderla dall’attacco della strega.
Orrore
Con il ritorno alla Regina Cattiva, si ritorna anche alle tinte orrorifiche.
La trasformazione di Grimilde – spaventosa quasi al pari della sequenza di fuga della protagonista nella foresta – calca moltissimo sull’immaginario della megera che utilizza ingredienti strani e inquietanti per cambiare aspetto e diventare una innocua vecchina.
E la sua malvagità è ancora più straziante quando si approccia ad un personaggio così candido come Biancaneve, che si lascia facilmente ingannare dalle apparenze, dimostrando ancora una volta di non riuscire a vedere il lato negativo delle persone.
Per la sua morte, invece, si lavora di sottrazione.
Come Biancaneve non si vede mai chiaramente morta, se non nella sua angelica teca, così la tragica fine di Grimilde è solo raccontata: la strega dice che spezzerà le ossa ai nani con il masso, proprio per raccontare quello che sta per succedere a lei stessa…
…e, al contempo, si pone grande attenzione sull’elemento più eloquente della sequenza: gli avvoltoi, che maliziosamente seguono la strega sia quando muore Biancaneve, sia quando muore lei stessa, proprio per esplicitare questo concetto senza mostrarlo direttamente.
Proprio per questo il finale è il più semplice ed idilliaco possibile,utilizzando il principe come una sorta di deus ex machina per sciogliere la drammatica vicenda in maniera rassicurante e a misura di bambino.
E, in questo senso, è quasi essenziale che il principe sia un personaggio quasi per nulla caratterizzato, semplicemente raccontato come il destino di Biancaneve di vivere una vita felice lontano dalle grinfie di Grimilde.
Biancaneve favola originale
Biancaneve si prende molte libertà rispetto al classico di Fratelli Grimm.
E anche comprensibilmente.
Uno dei cambiamenti più evidenti e significativi è il taglio totale dell’antefatto, particolarmente drammatico nella fiaba originale: la vera madre di Biancaneve desidera una bellissima figlia e muore di parto.
Altro cambiamento significativo è la prova della morte di Biancaneve: per quanto non si discosti moltissimo dall’originale – nella fiaba il cacciatore doveva portare indietro i polmoni e il fegato – nello stesso gli organi diventano il pasto della Regina…
La stessa malignità si trova anche nei diversi tentativi di uccidere Biancaneve: la prima volta si finge una venditrice ambulante, e cerca di soffocare la ragazzina stringendo un corpetto fin troppo stretto.
Anche il bacio del vero amore è totalmente invenzione Disney.
Nella versione di Grimm, il principe desiderava semplicemente darle una degna sepoltura, e, portando via la teca in cui era contenuto il suo corpo, accidentalmente faceva sputare a Biancaneve il pezzo di mela avvelenata che l’aveva uccisa.
Molto più inquietante invece la morte della Regina Cattiva, costretta nella fiaba a ballare su scarpette di ferro arroventate finché non cade a terra morta – evento che, fra l’altro, avviene molto prima rispetto al film.
Millennium Actress (2001) è la seconda opera del compianto Satoshi Kon, che riprende e per certi versi amplia le tematiche dell’opera prima, Perfect Blue(1997).
A fronte di un budget abbastanza contenuto – 1,2 milioni di dollari – anche per la distribuzione limitata e la poca permanenza in sala, ebbe un riscontro molto modesto al botteghino, con 37 mila dollari di incasso.
Di cosa parla Millennium Actress?
Con l’arrivo del nuovo millennio, l’intervista alla ex-star del cinema Chiyoko Fujiwara apre le porte ad una riscoperta del suo misterioso passato…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Millennium Actress?
Assolutamente sì.
Per quanto personalmente preferisca Perfect Blue, Millennium Actress è un’opera di grande eleganza stilistica e narrativa, che evita di incastrarsi in spiegazioni delle dinamiche fantastiche e surreali presenti in scena…
…e lascia semplicemente che la storia respiri e si sviluppi da sé stessa, con un impianto metanarrativo piuttosto pervasivo, che fa da cornice ad una riflessione sulla vita e su come la stessa si intrecci – e a volte corrisponda – alla finzione.
Insomma, da non perdere.
Macerie
Millennium Actress si apre su un panorama di macerie.
Mentre quel che rimane di uno studio cinematografico che ha fatto la storia del Giappone viene fatto a pezzi nella totale indifferenza generale, una voce fuori campo cerca di riportarci alle vecchie glorie.
Così Chiyoko Fujiwara è la protagonista fin da subito, anche solo nell’appassionato ricordo di Genya, in profondo contrasto con invece la totale ignoranza e indifferenza di Kyōji, che derubrica il personaggio a vecchia stella ormai tramontata.
Ma la donna che si trovano davanti è una versione solo più invecchiata, ma ancora incredibilmente in forma, di un’attrice che ha segnato la storia del cinema, ma che da anni ha scelto di ritirarsi a vita privata.
E serviva solo qualcosa che gli sbloccasse i ricordi…
Chiave
Chiyoko nasce in un mondo turbolento.
Il venire alla luce durante un terremoto è indicativo della storia del Giappone fra le due guerre: un paese che subì profondi cambiamenti per forze sia esterne che interne, risultando in una ferita incurabile nell’immaginario collettivo.
Ma, in questo tsunami di mutamento, la madre della protagonista cerca ancora di rimanere salda alle tradizioni più stringenti, negando alla giovane ragazza la possibilità di servire il suo paese in maniera del tutto inedita.
E, se all’inizio la giovane protagonista accetta timidamente un destino che sembra esserle imposto, tutto cambia quando con l’incontro con uno sconosciuto, che infine si rivela essere uno dei principali motori del cambiamento di un paese che non era pronto a cambiare.
Con la chiave stretta in pugno, comincia così l’inseguimento di Chiyoko di uno spettro di cui non ricorda neanche il volto, ma anche lo slancio per la comprensione di un simbolo che si era ripromessa di comprendere, che risulta fino alla fine indecifrabile.
Ma, ancora una volta, è un destino imposto.
Destino
Chiyoko non può scappare.
Le prime tappe della sua ricerca vengono coronate dall’incontro con una presenza altrettanto misteriosa, una sorta di parca che ha già tessuto il suo destino, e che le impone di vivere una vita di ricerca per un amore impossibile e sempre più fumoso.
Un personaggio che si può leggere in due direzioni: sia come rappresentazione del cruccio interiore della protagonista, che in tutti i suoi film sembra ripercorrere sempre la medesima storia di ricerca impossibile del suo amato…
…e al contempo, in una connotazione più strettamente storica e politica, come rappresentazione dei sentimenti discordanti che caratterizzarono la società giapponese in quel periodo, nel dramma della brusca fine di un’epoca, definito da un connubio di odio e amore.
Un cambiamento, appunto, repentino quanto inevitabile.
Perdita
L’atto centrale della vita di Chiyoko è caratterizzato dalla perdita.
La vita e i temi centrali dei film passano dal romanticismo anche struggente di film sul Giappone che fu, verso una realtà ben più drammaticae realistica della guerra e, soprattutto, del dopoguerra.
Ma se Chiyoko si aggira malinconica nelle macerie, è sempre lì che trova l’immagine del suo passato, un primo punto di arrivo della sua ricerca: un dolce frammento della sé stessa di tanti anni prima, ancora intatto pur nella distruzione generale.
Un ritrovamento che drammaticamente si accompagna, come si scopre a posteriori, dalla morte fuori scena del suo amato, rendendo tutta la ricerca da questo punto in poi sostanzialmente inutile…
…e viziata da un inganno perpetuo da parte di diversi personaggi che le sottraggono la chiave e che cercano forzatamente di riportare il suo personaggio a quella che era il suo destino originale: la moglie perfetta di un matrimonio infelice.
Scoperta
L’ultimo momento della vita di Chiyoko è, apparentemente, la distruzione.
Ripercorrendo i nuovi orizzonti dell’umanità nello spazio, questo ultimo slancio viene troncato dal riapparire del trauma originario che l’ha perseguitata per tutta la vita, e che la porta a chiudersi definitivamente in sé stessa per mantenere la sua immagine intatta.
Ma l’effettiva e definitiva distruzione degli studios fuori scena è in realtà l’occasione per la riscoperta e la conseguente rinascita: la protagonista si ricongiunge con la misteriosa chiave e finalmente ne comprende il suo importante significato.
Una chiave che serve a Chiyoko quanto al suo stesso paese per non dimenticare il suo passato, per non togliere valore ad un’esperienza sicuramente drammatica come quella del Novecento, che si è rivelata, infine, l’occasione per rinascere da quelle macerie.
Così la protagonista si volge verso un futuro ancora incerto, ma che potrà regalarle molto di più della sofferta reclusione, riscoprendo la bellezza di una ricerca complessa quanto avvincente, in cui il punto di arrivo è, forse, la parte meno importante…
Shaun of the Dead (2004), noto in Italia col nome di La notte dei morti dementi, è il primo capitolo della cosiddetta Trilogia del cornetto di Edward Wright.
A fronte di un budget molto contenuto – 6 milioni di dollari – fu nel complesso un buon successo al botteghino, con 30 milioni di incasso.
Di cosa parla Shaun of the dead?
Shaun è un quasi trentenne che sembra essersi intrappolato in una vita ripetitiva da cui non riesce ad uscire. Ma qualcosa cambierà per sempre il suo modo di pensare…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Shaun of the Dead?
Assolutamente sì.
Shaun of the dead è un’elegantissima parodia del cult di George Romero, Dawn of the dead(1978), riuscendo a riscrivere la satira del maestro dell’orrore ad un livello più piccolo, in un intimo e umoristico coming of age.
E, uscendo in un periodo in cui spadroneggiava lo spoof movie di scarsissimo valore alla Scary Movie, Edward Wright riuscì ad imporsi con il primo capitolo di un piccolo cult cinematografico che riuscì a rimanere nel tempo.
Insomma, è ora di cominciare la Trilogia del Cornetto!
Immobile
Il protagonista è immobile.
La prima scena racconta come Shaun si trovi in uno stallo, in cui tutti i personaggi sembrano incastrati: nonostante il protagonista abbia una relazione pluriennale con Liz, nonostante sia ormai già un adulto con una vita autonoma…
…comunque la sua esistenza ruota attorno a poche, stringenti abitudini, in cui sembra essersi auto-confinato senza possibilità di uscita, al punto da non essere neanche capace di portare il suo fidanzamento al livello successivo – o anche solo a liberarsi dell’ingombrante presenza di Ed.
Ma anche il resto del mondo è immobile.
Una rapida carrellata ci mostra un ventaglio di situazioni piuttosto comuni – il supermercato, l’attesa dell’autobus… – i cui protagonisti sembrano intrappolati in una routine rigida e ripetitiva, di cui non sembrano neanche consapevoli.
Un accenno che fa il verso in maniera piuttosto intelligente a Dawn of the dead, in cui gli zombie rappresentano proprio la spersonalizzazione di una società votata solo al consumismo, che si rifugia in dei non luoghi apparentemente accoglienti e confortevoli.
Proprio come il Winchester.
Indifferente
Il protagonista è anche indifferente.
Nonostante intorno a lui diverse situazioni già raccontino la tragedia che sta per avverarsi, per la maggior parte del tempo – proprio come sarà per il protagonista di Scott Pilgrim vs The World (2010) – Shaun è totalmente ignaro…
…oppure, anche quando minimamente se ne accorge, si lascia facilmente distrarre da un nuovo stimolo, dall’apparizione di un nuovo personaggio, non riuscendo realmente a star concentrato sul momento, o a capire verso cosa veramente dovrebbe orientare le sue attenzioni.
Infatti, sono gli stessi personaggi che devono continuamente ricordargli quello che deve fare, nonostante per il protagonista siano molto spesso, per l’appunto, degli impegni di nessuna importanza.
Ma la mancanza di uno di questi – l’appuntamento con Liz – si risolve in effetti nel primo vero cambiamento della vita del protagonista – la rottura – proprio quando Shaun dimostra, ancora una volta, di non sapersi adattare alle nuove situazioni.
Regressione
Ma la rottura non porta ad un miglioramento.
Al contrario, sfocia in un’ulteriore regressione.
Shaun si fa coinvolgere ancora di più da Ed nella sua stasi di immobilismo e gioventù senza limiti, e, nonostante i suoi timidi tentativi di rimettersi in piedi – banalmente, scriverlo sulla lavagnetta del frigo – sembra che poco nella pratica si concretizzi.
Tanto più che, il giorno dopo, Shaun è ancora una volta del tutto inconsapevole di quello che gli sta succedendointorno, nella sua ingenua passeggiata verso il supermercato, con gli zombie che hanno già invaso le strade…
Eppure, è proprio questa l’occasione per cambiare.
Shaun e Ed ignorano deliberatamente gli ammonimenti del governo di rimanere chiusi in casa, e scelgono invece prima di combattere direttamente gli zombie – anche con un piglio molto giocoso e ironico – e quindi di mettersi, per la prima volta, in prima linea.
Eppure, anche in questa occasione sembra che Shaun percorra sempre i soliti pattern: il suo piano, per quanto intraprendente, prevede di ritornare in luoghi noti e familiari, rimettere idealmente e facilmente insieme la propria vita come se nulla fosse cambiato...
Ma ormai non è più possibile.
Scoperta
L’ultimo atto è il momento della scoperta.
Come Shaun programmava di salvare e, in qualche modo, di riappropriarsi di un amore materno univoco, si trova invece ancora una volta l’ingombrante presenza del patrigno, nonostante in questo caso ci sia un motivo effettivo per volersene liberare…
E invece questa è proprio l’occasione in cui Phil confessa al figliastro quei sentimenti che da soli riescono a risolvere il loro rapporto burrascoso, in cui l’uomo voleva solamente il bene di Shaun, che lo accetta come effettiva figura paterna solo quando ormai è troppo tardi.
Ma è anche l’atto in cui Shaun si riscopre.
Se all’inizio era solo un personaggio incolore incapace di fare anche il minimo passo avanti nella sua vita, con il progredire della storia Shaun diventa sempre più abile nel gestire una situazione di estremo pericolo, prima riuscendo a sconfiggere fisicamente gli zombie…
…poi diventando autore della messinscena per integrarsi all’interno della nuova comunità di zombie senza farsi scoprire – ricordando alla lontana il finale di Terrore dallo spazio profondo(1978) – per riuscire così effettivamente a raggiungere l’ambito pub.
Ed è proprio qui che tutto va contro ai piani originali.
Cambiamento
Nonostante niente vada come sperato, Shaun al Winchester si riscopre ancora di più un leader, capace, nonostante i diversi tentativi di David di screditarlo, come l’unico capace effettivamente di portare il gruppo al sicuro e di allontanare il pericolo.
E, anche quando il piano non va ancora una volta come sperato, ormai è tutto diverso: se lo Shaun di un tempo avrebbe gestito in maniera ancora peggiore la situazione, lo Shaun del presente è l’unico che riesce a non farsi mordere.
E infine, cosa è cambiato?
Una breve ellissi temporale racconta come il mondo non sia finito con la presunta apocalisse zombie, ma che invece gli stessi siano diventati un oggetto di intrattenimento perfettamente integrato nel mondo umano.
E così anche Shaun ha trovato finalmente il suo equilibrio: non un cambio radicale, ma una vita tranquilla e un po’ più variegata con Liz, mantenendo comunque viva l’amicizia con Ed, ora confinato al giardino nella sua nuova versione zombie.
Una donna promettente (2020) è l’opera prima di Emerald Fennell come regista, in cui dimostrò fin da subito la sua attitudine provocatoria.
A fronte di un budget abbastanza contenuto – appena 10 milioni di dollari – riuscì appena a rientrare nelle spese, con neanche 20 milioni di incasso…
Di cosa parla Una donna promettente?
Cassie è una giovane donna che si trova in un tragico limbo della sua vita, la cui unica finalità è vendicarsi per un torto passato…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Una donna promettente?
In generale, sì.
Una donna promettente è un film che personalmente apprezzo molto, anche solamente perché a livello emotivo è estremamente appagante, in quanto riesce perfettamente a mettere in scena sentimenti più o meno sotterranei comuni a molte donne.
Tuttavia, mi rendo anche conto dei limiti intrinsechi di questo progetto: per quanto sia deliziosamente provocatorio, manca totalmente di una parte riflessiva, anche minima, che metta a frutto la sua provocazione costante.
In ogni caso, da vedere.
Cristo
La prima apparizione di Cassie la definisce esplicitamente come una figura cristologica.
Accasciata sul divanetto di uno squallido locale come Cristo in croce, attira le attenzioni di quello che apparentemente è l’unico bravo ragazzo, l’unico che vuole solo aiutarla all’interno di un gruppo di uomini fin da subito caratterizzato come negativi.
In questo senso è ancora più significativa la scelta di casting di Adam Brody – e degli altri bravi ragazzi del film – appositamente per vanificare un’idea molto in voga sul tema, che derubrica la violenza di genere a personaggi poco raccomandabili di lombrosiana memoria.
Al contrario, il comportamento di Jerry racconta proprio una società che giustifica, financo incoraggia un certo tipo di comportamento, che potrebbe scaturire persino dal volto più rassicurante, dai modi più affettuosi…
Contrasto
Ma il contrasto estetico non è una prerogativa dei personaggi maschili.
Emerald Fennell evita alla sua protagonista un look da vamp vendicativa, che ben si adatterebbe al suo carattere impulsivo, ma sceglie piuttosto di vestirla di colori candidi e pastello, addirittura di metterle alle spalle un’aureola per quasi santificarla.
Ancora di più, la sua figura è quella di Cristo quando si incammina verso casa, con la salsa del panino che le cola sulle braccia come se fosse sangue, mentre irreprensibile si rifiuta di abbassare lo sguardo davanti ad una violenza – il cat calling – che vorrebbe umiliarla.
In questo senso Cassie sarebbe al contempo una Salvatrice, che si carica sulle spalle tutte le colpe degli uomini e tutte le tragedie delle donne, e una Vendicatrice, che finalmente vendica e punisce quanto è rimasto per troppo tempo impunito.
Potere
Gli uomini adescati da Cassie non solo si approfittano di lei.
Ma, soprattutto, la trattano come una bambina.
Sia Jerry, che la rassicura come se fosse un infante mentre la sta violentando, sia poi Neil, quando la imbocca con la droga, mostrandosi anche piuttosto scocciato quando Cassie crolla addormentata, proprio come una stupida ragazzina…
Questa rappresentazione piuttosto provocatoria abbraccia una teoria molto in voga – ma ancora non provata in maniera convincente – secondo la quale la violenza nei confronti delle donne deriva da un desiderio di avere potere sulle stesse, e non tanto da un ardore sessuale.
Proprio per questo Cassie improvvisamente torna in sé, guarda in macchina e sbatte irrimediabilmente questi personaggi davanti al loro comportamento, arrivando apertamente a terrorizzarli – nel caso di Neil persino con delle dinamiche proprie del cinema horror.
Come se non bastasse, questi uomini sono ingiustificabili: Cassie non dà mai, neanche lontanamente, consenso al rapporto sessuale, ma invece offre in più momenti a questi uomini una via di fuga, chiedendo di andare a casa o sottolineando ancora di più a parole la sua condizione di incapacità di intendere la situazione.
Ma non funziona mai…
Catarsi
La vendetta di Cassie è quasi sempre esclusivamente psicologica.
E i colpevoli sono sia maschili che femminili, proprio a raccontare una colpa comune: dalla direttrice dell’università, capace di empatizzare con un’evidente violenza solamente quando uno dei suoi affetti è coinvolto, preferendo il vantaggio politico all’umana pietà…
…e così anche Madison, che aveva scelto di alimentare l’omertà collettiva, mettendo prima in dubbio la veridicità della storia della vittima, che invece scopre quanto è facile farsi manipolare e rischiare la propria sicurezza personale.
Ma il vero alleato della protagonista è un personaggio maschile.
Per Jordan Green, una macchina da guerra che si nutriva delle disgrazie di ragazze indifese e manipolabili, pur di portare a casa succulenti bonus elargiti dai loro carnefici, Cassie aveva preparato una vendetta forse persino violenta.
Invece, l’avvocato si rivela un insospettabile alleato, che ha perso il sonno, divorato dai peccati passati, che si inginocchia davanti alla protagonista chiedendole pietà, diventando infine l’unica persona di cui Cassie effettivamente si fida per portare a termine la sua vendetta.
Occasione
La tragicità del personaggio di Ryan è anche più sottile.
All’apparenza il suo personaggio sembra veramente un ragazzo per bene, anzi un compagno davvero affettuoso e divertente, e nondimeno rispettoso, che accetta tutte le ritrosie di Cassie, impegnandosi fino in fondo per far funzionare la loro relazione.
E proprio con Ryan Cassie poteva avere la sua occasione per andare avanti.
Ma un’altra situazione religiosa cambia ogni cosa.
La consegna della prova definitiva, il cellulare, davanti al quale la protagonista si inginocchia in stato di venerazione, piangendo di dolore quando finalmente viene messa davanti a quella violenza che fino a quel momento aveva potuto solo immaginare…
La rivelazione di Ryan è quindi il coronamento del tema di fondo: la colpevolezza è comune, si nasconde anche nella persona più insospettabile, che crede di non essere parte del problema, ma che invece, col suo silenzio complice, è ugualmente colpevole.
Colpevole
Ma chi è veramente il colpevole?
Il colpevole è Al, il violentatore, da cui Cassie vorrebbe solamente una sincera confessione, ma che è solo capace di nascondersi – come tutti gli altri – dietro a moltissime ed inutili scuse, e invece incapace di concepirsi come il villain della storia.
Ma il colpevole è anche Joe, rappresentante della società omertosa, che riscrive la storia sempre a suo favore, per derubricare il tutto come un incidente, per coprire le colpe e scappare come un coniglio quando la polizia viene a chiedere il conto.
Cassie è colpevole?
Il mondo raccontato da Una donna promettente è dominato dalla violenza, che viene perpetrata senza mai riuscire a riconoscerla come tale, portando ad altra violenza, ad una violenza vendicativa, a quella vendetta privata che sembra l’unica via possibile…
E infatti infine Cassie diventa altrettanto violenta, sceglie violentemente di prendersi la sua rivalsa, marchiando a fuoco il violentatore sulla sua stessa carne, incidendo un segno indelebile che non potrà mai più togliersi.
In questo frangente Emerald Fennell avrebbe potuto osare di più, aprire una riflessione finale su una società in cui ci divoriamo a vicenda, ma ha preferito invece coinvolgere tutte le donne in una sorellanza, con un occhiolino che ci urla bruciate tutto!
Dune – Parte due (2024) di Denis Villeneuve è il sequel di Dune(2021) e il secondo capitolo di una probabile trilogia di film tratta dai romanzi cult di Frank Herbert.
Dopo essere stato accettato dai Fremen, Paul Atreides deve scegliere il suo destino…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Dune – Parte due?
Assolutamente sì.
Ma…
Dune – Parte due è un film monumentale, con una regia talmente elegante e precisa da poter essere paragonata ad altri grandi cult della fantascienza, con una resa visiva forse persino superiore al primo capitolo.
I difetti imputabili alla pellicola sono, a mio parere, veramente pochi, circoscritti ad una sceneggiatura in alcuni punti troppo affrettata, nonostante offra allo spettatore tutti gli elementi per comprendere la storia.
Gli altri difetti che potreste trovare riguardano la natura stessa dell’opera, che è inevitabilmente molto compassata nei ritmi, molto complessa nei concetti, nonostante la trama di fondo sia in realtà molto lineare.
Fremen
Paul vuole solo essere un Fremen.
Per due interi atti il protagonista si ribella al destino che gli è stato imposto, in maniera per lunghi tratti anche molto più violenta rispetto al primo film, andando a sfidare i piani non solo delle Bene Gesserit, ma soprattutto di sua madre.
Proprio per questo atteggiamento riesce infine a conquistare Chani, personaggio – al pari della sua controparte letteraria – davvero testardo ed insipido, molto legato alle sue origini e allergico al fanatismo religioso che serpeggia nel suo popolo.
La relazione fra i due personaggi l’ho decisamente più apprezzata rispetto al romanzo: Villeneuve ha voluto renderla molto più affettuosa e partecipata, caricandola di ulteriori significati, che danno maggior valore all’importanza della scelta finale di Paul.
La prova definitiva – cavalcare un verme, e persino un verme davvero grosso – corona questo piccolo arco evolutivo del protagonista, impreziosito da una regia impeccabile e profondamente coinvolgente.
Ma è un momento che rappresenta molto di più.
Ruolo
La gestione di Jessica è per me la meglio riuscita.
Il suo punto di partenza è la ribellione alle Bene Gesserit, pur incerta ed influenzata da una forte venerazione nei confronti delle stesse, e il cui momento di passaggio è l’accogliere all’interno del suo corpo e della sua mente le memorie di generazioni di Madri Superiori…
…e della sua stessa figlia.
La sua involuzione è definita anche dal suo cambio di aspetto.
Jessica prima si spoglia della sua identità di concubina del Duca Leto, si lascia inghiottire dal deserto, e rinasce come Madre Superiora, sempre più definita da un aspetto sontuoso e minaccioso – dai tatuaggi eloquenti al vestiario sempre più identitario.
La donna, insomma,intraprende anticipatamente il percorsoche lo stesso figlio dovrà affrontare, sopportando il peso di una conoscenza così ampia che un tempo sarebbe stata possibile solo per una macchina, ma che in Dune – Parte due è nelle mani di pochi, potentissimi individui.
E il suo comportamento conferma le accuse del suo stesso figlio.
Nonostante per certi versi il destino di Paul sia definito e definibile, non si sarebbe mai avverato senza l’intervento di Jessica, senza la sua spinta anche piuttosto aggressiva, che arriva infine a costringere Chani a prendere parte al processo.
Un processo che deve prendere forma, nonostante le angoscianti prospettive di miseria e di distruzione di cui, non a caso, Jessica è l’assoluta protagonista, perseguendo il grande piano delle Bene Gesserit di prendere parte a svolgimenti secolari ed essere sempre vicine al potere.
Fanatismo
Le Bene Gesserit si nutrono del fanatismo che loro stesse hanno creato.
In questo senso Stilgar rappresenta proprio il frutto di questa operazione, andando a ricercare nei felici tentativi di Paul di integrarsi nel suo popolo tutti i segnali del compimento del suo destino come Lisan al Gaib, con reazioni a tratti persino ilari.
Così il capo dei Fremen riesce ad alimentare quella religiosità più prettamente popolare, diventando un vettore per il piano stesso delle Bene Gesserit, che vivono in una realtà troppo lontana e distaccata dal presente per intervenirvi così direttamente.
Ma Stilgar è anche un avvertimento per Paul: in questo personaggio il protagonista intravede il fanatismo a cui andrebbe incontro se si immergesse nelle misteriose terre meridionali di Dune, dove, scegliendo i giusti gesti, le giuste parole, sarebbe incoronato come Messia.
E l’opposizione è debole…
Piccolo
Gli Harkonnen sono minuscoli.
Infatti, quello che potrebbe sembrare un difetto – il poco spessore di questi villain – è in realtà totalmente funzionale a raccontarne la piccolezza, nella loro stupida rincorsa al potere e al guadagno immediato.
Così Rabban è solo l’anello più debole del piano della casata: convinto di poter stanare i Fremen nel loro stesso pianeta, chiamandoli ratti, infine fugge come un coniglio davanti alla loro evidente superiorità numerica e strategica.
Per questo, gli Harkonnen hanno bisogno di un nuovo campione.
E questo dovrebbe essere Feyd-Rautha, personaggio che ha vissuto coccolato all’interno di un’arena costruita apposta per farlo vincere, con persino dei combattenti messi ai lati per impedire che il Na-Barone venga messo in difficoltà o anche solo ferito…
Per questo, il Barone sceglie di metterlo alla prova, e il più giovane nipote Harkonnen dimostra, a differenza del cugino, di saper non solo essere crudele e aggressivo, ma anche capace di affrontare gli imprevisti.
Ma anche Feyd-Rautha è una pedina.
Per quanto possa essere raccontato come intelligente e astuto, in realtà basta una qualunque Bene Gesserit per insidiarlo, per farlo perdere dentro la sua stessa casa, per requisire il suo seme e tenerlo in serbo come piano alternativo.
Un personaggio insomma funzionale a raccontare come il destino di Paul dipenda tutto da luistesso, e di come le Bene Gesserit siano unicamente interessate ad essere dalla parte giusta della storia – quella con il potere.
Trasformazione
Paul infine accetta la sua trasformazione.
Il suo cambio di passo così repentino è per me l’unico difetto davvero imputabile al film, che avrebbe dovuto investire maggiormente nello spiegare la trasformazione del protagonista, nonostante ci siano tutti gli elementi che, a mente fredda, la rendono chiara.
Semplicemente, Paul finalmente accede ad una comprensione onnicomprensiva della storia, vede chiaramente i futuri possibili e capisce che l’unico modo per riuscire a salvare Arrakis è comportarsi come i suoi nemici.
Così, diventa tutto quello che Chani odiava.
Paul si impone nel consiglio dei Fremen e ne ribalta le regole, mettendo in grande sfoggio i suoi neo acquisiti poteri, che gli permettono di avere un controllo sul presente e soprattutto sul futuro, cominciando così la sua vertiginosa scalata al potere.
Insomma, il protagonista prende infine in maniera significativa in mano il suo destino, comincia ad utilizzare quelle armi che aveva ignorato per lungo tempo, dopo che da più parti gli era stato quasi urlato in faccia quanto potenzialmente potessero essere fruttuose.
Ma non è finita.
Nonostante Paul sembri ormai il dominatore incontrastato di Arrakis, in realtà deve sottostare al rituale del duello per sottomettere definitivamente l’Imperatore e, soprattutto, per riportare dalla sua parte le dubbiose Bene Gesserit.
E, in ogni caso, la conclusione non è una conclusione: è solo l’inizio di una Guerra Santa disastrosa, dello spezzarsi del rapporto con Chani, puntando lo sguardo ad un probabile terzo capitolo in cui l’unico antagonista di Paul sarà lui stesso…
Dune (2021) di Denis Villeneuve è il primo capitolo della probabile trilogia di film tratti dal ciclo di romanzi cult di Frank Herbert.
Anche per via di una distribuzione criminale – negli Stati Uniti uscì allo stesso tempo al cinema e sul servizio streaming della Warner Bros – non fu un grande successo commerciale: a fronte di un budget di 165 milioni di dollari, ne incassò appena 433 in tutto il mondo.
Di cosa parla Dune?
Paul è il primogenito della famiglia Atreides, che viene resa improvvisamente il vassallo dell’Impero nel prezioso pianeta Arrakis, anche detto Dune…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Dune?
Assolutamente sì.
Denis Villeneuve è riuscito dove persino David Lynch ha fallito: portare in scena un ciclo fantascientifico che già dal primo romanzo risulta estremamente complesso da rendere – per la mitologia, i significati e il taglio narrativo.
In questo senso, la scelta piuttosto ardita di rendere il primo film una sorta di capitolo introduttivo non solo è intelligente, ma assolutamente necessaria: prima di arrivare ai punti caldi della storia, è essenziale che il pubblico abbia una conoscenza robusta del mondo di Dune.
In ogni caso, non ve lo potete perdere.
Mitologia
La gestione della mitologia in Dune è impeccabile.
La sequenza introduttiva getta le basi fondamentali per la comprensione del complesso panorama politico, creando un climax narrativo sulla dualità di Arrakis: nelle parole di Chani Dune è un luogo splendido, incontaminato…
…ma è anche una fonte di inesauribile ricchezza, che ha portato al pugno di ferro della terribile famiglia Harkonnen, la cui dipartita non porta nessun sollievo al popolo dei Fremen, che invece già si chiedono chi sarà il loro prossimo oppressore.
Un’introduzione che si ricollega perfettamente al protagonista…
…e in ben due modi diversi.
Come infatti Chani è la ragazza misteriosa – che rimane senza nome fino sostanzialmente alla conclusione della pellicola – protagonista degli strani sogni di Paul,che sembrano anticipare un futuro ora sereno, ora profondamente drammatico…
…sia nei piccoli inserti esplicativi di vari elementi della mitologia, essenziali per la comprensione del film e inseriti come parte della formazione del protagonista, profondamente interessato a capirne di più della sua nuova casa.
Piccolo
Dune viaggia a due velocità.
All’inizio il fulcro della storia sembra la piccola storia di gelosia politica che ha come protagonista il Duca Leto, un personaggio più volte definito come sacrificabile e poco importante nel grande schema delle cose.
Non è un caso che Leto sia l’unico raccontato come smaccatamente positivo, consapevole dell’inganno in atto, ma deciso a portare fino in fondo la sua missione, volendo distinguersi dal crudele cugino Harkonnen.
A differenza infatti dei precedenti oppressori, Leto cerca un dialogo con i Fremen.
Mandando in avanscoperta il suo migliore guerriero – Duncan – accettando tutte le stranezze del popolo – come quando Stilgar sputa davanti ai suoi occhi – e accogliendo tutte le condizioni che gli indigeni gli impongono.
Questa suo tentativo di essere conciliante si dimostra infine fallimentare all’interno di un panorama politico dominato dall’inganno e dalla violenza, in cui la morte di Leto diventa sia lo sfogo della gelosia dell’Imperatore, sia la spinta necessaria per il concretizzarsi del destino di Paul.
Crudele
Il Barone Harkonnen è un villain incredibile.
Il film è riuscito perfettamente ad inquadrare un personaggio profondamente – a tratti quasi inutilmente – crudele, con la sua presenza imponente e terrorizzante, sempre intento ad intessere una trama di inganni e crudeltà, finalizzata unicamente al guadagno.
Particolarmente elegante ammorbidire un personaggio davvero impresentabile al cinema, ma nondimeno inserire indizi del suo terribile carattere: diciamo solo che i ragazzini che appaiono come servitori, in realtà lo servono soprattutto in altro modo…
In generale, il Barone incarna il senso di Dune.
Il mondo di Herbert è basato sull’inganno nell’ombra, la trama politica nascosta – di cui Vladimir Harkonnen è lo splendido protagonista – in cui l’attacco diretto, l’azione ne è solo l’ultimo capitolo – ed infatti i momenti dedicati alla stessa sono pochissimi.
Eppure, persino questo villain appare minuscolo nel grande schema narrativo: pure se per motivi totalmente diversi, anche il Barone è concentrato unicamente sul guadagno immediato, sul potere politico presente…
Dominio
Infatti, il vero potere è nelle mani delle Bene Gesserit.
Questa congrega centenaria di donne è riuscita a spingere oltre ogni limite le potenzialità dell’umanità, destinata a sostituire la macchina: secondo la religione dominante, le tecnologie sono ridotte all’osso, e l’umano stesso deve diventare un computer vivente.
In questa ottica, la preziosa spezia che per gli Harkonnen e l’Impero è solo una fonte di guadagno, per le Bene Gesserit è invece uno strumento che permette loro di costruire un piano spalmato su arco temporale di secoli, se non millenni.
In questo schema, Jessica è solo una pedina.
Una pedina che, però, ha scelto di fare di testa sua.
La donna ha cercato di imporsi nello stringente piano della sua sorellanza, sfidando il potere delle Madri per intrecciare la sua linea di sangue con Leto e far nascere una figura mitologica dai tanti nomi – Kwisatz Haderach, Lisan al Gaib – che sarà protagonista dell’ambigua sorte di Dune.
Ma, soprattutto, Jessica ha scelto di sfidare il potere delle Bene Gesserit, formando un maschio ai poteri propri di una religione esclusivamente femminile, ponendo le basi per un destino ancora oscuro ed imprevedibile.
Imposto
Per questo, il destino di Paul è imposto.
Al riguardo, è stato piuttosto intelligente da parte del film inserire un elemento estraneo alla narrativa di Herbert: nel romanzo il protagonista accettava quasi passivamente, e con estrema freddezza, la sorte che era stata scelta per lui, come se fosse qualcosa di inevitabile.
Al contrario, nella pellicola Paul è costantemente tormentato da omen, visivi e vocali, che gettano i semi per la comprensione del suo fondamentale ruolo nella storia di Dune, che il personaggio vive ora con angoscia, ora con una genuina disperazione.
Ma la vera evoluzione di Paul è uscire dal controllo della madre.
Per assumere il suo ruolo, il protagonista deve effettivamente immergersi nella realtà di Arrakis, basata sull’idea di adattamento, non l’imposizione: i Fremen sopravvivo su Dune perché hanno imparato a conviverci, a muoversi imitando i naturali movimenti del deserto…
…al contrario degli oppressori che si sono susseguiti, i quali, nella loro corsa al guadagno e al profitto, si sono lasciati in più momenti divorare dai veri dominatori di Arrakis, ovvero i Vermi della Sabbia, attirati proprio dai segnali di mutamento dell’ambiente.
Per questo, Paul deve imparare a farne parte.
Inizio
Il destino di Paul è incerto.
Più viene a contatto con il deserto, e quindi con la spezia, più il protagonista si rende conto che la sua vittoria passa attraverso il lasciarsi guidare dagli istinti, intendere gli stimoli che lo circondano…
…e non pensare che gli avvenimenti futuri siano già stati matematicamente decisi, ma piuttosto viverli come ancora del tutto definibili dalle sue azioni e delle sue scelte – in particolare, la scelta di diventare personaggio attivo della storia.
Infatti, Paul riesce a diventare effettivamente protagonista del suo destino quando sceglie di farsi ingoiare da Dune: immersi nella terribile bufera di sabbia che avrebbe ucciso chiunque, il protagonista capisce che non deve forzare la sua presenza in quell’ambiente…
…ma piuttosto lasciare che la sua navicella si immerga nel pianeta, ascoltandolo e così capendo quale direzione prendere per arrivare alla prima tappa del suo viaggio predestinato: l’incontro con i Fremen.
Ma anche in questo caso, è un evento ambiguo.
Infatti, quando finalmente Paul si trova davanti sia a Chani sia, soprattutto, a quello che dovrebbe essere il suo futuro alleato – il Fremen Jamis – capisce che il futuro è ancora tutto da scrivere.
Per questo accetta infine l’inevitabile morte dell’uomo che gli si è opposto, non forza la relazione con la misteriosa ragazza, ma piuttosto accetta di entrare a far parte dei nativi, muovendo i primi passi verso questo nuovo inizio.
West Side Story (2021) di Steven Spielberg è il remake dell’omonimo cult cinematografico del 1961, tratto dal musical di Leonard Bernstein.
Purtroppo, il progetto si è rivelato un grande insuccesso commerciale: a fronte di un budget piuttosto importante – 100 milioni di dollari – ne ha incassati appena 76 in tutto il mondo…
Di cosa parla West Side Story?
New York, 1957. Tony e Maria sono due giovani innamorati, che però fanno parte di due gang rivali…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere West Side Story?
Assolutamente sì.
Steven Spielberg riesce non solo a superare tutti i limiti della produzione del 1961, ma anche riuscire a rendere incredibilmente più realistico un musical che parlava di conflitti sociali molto forti e reali – e ancora estremamente attuali.
Particolarmente indovinata la rappresentazione della comunità portoricana, non solo con un casting finalmente credibile, ma anche con l’inserimento di diverse battute in spagnolo, finalizzate a un senso di maggior realisticità alla vicenda.
L’unico difetto che si può forse imputare al film è il suo voler essere eccessivamente vicino, per alcuni elementi, all’opera di partenza, non sacrificando alcun numero musicale, persino quelli che inevitabilmente appesantiscono una pellicola di oltre due ore e mezza…
Dominio
La scena di apertura serve non solo a definire gli spazi, ma soprattutto l’intenzione dei Jets di appropriarsene.
Infatti, il gruppo comincia la sua traversata da una terra di nessuno, ormai destinata alla distruzione, per poi muoversi verso quei quartieri che evidentemente non gli appartengono – come si comprende dalle insegne dei negozi in spagnolo…
…ma che cercano di spogliare della presenza straniera, con passi di danza perfettamente integrati nella loro ricerca di dominio, sempre gettati in avanti, a braccia aperte, a pugni chiusi, per coprire più spazio possibile.
Guerra
Questa riappropriazione diventa un effettivo insulto alla comunità portoricana, quando viene infangata la loro bandiera – mentre nel West Side Story del ’61 semplicemente vi era una scritta sul muro molto meno grave, che recitava semplicemente Sharks stinks.
Dopo una lotta senza quartiere, all’arrivo dei poliziotti gli Sharks, ormai scacciati ed umiliati da una giustizia mai veramente a loro favorevole, esplodono in un canto tutto in spagnolo in cui rivendicato con fierezza le loro origini.
Ma ancora più significativo è il discorso del Tenente Schrank, che gli ricorda l’insensatezza della loro lotta: uno scontro fra disperati per un fazzoletto di terra, che fra poco sarà occupato da quelli che dovrebbero essere i loro veri nemici.
Ovvero, la classe dirigente che li ha lasciati ai margini.
Fuori
Spielberg carica il suo protagonista maschile di nuovi sentimenti.
Diventa infatti significativo per Tony rivendicare il suo voler essere esterno alle lotte fra le gang, proprio per essere andato così vicino ad uccidere un ragazzino, ad un passo dal rendere questo evento tutta la sua personalità.
Per questo la sua canzone Something’s Coming assume un nuovo sapore nella bocca di un protagonista che è tornato a casa, ma vuole trovare all’interno della stessa qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso dall’odio che era tutta la sua vita fino a questo momento.
Per questo è fondamentale che il numero si svolga non in solitudine, ma davanti agli occhi speranzosi e quasi ammonitori di Valentina, mentre il ragazzo gli racconta che qualcosa sta per cambiare, che deve cambiare…
Diversa
Ma il cambiamento più significativo è il personaggio di Maria.
Se nella versione del ’61 la protagonista femminile era una ragazzina superficiale e sciocca, che viveva ancora a casa dei suoi genitori, in questo caso presenta un carattere decisamente più irriverente, tanto da mettere più volte in discussione l’autorità del fratello.
Infatti, la sua ribellione, la sua unione con Tony è molto più che un semplice amore impossibile, ma piuttosto un modo in cui Maria decide di definire sé stessa come donna libera, senza che sia il fratello ad imporle un compagno così incolore come Chino.
Così la sua prima vera ribellione alla sua famiglia è proprio quel rossetto rosso che sceglie di mettersi prima di uscire per il ballo, che va in parte a riscrivere quell’aspetto puro e illibato che il vestito bianco dovrebbe conferirgli.
Nascosti
Tony e Maria sanno subito di dover stare nascosti.
Il prologo del loro dramma è proprio il ballo stesso, che perfettamente incorniciata all’interno di dinamiche da musical il bruciante contrasto fra le due gang, per cui qualunque tentativo di pace, persino un’innocua danza, appare assolutamente impossibile.
Infatti, a differenza dell’opera originaria, i due capiscono subito che il loro incontro si deve svolgere nelle retrovie della festa, con uno scambio articolato da alcuni passi di danza ripresi dallo spettacolo e un paio di battute ironiche che raccontano l’inizio dell’intrecciarsi del rapporto.
Rispetto al West Side Story del ’61, questo primo incontro è riscritto in più direzioni e con grande intelligenza: il primo bacio fra i due non è ricercato da entrambi in un commosso crescendo, ma piuttosto voluto dalla stessa Maria, che mostra ancora una volta la sua intraprendenza e sfacciataggine.
Inoltre, il fatto che i due rimangano nascosti per tutto il dialogo – a differenza del film originale, in cui erano in mezzo alla folla – rende ancora più grave la loro situazione: sembra come se Tony avesse preso da parte la giovane ragazza per approfittarsene…
Scoperta
La scena della balconata è semplicemente perfetta.
Spielberg riprende per lunghi tratti le dinamiche del prodotto originale, ma le impreziosisce con una gestione degli spazi magistrale, che racconta quanto la loro relazione sia impervia e apparentemente impossibile, come se ci fosse un blocco, una rete invalicabile fra loro…
…ma che prontamente il baldanzoso Tony supera per raggiungere quella che ha capito essere per nulla una ragazzina indifesa, benché in quel momento appaia fortemente impaurita dalla presenza di Bernardo a pochi passi.
Purtroppo, per così dire, la sceneggiatura non sceglie di fare il passo decisivo per rendere effettivamente più credibile il loro rapporto: subito Tony le chiede di scappare insieme, subito si danno appuntamento per il giorno successivo e si dichiarano il reciproco amore eterno.
America
Una riproposizione decisamente interessante è America.
Come tipico della produzione del ’61, la regia della scena era estremamente statica e limitata ad un solo ambiente, con uno scambio piuttosto animato fra le ragazze della gang e le loro controparti maschili, con un sottofondo fortemente ironico.
Nel remake si sceglie invece di aprire la scena e di distribuirla in diversi ambienti, nonché di caricarla di un significato profondamente drammatico, mostrando quello che effettivamente i due stanno cantando – le proteste della comunità portoricana, l’antagonismo della polizia…
Tuttavia, non sia arriva mai ad una vera conclusione.
Se da una parte Anita si rifiuta di lasciare l’America, in quanto unico luogo dove può effettivamente determinarsi come figura indipendente e lavoratrice, e non invece limitata al ruolo di madre con una prole ingestibile…
…dall’altra Bernardo, fra l’ammonimento e la provocazione, le ricorda che il sogno americano è tanto bello quanto esclusivo dei bianchi – o, in alternativa, delle persone capaci effettivamente di combattere come lui.
Intermezzo
Avrei preferito che la parte centrale fosse più audace nella riscrittura…
…o, ancora meglio, nella selezione.
La sequenza dell’appuntamento fra Tony e Maria, soprattutto nella scena del matrimonio, si sposa in maniera poco convincente con quello raccontato finora dei loro personaggi, e mostra la già citata poca audacia nell’operare fino in fondo una riscrittura più credibile dell’opera.
Altrettanto fine a sé stessa è la scena della stazione di polizia, per quanto ottimamente portata in scena ed interpretata, non aggiungendo di per sé molto al racconto dei Jets e alla loro personalità.
Tuttavia, un elemento è davvero vincente.
Fra i personaggi meglio riscritti del film c’è sicuramente il personaggio senza nome (anybodys) interpretato dall’attore non binario iris menas, che vuole disperatamente far parte di Jets, nonostante sia costantemente bollato come una femmina, e pure piuttosto brutta.
Significativo riscriverlo in questa veste più moderna, sorpassando la banalizzazione dello stesso nel West Side Story del ’61, quando veniva raccontato come semplicemente come un tomboy – un maschiaccio.
Contrasto
Con l’approcciarsi dello scontro, si definisce ancora più il contrasto interno alla pellicola.
In questo senso è stato particolarmente indovinato rimischiare le scene, usando la canzone Cool per raccontare il tentativo di Tony di far ragionare quel ragazzino di Riff, pronto alla lotta senza quartiere con una pistola che non è capace di utilizzare.
Allo stesso modo, vincente la scelta di porre la sequenza I Feel Pretty immediatamente dopo lo scontro fra i Jets e gli Sharks, proprio per raccontare un sogno d’amore ancora intatto e che, almeno sulla carta, dovrebbe superare ogni tipo di conflitto.
All’interno di una regia decisamente più ispirata, lo scontro è tanto più drammatico quanto preceduto dai tentativi disperati di Tony di far ragionare Bernardo e di farsi per questo accettare da lui come compagno della sorella…
…ma arrivando inevitabilmente alla tragedia, all’autodistruzione fra i due maggiori mandanti della stessa, Riff e Bernardo, che si lasciano alle spalle vedove e amici dal cuore spezzato, oltre ad una lotta ancora più feroce e disperata.
Ripensamento
Se nel film del ’61 l‘angoscia dell’ultimo atto veniva in parte spezzata dalla canzone Cool, nella nuova versione la tragica dinamica è incorniciata dalla canzone Somewhere, cantata da Valentina, interpretata dalla vera star della prima versione del musical: Rita Moreno.
La scena più significativa di questo frangente è lo scontro fra Anita e Maria in A Boy like That, brano dai toni molto più malinconici nel ’61, in questo caso invece caricato di un inedito senso di conflitto, con cui la protagonista riesce a raccontare effettivamente l’importanza del suo amore per Tony.
In particolare, decisamente indovinato il momento in cui Maria rinfaccia ad Anita la sua ipocrisia: anche se Tony ha ucciso Bernardo, la donna dovrebbe essere ben consapevole di come il suo amato sia stato il principale artefice della sua distruzione…
…ma nonostante questo, di averlo comunque amato.
Inevitabile
La tragedia sembra inevitabile.
Nonostante Anita si convinca ad aiutare Maria a scappare, si ricrede quando viene salvata all’ultimo da Valentina dal tentato stupro – con un dialogo aperto fra presente e passato, come se Anita salvasse sé stessa…
Conseguentemente, Tony si rende il bersaglio perfetto per la vendetta di Chino, che sceglie infine di sfogare la sua frustrazione per aver sia perso l’amore di Maria, sia per essere stato incapace di difendere Bernardo.
Il finale riprende sostanzialmente le stesse dinamiche del film del ’61, con anche l’ultimo colpo di coda di Maria, che mette le gang davanti alle colpe della loro stupida guerra, ma che infine si arrende, e si unisce silenziosa alla processione funebre che chiude la pellicola.