L’ora del lupo (1968) è un’opera minore della filmografia di Ingmar Bergman, in cui il regista svedese sperimenta con l’elemento fantastico e orrorifico.
A fronte di un budget sconosciuto – ma come sempre probabilmente piuttosto basso – incassò 250 mila dollari in tutto il mondo.
Di cosa parla L’ora del lupo?
Johan Borg è un pittore ossessionato dal suo passato. E il suo soggiorno in un’isola sperduta non migliora la situazione…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere L’ora del lupo?
In generale, sì.
Non posso dire che L’ora del lupo sia uno dei titoli più memorabili della filmografia di Bergman: il regista sembra trovarsi in un momento di passaggio, in cui deve scegliere che taglio dare all’apparato simbolico che caratterizza ogni sua opera.
Tuttavia, il voler sperimentare in maniera così importante con il fantastico e il grottesco, rende questo film una classica opera del regista, ma mancante della brillantezza tematica e filosofica che caratterizzava le sue precedenti pellicole – in particolare, Il posto delle fragole(1957)
Eden
Il primo approccio all’isola è promettente.
Inizialmente infatti Johan sembra riuscire ad apprezzare l’atmosfera idilliaca e bucolica del luogo, come testimoniano i brevi quadretti in cui si intrattiene con la moglie, in scambi di affetto e dialoghi spensierati e sognanti.
Ma l’elemento fondamentale è proprio la pittura, lo strumento con cui il protagonista effettivamente esprime sé stesso e i propri sentimenti: sulle prime, le sue opere sono ispirate alla stessa moglie, Alma, proprio all’interno di quello che è ancora un piacevole eden.
Ma basta poco perché il sogno si spezzi.
Incubo
Già nel giro di poche scene il protagonista appare turbato e scostante, sempre più lontano da quella spensieratezza che l’aveva caratterizzato fino pochi momenti prima, angosciandosi via via sempre maggiormente con l’avvicinarsi delle tenebre.
Così, nella macabra oscurità, comincia a raccontare il suo conflitto interiore, rappresentato da creature deformi ed inspiegabili, dalle forme più strane e raccapriccianti, fra l’umano e il mostruoso.
E in questo modo si inizia anche a delineare l’incolmabile distanza fra il pittore e Alma, che a tratti appare turbata, a tratti prova a dare ascolto alle paranoie di Johan, nonostante queste rimangano per lo più incomprensibili…
Diario
Anche Alma è all’interno dell’incubo.
Su consiglio di uno dei tanti spettri che popolano l’isola – e la mente del marito – sceglie infine di provare a comprenderne i più profondi segreti, proprio andando a scavare nel luogo in cui più direttamente Johan si esprime.
Il diario.
E la memoria più bruciante riguarda Veronica Vogler.
In passato Johan era stato protagonista di uno scandalo di costume, che l’aveva portato negli anni ad essere non tanto ossessionato dalla donna in sé, ma dal suo ruolo nella vicenda, in quella realtà mondana così lontana dal luogo in cui ora si è rifugiato.
E proprio nel diario Alma trova anche il passaggio in cui Johan racconta di essere stato chiamato a far nuovamente parte di quel circolo di personaggi mostruosi, gli stessi che furono – e saranno anche poi – il pubblico di quel particolare episodio.
Fuggire
Fuggire è impossibile.
Nonostante la stessa Alma abbia espresso le sue inquietudini, Johan non riesce a distaccarsi da quella realtà, a cui viene nuovamente e in breve tempo invitato, a rappresentazione proprio del suo desiderio quasi inconscio di farne parte.
Il ritorno sui suoi passi è tanto più destabilizzante quanto segue allo svelamento di un altro segreto, ancora più raccapricciante: l’uccisione del bambino, apparentemente una figura innocente, in realtà un altro personaggio mostruoso del suo tormentato passato.
L’ultima sequenza nel castello è quella più strettamente teatrale.
Johan viene rivestito e riplasmato, come se dovesse prendere parte proprio ad uno spettacolo, uno spettacolo che lui stesso stava ossessivamente cercando, ma che lo rende anche inquieto, proprio per il taglio grottesco, surreale e quasi orrorifico dell’atmosfera che lo circonda.
In questo senso, è emblematico l’incontro con Veronica, prima morta, poi viva, poi mostruosa, che cerca di assalire il protagonista con un amore vorace, fino a renderlo deforme, ma ben adatto alla commedia dell’assurdo di cui ha scelto di far parte.
Colpevole
Alma si sente colpevole.
Nonostante fosse stata ferita e cacciata dal marito a colpi di pistola, ha scelto comunque di stargli accanto mentre riversava sconvolto le sue memorie nel diario, per poi inseguirlo nel bosco, ancora decisa a salvarlo.
E davanti all’impossibilità di scacciare i suoi demoni, davanti all’impossibilità di strapparlo da quell’incubo, comunque nel presente la donna si domanda pensierosa se la sua colpa fosse di non averlo amato abbastanza…
Miglior film Miglior regista Migliore sceneggiatura originale Miglior attore non protagonista a Judd Hirsch Migliore attrice non protagonista a Michelle Williams Migliore colonna sonora Migliorescenografia
Di cosa parla The Fabelmans?
Un giovanissimo Sammy viene portato per la prima volta al cinema. Un’esperienza che lo segnerà per sempre…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere The Fabelmans?
Assolutamente sì.
Prima di vedere The Fabelmans, avevo dei grossi dubbi, dal momento che fa parte di un genere – quello del biopic – molto standardizzato nelle tematiche e nelle dinamiche, che gioca spesso su trigger emotivi facili e scontati, e che per questo non apprezzo particolarmente.
Non è il caso di The Fabelmans.
Vedendo questa pellicola si ha la costante sensazione di trovarsi davanti al racconto di una storia vera, che non cerca di farti piangere o emozionare per forza, ma piuttosto di coinvolgerti e intrattenerti attraverso dinamiche piacevoli, divertenti e genuine.
E con la splendida mano autoriale di Spielberg.
Una storia vera…
Ovviamente non potremo mai sapere quanto Spielberg abbia inventato e quanto ci sia di vero in The Fabelmans.
Ma, se si è inventato tutto, ci ha ingannati perfettamente.
La pellicola è quasi una raccolta di aneddoti, senza focus così forte sull’aspirazione del protagonista di diventare un regista, né foreshadowingvolti a celebrare il suo genio. Al contrario, un racconto vero e sentito della nascita della sua passione, ma all’interno di una storia più ampia e sentita su una famiglia imperfetta.
Per tutta la durata non sapevo cosa aspettarmi, perché non c’era niente di veramente scontato.
…per un cinema vero
Nonostante appunto non sia del tutto il punto centrale della pellicola, il racconto dello sbocciare della passione del cinema per il protagonista è la parte più affascinante della storia.
Spielberg è riuscito a mostrarci, attraverso dinamiche credibili e interessanti, come riusciva a girare piccoli film muti, facendo leva sulla sua incredibile creatività e ingegnosità per creare degli effetti speciali caserecci, ma di grande effetto.
E mostrando già la sua capacità nel dirigere gli attori e l’occhio registico che stava sviluppando per i particolari da mettere in risalto, riuscendo a dare tridimensionalità e profondità alle scene e alle storie che portava in scena.
Fra l’altro con una perfetta corrispondenza fra la tecnica mostrata nei film amatoriali, e quella che caratterizza il film stesso.
Raccontarsi
Raccontare sé stessi non è mai facile.
Tanto più quando sei uno dei più grandi maestri del cinema.
Tuttavia, mai nella pellicola ho sentito che Spielberg volesse in qualche modo autocelebrarsi. Al contrario, mi è sembrato che volesse mettere in scena proprio lo sbocciare della sua passione e di come effettivamente avesse cominciato a guardare il mondo con l’occhio della macchina da presa.
Davanti a questo ottimo risultato, non posso che fare un paragone con un’altra opera di taglio autobiografico di recente produzione: Bardo (2022) di Alejandro Iñárritu. Per quanto mi renda conto che si tratta di due film molto diversi, in entrambi il regista si propone di mettere in scena la sua vita e la sua arte.
E, come Iñárritu si è decisamente troppo sbilanciato in una fragile – e pomposa – celebrazione della sua opera, Spielberg ha meglio raccontato la sua passione, lasciando al pubblico il giudizio.
A dimostrazione proprio di come raccontarsi in maniera genuina e senza stare sulla difensiva era non solo fattibile, ma auspicabile…
Una madre (troppo vera)
Come fondamentalmente tutto il film è assolutamente godibile, ho trovato leggermente più pesanti le sequenze dedicate a Mitzi, la madre del protagonista. Più che altro perché la stessa, ad uno spettatore esterno, appare un personaggio molto egoista e di fatto negativo, e non così facilmente perdonabile.
Al contrario, Sam – e di conseguenza il regista – la perdona totalmente.
Sicuramente un indizio del sentimento profondo e sincero di Spielberg verso la madre – fra l’altro venuta a mancare qualche anno fa. Tuttavia, una rappresentazione che ho trovato poco credibile e interessante, con uno scioglimento quasi troppo semplicistico.
Ridiamoci su
The Fabelmans presenta diversi elementi di ironia che scherzano anche su tematiche non facilissime da gestire: la morte e l’ebraismo.
Si ironizza facilmente e in maniera molto genuina sulla morte della nonna a metà film, e altrettanto sulle tradizioni ebraiche e le loro stranezze – che appaiono tali a chi non ne fa parte. Sulla stessa linea, appaiono quasi grotteschi – ma molto credibili – i comportamenti dei compagni di scuola di Sam verso la sua religione, l’assurda relazione con Monica, l’esilarante personaggio del prozio Boris…
Oltre a questo, assolutamente indovinata la scena su del colloquio con John Ford, con una simpatica trovata metanarrativa a chiusura della pellicola.
Ready Player One (2018) di Steven Spielberg, benché non sia stato forse l’incredibile successo economico che ci si aspettava, è diventato in poco tempo un piccolo cult.
Terra, 2045. Wade vive in un mondo che da decenni ha una sola ossessione: OASIS, un gioco multigiocatore il cui solo limite è la fantasia…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Ready Player One?
In generale, sì.
Ready Player One è uno spettacolo per gli occhi, uno dei migliori progetti artistici ad alto budget degli ultimi anni, fra l’altro diretto con grande precisione ed eleganza da un regista del calibro Spielberg, che omaggia una pop culture che lui stesso ha contribuito a formare.
Tuttavia, il grande problema di questo film è la sua ossessione nel voler sminuire il mondo dei videogiochi e della realtà digitale, insistendo su come le stesse siano esperienze irreali e per questo poco significative, utilizzando fra l’altro motivazioni piuttosto triviali…
Insomma, da vedere, ma preparati.
Finzione
Il mondo di OASIS è spettacolare.
La sequenza iniziale – così come quella finale – è uno dei migliori esempi di utilizzo consapevole della CGI, impreziosito da una regia attenta e precisissima, riuscendo a portare in scena una sequenza piuttosto affollata e apparentemente confusionaria in maniera chiara e comprensibile.
E bastano poche righe di sceneggiatura per raccontare le informazioni essenziali del mondo in cui la storia si muove, senza andarsi a perdere in una mitologia troppo complessa, ma invece introducendo gradualmente i diversi elementi in gioco.
In particolare, davvero indovinata la rappresentazione della morte degli avatar all’interno del gioco, con un’esplosione non solo di monetine, ma, come si vede nel finale, anche di tutti gli oggetti accumulati negli anni dal giocatore.
Ancora più incredibile è il character design semplicemente splendido dei diversi personaggi, che riescono a ricalcare l’aspetto reale degli attori con degli avatar che già da soli rappresentano uno splendido omaggio alla cultura pop.
E non è finita qui.
Quest
Il film sarebbe già stato perfetto per la sua fantastica resa del mondo di gioco.
Ma la trama è persino impreziosita da un mistero intrigante ed avvincente, che si sviluppa all’interno di una quest piuttosto classica, ma che racconta la genuina passione degli autori per il tema fondante della pellicola.
Personalmente la mia tappa preferita è la prima: pur nella sua semplicità, mi colpisce sempre per la brillantezza della quest e della sua risoluzione, che riesce a ricalcare una sequenza già splendida – la corsa – ma riproponendola in una veste nuova e per nulla scontata.
Non meno splendidamente realizzata la seconda quest, dedicata a una rilettura di Shining (1980), che utilizza l’escamotage del personaggio ignorante sulla materia per riproporre in una veste nuova alcuni degli elementi più iconici del film.
Così l’ultima tappa è uno splendido omaggio ad uno degli elementi a tratti più avvincenti dell’esperienza videoludica: scovare gli easter egg nascosti, la cui scoperta è talvolta effettivamente più intrigante della banale vittoria contro il boss di turno.
DaIl gigante di ferro(1999) a Animal House(1978), da colossi del mondo videoludico – almeno al tempo – come Overwatch e Mario Kart fino a cult imprescindibili come Gremlins (1984) e Akira (1988), il film è un enorme omaggio alla cultura pop.
Ed è un omaggio che, nonostante l’affollamento di citazioni, non appare mai forzato o eccessivo, ma perfettamente integrato all’interno della narrazione, con elementi ora centrali alla scena, ora sapientemente relegati nelle sue retrovie.
E non è cosa da poco.
E proprio per questo un dubbio mi sale…
Gioco…
È solo un gioco?
Davanti ad una costruzione così articolata, all’omaggio per nulla scontato, anzi quasi alla celebrazione della cultura pop e videoludica, mi ha sempre stranito quanto Ready Player One sembri odiare il mondo che porta in scena.
O, almeno, se non odiare, quantomeno profondamente sminuire, insistendo su un’idea veramente vetusta per cui i videogiochi – e il mondo virtuale in genere – siano un’esperienza irreale, che deve rimanere confinata al semplice passatempo.
Insomma, all’esperienza videoludica prima maniera.
Discorso che avrei potuto accettare forse negli Anni Ottanta e Novanta, ma che oggi quanto nel 2018, in una realtà così variegata e in continua ascesa, con alcuni titoli videoludici che rivaleggiano col cinema stesso, mi sembra un’idea davvero superficiale e superata.
Per questo mi disturbano profondamente gli ultimi due atti, in cui si cerca di sottolineare quasi ossessivamente la differenza fra realtà e finzione, come se un nome da noi creato online non ci potesse definire, come se i rapporti del protagonista non fosse già profondi ed importanti anche prima di incontrare nella realtà i suoi amici…
Villain
Secondo questo concetto, il villain è uno degli elementi più deboli della pellicola.
Il suo ruolo è definire in maniera netta la differenza fra un mondo videoludico – e digitale – passato e quasi privo di interessi economici, e una realtà futura – e in qualche modo ormai presente – ingoiata dalla pubblicità eguidata unicamente dal profitto.
In questo modo, il film rimane su un piano veramente semplice e ingenuo, non presupponendo neanche la possibilità di una serena via di mezzo, fra l’azienda assassina che crea campi di concentramento e un mondo digitale senza regole.
Allo stesso modo, la storyline dedicata alla sconfitta del villain l’ho trovata poco interessante, in quanto basata su schemi narrativi piuttosto classici, provenienti proprio dai tanto sospirati Anni Ottanta-Novanta, risultando però così l’elemento meno indovinato del film.
Tanto più che la storia di Sorrento, anche nella sua semplicità, non ha il coraggio di compiere il passo decisivo verso una riflessione più profonda riguardo alla penetrazione delle aziende all’interno del mondo dell’intrattenimento.
Ed è un’importante mancanza.
Realtà?
La visione nostalgica di Ready Player One l’avrei anche potuta accettare se avesse fatto un passo in più verso una riflessione più sentita e contemporanea, invece che ridurre il tutto ad uno stereotipo piuttosto superato del nerd senza una vita sociale.
Infatti, se nel finale il film mi avesse raccontato che la sospensione settimanale dell’accesso ad OASIS fosse finalizzata a ricreare la comunità, a ricostruire le città distrutte, a smuovere il governo verso investimenti lungimiranti, sarebbe stato anche uno spunto riflessivo interessante…
…invece la messinscena e la sceneggiatura sembrano ridurre il tutto al protagonista che diventa più sessualmente intraprendente, andando a sanare la colpa di James Halliday, con una eloquente chiusura della pellicola su Wade e Samantha che si baciano appassionatamente.
Insomma, due protagonisti sono infine concentrati solo sulla loro piccola realtà, ma del tutto ignari di tante persone intorno a loro che potrebbero per i più svariati motivi – distanze fisiche incolmabili, disabilità… – non poter sentire per due giorni i loro più cari affetti…
…non potersi svagare da una realtà magari irrimediabilmente angosciante.
Requiem for a dream (2000) è forse l’opera più profondamente sperimentaledi Darren Aronofsky.
A fronte di un budget molto contenuto – 4,5 milioni di dollari – non fu un grande successo commerciale, con appena 8 milioni di incasso.
Di cosa parla Requiem for a dream?
Harry è un tossicodipendente che sembra vivere la vita perfetta piena di eccitazione e pericolo. Ma il dramma è dietro l’angolo…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Requiem for a dream?
Sì, ma…
Requiem for a dream è un film splendidamente scritto e diretto, con una tecnica incredibilmente sperimentale e una rappresentazione degli USA dei primi Anni Duemila piuttosto disincantata e tragicamente realistica.
Tuttavia, è anche un progetto per lunghi tratti estremamente disturbante, proprio nel suo spietato realismo, che però lavora molto più sul trasmettere emozioni che sul mostrare contenuti espliciti e scioccanti.
Insomma, da vedere, ma arrivandoci preparati.
Sogno
Inizialmente Requiem for a dream sembra effettivamente un sogno.
Per quanto ci siano delle piccole crepe nel rapporto fra Harry e la madre, in realtà la donna gli vuole talmente bene da derubricare i suoi continui furti per comprarsi la droga a delle marachelle di quello che, purtroppo, è il suo unico figlio – e unico affetto ancora vivo.
E così Harry continua a fare uso di stupefacenti che rendono ancora più eccitante e quasi onirica la storia d’amore con Mary: i due appaiono sulle prime come una coppia giovane e immacolata, che vive fra la droga e le sciocche ragazzate.
Momenti impreziositi da una regia incalzante e frenetica, perfetta per raccontare l’immediatezza dell’eccitazione data dall’uso dell’eroina, che appena entra in vena rilassa, eccita, emoziona.
Ma è un sogno fragile.
Vuoto
Harry e Mary non sono solo dipendenti dalle droghe.
Più la storia prosegue, più appare evidente come i due siano ingenuamente immersi in un sogno che non sembra aver fine, avendo vissuto solamente del lato più eccitante e travolgente dell’esperienza…
…ma ignari di vivere in una realtà estremamente provvisoria, in quanto del tutto dipendente dalla presenza dell’ingrediente magico – l’eroina – che da un momento all’altro può uscire dalle loro vite, costringendoli a esperire un costante senso di vuoto.
Ma la caduta è progressiva.
Convinti di dover solo momentaneamente rimediare all’assenza della droga, Harry spinge Mary nelle braccia di un uomo che da sempre voleva approfittarsi di lei, in cambio dei soldi ormai necessari per ripristinare il sogno perduto.
Tuttavia, la complicata situazione politica dello spaccio rende la vicenda sempre più difficoltosa, la droga sempre più introvabile, e i modi per ottenerla sempre più disperati e umilianti.
Ma l’eroina non è l’unica droga.
Vincente
Anche se inconsapevolmente, Sara è dipendente dalla televisione.
O, meglio, dal sogno del vincente che la televisione propone.
In maniera non tanto dissimile ai cori animaleschi che inciteranno Mary sul finale, la televisione è un mondo magico, i cui protagonisti – i vincenti – diventano modelli da seguire, acclamati da un pubblico festante e incontenibile.
E, proprio quando Sara ha la possibilità di mettere piede in quel mondo, si rende conto di non averne i requisiti.
Segue così una drammatica caduta nel precipizio della diet culturee della società dell’apparire, prima costringendosi alla fame per una dieta impossibile, poi diventando dipendente da pillole miracolose, che assume via via in maniera sempre più disordinata ed ossessiva.
Uno slancio sempre più disperato verso un sogno da cui infine si aliena, finché quell’alter ego perfetto per lo schermo viene a fargli visita, deridendola apertamente perché non adatta ad essere una vincente, ma invece perfetta per essere l’oggetto del ludibrio generale.
Aiuto
I personaggi di Requiem for a dream sono irrimediabilmente soli.
Potente e spietata in questo senso la critica al sistema sanitario statunitense, incapace di aiutare persone che hanno così evidentemente bisogno d’aiuto, prima spingendo Sara a cure sempre più drastiche e destabilizzanti…
…poi ignorando del tutto le richieste sia di Harry che di Tyrone, se non all’ultimo momento, quando l’unica soluzione rimasta è l’amputazione, e quindi, più in generale, l’eliminazione dell’individuo scomododal tessuto sociale.
Paradossalmente, la persona che viene più aiutata è Mary.
Totalmente lasciata da sola nella sua dipendenza e ossessione, alla ragazza non rimane che contattare il suo prossimo carnefice, che intuisce subito la possibilità di utilizzare questo corpo a suo piacimento, in quanto possessore dell’unica cosa di cui ha bisogno.
Così, nel disturbante quanto elegante montaggio finale, si racconta il sofferto e distruttivo punto di arrivo dei protagonisti, in cui spicca una Mary del tutto succube dalla folla di animali per cui si sta esibendo, ma infine rannicchiata felice che stringe come un feticcio il panetto di droga…
…proprio come Sara, ormai persa nel sogno del successo mai arrivato, e, forse, mai veramente possibile.
The Marvels (2023) di Nia DaCosta è il sequel di Captain Marvel(2019).
A differenza del primo capitolo, la pellicola è stata un pesante flop commerciale: con budget di circa 220 milioni di dollari, ha incassato appena 206 milioni in tutto il mondo…
Di cosa parla The Marvels?
Per uno strano incrocio di eventi e destini, Carol Danvers, Monica Rambeau e Kamala Khan si ritrovano coinvolte in un’avventura per la salvezza della galassia…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere The Marvels?
Dipende.
Di per sé The Marvels è un film di qualità medio-bassa per l’MCU: non arriva ai picchi di orrore di Ant-Man and the Wasp: Quantumania (2023), ma al contempo è del tutto evidente come sia un prodotto piuttosto scarso – per scrittura, finalità e montaggio.
Da persona che si è lasciata per anni facilmente coinvolgere nell’umorismo anche molto sempliciotto targato Marvel, sono rimasta piuttosto fredda, anzi quasi imbarazzata, davanti ai tentativi di rendere simpatici e affabili due personaggi così freddi e seri come Carol Danvers e Monica Rambeau.
Ma l’errore più grande di questa pellicola è indubbiamente il suo sconvolgente gatekeeping: pur avendo visto entrambi i prodotti introduttivi dei personaggi – Wandavision (2021) e Ms. Marvel (2022) – mi sono ritrovata comunque confusa dalla totale mancanza di una reintroduzione degli stessi.
E se ero confusa io, posso solo immaginare come si sia sentito chi non sa neanche di chi si sta parlando…
Diversa
Carol appare fin da subito diversa.
Se il suo personaggio aveva preso una direzione caratteriale inedita fin dalla post-creditdi Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli (2021), in The Marvels è fin da subito presentata come molto più ironica,affabile, pasticciona.
E così anche per il modo di vestire: se nel primo film prediligeva colori scuri e decisi, in questo caso opta per un abbigliamento molto più simpatico, quasi ironico, che ha il suo picco nella molto discutibile scena in cui diventa una principessa.
Un tentativo che si sposa perfettamente con tutte le difficoltà sia di riproporre in maniera vincente questo personaggio sullo schermo, poco spendibile sia a livello caratteriale – all’inizio appariva fredda e distante – sia per i suoi poteri spropositati.
Ma più che un tentativo di cambiamento,è un tentativo di adattamento.
Uniformare
In The Marvels, Carole deve essere sempre meno simile a sé stessa…
…e sempre più vicina a Ms. Marvel.
La serie di Kamala Khan è il punto di riferimento per il taglio della pellicola – o, almeno, il taglio che la pellicola avrebbe voluto avere– cercando di rendere il più possibile ironiche e divertenti le scene di combattimento quanto di team building.
Si passa così dall’assurdità del primo scontro – con lo scambio continuo ed imprevedibile fra le tre protagoniste – alle scene di training del terzetto, fino a momenti fra il comico e il grottesco di Goose e la sua famiglia che divorano l’equipaggio…
E se questo cambiamento tutto sommato potrebbe pure funzionare grazie alle capacità attoriali di Brie Larson, lo stesso non si può assolutamente dire per Monica Rambeau, personaggio nato in un contesto estremamente drammatico – ricordato anche nella pellicola…
…e i cui gli accenni comici – come quando non vorrebbe volare per salvare Ms. Marvel – mal si adattano alla figura più fuori luogo del terzetto: per quanto ci si sforzi in quella direzione, purtroppo il personaggio di Teyonah Parris è totalmente agli antipodi rispetto a Ms. Marvel.
Elemento che aggrava ancora di più il gatekeeping selvaggio della pellicola.
Ostacolo
The Marvels èuna pellicola davvero poco accessibile.
Che sia per via di tagli in fase di post-produzione, che sia per una visione ormai tramontata di stretta connessione fra serie tv e cinema, in ogni caso il pubblico generalista si è trovato totalmente spaesato davanti a due personaggi di cui non sapeva nulla.
Discorso meno grave per Ms. Marvel, di cui quantomeno si recupera il taglio ironico e la regia frizzante ed originale della sua serie di riferimento, nonché le simpatiche dinamiche familiari – anche se le stesse, senza aver visto la serie, risultano molto meno godibili.
Monica Rambeau è invece un mistero.
Oltre alla già citata difficoltà di adattare un personaggio così drammatico ad un contesto così fortemente ironico, si aggiunge la totale mancanza di reintroduzione del suo personaggio, con pochi accenni alle dinamiche di Wandavision e un maggiore focus sul rapporto con Carol.
Tuttavia, trovo piuttosto ingenuo sperare di coinvolgere emotivamente lo spettatore con un collegamento così debole, riferito non solo ad un film di diversi anni fa, ma soprattutto ad un personaggio che, per ovvi motivi, in Captain Marvel era interpretato da un’altra attrice.
E non è neanche l’aspetto peggiore della pellicola.
Quota
L’elemento più incomprensibile, anzi genuinamente ridicolo di The Marvels, è il suo villain.
Nonostante l’MCU abbia raramente brillato per i suoi antagonisti, in questo caso il villain di Captain Marvel aveva un’importanza non da poco, in quanto doveva giustificare i decenni di assenza della protagonista dall’universo cinematografico.
Purtroppo, la vicenda raccontata è ben poco efficace, e anzi toglie valore alla storia stessa di Captain Marvel, i cui problemi sembrano sostanzialmente limitati ad uno dei tanti mondi che avrebbe liberato dall’Intelligenza Suprema.
Ma il villain diventa praticamente parodistico per l’interpretazione dell’attrice, Zawe Ashton, costantemente sopra le righe, inutilmente eccessiva a dei livelli tali che è incredibile come non sia stata candidata ai Razzie Awards.
Per il resto, il villain si integra nella costante mediocrità del film, proponendo una motivazione banale e già ampiamente esplorata, e a cui la pellicola non sembra neanche particolarmente interessata, concedendogli un minutaggio abbastanza limitato.
The Marvels Post credit
È molto triste constatare che l’elemento più interessante di The Marvels è la sua post-credit.
Nella prima scena si introduce un progetto che era ipotizzato ormai da molto tempo, ovvero gli Young Avengers, composti da Ms. Marvel, Kate Bishop, Cassie Lang, nonché probabilmente i figli di Wanda Maximoff.
Ma la sequenza più interessante è indubbiamente l’ultima, in cui finalmente si introducono gli X-Men: in un universo parallelo, in cui Maria Rambeau ha preso i poteri di Captain Marvel – Binary – appare una versione alternativa di Bestia dell’Universo Fox.
Dove si colloca The Marvels (2023)?
Vista la quantità di personaggi presenti,The Marvels si colloca in maniera abbastanza precisa nell’universo MCU.
Il film è ambientato nell’autunno del 2025, subito dopo Ms. Marvel – a cui si collega direttamente – e Hawkeye (2021) – che era ambientato nel Natale del 2024 – e probabilmente anche dopo Secret Invasion (2023).
La pellicola si colloca nella Fase 5 e nella Saga del Multiverso.
Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck è stato uno dei più grandi successi commerciali dell’MCU – che fosse per il personaggio o per la vicinanza ad Endgame (2019), è ancora un mistero.
Vers fa parte della Starforce, una potente squadra di nobili guerrieri dell’impero Kree. Ma niente è quello che sembra…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Captain Marvel?
Dipende.
Già al tempo dell’uscita fu piuttosto palese che Captain Marvel fosse niente più che un film molto medio dell’MCU, con un ottimo reparto tecnico – viene da piangere se confrontiamo la CGI di questo film con quella di Secret Invasion (2023) – e una struttura abbastanza classica.
Appare altresì piuttosto evidente, soprattutto ad una revisione ad anni di distanza, quanto la pellicola vada incasellata all’interno delle nuove tendenze del cinema post-metoo, con una Marvel che propose un film bandiera per far vedere di essere dalla parte giusta...
…finendo per produrre un prodotto estremamente vuoto e fine a sé stesso.
Costretta
L’incipit risulta molto più eloquente a visione conclusa.
La protagonista si trovafra due fuochi – il suo caposquadra e allenatore, Yon-Rogg, e la Suprema Intelligenza con un aspetto misterioso – accomunati dalla volontà di limitarla nell’espressione dei suoi poteri e del suo potenziale.
Ma, oltre ad essere frustrata, Vers è totalmente indottrinata dalla propaganda politica dell’Impero Kree, che vorrebbe schiacciare totalmente il popolo degli Skrull – il quale, sulle prime, appare infatti piuttosto ostile ed intrigante.
Una situazione iniziale che metanarrativamente racconta tutt’altro.
La condizione della protagonista vorrebbe in altri termini rappresentare la situazione di donna media all’interno della società in cui vive, la quale cerca costantemente di soffocare le sue potenzialità e di tenerla sotto controllo, tramite una propaganda spicciola e pressioni sia fisiche che psicologiche.
Questa volontà così squisitamente politica finisce involontariamente per depotenziare la protagonista stessa, che manca totalmente di un arco evolutivo, fondamentale in ogni origin storyper rendere l’eroe interessante e vicino allo spettatore.
Limitata
In altre parole, Captain Marvel è un personaggio totalmente fine a sé stesso.
Carol Danvers è infatti una figura già arrivata, che non deve veramente affrontare nessuna sfida fondamentale per diventare effettivamente un’eroina, ma il cui punto di arrivo è semplicemente la scoperta del suo vero potenziale.
Ma, nel frattempo, pur subendo le costrizioni imposte dai Kree, la protagonista è comunque un personaggio potente ed irriverente, i cui errori sono sostanzialmente inutili nell’economia narrativa, vista la facilità con cui li risolve…
…risultando così talmente perfetta da apparire per questo fredda, distante, potendo soddisfare solamente le necessità immediate del basso ventre del pubblico di quel periodo, ma rendendola sostanzialmente un personaggio senza futuro.
Non a caso, il film stesso si affretta a spiegare retroattivamente e in più momenti la mancata presenza del personaggio nelle avventure degli Avengers fino a quel momento, risultando però, in ultima analisi, ben poco credibile.
Importanza
Captain Marvel non è un personaggio importante.
Neanche il tempo di essere introdotta, Carol Danvers fu messa immediatamente da parte nel film successivo: in Endgame ritorna solamente alla fine della battaglia, risultando comunque l’elemento meno interessante della scena, quasi un deus ex machina.
A posteriori, insomma, Carol Danvers rappresenta la poca lungimiranza dell’MCUpost-Endgame, proprio nella scelta di introdurre un personaggio ben poco riutilizzabile, che non conquistò il cuore del pubblico, ma che anzi venne sempre più odiato negli anni.
E risulta particolarmente sconfortante che il primo personaggio femminile protagonista di un film dell’universo cinematografico ottenne una gestione così ingenua e superficiale, capace, come detto, solamente di guardare alle necessità immediate del pubblico…
…e invece totalmente incapace di costruire un’eroina tridimensionale e sfaccettata, della cui storia avremmo potuto appassionarci nei film successivi, portando invece ad un’icona vuota, che diventerà la futura protagonista di uno dei più pesanti flop della Marvel.
Contorno
Paradossalmente, la parte più interessante di Captain Marvel è il suo contorno.
Se infatti mettiamo da parte le sequenze prettamente dedicate alla protagonista, il film è una spy story anche piuttosto intrigante nelle sue dinamiche – ovviamente dimenticandoci da come queste siano state in seguito mal sfruttate in Secret invasion…
In particolare, il personaggio che rimane più positivamente impresso è il giovane Fury, che rappresenta anche la linea comica della pellicola, assolutamente necessaria a fronte del carattere così freddo e insapore della protagonista.
Meno convincente invece, come detto, il tentativo di incasellamento e di importanza retroattiva per questo film, in particolare nello smaccato tentativo di collegare direttamente il personaggio agli Avengers.
Per questo a mio parere sarebbe stato molto più intelligente creare una storia di maturazione realistica e coinvolgente – come poteva essere quella del poco precedente Spider-Man: Homecoming (2017) – anche sacrificando il collegamento diretto con l’universo di appartenenza.
Dove si colloca Captain Marvel (2019)?
Captain Marvel si colloca nella preistoria dell’MCU: essendo ambientato nel 1995, volgarmente potremmo dire che si trova fra Captain America (2011) e Iron Man (2008).
E, proprio come il primo film di Steve Rogers, entrambe le post-credit collegano il film ad Avengers: la prima direttamente al successivo Endgame, la seconda – anche se più alla lontana – a The Avengers (2012)
Anche se alcuni folli consigliano, nella visione cronologica dell’MCU, di guardarlo dopo il film sul primo vendicatore, Captain Marvel è uno degli ultimi titoli dell’affollata Fase 3, conclusiva della Saga dell’Infinito.
The Holdovers (2023) di Alexander Payne è stata la grande rivelazione della stagione dei premi 2024, facendo incetta di riconoscimenti.
A fronte di un budget di circa 70 milioni, si sta purtroppo rivelando di un grande insuccesso commerciale, con appena 30 milioni di incasso…
Candidature Oscar 2024 per The Holdovers (2023)
in neretto le vittorie
Miglior film Miglior sceneggiatura originale Migliore attore protagonista a Paul Giamatti Miglior attrice non protagonista a Da’Vine Joy Randolph Miglior montaggio
Di cosa parla The Holdovers?
Paul Hunham è un bisbetico professore di un collegio, che si trova a dover gestire un gruppo di adolescenti durante le vacanze natalizie…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere The Holdovers?
Assolutamente sì.
The Holdovers è stata una piccola scoperta di quest’anno, per una commedia piacevolissima ed estremamente irriverente, che però riesce a rimanere sempre con i piedi per terra e a non scadere mai nel facile dramma – per quanto ce ne fossero tutti i presupposti…
Paul Giamatti e la stella nascente Dominic Sessa sono una coppia irresistibile in una storia agrodolce e che non manca di interessanti colpi di scena, oltre ad una morale di fondo che per lunghi tratti mi ha ricordato L’attimo fuggente(1989).
Insomma, da non perdere.
Dominic Sessa The Holdovers
Nonostante cerchi di raccontarsi diversamente, Angus è un emarginato.
Fin dalla sua prima apparizione ci troviamo davanti un personaggio che cerca costantemente di fare il gradasso, riempiendosi la bocca di battute cattive e taglienti, proprio per mostrarsi ribelle, sfacciato, senza freni.
In realtà questa apparente ribellione è un disperato grido d’aiuto di un giovane che non riesce a trovare un posto in un mondo che sembra costantemente respingerlo – eproprio quando avrebbe più bisogno di essere accolto…
E questa sua solitudine lo rende ancora più cattivo.
Sarebbe superficiale derubricare il suo accanirsi contro Teddy come una reazione semplicemente al comportamento spaccone del suo compagno – sopratutto nel suo prendersela con i più deboli.
In realtà, evidentemente Angus sfoga la sua frustrazione dell’essere stato abbandonato dalla sua famiglia su quello che sembra il bersaglio ideale, proprio per definirsi in opposizione.
Angus The Holdovers
Infatti, dopo aver millantato di non essere uno degli sfigati che rimangano al collegio e di avere davanti a sé una vacanza favolosa, quando Angus riceve quella terribile telefonata dalla madre non è triste solo perché non può godere del winter break…
…ma piuttosto perché si sente abbandonato dalla sua famiglia.
Per questo, quando se la prende con Teddy, quando gli sputa in faccia parole di rara cattiveria – i tuoi genitori non ti vogliono, la ristrutturazione è solo una scusa – non fa altro che raccontare il dramma interiore che sta vivendo.
Una situazione tanto più grave quando il protagonista ha finalmente l’occasione di sfuggire all’incubo del collegio, ma la madre ancora una volta è assente e incapace di stargli accanto proprio quando ne avrebbe più bisogno.
Angus The Holdovers
Da questa situazione scaturisce una ribellione ancora più violenta.
Ritrovandosi come l’unico ragazzo veramente abbandonato dalla sua famiglia, Angus sceglie di prendere di petto quell’insopportabile adulto che cerca, come tutti gli altri, di domarlo invece che comprenderlo.
La sua ribellione si spinge fino all’autodistruzione, al dolore fisico, che ha il suo picco nella scena dell’ospedale: l’urlo straziante in cui Angus esplode non è altro che una rappresentazione effettiva della disperazione che lo sta divorando.
Ma da questa occasione scaturisce anche qualcos’altro.
Anche se apparentemente il protagonista è solo un attaccabrighe, già prima aveva dimostrato di essere molto più di buon cuore di quanto sembrasse – aiutando il povero ragazzino che aveva sporcato il letto.
Questa bontà si riflette anche in diversi momenti con Paul, con cui intreccia uno strano rapporto – diventa prima suo figlio, poi suo nipote – scegliendo in più momenti di aiutarlo e reggergli il gioco.
Angus è insomma alla ricerca di un padre
La perdita del genitore è infatti devastante su due fronti: da una parte, il ragazzo ha visto la sua famiglia andare in pezzi, proprio durante i momenti fondamentali della sua crescita – da cui la sua discontinuità nel frequentare la scuola.
Come se questo non bastasse, nell’esplosione di violenza e di irragionevolezza del genitore, in Angus è scaturita una paura quasi altrettanto illogica, ma inevitabile: diventare come suo padre.
Per questo infine Paul riesce a salvarlo.
Proprio quando Angus si trova ad un passo dalla totale distruzione, da quella svolta – passare ad una scuola militare – che lo annienterebbe e gli farebbe perdere definitivamente sé stesso…
…il professore ne prende sorprendentemente le parti, anzi si rende protagonista di quella colpa che colpa non è – il desiderio di vedere il padre – e gli offre una fondamentale seconda occasione per riscattarsi.
Paul Giamatti The Holdovers
La personalità di Paul sembra chiara fin dalla prima scena.
Un insegnante bisbetico e insostenibile, il classico bersaglio delle più crudeli dicerie e prese in giro, che non sembra fare il minimo sforzo per farsi benvolere – anzi, esattamente l’opposto.
Come se non bastasse, il personaggio di Giamatti si rifiuta di sottostare a qualunque tipo di diktat, che questo venga dalle pressioni politiche dei facoltosi genitori dei suoi studenti, o dai suoi stessi colleghi e superiori.
Insomma, la sua solitudine sembra inevitabile.
Infatti, in qualche modo Paul si è arreso.
Cresciuto in un mondo perennemente ostile – il padre opprimente, il classismo castrante – il professore ha scelto di rispondere alla violenza con una violenza anche peggiore…
…sia protestando con furia contro l’assoluta ingiustizia di essere incolpato dallo stesso colpevole, sia cercando il più possibile di mettere in riga i suoi studenti, non riuscendo però così a trasmettere loro quegli insegnamenti fondamentali di cui potrebbe farsi portatore.
Il confronto con Angus è indicativo in questo senso.
Nonostante Paul cerchi costantemente di punzecchiarlo, il ragazzo a sorpresa parla la sua stessa lingua, riesce a capire i sottili riferimenti dei suoi discorsi e comincia a scavare nella personalità di questo personaggio apparentemente così bidimensionale.
Ne emerge un uomo che sembrava destinato ad essere solo – per la puzza, per il suo aspetto poco attraente – e a non riuscire ad avere il suo riscatto sociale neanche quando viene incoraggiato a farsi avanti con la dolce Lydia.
Paul Giamatti The Holdovers
In realtà, la fuga dalla Barton Academy è la sua vera vittoria.
Paul vede moltissimo di sé stesso nel suo giovane ed improbabile compagno di viaggio: la problematicità della figura paterna, il desiderio di ribellione, l’essere ad un passo dall’autodistruggersi...
E invece, affrontando di petto i genitori di Angus, il bisbetico professore li mette finalmente davanti alle loro colpe, e finalmente si libera da quella gabbia dorata in cui si era rifugiato.
Infatti, Paul si era rintanato all’interno di un comodo guscio in cui poter essere riconosciuto per la sua bravura di insegnante, e, al contempo, grazie al quale ha potuto insabbiare la vergogna di non aver mai ottenuto quel riconoscimento accademico che evidentemente si meritava.
Ma, lasciando il collegio, Paul offre un importante insegnamento ad Angus quando a sé stesso:
Da’Vine Joy Randolph The Holdovers
Mary non vuole essere una vedova.
La donna sta soffrendo profondamente, come si nota dai suoi primissimi sguardi che vagano intorno al collegio, alla ricerca del volto di quel figlio che gli è stato così ingiustamente strappato.
Ma non per questo vuole la pietà di nessuno: più volte si rifiuta di essere al centro della facile commiserazione degli altri personaggi, persino quando ha un comportamento totalmente fuori controllo ed evidentemente bisognoso di cure.
Ma il percorso di Mary è il più costruttivo.
Nonostante il destino abbia deciso che non potesse avere né un compagno né un figlio, la donna trova il suo riscatto nell’aiuto degli altri, pur con un atteggiamento più severo e ammonitore che materno.
Da un breve sguardo del rapporto con la sorella incinta, si può intuire che Mary le stia donando i vecchi vestiti da neonato del figlio defunto, proprio per investire su quella nuova vita in arrivo.
Mary The Holdovers
Inoltre, per quanto la donna sembri un personaggio di contorno, in realtà è una figura essenziale per il rapporto fra Paul e Angus: in tutti i momenti in cui il professore si spazientisce con il ragazzo e lo punisce ingiustamente, Mary è sempre la voce della ragione.
Se non fosse stato per lei, infatti, probabilmente Paul non si sarebbe mai reso conto della sua cattiveria immeritata contro il ragazzo, né avrebbe fatto quei timidi sforzi nella sua direzione – il viaggio a Boston quanto l’albero di Natale.
E infine Mary diventa un supporto diretto per Angus, offrendogli un conforto fisico che probabilmente il ragazzo non riceveva da tempo, per quanto in diverse occasioni si fosse dimostrata allergica al contatto con gli altri.
Così, come Paul sfugge dal collegio e da tutto quello che rappresentava, Mary decide infine di non fuggire il suo dolore, ma invece di conviverci, di partire dallo stesso per avviarsi verso un futuro pieno di vita.
Prova a prendermi (2002) è uno spy-movie firmato da Steven Spielberg con un terzetto di attori d’eccezione: Tom Hanks, Christopher Walken e un giovane Leonardo di Caprio.
New York, 1964. Frank è un giovane studente con una certa passione per il role play…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Prova a prendermi?
Assolutamente sì.
Prova a prendermi è una piacevolissima spy-story con un cast di grandi talenti, fra cui spicca un brillante Leonardo di Caprio, che già qui dimostrava le sue incredibili capacità recitative, tanto da riuscire a portare in scena un personaggio estremamente complesso e variegato.
Personalmente ho anche apprezzato che, a differenza del poco successivo The Terminal (2004), in questo caso il film non si perde in un buonismo un po’ fine a sé stesso, non mancando comunque di un finale estremamente appagante.
Insomma, da vedere.
Orme
Le tendenze criminali di Frank sono ereditarie.
Il ragazzo ha passato tutta la sua vita ad osservare, anzi ad essere coinvolto nelle truffe del padre, apprendendo un insegnamento fondamentale: l’apparenza e la convinzione sono la chiave del successo di ogni con artist.
E se si aggiunge la lusinghiera corruzione…
Un gioco che prosegue finché non è il figlio stesso a volersi mettere in gioco, in maniera così brillante e convincente da riuscire a condurre una settimana intera come insegnante, arrivando persino ad organizzare un viaggio scolastico…
Una scelta che dovrebbe essere durante punita dal padre, ma che invece viene promossa con una risata condivisa.
Ma Frank è cieco di fronte a tutto il resto.
Persecuzione
Nonostante Frank Senior si sente come il topo furbo che è riuscito a gabbare il sistema…
…in realtà è affogato nello stesso.
Questa sua passione per le truffe lo porta infatti a distruggere dall’interno la sua famiglia, a vivere sostanzialmente perseguitato dall’IRS, e, soprattutto, a passare un’errata convinzione al figlio, che sente come di poter riscattare la memoria del padre con una truffa nuova di zecca.
Ma il giovane protagonista è ancora più ingenuamente miope davanti alla sensazione del padre di essere costantemente osservato, controllato, di non poter vivere serenamente neanche il regalo di un figlio per paura di essere messo dietro le sbarre…
Ruolo
Per interpretare un personaggio, la preparazione è fondamentale.
Frank si destreggia fra un ampio di ventaglio di ruoli primari e secondari, accettando persino situazioni di estremo disagio – assolutamente fondamentali ai fini narrativi per raccontare anche le debolezze di un protagonista apparentemente così infallibile.
Così comincia con un’importante ricerca sul campo, che lo porta a farsi raccontare da personaggi totalmente ignari tutte le informazioni necessarie per poter prendere parte al primo ruolo – il pilota – scoprendo ogni volta nuovi modi per riscattare assegni sempre più importanti.
Ma se la mascherata del pilota è tutto sommato moralmente innocua, altro discorso è quando il protagonista si finge dottore per farsi assumere in ospedale, in realtà usando la sua posizione come un trampolino per sistemarsi con un matrimonio di comodo.
E, proprio a quel punto, la facciata comincia a cadere a pezzi.
Maschera
Carl è l’unico vero amico del protagonista.
Nonostante infatti cerchi costantemente di mostrarsi circondato da belle donne e da uomini che vorrebbero essere al suo posto, in realtà Frank è un individuo estremamente solo, che non può parlare realmente con nessuno dei suoi veri sentimenti e delle sue paure.
Per questo l’agente dell’FBI, inizialmente gabbato da un inganno assolutamente improvvisato – basato sempre sulla distrazione creata al momento giusto, andando a scavare i più profondi sentimenti e preoccupazioni di chi ha davanti…
…è l’unico che riesce davvero ad inquadrare il protagonista, l’unico che conosce la sua vera faccia, ed anche l’unico interlocutore a cui Frank si rivolge quando si sente del tutto abbandonato a sé stesso, nonostante così si metta costantemente in pericolo…
Prigione
Fino agli ultimi momenti, Frank deve scegliere fra l’essere braccato o l’essere rinchiuso.
E il concetto di prigione nel suo caso è piuttosto ampio.
La galera è sia quella fisica – in Europa o negli Stati Uniti – sia quella provvisoria – l’aereo – sia, infine, gli uffici dell’FBI in cui è costretto a lavorare finché lo stesso Carl non deciderà diversamente – in una condizione che, per quanto molto vantaggiosa, gli appare estremamente angosciante.
In ogni occasione, anche quelle più improbabili e già perse in partenza, Frank tenta comunque la fuga – in particolare dall’aereo, riuscendo a svitare il gabinetto e sfilarsi da sotto al velivolo che sta atterrando…
Per questo nel finale Carl capisce che deve cambiare tattica.
Avendo ormai compreso che, pur dopo quattro anni, Frank sta cercando ancora un’occasione per scappare, l’agente lo intercetta solamente per ricordargli a cosa sta andando incontro – la prigione o una vita come quella del padre, braccato e paranoico – per poi lasciargli la libertà di scelta.
Così una perfetta regia ci accompagna verso un finale che riesce a tenere con il fiato sospeso fino all’ultimo minuto, mostrando infine un Frank che è finalmente riuscito ad essere in pace con sé stesso e ad accettare una vita forse meno eccitante, ma certamente più serena.
The Terminal (2004) di Steven Spielberg rappresenta uno dei titoli più noti della prolifica carriera di Tom Hanks, che aveva già lavorato con il regista statunitense pochi anni prima con Salvate il soldato Ryan(1998).
A fronte di un budget abbastanza importante per il tipo di film – 60 milioni di dollari – fu un ottimo successo commerciale, con quasi 220 milioni di incasso.
Di cosa parla The Terminal?
Viktor Navorski è appena arrivato a New York senza saper parlare quasi una parola di inglese. Le cose si complicheranno quando la sua patria cesserà di “esistere”…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere The Terminal?
In generale, sì.
Nel complesso The Terminal è un film molto piacevole ed intrattenente, che anzi per certi versi affronta temi non semplici da trattare – immigrazione, persecuzione politica, barriere linguistiche – pur qualche semplificazione e ingenuità.
Tuttavia, a mio parere la pellicola si perde leggermente nella sua seconda parte, quando tende a scadere in un buonismo in realtà piuttosto tipico della filmografia di Spielberg di questo periodo, rendendo nel complesso la storia fin troppo semplice e sentimentale nelle sue risoluzioni.
Realizzazione
Prima di farci immergere nella trama, The Terminal dedica qualche minuto iniziale per raccontare la realtà in cui la stessa si muove.
Non un semplice aeroporto, ma una delle più importanti porte d’accesso agli Stati Uniti all’indomani dell’11 settembre, evento che ha cambiato per sempre la burocrazia e i controlli di sicurezza – come raccontato anche nel precedente Minority Report(2002).
Curiosamente all’inizio la pellicola privilegia un taglio comico, giocando sulle difficoltà della barriera linguistica del protagonista, che sembra totalmente inconsapevole di quello che gli sta succedendo intorno.
Per questo la realizzazione è ancora più sofferta.
Quasi per caso, Viktor si trova davanti agli occhi la scoperta della distruzione della sua patria, e comincia così un tragico inseguimento di quelle immagini così poco chiare, eppure così rivelatorie riguardo la sua nuova condizione.
E così anche il suo tentativo di sfuggire da quella gabbia burocratica è del tutto inutile per un uomo senza patria, un individuo solo nel mezzo di una folla, intrappolato in un incomprensibile cul-de-sac.
Inventiva
La bellezza del personaggio di Viktor è la sua inventiva.
Sulle prime il protagonista infatti se la cava praticamente senza alcun aiuto esterno, prima imparando a masticare l’inglese grazie all’ingegnoso utilizzo di due versioni diverse dello stesso libro, poi con il trucco dei carrelli.
E, nonostante i diversi ostacoli lungo la strada, diventa un personaggio chiave per la vita di molti personaggi, riuscendo sia a farsi benvolere dalla classe lavoratrice, sia a sopravvivere all’ambiente ostile dell’aeroporto.
Questo aspetto diventa forse leggermente eccessivo nella seconda parte, quando il protagonista si improvvisa muratore, nonostante a mio parere la sequenza sisalvi per la piacevole comicità che la pervade.
Secondo lo stesso ragionamento, mi ha convinto a tratti il rapporto con gli altri personaggi dell’aeroporto: se sulle prime, ad esempio, il favore di Viktor nei confronti di Enrique è una situazione piacevole e divertente, diventa francamente melenso quando, dopo solo pochi mesi, il personaggio si sposa con Dolores.
Diverso il discorso per il rapporto con Frank Dixon.
Nemico
Il personaggio di Stanley Tucci mi intriga e mi confonde allo stesso tempo.
Se infatti Frank Dixon è indubbiamente un personaggio negativo, superficiale e tirannico, che cerca in ogni modo di rimuovere una figura così intrusiva e ingestibile come Viktor dal suo prezioso aeroporto, anche con trucchi veramente meschini…
…allo stesso modo non mi è chiaro cosa Spielberg volesse raccontare, in quantosarebbe forse troppo idealistico pensare che questo personaggio sia una rappresentazione piuttosto negativa dell’atteggiamento tutto statunitense nei confronti delle minoranze, specificatamente degli immigrati…
Tuttavia, il suo contrasto con il protagonista è l’elemento più funzionante della pellicola.
Nonostante infatti Frank cerchi costantemente di domarlo, Viktor rimane fino all’ultimo un personaggio per lui di fatto incomprensibile, nonostante sia guidato da sentimenti umanitari e patriottici molto semplici ed immediati.
Mi ha particolarmente colpito la scena in cui il capo della sicurezza cerca di convincere il protagonista di non voler ritornare in patria, proprio per le condizioni terribili in cui questa versa, rimanendo sbigottito davanti all’istintiva fedeltà che Viktor dimostra verso il suo paese:
Ma il momento più emozionante è indubbiamente quando il protagonista diventa definitivamente paladino degli ultimi, nella scena in cui riesce a sfruttare la barriera linguistica per salvare un uomo che sta solo cercando di portare le medicine al padre malato.
La situazione si aggrava quando infine Viktor può tornare a casa, ma sceglie di non farlo per portare a termine la missione lasciatagli dal padre, quando finalmente le sue benevole azioni passate gli vengono in aiuto nella forma del supporto collettivo degli altri personaggi.
E proprio qui sta il punto.
Buonismo
L’unico elemento che veramente non mi ha convinto della pellicola è il suo buonismo, nello specifico nella seconda parte.
Era evidentemente necessario offrire allo spettatore un collegamento emotivo semplice ed immediato con il protagonista, così da portare ad un finale emozionante e coinvolgente, in cui Viktor riesce finalmente a dare valore all’eredità del padre.
E se su questo elemento nel complesso posso dirmi soddisfatta, meno mi ha convinto la relazione con Amelia, sulle prime veramente piacevole, alla lunga invece eccessivamente smaccata, con anche una conclusione troncata un po’ anti-climatica.
Per certi versi lo stesso discorso si può applicare alla vicenda di Gupta Rajan, che sceglie infine di sacrificare la propria libertà personale per permettere al protagonista di realizzare il suo sogno, che però è obiettivamente meno importante…
Un semplicismo, insomma, che infine non mi ha lasciato un buon sapore in bocca…
Il potere del cane (2021) di Jane Campion è stato uno dei protagonisti della stagione degli Oscar 2022, pur venendo sistematicamente derubato proprio in quell’occasione…
Il film ha ricevuto una distribuzione limitata nelle sale, con un incasso stimato di circa 270 mila dollari, per poi essere rilasciato direttamente su Netflix.
Di cosa parla Il potere del cane?
1925, Stati Uniti. Rose è disperata dopo la perdita del marito, dovendo gestire da sola un ristorante e con un figlio da crescere. Ma una novità sta per bussare alla sua porta…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Il potere del cane?
Assolutamente sì.
Purtroppo sono estremamente di parte, perché Il potere del cane è uno dei miei film preferiti in assoluto.
Jane Champion confeziona un’opera di una rara eleganza registica e di scrittura, intrecciando una trama enigmatica e complessa, eppure chiarissima da leggere una volta compresi i simboli principali interni alla narrazione.
Una riflessione ambientata in un passato molto oscuro e lontano, ma nondimeno estremamente vicino al presente per molte delle sue dinamiche, in una pellicola che, pur in maniera diversa, presenta una riflessione sulla fragilità del maschile simile a Men (2022).
Insomma, da non perdere.
Opposto
Il primo atto è tanto oscuro quanto diretto.
Si definiscono immediatamente gli opposti– Phil e Peter – nonostante inizialmente il giovanissimo figlio di Rose appaia come personaggio di contorno: il ragazzo sulle prime sembra delicato, fragile, proprio come i fiori di carta che usa per decorare la tavola.
Tuttavia, nonostante Phil cerchi immediatamente di derubricare i suddetti fiori all’identità del personaggio – un maschile femmineo e, per questo, deplorevole – in realtà gli stessi raccontano i tentativi di cura di Peter nei confronti della madre, proprio cercando di abbellire quel mondo sporco e selvaggio in cui sono costretti a vivere.
Ma proprio nei fiori Phil ricerca la sua definizione.
Il suo atteggiamento al riguardo rappresenta il rapporto del personaggio con quello che considera debole – e, spesso, anche femminile: Phil si impadronisce dei fiori, passa il dito all’interno del bocciolo come se fosse una vagina e, infine, li distrugge.
Parallelamente l’uomo addita insistentemente il vero autore del centrotavola, proprio per delineare la fondamentale distanza fra i due: da una parte l’uomo forte e selvaggio – Phil – dall’altra il ragazzino effeminato e fragile – Peter.
Fragile
Il rapporto fra Phil e George si può leggere in due direzioni.
Phil si comporta col fratello in parte con lo stesso atteggiamento che aveva nei confronti di Peter: cerca continuamente di sminuirlo – soprattutto all’inizio lo chiama sempre fatso, grassone – ma, al contempo, anche di avvicinarlo a lui.
Innumerevoli sono infatti i tentativi di riportare la memoria – e il presente – ad un’epoca più felice, più semplice, con dei ruoli di genere molto chiari e stringenti – particolarmente spicca la battuta riguardo alla donna che non si poteva scopare se non aveva un sacchetto in testa.
Ma George non ci sta.
Il più delle volte risponde al fratello e alle sue provocazioni con un disinteressato silenzio, scegliendo piuttosto di parlargli per condurlo verso un mondo più civile e contemporaneo, con un atteggiamento piuttosto sereno, ma nondimeno ammonitore.
Anzi, George in più momenti cerca proprio apertamente di insidiare il comportamento distruttivo del fratello: proprio in quest’occasione, Phildimostra tutta la sua fragilità, particolarmente quando non riesce poi ad essere così gradasso quando il fratello lo ammonisce, dicendogli che ha fatto piangere Rose.
Tramonto
In generale, Phil rappresenta evidentemente un mondo ormai sulla via del tramonto: il mondo dei cowboy, dell’avventura, della vita semplice e materiale, in cui la definizione del vero maschile era incredibilmente semplice ed immediata.
E infatti il suo modo di vestireè l’ultimo baluardo di quell’età d’oro perduta: il suo personaggio predilige un abbigliamento pratico, che non si orna che di pochi vezzi, la cui usura e sporcizia sottolineano ancora di più il suo lato più selvaggio e indomabile – o presunto tale.
Al contrario George, pur andando a cavallo e lavorando all’interno di un contesto rurale, sceglie un abbigliamento molto più elegante e borghese, più urbano, in un contesto storico in cui la modernità rampante stava sempre più strozzando il sogno del far west.
E proprio per questo sceglie di accogliere in questo mondo anche Rose, nella quale trova un’affinità di spirito, mostrandogli un’inedita gentilezza e cura, scegliendo fra l’altro di agire alle spalle del fratello, sfuggendo al suo insostenibile giudizio.
Integrazione
Ma Rose non ha la stessa forza d’animo.
La donna viene insidiata da più parti: anzitutto da Phil, che la disprezza apertamente, che la chiama cheap schemer – squallida calcolatrice – e che respinge i suoi tentativi di avvicinamento, di fatto bullizzandola.
L’uomo trova infatti in questa donna così fragile la preda perfetta della sua meschinità, da cui la vedova è incapace di difendersi, in particolare nella splendida scena del pianoforte, in cui subdolamente Phil risponde alle sue note incerte con la sicura melodia del suo banjo.
Ma, al contempo, Rose non riesce neanche ad integrarsi nel mondo del marito.
Nonostante infatti George cerchi più volte di spingerla – in maniera a tratti quasi assillante – a mostrare il meglio di sé e a diventare la moglie perfetta, Rose respinge più volte e timidamente questi tentativi, particolarmente con la già citata dinamica del pianoforte.
Al punto che, alla cena col governatore e i suoceri, nonostante sia stata tirata a lucido, appare fuori posto sia nel momento in cui servono i drink – rimanendo con in mano il vassoio come una squallida cameriera – sia quando è così insicura da non riuscire a suonare alcunché.
Apparenza
Quando Peter arriva al ranch, sembra essere la nuova preda di Phil.
In realtà fin da subito intravediamo le prime crepe in quell’apparenza del giovane introverso e fragile, in particolare per la dinamica del coniglio: sulle prime sembra che Peter lo catturi per voler far divertire la madre…
…in realtà bastano poche scene per mostrare come il vero interesse del ragazzo per quell’animale fosse di studiarne le interiora, capire cosa nasconde veramente dentro di sé, fra l’altro in maniera brutalmente asettica.
E, proprio come il coniglio, Peter osserva Phil.
Infatti, nella sua apparente timidezza, il giovane nasconde in realtà la sua vera natura da osservatore e macchinatore: assiste prima con amarezza alla condizione ormai delirante della madre, per poi intrufolarsi nel cuore di Phil.
Così scopre le riviste pornografiche omosessuali che l’uomo nasconde, scopre il suo rifugio segreto dove veramente il personaggio si mette a nudo, l’unico luogo dove veramente può ripensare al suo rapporto indubbiamente sessuale col compianto Bronco Henry.
Questa rivelazione sembra così alterare gli equilibri.
Corda
Per la definizione del rapporto fra Phil e Peter, la corda è l’elemento chiave.
La cima sulle prime rappresenta la minaccia subdola nei confronti del ragazzo: nel loro enigmatico dialogo, Phil sembra giocare con la sua preda, senza attaccarla direttamente, ma facendole intendere di star meditando il modo in cui eliminarla.
In realtà è lo stesso Peter che sta giocando con lui: dopo essersi reso protagonista di una piccola passerella per farsi vedere dal resto del gruppo nella sua apparente fragilità, il ragazzo si avvicina a Phil e comincia a compiacerlo in maniera particolarmente subdola.
Infatti, sulle prime gli mostra un rispetto artificioso e irreale, con un tipo di atteggiamento ossequioso del tutto estraneo ai modi rozzi di Phil, non cedendo subito alla richiesta di chiamarlo per nome, ma invece insistendo con questo cerimoniale il tanto che basta da fargli credere di essere totalmente ingenuo ed incapace.
Poi, al momento giusto, comincia invece a cedere ed accettare di chiamarlo Phil, riuscendo così a compiacerlo, facendogli credere di avergli insegnato qualcosa e di aver fatto un passo in più verso il suo mondo.
In questo senso, l’intreccio della corda rappresenta anche l’intreccio del rapporto.
Caccia
Per comprendere il finale, sono due i momenti fondamentali.
Il primo è quando Phil e Peter vanno a fare una cavalcata insieme, e l’uomo lo coinvolge in questo gioco infantile e lugubre dello stanare il coniglio, quasi come se volesse metterlo alla prova.
Proprio in quell’occasione, Peter racconta tutto della sua personalità e delle sue intenzioni, senza che Phil se ne renda conto: prima afferra il coniglio e lo rassicura, poi, con un colpo secco, gli spezza il collo.
Quel coniglio, con la zampa ferita, è esattamente la rappresentazione di Phil che si è ferito la mano, ma che è talmente rozzo e disattento da scegliere di non curarla adeguatamente, lasciando aperto il fianco all’attacco di Peter.
E così, nonostante il ragazzo gli dica anche esplicitamente di essere ben meno fragile di quanto sembri – sia per aver gestito da solo la morte del padre, sia ricordando le parole dello stesso genitore– Phil continua superficialmente a non vedere.
Ruolo
Peter sta ricreando il sogno di Phil.
Prima osserva attentamente l’atteggiamento dell’uomo, ne assorbe i racconti e i significati, e, soprattutto, capisce quello che nessun altro è riuscito prima a capire, a vedere: l’ombra feroce del cane sulle colline.
Un’ombra che può essere letta in due direzioni: il comportamento di Phil, che si nasconde dietro ad un’apparenza fragile e vorace, e il passato di Bronco Henry che l’uomo porta sempre con sé, ma con un significato che non vuole che nessun altro conosca.
E così, quando Peter riesce a vedere quell’ombra che era solo negli occhi di Phil, l’uomo diventa definitivamente la preda della sua macchinazione.
In questo senso, Peter opera per ricreare le condizioni del rapporto con Bronco, in cui prende il ruolo che un tempo era stato del giovane Phil – non a caso lo stesso gli dice che al tempo aveva la sua stessa età – mentre l’uomo diventa il compianto maestro.
Cacciatore
Da bravo cacciatore, Peter deve procurarsi un’arma.
Dall’osservazione di Phil, gli salta subito all’occhio come, nella sua disattenzione, si rifiuti di utilizzare i guanti quando tocca gli animali – si vede in particolare quando castra il toro a mani nude – una scelta particolarmente pericolosa con una profonda ferita sulla mano…
Così, dopo essersi informato sulla causa più comune della morte del bestiame – l’antrace, una malattia infettiva degli animali, che può essere anche trasmessa all’uomo – si avventura per ricercare le carcasse di uno dei bovini infetti.
Ma un cacciatore deve soprattutto cogliere le occasioni.
In questo senso Rose finisce inconsapevolmente per offrire a suo figlio la chiave per la sua stessa salvezza, regalando le tanto amate pelli di Phil agli indiani, rendendo in questo modo l’uomo furioso ed isterico, e, per questo, ancora più manipolabile.
Così Peter si inserisce abilmente in questa situazione, prima ricercando il primo vero contatto fisico con Phil, poi proponendogli un’alternativa – le pelli che ha tagliato per lui – che sancisca il definitivo stringimento del loro rapporto.
Morte
Negli ultimi momenti de Il potere del cane, la corda si arricchisce di significati.
Per Phil ormai la stessa non è più simbolo della morte di Peter, come era nelle sue intenzioni iniziali, ma piuttosto del suggello del loro rapporto, inevitabile nel momento in cui il ragazzo sembra rivelare i suoi veri sentimenti – voglio diventare come te.
Così segue una scena notturna, in cui probabilmente il loro rapporto finalmente si consuma sessualmente, con un Peter piuttosto lusinghiero e ammiccante, che distrarre Phil mentre lo stesso sta fabbricando il suo cappio.
Infatti, una rapida inquadratura sulle mani di Phil immerse nell’acqua rivela come l’uomo stia armeggiando con delle pelli infette quando ancora la ferita della sua mano è aperta e addirittura perde sangue…
Così giorno seguente si apre con un Phil ormai totalmente sconfitto, preda della sua malattia, che veste per la prima volta abiti borghesi – gli stessi che indosserà nella sua bara – e che cerca disperatamente Peter per dargli la corda, simbolo del loro rapporto.
E così finalmente il nemico è stato sconfitto: Phil, il cane, è sottoterra, la corda è riposta sotto al letto, Rose potrà vivere una vita più serena ed integrarsi nella buona società, con un Peter che osserva felicemente dalla finestra della sua stanza la ritrovata felicità della madre.
Il potere del cane significato
Il titolo del film fa riferimento ad un passo dei Salmi:
La prima parte nella Vulgata Latina è piuttosto intuitiva: Sottrai– Erue – la mia anima – animam meam – dalla spada– a framea.
Più complessa invece la seconda parte, in particolare nel significato di unicam meam: letteralmente significa la mia unica, e può far riferimento sia all’anima – l’unica che ho – sia ad un affetto – l’unica donna, affetto, amore che ho.
Immediato invece il significato del passo fondamentale:de manu canis, ovvero dalpotere– mănŭs ha una marea di significati, da azione fino, appunto a potere e violenza – del cane.
Tuttavia, Jane Champion fa indubbiamente riferimento alla traduzione in inglese del passo – anche citata nel film – che prende una strada interpretativa ben precisa:
In questo senso quindi si intende che Peter vuole liberare my darling, ovvero la sua amata e cara madre dal potere del cane, che nella visione biblica rappresenta le pulsioni irrefrenabili dell’animo, proprie di un animale che al tempo era considerato sporco, caotico ed imprevedibile.
Quel cane è infatti proprio Phil stesso, che applica la sua forza, il suo potere prevaricatore su Rose per annientarla – e, senza l’intervento di Peter, ce l’avrebbe anche fatta – con il suo atteggiamento violento e caotico.
Ma, all’opposto, l’uomo viene sconfitto non tramite la stessa forza subdola che lui è solito applicare, ma piuttosto diventando vittima del sottile inganno psicologico di Peter, che lo rende sempre più debole e incapace di difendersi e che, infine, ne determina la morte.