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La battaglia delle cinque armate – Il non finale

Lo Hobbit – La battaglia delle cinque armate (2014) di Peter Jackson è l’ultimo capitolo della trilogia prequel de Il Signore degli Anelli.

E anche, a sorpresa, il capitolo più debole.

Incassò bene, ma perdendo qualche centinaio di milioni lungo la strada: a fronte di un budget di circa 300 milioni di dollari, incassò 956 milioni di dollari in tutto il mondo.

E se consideriamo che il primo capitolo aveva incassato 1,1 miliardi…

Di cosa parla La battaglia delle cinque armate?

Ora che Smaug è stato risvegliato, Laketown teme per la sua salvezza. Ma non è l’unico nemico all’orizzonte…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare La battaglia delle cinque armate?

Ian McAllen Luke Evans in una scena di Lo Hobbit - La battaglia delle cinque armate (2014) di Peter Jackson

Come dire, a questo punto sì.

Nel senso che vale la pena, arrivati a questo punto, concludere la trilogia e vederne il finale. E questo nonostante sia un finale veramente debole, che gioca tanto sul fanservice, in maniera che sul momento mi ha anche colpito.

Tuttavia, ripensandoci, non mi ha lasciato un buon sapore in bocca.

Tuttavia, è stato complessivamente un film abbastanza deludente, molto pasticciato per certi versi, e che mi ha abbastanza nauseato per l’uso poco attento della CGI

Maledetta CGI, ha rovinato la CGI

Benedict Cumberbatch in una scena di Lo Hobbit - La battaglia delle cinque armate (2014) di Peter Jackson

Quando ci troviamo davanti ad un prodotto ambientato in un contesto fantastico è assolutamente normale, sopratutto per le grosse produzioni, che gli ambienti siano totalmente in digitale.

Ma non tutte le CGI sono uguali.

Per esempio, per quanto per me non sia invecchiata perfettamente, il reparto tecnico di Avatar (2009) è ancora oggi molto credibile e, per la maggior parte, invecchiato molto bene alla prova del tempo. Invece la CGI di La battaglia delle cinque armate è talmente un disastro da essere quasi nauseante.

Già l’avevo notato per lo scorso film, ma in questo caso Laketown in fiamme è un vero incubo.

una scena di Lo Hobbit - La battaglia delle cinque armate (2014) di Peter Jackson

E non è neanche tutto il problema.

Al di là degli orchi con una character design poco convincente, i troll che si vedono in alcune scene sono davvero tremendi, da ogni punto di vista.

E sembra veramente la pietra tombale della carriera di Jackson, dal momento che è andato contro la stessa innovazione che aveva portato, basata molto principalmente sugli effetti speciali materiali che quelli digitali.

Ma per questa trilogia, e soprattutto questo capitolo, si è totalmente ubriacato di questa tecnica.

Il dramma di Thorin

Richard Armitage in una scena di Lo Hobbit - La battaglia delle cinque armate (2014) di Peter Jackson

Forse l’unica parte che mi ha veramente convinto di questa pellicola è stata la storyline di Thorin.

Nonostante una messinscena a volte leggermente delirante, ho trovato sia il suo dramma, sia l’interpretazione di Richard Armitage, davvero coinvolgente. La follia di Thorin è il culmine del suo rapporto con Bilbo, l’unico personaggio che riesce effettivamente a salvarlo.

Tuttavia, per quanto sia un elemento trattato in maniera molto interessante, è altrettanto dimenticato per la seconda parte del film, quando la storia del personaggio diventa molto più lineare e prevedibile.

E non è neanche l’unico elemento di chi ci si dimentica…

Liberarsi dei propri personaggi

Richard Armitage in una scena di Lo Hobbit - La battaglia delle cinque armate (2014) di Peter Jackson

Mi ha lasciato alquanto contraddetta la gestione delle morti dei personaggi.

Solitamente in un film, quando si uccidono dei personaggi abbastanza importanti – e soprattutto quando si vuole fare una buona scrittura – si lascia lo spazio per elaborare il lutto e dare in generale importanza alla tragedia avvenuta.

In La battaglia delle cinque armate, per quanto Thorin goda complessivamente di un momento abbastanza toccante, lo stesso non si può dire del resto dei suoi compagni, che sembrano morire come mosche, senza che agli sceneggiatori interessasse così tanto…

…oppure sono stati incapaci di raccontarcelo.

E ho trovato particolarmente grave che ci sia una scena come quella di Gandalf e Bilbo sulle macerie, che non trasmette un briciolo della tragicità che dovrebbe (o vorrebbe).

Ma la parte veramente grave arriva prima.

L’epopea dei cinque minuti

Evangeline Lilly in una scena di Lo Hobbit - La battaglia delle cinque armate (2014) di Peter Jackson

Per il precedente film ero rimasta, a sorpresa, abbastanza soddisfatta dal personaggio di Tauriel, meno disastroso di quanto mi ricordassi.

Poi è arrivata la fine de La battaglia delle cinque armate.

Non so se è stata più assurda la morte di Kíli, causata sopratutto dalla stupidità di Tauriel, o il confronto che la stessa ha con Thranduil alla fine della battaglia. È così evidente come volessero raccontare un’importante storia d’amore finita tragicamente.

Ma si sono dimenticati che la stessa si regge su basi debolissime, soprattutto proprio per una grave mancanza di spazio nel montaggio finale.

Si chiude un cerchio ne La battaglia delle cinque armate

La struttura narrativa di questo prodotto eredita un problema fondamentale dello scorso film: il cliffhanger finalizzato all’hype.

Probabilmente, visti i risultati al botteghino, è stata una mossa indovinata per mantenere gli incassi del precedente, che già erano calati rispetto al primo. Tuttavia, ho inevitabilmente sentito come l’inizio di questa pellicola non fosse altro che un epilogo del precedente.

E, fondamentalmente, il film avrebbe potuto cominciare mezz’ora più tardi.

una scena di Lo Hobbit - La battaglia delle cinque armate (2014) di Peter Jackson

Oltre a questo, personalmente mi ha deluso molto la poca varietà della trama, che è fondamentalmente focalizzata intorno ad un unico punto, a differenza dei precedenti.

L’unica scelta che mi ha relativamente convinto è il finale che non è altro che un inizio, perché riprende una delle scene iniziali proprio La compagnia dell’Anello. Tuttavia, vista la fretta e la poca cura, questa conclusione mi è sembrata molto improvvisata e mi ha lasciato un senso di vuoto.

Come se non ci fosse stato un effettivo finale…

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Avatar – Un capolavoro?

Avatar (2009) di James Cameron è l’ultima pellicola di questo regista (finora) e anche il maggiore incasso della storia del cinema. Infatti più che di film possiamo parlare di un effettivo fenomeno di costume, dovuto anche (ma non solo) all’incredibile lancio della tecnica del 3D.

La pellicola incassò infatti quasi 3 miliardi di dollari in tutto il mondo, a fronte comunque di un budget piuttosto consistente di 237 milioni di dollari, rischiando di essere scalzato solo da un altro incredibile evento cinematografico, Avengers Endgame (2019).

Da molti è considerabile un capolavoro.

Ma è così?

Di cosa parla Avatar?

In un futuro imprecisato, Jake Sully sostituisce il fratello defunto in un’ambiziosa operazione di colonialismo sul pianeta di Pandora, dove si trova un ambito giacimento di un metallo preziosissimo. E per questo deve farsi accettare dalla tribù locale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Avatar?

Zoe Saldana e Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

In generale, sì.

Col tempo ammetto che la mia opinione su questa pellicola si è molto ammorbidita, passando da un sincero odio fino ad un pacifico apprezzamento.

Non troverete in me una fanatica di questo film: lo considero un gran film di intrattenimento, con indubbiamente una tecnica innovativa e ambiziosa come quella del 3D, ma che io personalmente (anche al di là di questa pellicola) non apprezzo.

Se siete fra quelle pochissime persone che non hanno mai visto questa pellicola, vi consiglio di dargli una possibilità, senza aspettarvi niente di così clamoroso. Per me è un prodotto che per certi versi andrebbe ridimensionato, soprattutto davanti ad una tecnica che sicuramente era all’avanguardia, ma che non è invecchiata così bene come ci si potrebbe aspettare.

E forse ad un neofita oggi non farebbe lo stesso effetto…

Tuttavia, nonostante una lunghezza leggermente eccessiva, si parla di un film che intrattiene facilmente e che vale sicuramente la pena di recuperare.

Jake Sully: un protagonista perfetto

Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Jake Sully è il protagonista più azzeccato fra quelli di Cameron.

Molto banalmente perché questo regista era ormai specializzato nel creare personaggi funzionali, e in questo caso ha fatto assolutamente centro con un protagonista che è incredibilmente accessibile, fallibile al limite del comico, ma che al contempo ha il coraggio di mettersi in gioco, anche nelle maniere più stupide e irresponsabili.

Insomma, un personaggio in cui lo spettatore può facilmente rivedersi e per cui viene facile fare il tifo.

Oltre a questo, presenta un’evoluzione, soprattutto emotiva, molto lineare e digeribile, quasi prevedibile, che non manca del classico racconto su come il nostro eroe sia speciale. E così, anche se impreparato, riesce a gestire le sfide meglio degli altri.

Oltre a questo, è un ottimo accompagnamento per lo spettatore nella scoperta di Pandora.

Raccontare la disabilità

Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Come ho avuto il piacere di scoprire recuperando la filmografia di questo regista, Cameron è molto attento a diverse tematiche sociali, soprattutto in Avatar.

In particolare ho particolarmente apprezzato la scelta di mettere al centro della vicenda un personaggio disabile, che soprattutto non ricadesse in quella sorta di patetismo molto tipico nel cinema occidentale – e anche di cattivo gusto.

In questo caso invece la disabilità del protagonista è un elemento importante della trama: anzitutto per una scena molto emozionante in cui il protagonista, dopo tanto tempo, può di nuovo godere dell’uso delle gambe e corre felicemente fuori dal laboratorio.

Al contempo, si accompagna ad un lato più drammatico, sia per le promesse del Colonnello per delle nuove gambe in cambio della sua collaborazione, sia quando Sully entra per la prima volta nella capsula e Grace cerca di aiutarlo, ma Sully sbotta faccio da solo.

Una rappresentazione molto genuina, che racconta le eccessive e inutili attenzioni che un disabile, magari del tutto autosufficiente come Sully, deve vivere ogni giorno.

Neytiri: una controparte non scontata

Zoe Saldana e Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Neytiri è allo stesso modo uno dei migliori personaggi femminili creati da Cameron.

Solitamente in questo tipo di prodotti, soprattutto se guardiamo a dieci anni fa, i personaggi femminili hanno un ruolo molto marginale e definito da pochi stereotipi molto ripetitivi. Invece Neytiri è un’ottima controparte del protagonista, che racconta in maniera davvero vincente le tradizioni e il sentimento del popolo a cui appartiene.

Oltre a questo, è un personaggio attivo, intraprendente, che ha un ottimo ruolo in tutta la vicenda e particolarmente negli scontri, dove mostra tutte le sue capacità, senza che questo appaia forzato.

Oltre a questo, ho particolarmente apprezzato che la relazione romantica con Jake non sia centrale alla vicenda: l’ho piacevolmente riscoperta, trovandola molto meno pesante e invadente rispetto ad altri prodotti.

Villain da barzelletta ma…

Stephen Lang in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Non penso che molti avranno da ridire sul fatto che i villain di Avatar sono davvero una barzelletta.

Abbiamo da una parte il durissimo e temibile colonnello, con le sue ferite di guerra e i pettorali guizzanti, paragonabile per certi versi a Tiberius di Atlantis (2001), cattivo e piatto all’inverosimile. Dall’altra abbiamo il villain più politico, Parker: lo stereotipo nauseante del colonizzatore statunitense che non ha altro interesse che il guadagno.

Detto questo, sento di spezzare una lancia verso questi personaggi.

Perché è altrettanto evidente che sono assolutamente funzionali al dramma della trama: ci troviamo davanti a nemici terribili, con cui è impossibile discutere e che hanno un potere totalmente distruttivo, che si può solo sconfiggere.

E, soprattutto, come al solito Cameron ha privilegiato il lato estetico più che la profondità psicologica o la capacità attoriale degli interpreti.

Colonialismo e ecologismo in Avatar

Avatar può vantare due tematiche molto importanti: il colonialismo e l’ecologismo.

La parte riguardante il colonialismo è molto evidente: gli invasori, strettamente statunitensi, cercano di mettere le mani su un nuovo territorio con l’unica volontà di trarne il maggior profitto possibile. Ed è anche così evidente l’etnocrazia imperante del personaggio di Parker, quando dice:

Gli abbiamo costruito una scuola, gli abbiamo insegnato la nostra lingua

Sempre con l’idea che la società di provenienza, quella incredibilmente avanzata, sia l’unica giusta che deve cercare di portare un po’ di civiltà anche presso i selvaggi (come vengono ripetutamente chiamati).

Oltre a questo, a chiudere il cerchio la chiosa di Jake verso il finale:

Quando qualcuno è seduto su quello che vuoi, diventa il nemico

Ecologismo in avatar

Una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Altrettanto interessante il racconto dell’ecologismo.

Jake dice chiaramente che dal pianeta da cui veniva non c’era più verde, rappresentando quindi un approccio totalmente attuale (e coerente con la trama) in cui l’uomo ha spremuto la Terra quanto più poteva, così da trarne il maggior ricavo possibile.

E andando di conseguenza distruggerla.

Davvero una grande distanza rispetto alla popolazione dei Na’vi, che vivono in totale armonia con il loro pianeta, rispettandolo fino anche quasi all’ossessione.

Una concezione forse un po’ semplicistica, ma che funziona.

Avatar è un film invecchiato bene?

Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Parto col dire che a me, del reparto tecnico di Avatar – né di altri prodotti – importa più di tanto.

Banalmente perché non è un aspetto che rappresenti un grande valore di un’opera, per vari motivi, anzitutto perché è un elemento che si può facilmente ridimensionare nel tempo, a differenza di altri aspetti.

Infatti secondo me complessivamente il reparto tecnico di Avatar è invecchiato bene – già solitamente i Na’vi sono incredibili – ma non manca di qualche elemento che non ha retto alla prova del tempo – e che magari ho notato solo io perché sono troppo pignola.

Zoe Saldana in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Le due visioni recenti mi hanno confermato come nel primo atto percepisca un drammatico senso di horror vacui, nel senso più letterale del termine: la foresta mi sembra troppo spoglia e per certi versi sembra più preveniente da un videogioco che da un film.

Una sensazione che non ho più sentito per il resto della pellicola, ma che mi è rimasta molto impressa anche per il design dei Thanator, che in certe scene hanno quel fastidioso effetto lucido, tipico di un certo tipo di CGI non invecchiata benissimo.

E sono fortemente convinta che il lato tecnico di questo film sarà – anche involontariamente – ridimensionato con Avatar La via dell’acqua (2022).

E per ovvi motivi.

Perché il paragone fra Avatar e Pocahontas non ha senso

Questa è una delle polemiche più note e abusate riguardo a questa pellicola.

Per chi fosse vissuto sotto ad un sasso, molti accusano questa pellicola di avere una trama troppo esile e banale, troppo simile ad altri prodotti come appunto Pocahontas (1995) e Balla coi lupi (1990).

Ma per me è una polemica molto sterile.

Una trama semplice non rende un film di minore valore, perché il tutto dipende come la stessa si incasella all’interno del progetto complessivo e che tipo di profondità narrativa possiede.

Secondo me, come anche per la maggior parte dei film di Cameron, in Avatar la trama non gode di una particolare profondità narrativa – che non significa che sia un film piatto – ma è assolutamente funzionale al contesto.

E va bene così.

Per questo vi consiglio di provare a decontestualizzare le trame da film anche considerati universalmente capolavori, come per esempio Manhattan (1979).

Vi accorgerete che è un gioco ben più pericoloso di quanto sembri…

Avatar è un capolavoro?

Ho avuto la fortuna di potermi confrontare con una persona che ha un’opinione opposta alla mia, così da presentare due punti di vista diversi sulla questione.

L’opinione de Il cinema semplice

Ho già ampiamente spiegato il mio punto di vista su cosa sia un capolavoro – concetto che, ribadisco, è molto fumoso e che non può essere definito in maniera netta e oggettiva. Stringendo molto il discorso, per me un capolavoro è un’opera che si distingue nettamente dal punto di vista artistico dal resto delle produzioni.

Per me Avatar, per quanto sia un ottimo film di intrattenimento e molto meno banale di quanto si racconti, non è un capolavoro.

E questo perché, pur essendo all’interno di una costruzione molto ambiziosa, presenta una trama che è ottimamente funzionale, ma che manca di profondità narrativa, personaggi – soprattutto i villain – che sono abbastanza piatti e prevedibili, e come pellicola non ha particolari meriti artistici.

Zoe Saldana e Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Non posso neanche parlare di capolavoro di genere, perché non appartiene così nettamente ad un genere e, soprattutto, non sarebbe neanche così innovativo, lato tecnico permettendo, se volessimo confrontarlo col resto della produzione di film action, di avventura o di fantascienza.

Secondo questo stesso concetto, potrei parlare di un capolavoro tecnico – ma per me è un discorso che non ha senso, perché è un concetto totalmente aleatorio e ridimensionabile nel tempo.

Insomma, ne riconosco l’innovazione e l’assoluta importanza storica che ha avuto, ne riconosco il valore, ma non vado oltre.


L’opinione di Intothenerdverse

Perché Avatar è un capolavoro?

Questa la domanda a cui mi è stato chiesto di rispondere da Il.cinema.semplice, che ringrazio per avermi concesso questo piccolo spazio sul suo sito. 

So che molti hanno una loro idea di cos’è un capolavoro, quindi prima di andare avanti penso sia necessario dirvi la mia. 

Reputo un capolavoro un’opera che ha settato un nuovo standard, un prodotto che riesce ad imporsi nel suo ambiente di riferimento come spartiacque. Per forza di cose, davanti ad un capolavoro ci troviamo davanti ad un prima del capolavoro e un dopo il capolavoro, essendo un’opera che si pone a capo di tutto ciò che c’è stato prima e che diventa modello e fonte d’ispirazione per ciò che ci sarà dopo. 

Il capolavoro è qualcosa a cui ambire, qualcosa da prendere come modello e che insegna. Un’opera che sconfigge la prova del tempo, riuscendo a suscitare sempre lo stesso effetto anche visto dopo anni e anni dalla sua prima uscita e a stupire per l’incredibile forza prorompente che ha avuto nel suo ambito.

Il capolavoro porta nel cinema novità e cambiamenti che ne scuotono le fondamenta e lo cambiano per sempre. 

Perché Avatar è un capolavoro

Zoe Saldana in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Come con Jurassic Park a suo tempo, con l’uscita di Avatar cambia per sempre il modo di concepire l’effetto visivo: Cameron ha introdotto tecniche che hanno modificato il modo di pensarli e realizzarli, realizzando un film avanguardista che guardava al futuro con almeno dieci anni d’anticipo.

Guardato oggi, Avatar sembra un film girato domani. 

E sono veramente pochi al giorno d’oggi (e ci devo davvero pensare per trovarne) i film che riescono a raggiungere un livello di cura e resa tale sul grande schermo. Il mondo dell’effetto visivo è cambiato grazie ad Avatar, e, probabilmente, muterà ulteriormente con il successivo capitolo di questa saga.  

Avatar è un capolavoro per il modo in cui ha impattato l’industria cinematografica, aggiungendosi a quel gruppo di film che sono riusciti ad innovare e cambiare il modo di fare film e riuscendo ancora oggi ad insegnare che l’effetto visivo di oggi è solo un’evoluzione del cinema artigianale degli inizi.

Il cinema è stupore, meraviglia, intrattenimento e magia.

E Avatar, dopo anni dalla sua uscita, riesce ancora a farci rimanere di stucco, rimanendo increduli di fronte a ciò che il cinema è in grado di offrire.

E non importa tra quanti anni rivedrete questo film. 

Non smetterà mai di farlo.

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Avventura Azione Comico Commedia Film Il cinema di James Cameron Spy story True Lies

True Lies – Il doppio inganno

True lies (1994) di James Cameron è uno dei suoi film minori, che nel caso di questo regista significa che non è un cult assoluto.

In questo caso Cameron gioca con il genere spy story, con l’action e una buona dose di umorismo.

Ma comunque un ottimo successo commerciale: a fronte di un budget abbastanza consistente di 100 milioni di dollari, ne incassò complessivamente 365 in tutto il mondo.

Di cosa parla True lies?

Harry è una spia internazionale che vive apparentemente una vita normale con la sua famiglia, totalmente ignara del suo vero lavoro. La situazione rischia di cambiare quando scopre il segreto della moglie…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere True lies?

In generale, sì.

È forse finora fra i film più divertenti di James Cameron, con una buona dose action che non mi è del tutto dispiaciuta. L’unica cosa che ho un po’ accusato è l’eccessiva lunghezza, ma che è evidentemente dovuta alla volontà di presentare una trama ben strutturata.

Insomma, se vi piacciono le storie di spionaggio che non si prendono troppo sul serio e se soprattutto vi piace James Cameron, non potete perdervelo.

Lavorare su un volto

Arnold Schwarzenegger in una scena True lies (1994) di James Cameron

Dopo la duologia di Terminator, Cameron di nuovo scelse come suo protagonista Arnold Schwarzenegger.

E questa volta forse non fu la scelta migliore…

Per quanto in Terminator Schwarzenegger facesse assolutamente il suo, e per questo fosse incredibilmente iconico, doveva reggere una parte in cui era volutamente legnoso nella recitazione.

In True lies, in cui deve sostenere una parte decisamente più espressiva, purtroppo, per quanto si sforzi, recita in maniera non tanto dissimile. Ed è doppiamente un problema quando è messo accanto a un’attrice così carismatica come Jamie Lee Curtis.

Tuttavia Cameron, che non è certo un pivello, e lavora sui primi piani stretti per mettere in evidenza lo sguardo iconico del suo attore feticcio.

E salva un po’ la situazione.

L’evasione dell’uomo comune

Arnold Schwarzenegger in una scena True lies (1994) di James Cameron

Il tema di fondo di True lies è un gancio che può coinvolgere facilmente la maggior parte degli spettatori: l’evasione dalla monotonia della vita comune.

E si articola in due direzioni.

Da una parte Harry, che si mostra già realizzato in questo senso, anche se deve portare sulle spalle il fallimento della sua situazione familiare, nonostante la sua vita sia incredibilmente adrenalinica e piena di avventure.

Dall’altra Helen, che invece muore dalla voglia di vivere una vita almeno un po’ più interessante di quella in cui si ritrova intrappolata, e che trova per fortuna sfogo nella sua piccola avventura, e poi in un tanto agognato lieto fine.

Ma a che prezzo…

Una vittima battagliera?

Jamie Lee Curtis in una scena di True lies (1994) di James Cameron

Dal momento che Harry è l’eroe della storia, non può più di tanto essere punito per le sue azioni, che ne sottolineerebbero la gravità.

Ma al contempo viene pure perdonato troppo facilmente.

Helen è da certi punti di vista molto più vittima di Harry che di Simon: il truffatore la circuisce e ad un certo punto cerca anche di violentarla. Ma per questo è ripetutamente punito e umiliato, fino all’ultimo momento del film.

Ma Harry non solo le ha mentito per anni (cosa da un certo punto di vista anche comprensibile), ma la coinvolge in una missione che la mette in una posizione sempre riguardante la sfera sessuale, e che la mette non poco a disagio, nonché in pericolo. Oltre al fatto che fondamentalmente la stalkera perché pazzo di gelosia…

Ma per fortuna che Helen non è per nulla la vittima da salvare, ma anzi è incredibilmente battagliera e si salva da sola dalla maggior parte delle situazioni di pericolo.

Uscire dagli stereotipi

Art Malik in una scena di True lies (1994) di James Cameron

Ammetto che mi stavano discretamente cadendo le braccia davanti ad una rappresentazione dei terroristi e dei villain con il solito stereotipo di uomini brutti e cattivi mediorientali.

E invece Cameron mi ha sorpreso.

Anche se comprensibilmente non vuole fare una destrutturazione dello stereotipo a tutto tondo, basta una piccola frase nei dialoghi per dare maggior tridimensionalità alla vicenda.

Infatti Salim, il villain, sottolinea come sia ridicolo che loro vengano chiamati terroristi quando sono gli stessi Stati Uniti che bombardano i loro villaggi e uccidono gli innocenti.

Un’opinione per nulla scontata in un film del genere…

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Terminator 2 – Is this struttura narrativa?

Terminator 2 (1991) è il secondo capitolo della duologia omonima diretta da James Cameron, poi proseguita da diversi sequel dalle sorti alterne.

Arrivato a quasi dieci anni dal primo capitolo, fu un sequel di incredibile successo, considerato dagli appassionati anche migliore dell’iconico primo capitolo.

Con un budget enormemente superiore del precedente (100 milioni di dollari), fu un ottimo successo commerciale, con 502 dollari di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Terminator 2?

Sono passati diversi anni dal primo capitolo e Sarah Connor è rinchiusa in un centro di igiene mentale, mentre suo figlio, l’ancora giovanissimo John Connor, è il nuovo bersaglio di un viaggiatore del futuro...

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Terminator 2?

Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator 2 (1991) di James Cameron

Banalmente, sì.

Come avevo detto nella recensione del precedente capitolo, non ero stata così tanto colpita a livello intrattenitivo, nonostante riconoscessi l’ottimo livello tecnico e registico. Per questo film sono stata molto sul chi va là per paura che seguisse la medesima struttura narrativa del primo, che a mio parere era davvero debole.

E invece sono stata parzialmente sorpresa.

Terminator 2 mi ha permesso parzialmente di superare il mio disinteresse intrinseco per i film action, soprattutto perché la pellicola non può essere appiattita solo su questo (come neanche del tutto la precedente, in realtà). Di fatto, è un prodotto che, a otto anni di distanza, riprende in mano i fili narrativi, riesce ad innovarsi e a portare novità, rimanendo comunque fedele a sé stessa.

Se vi è piaciuto Terminator, guardatelo sicuramente.

Se non vi è piaciuto, vale la pena dargli un’altra possibilità con questo film.

Is this struttura narrativa?

Edward Furlong e Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator 2 (1991) di James Cameron

Durante il primo film avevo trovato quasi estenuante la struttura narrativa.

Un infinito inseguimento che sembrava insolvibile, e che poi si risolveva sempre in maniera estenuante nelle sue dinamiche, con la punta di diamante che era ovviamente il Terminator di Arnold Schwarzenegger. E per questo ero molto dubbiosa su questo film.

Invece sono rimasta abbastanza soddisfatta.

Per quanto la parte action e degli inseguimenti sia una grossa fetta del film, non definisce tutto l’andamento narrativo, che invece prosegue a tappe con una serie di obbiettivi piuttosto interessanti e avvincenti. Un deciso miglioramento, che ha reso la narrazione più ampia e interessante.

E non è l’unico passo avanti.

Finalmente, Sarah Connor

Linda Hamilton in una scena di Terminator 2 (1991) di James Cameron

Sarah Connor era un elemento piuttosto debole della prima pellicola. E per più motivi.

Anzitutto perché era un personaggio totalmente vittima degli eventi, la quale, tranne nell’ultimissimo momento, non agiva mai attivamente in scena. Invece in questo sequel il suo personaggio migliora da ogni punto di vista.

Oltre a diventare un personaggio incredibilmente attivo, ha una profondità narrativa e emotiva mille volte più interessante, che mi ha personalmente anche molto coinvolto. Oltre a questo, riesce finalmente ad essere una protagonista femminile di un film action che non è la vittima da salvare, ma anzi una donna forte e determinata che si allena per sconfiggere il nemico.

E io dico, finalmente vedo veramente la Sarah Connor che mi era stata promessa.

Un aggancio efficace

Edward Furlong e Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator 2 (1991) di James Cameron

Un’ottima scelta della pellicola è stata l’introduzione di John Connor in versione adolescente.

In questo modo si è riusciti, a otto anni di distanza, a riagganciare i fan del primo film e a coinvolgere nuovissimi fan che vedevano sullo schermo come protagonista un ragazzino non tanto diverso da loro, destinato a diventare un eroe.

Oltre a questo, John Connor porta una comicità piuttosto simpatica e piacevole, che ammorbidisce i toni del film, oltre ad arricchire la pellicola di un taglio da buddy movie che non ho potuto fare a meno di apprezzare.

La meraviglia degli effetti speciali

Robert Patrick  in una scena di Terminator 2 (1991) di James Cameron

Senza stare troppo a parlare di quanto sia fantastica la fotografia e la regia in generale di questa pellicola, sono rimasta senza parole davanti alla bellezza degli effetti speciali.

Tutti gli effetti legati a T-1000 in particolare sono qualcosa da far girare la testa: non riescono praticamente mai a deludere e sembrano così veri in scena, oltre ad essere incredibilmente creativi.

E stiamo parlando del 1991.

Unica piccola pecca è stata la sequenza in cui T-1000 muore, dove, come era anche per certe sequenze della prima pellicola, sembra molto bidimensionale e poco credibile. Ma è davvero una piccolezza all’interno di un comparto tecnico di prima categoria.

Un Terminator di troppo

Robert Patrick  in una scena di Terminator 2 (1991) di James Cameron

Ma T-1000 è anche il punto debole della pellicola.

La sua presenza l’ho trovata veramente accessoria, tanto che l’inseguimento finale, che riprende le mosse dal primo capitolo, è la parte meno interessante dell’intero prodotto.

E il grande problema è che il povero Robert Patrick, che poi si è rifatto anche recentemente in serie come Peacemaker, non ha un’unghia dell’iconicità di Arnold Schwarzenegger.

E mi è sembrato davvero un elemento che dovevano inserire per far quadrare la storia e farla quantomeno assomigliare al film precedente, ma che in realtà diventa quasi un elemento sotterraneo della narrazione, che corre parallelamente al resto degli eventi.

Cameron, non ti capisco

So già cosa risponderanno gli appassionati di Cameron al mio dubbio, ma ci tengo comunque a prendermi questo piccolo spazio per parlarne.

Cameron aveva fra le mani una trama potenzialmente interessantissima come quella del futuro distopico di Skynet, che mostra brevemente solo in alcuni momenti delle pellicole da lui dirette. Poi, altri registi meno capaci hanno preso in mano la saga e fatto quello che probabilmente il pubblico si aspettava.

E invece James Cameron ha deciso di non incastrarsi in questa saga, ma di mettere un punto alla questione in maniera definitiva. E, per la sua carriera, a posteriori è stata indubbiamente la scelta migliore.

Ma è una scelta che comunque non riesco a capire del tutto…

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Il ritorno del re – Il peso dell’anello

Il Signore degli Anelli – Il ritorno del re (2003) è il terzo e ultimo capitolo della trilogia diretta da Peter Jackson tratta dall’opera di Tolkien.

Un ultimo episodio che doveva reggere sulle spalle una conclusione epica di un racconto complesso e pregno di significati. E ovviamente la conclusione dell’avventura è incredibile, anche se…

Davanti ad un budget di 94 milioni, raggiunse un risultato tanto epico quanto il film: 1,140 miliardi di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Il ritorno del re?

Sam e Frodo vengono condotti in quello che sembra essere l‘unica via per raggiungere il Monte Fato, ma anche quella più ingannevole…

Nel frattempo, Aragorn e Gandalf devono gestire la complessa situazione politica e militare che ancora furoreggia.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Il ritorno del Re?

Ian McAllen in una scena di Il Signore degli Anelli - Il ritorno del re (2003) di Peter Jackson

Ovviamente sì.

Se state guardando, soprattutto se per la prima volta, la trilogia di Peter Jackson non potete perdervi l’epico (e lo è davvero!) finale della saga. Come sempre rimarrete probabilmente senza parole davanti alla bellezza degli effetti speciali, della regia dinamica, della profondità narrativa di questa pellicola.

Incredibile come un film basato su un’opera così complessa abbia creato una saga così incredibile, che non ha perso praticamente mai un colpo, ma ha proseguito di gran carriera verso un incredibile finale, fra l’altro con tempi anche piuttosto stretti.

Uno di quei prodotti che non si può mancare di vedere almeno una volta nella vita, insomma.

L’aspetto battagliero

Ian McAllen in una scena di Il Signore degli Anelli - Il ritorno del re (2003) di Peter Jackson

La parte militare è la parte che ho trovato personalmente meno interessante del film a livello intrattenitivo.

Per diversi motivi, fra cui il fatto che è in generale la parte che meno mi interessa dei film in toto, ma anche perché, diversamente dallo scorso capitolo, non vi è quasi nessuna costruzione narrativa oltre alla battaglia, ma è lo scontro il punto stesso del discorso.

Con tutto che le scene di battaglie sono dirette magistralmente, il lato tecnico è al limite della perfezione, e pieno di colpi di scena di grande interesse ed efficacia.

Ma c’è un grosso ma…

Lode all’odio (di nuovo) ne Il ritorno del re

Come avevo già raccontato per lo scorso capitolo, non riesco veramente a sopportare il personaggio di Eowyn.

E ne Il ritorno del Re ho trovato incredibilmente forzato darle tutta quella importanza nella storia, quando il suo ruolo era assolutamente accessorio. E, soprattutto, è assolutamente poco credibile che, in una società così profondamente medievale, una donna sia in primo luogo capace di combattere.

Perché Eowyn non mena colpi a casaccio, ma riesce anzi ad evitare le botte di un personaggio come Angmar e a sconfiggerlo con veramente troppa facilità. E con la battuta più agghiacciante dell’intero film.

Ma capisco le necessità produttive.

Fine delle cose che non mi piacciono di questa pellicola.

Il peso dell’anello

Direi che non mi aspettavo niente di meno dalla conclusione della storyline di Frodo.

Il nostro protagonista è ormai avvelenato dal potere dell’anello, e viene ancora di più deviato dalle maligne bugie di Gollum. Così, per gelosia dell’anello, si rivolta contro il suo amico. Ma questa ovviamente è la scelta peggiore: appena si lascia alle spalle Sam, viene subito punito dagli eventi.

A dimostrazione ancora una volta che questa avventura sarebbe stata impossibile per Frodo senza Sam al suo fianco…

Il ruolo di Sam

Elijah Wood e Sean Astin in una scena di Il Signore degli Anelli - Il ritorno del re (2003) di Peter Jackson

Pellicola dopo pellicola, sono rimasta sempre più colpita da quanto sia fondamentale la figura di Sam e di come, di fondo, quest’opera sia un grande inno all’amicizia. Davanti ad una situazione disperata come quella della scalata del Monte Fato, davanti a Frodo distrutto dal viaggio, Sam fa l’impensabile: lo prende sulle spalle e scala il Monte.

E la fa soprattutto perché vuole che Frodo si liberi di questo fardello, che è quantomai evidente che lo stia distruggendo…

E questo, fra l’altro, dopo averlo salvato da morte certa.

Il fallimento di Frodo

Elijah Wood in una scena di Il Signore degli Anelli - Il ritorno del re (2003) di Peter Jackson

Mi ha personalmente sorpreso il risvolto che ha avuto la storia di Frodo.

Per quanto fosse evidente come la corruzione dell’anello l’avesse conquistato, mi aspettavo in ultimo un momento di ripensamento e redenzione. Invece Frodo si lascia del tutto conquistare dall’anello, rifiutandosi di distruggerlo, con l’intenzione di tenerlo per sé, come avrebbe fatto se Gollum non glielo avesse strappato così violentemente.

E solo davanti alla scelta estrema, fra morire per cercare inutilmente di recuperare l’Anello come Gollum, e tornare fra le braccia dell’amico, solo allora sceglie effettivamente di tornare in sé. Ma senza quella redenzione netta che mi sarei aspettata da un eroe di questo tipo.

Tuttavia, questo elemento, oltre ad essere originale e interessante, è quantomai fondamentale per il finale…

Perché Frodo parte per Valinor?

Ammetto che sulle prime non avevo ben compreso il finale.

Tuttavia, dopo essermi adeguatamente informata anche tramite un caro amico tolkeniano (che ringrazio), tutto ha avuto senso.

I motivi per cui Frodo lascia la Contea sono differenti. Il motivo più pratico, che non viene esplicitato in maniera così netta nel film, è trovare la cura per la malattia e per il dolore dato dalla puntura di Shelob.

Ma, più profondamente, Frodo è stato per sempre segnato dall’esperienza che ha avuto con l’Anello, anche perché lui stesso è consapevole di essersi alla fine lasciato vincere dallo stesso.

E, dopo un’avventura del genere, non può più essere il Frodo della Contea…

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The rise of the guardians – Cosa ci insegna l’infanzia

The rise of the Guardians (2012) di Peter Ramsey, in Italia noto con il titolo infelice di Le 5 leggende, è un lungometraggio animato, risalente al periodo in cui la Dreamworks era ancora capace di far sognare…

Un prodotto per un pubblico infantile, ma che parla piacevolmente anche agli adulti, con tematiche profonde e raccontate in maniera incredibilmente brillante e originale.

Un film che purtroppo non portò ai risultati sperati: a fronte di un budget di abbastanza ingente di 145 milioni di dollari, incassò complessivamente 306 milioni, non riuscendo a rientrare nelle importanti spese di marketing.

Di cosa parla The Rise of the guardians

I guardiani dell’infanzia, North (Babbo Natale), Easter (il coniglietto pasquale), Sandman (L’omino dei sogni) e Tooth (la Fatina dei denti), di trovano a dover fronteggiare un nuovo nemico, Pitch Black, l’uomo nero…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The rise of the guardians?

Jacke Frost, doppiato da Chris Pine, in una scena di The rise of the Guardians (2012) di Peter Ramsey

La domanda forse più giusta sarebbe: vale la pena di vedere questa pellicola anche da adulti?

Per me assolutamente sì, perché è un prodotto con diverse chiavi di lettura, create con una cura e un’eleganza che poteva solamente provenire da questa casa di produzione ai tempi d’oro…

Ovviamente specifico che sono totalmente di parte: al tempo vidi il film al cinema quattro volte, con l’aggiunta delle infinite visioni domestiche. E non a caso, insieme a Rapunzel (2010), è fra i miei lungometraggi animati preferiti in assoluto.

Quindi non lasciatevi frenare (né qui né altrove) dal fatto che sia un prodotto animato: vi perdereste veramente una perla.

Jack Frost – La spensieratezza

Jack Frost è fondamentalmente il protagonista del film è anche, soprattutto da un certo punto in poi, il filo conduttore dell’intera vicenda.

Il suo centro non viene esplicitamente rilevato, ma, guardando con attenzione la pellicola, è quantomai evidente: Jack Frost rappresenta la spensieratezza, ma anche la capacità di andare oltre propri limiti e oltre le proprie paure.

Ma anche, in una lettura più adulta, può essere anche il non lasciarsi sopraffare dalla tristezza e dal buio interiore.

Il percorso di questo personaggio è alla ricerca della sua identità, che gli fa scoprire come sia sempre stato capace di vincere la paura, sua e degli altri. Così aiutare i Guardiani a ritrovare il contatto con i bambini che dovrebbero proteggere.

E come, per estensione, di come anche da adulti, sommersi dagli impegni, non possano dimenticarsi di quella spensieratezza tutta infantile che rende la vita un pochino più leggera da vivere…

North – La meraviglia

North, insieme a Easter, è il personaggio col character design più interessante e originale, di fatto inaspettato.

Il nome completo è Nicholas St. North, facendo quindi riferimento alla ben più antica figura di San Nicola, che poi coi secoli si è riadattata a quella di Babbo Natale.

Tuttavia è un Babbo Natale assolutamente atipico: è battagliero, rumoroso, guascone, ma anche la figura più saggia del gruppo. Un uomo dalla statura immensa più vicino allo stereotipo dell’uomo del Nord che alla figura tipica di Babbo Natale.

Ma, nonostante il suo aspetto, è il personaggio che racchiude la magia della meraviglia che i bambini provano davanti a questo mondo tutto nuovo e eccitante da scoprire

Ed è anche un invito all’adulto a non lasciarsi vincere dal grigiore della vita quando si è oppressi dalla pesantezza quotidiana, ma ritrovare la bellezza della scoperta e del lasciarsi (e volersi) far sorprendere ed emozionare.

Easter – La speranza

Easter, ovvero il Coniglio Pasquale, è indubbiamente il personaggio più interessante e a cui è legato il simbolismo più evidente.

Come viene più volte ripetuto, la Pasqua, e quindi anche la sua figura, sono legati alla speranza, che è ribadita anche in altri due elementi: il colore degli occhi, di un verde intenso, e che, quando una delle sue buche si chiudono, spunta un fiore, persino nella neve.

Entrambi elementi tradizionalmente associati al concetto di speranza.

Un concetto che sembra molto astratto, ma che in realtà è incredibilmente concreto: perdere la speranza, quindi la fiducia e l’ottimismo che è intrinseco per l’infanzia, è devastante per un bambino.

E infatti, la perdita della speranza rappresenta l’ultimo momento delle luci che si spengono. E la speranza si sgretola molto più facilmente una volta raggiunta la vita adulta, quando si ha effettivamente conoscenza del mondo…

Tooth – Il ricordo

Anche se forse Tooth, la Fatina dei denti, è il personaggio di per sé meno interessante, il suo potere è quantomai affascinante.

Il periodo dell’infanzia è il momento fondamentale della crescita, che getta le basi della nostra personalità e dei valori che in seguito si formeranno. E la perdita, il cambio per così dire dei denti, rappresenta il passaggio dal periodo infantile, più fragile, a quello adulto, dove si dovrebbe avere i denti più forti e definitivi.

Tuttavia quei denti persi non possono essere sprecati, perché raccontano un periodo che appunto non può essere mai dimenticato, e che ci definisce.

Altrimenti saremmo persi e senza un’identità come Jack Frost…

Sandman – Il sogno

Sandman è il guardiano del sogno e del sonno.

Tuttavia non si tratta solamente del sogno che si fa di notte, ma anche della capacità di immaginazione positiva, che crea immagini piacevoli e fantastiche. Così i bambini creano un universo alternativo, a loro misura, in cui rifugiarsi.

Ma il sogno è fondamentale anche per un adulto: insieme alla speranza è quello che non ci fa mai arrendere, e che ci ricorda che non c’è mai limite a quello che potenzialmente possiamo sognare e realizzare…

Pitch Black – L’incubo

Pitch Black significa buio pesto.

E il buio è una paura atavica, sia per bambini che adulti.

Infatti Pitch è un’ombra, uno spettro, che si nasconde effettivamente sotto ad un letto come il mostro sotto il letto, o l’uomo nero, per l’appunto.

La paura è anzitutto legata all’incubo, quindi il contrario dei sogni. Ma lo stesso è derivato da delle paure che possono essere molto più concrete, proprio come quelle di Jack Frost: non essere creduto, accettato, visto…

E la paura si evolve e si differenzia, con situazioni anche molto più diverso e gravi, ma il concetto rimane sempre lo stesso: con la spensieratezza, la speranza, la meraviglia e il sogno, la potremo sconfiggere.

Attraverso lo sguardo

Jacke Frost, doppiato da Chris Pine, in una scena di The rise of the Guardians (2012) di Peter Ramsey

Gli occhi sono un elemento fondamentale della pellicola, quasi un fil rouge che unisce tutti i protagonisti.

La magia di Jack Frost si vede proprio attraverso gli occhi, la meraviglia di North è attraverso gli occhi enormi di un bambino, Jack Frost vede i suoi ricordi attraverso i suoi occhi e gli occhi della sorella…

Lo sguardo quindi la percezione, la percezione che può essere mutata e plasmata, con i sentimenti sia positivi che negativi. E così si può passare facilmente dalla paura al divertimento, alla spensieratezza, e con poco…

Il mascheramento smascherato

Tooth, doppiata da Isla Fisher, Jacke Frost, doppiato da Chris Pine, North, doppiato da Alec Baldwin, Easter, doppiato da Hugh Jackman in una scena di The rise of the Guardians (2012) di Peter Ramsey

Guardando il film da un punto di vista più superficiale, appare evidente che sia stato concepito come una sorta di film di supereroi.

Infatti, come si cerchi di raccontare concetti importanti e di grande profondità, ma mascherandoli in una veste digeribile per il grande pubblico e, soprattutto, per il pubblico infantile. Tuttavia è evidente che non ha funzionato.

Questo probabilmente perché, per quanto il ritmo sia incredibilmente incalzante e la storia interessante, anche uno sguardo più superficiale intuisce che ci sia qualcosa di più rispetto a quanto viene mostrato. E questo di più non è per nulla immediato.

Aspetto che purtroppo potrebbe aver solo confuso il pubblico di riferimento…

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Terminator – Nato per un ruolo

Terminator (1984) di James Cameron è il primo capitolo della duologia omonima diretta dall’iconico regista, che portò poi ad altri quattro seguiti e tentativi di rilancio, non sempre vincenti…

Un film che è diventato facilmente iconico, grazie alla straordinaria scelta di un interprete come Arnold Schwarzenegger, che sembra veramente nato per il ruolo, e che al tempo era noto soprattutto nella scena culturista.

Un film prodotto con veramente pochissimo, appena 6,4 milioni di dollari, e che, per questo, fu un ottimo successo commerciale: 78 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Terminator?

Un misterioso killer sembra prendere di mira donne dal nome Sarah Connor. Ma il suo vero obiettivo è piuttosto inusuale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Terminator?

Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator (1984) di James Cameron

In generale, sì.

Ammetto che è un film che mi ha entusiasmato meno di quanto mi aspettassi, ma sono stata colpita dagli elementi che l’hanno reso un cult, ovvero l’infinita tamarraggine e convinzione di Arnold Schwarzenegger.

Per il resto, è un film che può indubbiamente entusiasmare i patiti di film action, soprattutto datati, ma narrativamente parlando è abbastanza debole e leggermente ridondante. Tuttavia, non mi sento assolutamente di sconsigliarlo.

Potrebbe sorprendervi.

Nato per un ruolo

Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator (1984) di James Cameron

L’assoluto punto di forza della pellicola è proprio il suo villain, il Terminator. E, come detto, non poteva esserci un attore più adatto di Arnold Schwarzenegger per questo ruolo.

Sembra genuinamente che non stia neanche recitando, tanto che, quando il suo personaggio deve dimostrare la sua forza sovrumana, mi viene il dubbio che non ci fosse niente di finto…

D’altronde, l’attore era innanzitutto una star nel mondo del culturismo, e si era già fatto notare a livello internazionale per un ruolo non dissimile, nella duologia di Conan. Insomma, le sue scene, anche quelle più sopra le righe, le ho assolutamente adorate.

Una protagonista insipida

Linda Hamilton in una scena di Terminator (1984) di James Cameron

La sua controparte positiva non si può dire altrettanto vincente.

L’attrice, Linda Hamilton, era al tempo giovanissima e ancora molto alle prime armi. La sua carriera, fra l’altro, non è mai decollata, restando sempre molto vincolata alla saga di Terminator.

Purtroppo, come protagonista fallisce soprattutto dal punto di vista dell’evoluzione: per la maggior parte della pellicola Sarah Connor è un personaggio indifeso e da salvare, che non ha fondamentalmente una volontà propria, ma che si lascia trasportare dagli eventi.

Il suo momento di evoluzione avviene troppo in fretta e troppo tardi, senza un’adeguata costruzione, portandoci ad una caratterizzazione finale poco credibile e che non giustifica quello che è stato raccontato sul suo futuro.

Fare molto con poco

Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator (1984) di James Cameron

Terminator è un altro ottimo esempio di quanto basta poco per fare molto.

Il tocco registico di Cameron si vede ampiamente nella messinscena affascinante, la fotografia suggestiva e la direzione delle scene di azione di grande impatto.

Quasi altrettanto vincente è il comparto trucco e degli effetti speciali: molto bella e credibile la sequenza in cui Terminator si cura il braccio, un pochino meno quando si apre l’occhio, quando è evidente (per ovvi motivi) che l’attore avesse addosso una maschera di gomma.

Non male anche Terminator nella sua forma metallica, anche se in certe scene sembra molto bidimensionale.

Nel complesso, un’ottima prova di un regista capace di rendere di valore anche un prodotto mainstream.

Un racconto ridondante

La trama di Terminator è purtroppo molto ridondante: è fondamentalmente un infinito inseguimento, puntellato da alcuni elementi di trama e dai grandi momenti di Arnold Schwarzenegger.

Soprattutto sul finale mi rimbombava nella testa uno degli insegnamenti fondamentali di Scream:

This is the moment when the supposed dead killer come back to life

Questo è il momento in cui il killer che dovrebbe essere morto torna in vita

Infatti, da certi punti di vista, la struttura narrativa è simile a quella di uno slasher, con il protagonista imbattibile e che sembra non morire mai.

Anche il recente Halloween Ends (2022) insegna…

I sequel dovuti

A differenza di altri prodotti che portarono ad infiniti sequel senza che ce ne fosse il minimo bisogno, come Lo squalo (1975) e Scanners (1981), questa pellicola è una miniera d’oro per sequel e spin-off.

Infatti, la trama del futuro è incredibilmente affascinante, e, soprattutto fatta con budget più consistenti, poteva portare a dei prodotti spettacolari. Ammetto di avere solo un vago ricordo di Terminator Salvation (2009) e abbastanza un buon ricordo di Terminator 2 (1991), quindi non posso giudicare nella sua interezza.

Ma i numeri parlano chiaro: fra i sequel, quelli andati meglio furono il secondo e il terzo, mentre i successivi, anche per via di un budget ben più consistente, ebbero risultati medi, fino a abbastanza mediocri con l’ultimo, Terminator – Destino Oscuro (2019).

Personalmente mi sarei aspettata risultati più vicini a quelli del recente rilancio di Jurassic Park

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Wakanda Forever – L’indifendibile

Black Panther: Wakanda Forever (2022) di Ryan Coogler è il sequel di Black Panther (2018), prodotto a seguito della tristissima scomparsa di Chadwick Boseman, protagonista del primo film, nonché l’interprete che dava il volto all’eroe della storia.

Un triste avvenimento che ha scombinato totalmente le carte in tavola del progetto, dovendo portare un nuovo eroe e una nuova Pantera Nera, quando le basi per ovvi motivi non erano mai state buttate.

E, stranamente, non è neanche il maggiore problema del film.

Come era prevedibile davanti al riscontro e al fantastico incasso del primo capitolo, il film ha aperto benissimo nel box office mondiale, con 330 milioni di incasso. E probabilmente continuerà altrettanto bene.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Wakanda forever (2022)

Miglior attrice non protagonista a Angela Bassett
Migliore costumi
Migliore trucco e acconciatura
Miglior canzone
Migliori effetti speciali

Di cosa parla Wakanda Forever?

Dopo la morte del suo re, il Wakanda si trova nella delicata situazione di dover gestire la sua posizione internazionale. Come se questo non bastasse, c’è un nuovo e pericolosissimo nemico all’orizzonte, che minaccia l’esistenza stessa del paese…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Wakanda Forever?

Una scena di Black Panther: Wakanda Forever (2022) di Ryan Coogler

Wakanda Forever è un film che vi consiglio solamente in due casi: se siete dei fan sfegatati dell’MCU e non potete perdervi nessun film, oppure se siete emotivamente molto legati al primo film e per questo attendete molto il sequel.

Per il resto, non è film che mi sento di consigliare.

Una pellicola inutilmente lunga, una trama colabrodo e scene action neanche così interessanti. Un prodotto MCU preso e inscatolato nella maniera più pigra e pasticciata possibile, decisamente peggiore del primo, che era sempre problematico, ma decisamente più quadrato.

Una grande delusione, per qualcuno che non si aspettava niente.

La drammatica indifferenza

Winston Duke in una scena di Black Panther: Wakanda Forever (2022) di Ryan Coogler

È giusto cominciare questa recensione raccontandovi come mi sono sentita per sostanzialmente la totalità della pellicola.

In qualsiasi momento mi sarei potuta alzare, uscire dalla sala e dimenticarmi per sempre di questo film, senza avere alcun interesse a sapere cosa fosse successo dopo. La struttura narrativa di questi prodotti è molto spesso lineare e prevedibile, ma si regge su una buona capacità di intrattenimento e l’interesse verso il protagonista e le sue avventure.

Niente di tutto questo per Wakanda Forever.

I personaggi sono insipidi, la trama prevedibile e poco appassionante, anzi gira moltissimo su sé stessa, arrivando stancamente e stupidamente ad un punto troppo tardi e senza portare elementi di vero interesse.

Anzi, ci sono troppe cose veramente poco credibili, ultima solo la scelta dei protagonisti di portare la battaglia finale nel luogo più utile del loro nemico, lo stesso che può controllare animali mastodontici come le balene e le orche.

E sono questi gli eroi per cui dovrei tifare?

Una nuova e buona Pantera?

Letitia Wright, in una scena di Black Panther: Wakanda Forever (2022) di Ryan Coogler

Uno dei pochi punti vagamente positivi della pellicola è il personaggio di Shuri.

Ma non perché sia una buona protagonista, ma perché ha almeno una costruzione emotiva e psicologica, grande differenza rispetto alla freddezza che ho provato vedendo T’Challa in Black Panther. Tuttavia, niente di nuovo, niente di interessante e, soprattutto, niente di ben scritto.

Teoricamente il suo percorso dovrebbe essere attraverso il lutto, poi il desiderio di vendetta e una sorta di incattivimento che la porta ad essere crudele nei confronti di tutti, soprattutto dei suoi nemici. Tuttavia, complice la scrittura e la scarsa capacità recitativa di Letitia Wright, ne risulta un racconto poco funzionante.

La stupidità di Namor

Namor è senza dubbio uno dei peggiori villain di tutto l’MCU.

Se per lo scorso film mi sono sentita di difendere il villain, perché tipicamente nei prodotti della Marvel è l’aspetto più debole.

Non posso farlo in questo caso: Namor è davvero indifendibile. La sua stupidità è talmente vasta che, proprio nel momento in cui sta distruggendo il Wakanda, decide di lasciare ai suoi nemici una settimana di tempo per riorganizzarsi contro di lui.

E non è credibile che questo avvenga per le sue motivazioni iniziali, ovvero di allearsi con il Wakanda: Namor dice letteralmente ho tanti guerrieri quanti i fili d’erba, ovvero migliaia, se non centinaia di migliaia, guerrieri col potere delle Pantere Nere. Per questo ha letteralmente nessun motivo per cercare ancora l’alleanza con il Wakanda, tanto più ora che gli si è dimostrata ostile.

Come se tutto questo non bastasse, è veramente imbarazzante che questo personaggio abbia in buona sostanza le stesse motivazioni e lo stesso piano del villain dello scorso film.

Poche volte ho visto una così profonda pigrizia narrativa.

Ramonda: racconto di una stronza

Ramonda, la regina, è per me uno dei peggiori personaggi del film, seconda solo a Namor.

Quasi come la figlia, è un personaggio totalmente incattivito, che si comporta in maniera impulsiva e ingiustamente cattiva. In particolare, l’ho trovata davvero terrificante nel suo comportamento con Okoye. Se non ve lo ricordate, la generale nel primo film aveva rivoltato la lama contro il suo stesso marito ed era sempre rimasta fedele al Wakanda, come aveva giurato.

Ma Ramonda decide di rinfacciargli questa, punendola ingiustamente e per pura cattiveria.

Non ho pianto la sua morte, sinceramente.

La pochezza estetica

Come nel primo film ero abbastanza interessata all’estetica e alla sua ispirazione del tutto particolare all’afrofuturismo, sono rimasta veramente delusa dalla scelta invece dall’estetica riguardo alla nuova nazione e ai villain.

Anzitutto per Talokan, che nel film evidentemente doveva sembrare un paradiso subacqueo, che invece ho trovato invece un incubo. Un luogo buio, tetro, spoglio, dove non vorrei mai mettere piede. Quindi quando Namor dice a Shuri vedi cosa devo proteggere, mi veniva quasi da ridere.

Poi in generale la maggior parte dell’estetica di Namor e del suo popolo l’ho trovata incredibilmente plasticosa e sinceramente brutta, molto lontana dall’eleganza che anche in questo film ho trovato nel Wakanda e nel suo popolo.

Per non parlare di quanto Namor appaia ridicolo con quelle alette ai piedi, che lo rendono un personaggio inutilmente cartoonesco e fumettoso, in maniera del tutto fuori contesto rispetto al resto del film…

Iron Heart: è ora di smetterla

Sono personalmente stufa delle introduzioni di nuovi supereroi in prodotti di altri. Mi rendo drammaticamente conto della necessità di marketing che c’è dietro: è la Marvel che imbocca forzatamente lo spettatore di qualcosa che non voleva, così da stuzzicarne la curiosità.

Perché, onestamente, quanti avrebbero accettato con entusiasmo e a scatola chiusa la serie dedicata a questo personaggio senza questa introduzione?

Ho sentito tanto entusiasmo intorno a questo personaggio, che dovrebbe seguire le orme di Ironman. Tuttavia, il tempo è poco e, nonostante si cerchi di mimare proprio le dinamiche del personaggio di ispirazione, Riri Williams mi è risultata davvero insipida.

Ma forse quello che mi ha fatto davvero arrabbiare è stata la battuta con cui il personaggio si auto introduce, che mi è sembrato quasi al pari del Ma sei una supereroina egiziana? in Moon Knight.

Insomma, quasi un modo per svelare un token.

Il rispetto di Wakanda Forever

Il racconto intorno al personaggio di Boseman non è stato così tanto di cattivo gusto come mi aspettavo, ma mi ha dato lo stesso fastidio.

Per quanto mi riguarda, avrebbero dovuto limitare questo omaggio ad un semplice accenno, e non metterlo così tanto in scena, fra l’altro come elemento della narrazione in maniera così plateale sul finale.

Perché, per quanto ne vogliamo dire, mentre mi si stringeva il cuore ricordando la sua tragedia, mi sono anche resa conto che questa narrazione era anche finalizzata a lucrare sulla stessa.

E nessuna dichiarazione in merito alla bontà dell’operazione da chi ci ha lavorato potrà togliermi questo pensiero dalla testa.

Dove si colloca Wakanda Forever (2022)?

Come per il primo film, anche Wakanda Forever è un film abbastanza a sé stante.

È ovviamente successivo Endgame (2019) – le cui vicende si svolgono nel 2023 – ma, secondo la timeline di Disney+, si colloca fra Moonknight e She Hulk, ovvero la primavera del 2025.

È l’ultimo film della Fase 4.

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Black Panther – Un capolavoro medio

Black Panther (2018) di Ryan Coogler è una origin story dedicata al personaggio omonimo, che era già stato brevemente introdotto in Captain America – The Winter Soldier (2014). Un film che è diventato un caso, per tanti motivi, nonché un prodotto di grande importanza per la comunità africana e afrodiscendente.

E ovviamente questa importanza è arrivata a raccontarlo come un capolavoro.

Prima di fiondarci in sala a guardare il sequel, Wakanda Forever (2022), vale la pena riflettere sul primo capitolo e su quello che, al di là del giudizio di pancia, è effettivamente. Sicuramente fu uno dei più grandi successi commerciali dell’MCU: a fronte di un budget di 200 milioni di dollari, incassò 1,3 miliardi in tutto il mondo.

Di cosa parla Black Panther?

Dopo la morte del padre, T’Challa diventa il nuovo re di Wakanda, lo stato africano isolazionista, mentre il suo trono viene minacciato da un personaggio misterioso…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Black Panther?

Chadwick Boseman in una scena di Black Panther (2018) di Ryan Coogler

La giusta domanda in realtà sarebbe: ha senso guardare Black Panther al di fuori del resto dei film dell’MCU?

Sì e no.

Anche se fondamentalmente riesce ad essere un prodotto abbastanza autonomo, in cui non ci sono altri personaggi di altri film in scena (a parte nelle ignorabili scene post-credit), a mio parere ha poco senso vederlo se non si è un minimo appassionati dell’MCU, soprattutto a quattro anni di distanza.

Infatti, come approfondiremo meglio nella parte spoiler, Black Panther è un film MCU e supereroistico in generale molto medio, che non brilla più di tanto, se non proponendo un setting diverso dal solito.

Se invece volete vedere Black Panther in vista di Wakanda Forever o per un recuperone generale dell’MCU, ovviamente vale la pena di guardarlo: in una mia ipotetica classifica, Black Panther sarebbe in una posizione mediana.

Insomma, senza infamia e senza lode.

Immagini in movimento

Chadwick Boseman e Lupita Nyong'o  in una scena di Black Panther (2018) di Ryan Coogler

Il mio principale problema con questo film è che tutti i personaggi in scena potrebbero lasciarci per una morte improvvisa e non me ne potrebbe interessare di meno.

E secondo è anche un difetto della pellicola, che non intraprende un particolare approfondimento del personaggio, che invece appare piuttosto distante dallo spettatore e con conflitti che sembra già subito capace di risolvere. E non è una scusante il fatto che sia stato introdotto in un’altra pellicola.

Perché lo stesso è successo con Spiderman in Captain America – Civil War (2016).

Premetto per correttezza che sono molto di parte, perché Spiderman Homecoming (2017) è il mio film MCU preferito e così lo Spiderman di Tom Holland è il mio Spiderman preferito.

Tuttavia, è anche vero che in Homecoming, complice anche una minore drammaticità della storia, mi sono trovata davanti ad un protagonista con una storia molto coinvolgente e che, soprattutto, era davvero fallibile e vicino allo spettatore.

Benché lo scheletro narrativo di Black Panther sia abbastanza simile (come simile alla maggior parte delle origin story supereroistiche), non sono riuscita a trovare lo stesso tipo di coinvolgimento. Anche perché tutti i problemi di T’Challa sono muscolari e si risolvono con combattimenti vinti da chi è più abile a menar le mani, fondamentalmente.

Insomma, secondo me questo personaggio manca di un’adeguata profondità narrativa e psicologica.

E non parliamo poi del villain…

Un villain insulso

Michael B. Jordan' in una scena di Black Panther (2018) di Ryan Coogler

Il villain di Black Panther è per me uno dei meno indovinati dell’MCU.

Non tanto per la sua introduzione o per il modo in cui si comporta, ma per le sue motivazioni.

Purtroppo in questo film si è deciso proprio di colpire alla pancia dello spettatore, e scegliere di raccontare una discriminazione a livello globale nei confronti delle persone afrodiscendenti.

Problema che indubbiamente esiste, ma che appare quanto mai evidente come il discorso al riguardo sia stato fatto principalmente con un’idea molto statunitense e provinciale.

Infatti il discorso di Killmonger sul razzismo e sulla discriminazione non è derivato da un’esperienza internazionale dove ha visto la sua comunità oppressa, ma, al contrario, semplicemente dalla sua infanzia difficile in un ghetto statunitense.

Ergo, anche se si sta parlando di razzismo a livello globale, in realtà si sta parlando unicamente della società statunitense, a cui il film è indirizzato. Ma, nonostante questo, Killmonger è convinto che sia giusto dichiarare guerra a tutti i paesi del mondo, dove apparentemente (ma senza che lui ne abbia una reale sicurezza), la sua comunità viene sempre e ugualmente discriminata.

Insomma, riflettendoci un attimo, le motivazioni del villain appaiono abbastanza ridicole e poco credibili.

Tuttavia, è anche giusto essere clementi.

I problemi di Black Panther sono i problemi di tutti

Daniel Kaluuy in una scena di Black Panther (2018) di Ryan Coogler

Sarebbe totalmente ingiusto accanirsi su alcuni problemi di questo film.

Infatti, diversi difetti che si possono imputare a questa pellicola, si possono allo stesso modo imputare a molti altri film Marvel.

Per esempio, il problema del protagonista freddo e distante è una questione ben più grave in Captain Marvel (2019). Così i villain insulsi si trovano in una buona parte di tutti i film Marvel, soprattutto all’inizio, partendo da Iron man (2008) fino a Doctor Strange (2016).

Allo stesso modo non ho neanche voglia di sprecare tante parole riguardo al villain minore, Ulysses Klaue, un antagonista da operetta interpretato da Andy Serkis in una delle peggiori prove attoriali della sua carriera.

E neanche mi voglio troppo accanire sulle motivazioni ridicole di Killmonger: è solo uno fra tanti.

Per questo motivo non considero Black Panther un pessimo film, ma un film medio dell’MCU.

Un setting diverso

Un merito indubbio del film è la novità delle ambientazioni e, in parte, dell’estetica.

L’estetica di Black Panther è basata in gran parte sulla corrente dell’afrofuturismo, un movimento nato negli Stati Uniti nella seconda metà del Novecento. Una corrente caratterizzata da diverse espressioni artistiche, ma accomunate in generale dall’elemento fantastico e fantascientifico affiancato alla cultura tradizionale africana.

Una corrente finalizzata quindi a rivendicare la cultura africana e il suo posto nell’evoluzione tecnologica e umana.

Questa pellicola ha fatto tornare questa corrente artistica molto in voga ed ha indubbiamente portato un elemento abbastanza unico nel panorama dell’MCU. Personalmente ho apprezzato questi elementi di incontro fra due realtà estetiche così diverse, tanto che le scene fuori dal Wakanda mi sono sembrate esteticamente poco interessanti.

Tuttavia, questa stessa corrente porta con sé dei problemi.

Black Panther è un film razzista?

Sembra una domanda stupida e provocatoria, ma per molti non lo è.

Alla luce di quanto detto sul tipo di corrente artistica seguita da questo film, è evidente che ad un pubblico occidentale possono apparire quantomeno strani certi accostamenti, come i palazzi ultramoderni con i tetti di paglia.

La mia idea è che questo film sia stato fatto con tutte le migliori intenzioni, che in parte si sono realizzate, e che in parte invece potrebbero aver avuto non il migliore degli esiti.

Con questo mi riferiscono principalmente al sistema elettivo basato su una lotta potenzialmente all’ultimo sangue.

Non parlo tanto di come questo elemento possa apparire proprio di una società più primitiva, ma più che altro come lo stesso possa non essere stato la migliore rappresentazione per la comunità afrodiscendente. Infatti, nella società statunitense, a cui la pellicola è principalmente indirizzata, gli afroamericani sono spesso raccontati come criminali, violenti e chiassosi.

E non si è pensato al rischio di rafforzare questo stereotipo raccontando una società di persone nere basata sulla violenza?

Black Panther è un capolavoro?

Per quanto mi rendo conto che il concetto di capolavoro è molto fumoso e personale, direi che possiamo metterci una mano sul cuore e dire che no, Black Panther non è un capolavoro.

Come detto, al di là dell’importanza che può aver avuto e delle emozioni che ha dato a tanti, è obiettivamente un film medio, con uno scarso valore artistico e che non aggiunge niente neanche al suo genere di riferimento.

E la sua candidatura agli Oscar è stata puramente per motivi politici.

Dove si colloca Black Panther (2018)?

Black Panther è un origin story abbastanza a sé stante.

Il personaggio era già stato introdotto in Captain America: Civil War (2016), ma ha la sua storia completa in questo film. La pellicola fa parte di quei prodotti che possiamo definire pre-Endgame: come per Captain Marvel (2019), viene introdotto un nuovo personaggio che poi combatte nella battaglia finale della Fase 3.

La pellicola dovrebbe essere ambientata fra il 2016 e il 2018, e fa parte della Fase 3.

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Avventura Azione David Cronenberg Drammatico Fantascienza Film Futuristico

eXistenZ – Are we still in the game?

eXistenZ (1999) è uno dei film minori di Cronenberg, che alla fine degli Anni Novanta e con decisamente meno budget raccontava un mondo non tanto dissimile da quello di Ready Player One (2018).

Il tutto, sempre con lo stile inconfondibile del regista.

Davanti ad un budget comunque non risicato (30 milioni di dollari), incassò, come tipicamente nella sua produzione, appena 2,8 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla eXistenZ?

In un mondo futuristico, le console di videogiochi sono diventate biologiche e si attaccano direttamente al corpo dei giocatori. In occasione dell’anteprima del nuovo gioco, la vita di Allegra Geller, la designer del videogioco, viene attentata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere eXistenZ?

Jude Law in una scena di eXistenZ (1999) di David Cronenberg

In generale, sì.

Personalmente è il film della produzione di Cronenberg che mi hanno meno convinto. In generale l’ho trovata una pellicola che, togliendo il suo principale elemento di fascino, è abbastanza sottotono.

Al contempo, è anche uno di quei prodotti che, se siete veramente innamorati dell’estetica di Cronenberg e della sua fantascienza corporea, è probabile che vi piaccia molto. Tuttavia, manca del mordente dal punto di vista tecnico (pochi elementi di effetti speciali materiali) e di profondità narrativa.

Raccontare un videogioco…a metà

Jennifer Jason Leigh in una scena di eXistenZ (1999) di David Cronenberg

Un elemento non propriamente a mio parere ben sfruttato è quello della realtà del videogioco.

Per quanto complessivamente la storia sia credibile, pecca nella verosimiglianza del racconto dei cosiddetti NPC (Non Player Characters), ovvero quei personaggi dei videogiochi con cui il giocatore interagisce ma che sono di fatto dei bot.

Non so quanto fosse profonda la conoscenza del regista al riguardo e quanto di fatto gli interessasse, ma avendo in mente altri prodotti con storie analoghe mi è personalmente dispiaciuta questa mancanza. Più che altro sembra che i protagonisti siano immersi in una sorta di storia di spy story piuttosto intricata, più che all’interno di un effettivo videogioco.

Così il fatto che tutti i personaggi fossero a modo loro dei giocatori è indubbiamente funzionale alla narrazione, ma poco credibile sempre nel contesto videoludico: il videogiocatore vive per essere il protagonista, non il personaggio secondario.

Insomma, da questo punto di vista si poteva fare decisamente di meglio.

La costruzione a scatole cinesi

Willem Dafoe in una scena di eXistenZ (1999) di David Cronenberg

La costruzione a scatole cinesi, per cui non si sa mai quando i personaggi sono nella realtà e quando nel videogioco, l’ho trovato al contrario molto interessante. Ed è un elemento che funziona così bene anche perché il contrasto fra illusione e realtà è il pane quotidiano di Cronenberg fin da Videodrome (1983).

Di fatto i personaggi (e di conseguenza anche lo spettatore) non hanno mai la sicurezza di essere nella realtà vera, ma al contrario si perdono in diversi livelli di realtà virtuale, in un labirinto da cui sembra impossibile uscire.

E per lo stesso motivo il cliffhanger finale l’ho trovato anche molto indovinato.

Ancora il corpo

Jude Law in una scena di eXistenZ (1999) di David Cronenberg

In questa pellicola ho poco apprezzato gli effetti speciali e la gestione della corporeità in generale.

Per come è messo in scena, per certi versi questo film mi è sembrato il sogno di un feticista, sia per i game pod, che sono accarezzati e trattati quasi sessualmente (e infatti sembrano quasi dei seni), ma soprattutto la bioporta.

Fra tutti i modi in cui avrebbero potuto mostrarle, chissà come mai le bioporte hanno una forma così caratteristica e sono proprio vicino al fondo schiena, oltre ad essere penetrati da un elemento dalla forma così fallica.

E soprattutto il modo in cui il gamepod è preparato per essere inserito nella bioporta.

Signor Cronenberg, anche meno.