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Terminator – Nato per un ruolo

Terminator (1984) di James Cameron è il primo capitolo della duologia omonima diretta dall’iconico regista, che portò poi ad altri quattro seguiti e tentativi di rilancio, non sempre vincenti…

Un film che è diventato facilmente iconico, grazie alla straordinaria scelta di un interprete come Arnold Schwarzenegger, che sembra veramente nato per il ruolo, e che al tempo era noto soprattutto nella scena culturista.

Un film prodotto con veramente pochissimo, appena 6,4 milioni di dollari, e che, per questo, fu un ottimo successo commerciale: 78 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Terminator?

Un misterioso killer sembra prendere di mira donne dal nome Sarah Connor. Ma il suo vero obiettivo è piuttosto inusuale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Terminator?

Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator (1984) di James Cameron

In generale, sì.

Ammetto che è un film che mi ha entusiasmato meno di quanto mi aspettassi, ma sono stata colpita dagli elementi che l’hanno reso un cult, ovvero l’infinita tamarraggine e convinzione di Arnold Schwarzenegger.

Per il resto, è un film che può indubbiamente entusiasmare i patiti di film action, soprattutto datati, ma narrativamente parlando è abbastanza debole e leggermente ridondante. Tuttavia, non mi sento assolutamente di sconsigliarlo.

Potrebbe sorprendervi.

Nato per un ruolo

Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator (1984) di James Cameron

L’assoluto punto di forza della pellicola è proprio il suo villain, il Terminator. E, come detto, non poteva esserci un attore più adatto di Arnold Schwarzenegger per questo ruolo.

Sembra genuinamente che non stia neanche recitando, tanto che, quando il suo personaggio deve dimostrare la sua forza sovrumana, mi viene il dubbio che non ci fosse niente di finto…

D’altronde, l’attore era innanzitutto una star nel mondo del culturismo, e si era già fatto notare a livello internazionale per un ruolo non dissimile, nella duologia di Conan. Insomma, le sue scene, anche quelle più sopra le righe, le ho assolutamente adorate.

Una protagonista insipida

Linda Hamilton in una scena di Terminator (1984) di James Cameron

La sua controparte positiva non si può dire altrettanto vincente.

L’attrice, Linda Hamilton, era al tempo giovanissima e ancora molto alle prime armi. La sua carriera, fra l’altro, non è mai decollata, restando sempre molto vincolata alla saga di Terminator.

Purtroppo, come protagonista fallisce soprattutto dal punto di vista dell’evoluzione: per la maggior parte della pellicola Sarah Connor è un personaggio indifeso e da salvare, che non ha fondamentalmente una volontà propria, ma che si lascia trasportare dagli eventi.

Il suo momento di evoluzione avviene troppo in fretta e troppo tardi, senza un’adeguata costruzione, portandoci ad una caratterizzazione finale poco credibile e che non giustifica quello che è stato raccontato sul suo futuro.

Fare molto con poco

Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator (1984) di James Cameron

Terminator è un altro ottimo esempio di quanto basta poco per fare molto.

Il tocco registico di Cameron si vede ampiamente nella messinscena affascinante, la fotografia suggestiva e la direzione delle scene di azione di grande impatto.

Quasi altrettanto vincente è il comparto trucco e degli effetti speciali: molto bella e credibile la sequenza in cui Terminator si cura il braccio, un pochino meno quando si apre l’occhio, quando è evidente (per ovvi motivi) che l’attore avesse addosso una maschera di gomma.

Non male anche Terminator nella sua forma metallica, anche se in certe scene sembra molto bidimensionale.

Nel complesso, un’ottima prova di un regista capace di rendere di valore anche un prodotto mainstream.

Un racconto ridondante

La trama di Terminator è purtroppo molto ridondante: è fondamentalmente un infinito inseguimento, puntellato da alcuni elementi di trama e dai grandi momenti di Arnold Schwarzenegger.

Soprattutto sul finale mi rimbombava nella testa uno degli insegnamenti fondamentali di Scream:

This is the moment when the supposed dead killer come back to life

Questo è il momento in cui il killer che dovrebbe essere morto torna in vita

Infatti, da certi punti di vista, la struttura narrativa è simile a quella di uno slasher, con il protagonista imbattibile e che sembra non morire mai.

Anche il recente Halloween Ends (2022) insegna…

I sequel dovuti

A differenza di altri prodotti che portarono ad infiniti sequel senza che ce ne fosse il minimo bisogno, come Lo squalo (1975) e Scanners (1981), questa pellicola è una miniera d’oro per sequel e spin-off.

Infatti, la trama del futuro è incredibilmente affascinante, e, soprattutto fatta con budget più consistenti, poteva portare a dei prodotti spettacolari. Ammetto di avere solo un vago ricordo di Terminator Salvation (2009) e abbastanza un buon ricordo di Terminator 2 (1991), quindi non posso giudicare nella sua interezza.

Ma i numeri parlano chiaro: fra i sequel, quelli andati meglio furono il secondo e il terzo, mentre i successivi, anche per via di un budget ben più consistente, ebbero risultati medi, fino a abbastanza mediocri con l’ultimo, Terminator – Destino Oscuro (2019).

Personalmente mi sarei aspettata risultati più vicini a quelli del recente rilancio di Jurassic Park

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Wakanda Forever – L’indifendibile

Black Panther: Wakanda Forever (2022) di Ryan Coogler è il sequel di Black Panther (2018), prodotto a seguito della tristissima scomparsa di Chadwick Boseman, protagonista del primo film, nonché l’interprete che dava il volto all’eroe della storia.

Un triste avvenimento che ha scombinato totalmente le carte in tavola del progetto, dovendo portare un nuovo eroe e una nuova Pantera Nera, quando le basi per ovvi motivi non erano mai state buttate.

E, stranamente, non è neanche il maggiore problema del film.

Come era prevedibile davanti al riscontro e al fantastico incasso del primo capitolo, il film ha aperto benissimo nel box office mondiale, con 330 milioni di incasso. E probabilmente continuerà altrettanto bene.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Wakanda forever (2022)

Miglior attrice non protagonista a Angela Bassett
Migliore costumi
Migliore trucco e acconciatura
Miglior canzone
Migliori effetti speciali

Di cosa parla Wakanda Forever?

Dopo la morte del suo re, il Wakanda si trova nella delicata situazione di dover gestire la sua posizione internazionale. Come se questo non bastasse, c’è un nuovo e pericolosissimo nemico all’orizzonte, che minaccia l’esistenza stessa del paese…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Wakanda Forever?

Una scena di Black Panther: Wakanda Forever (2022) di Ryan Coogler

Wakanda Forever è un film che vi consiglio solamente in due casi: se siete dei fan sfegatati dell’MCU e non potete perdervi nessun film, oppure se siete emotivamente molto legati al primo film e per questo attendete molto il sequel.

Per il resto, non è film che mi sento di consigliare.

Una pellicola inutilmente lunga, una trama colabrodo e scene action neanche così interessanti. Un prodotto MCU preso e inscatolato nella maniera più pigra e pasticciata possibile, decisamente peggiore del primo, che era sempre problematico, ma decisamente più quadrato.

Una grande delusione, per qualcuno che non si aspettava niente.

La drammatica indifferenza

Winston Duke in una scena di Black Panther: Wakanda Forever (2022) di Ryan Coogler

È giusto cominciare questa recensione raccontandovi come mi sono sentita per sostanzialmente la totalità della pellicola.

In qualsiasi momento mi sarei potuta alzare, uscire dalla sala e dimenticarmi per sempre di questo film, senza avere alcun interesse a sapere cosa fosse successo dopo. La struttura narrativa di questi prodotti è molto spesso lineare e prevedibile, ma si regge su una buona capacità di intrattenimento e l’interesse verso il protagonista e le sue avventure.

Niente di tutto questo per Wakanda Forever.

I personaggi sono insipidi, la trama prevedibile e poco appassionante, anzi gira moltissimo su sé stessa, arrivando stancamente e stupidamente ad un punto troppo tardi e senza portare elementi di vero interesse.

Anzi, ci sono troppe cose veramente poco credibili, ultima solo la scelta dei protagonisti di portare la battaglia finale nel luogo più utile del loro nemico, lo stesso che può controllare animali mastodontici come le balene e le orche.

E sono questi gli eroi per cui dovrei tifare?

Una nuova e buona Pantera?

Letitia Wright, in una scena di Black Panther: Wakanda Forever (2022) di Ryan Coogler

Uno dei pochi punti vagamente positivi della pellicola è il personaggio di Shuri.

Ma non perché sia una buona protagonista, ma perché ha almeno una costruzione emotiva e psicologica, grande differenza rispetto alla freddezza che ho provato vedendo T’Challa in Black Panther. Tuttavia, niente di nuovo, niente di interessante e, soprattutto, niente di ben scritto.

Teoricamente il suo percorso dovrebbe essere attraverso il lutto, poi il desiderio di vendetta e una sorta di incattivimento che la porta ad essere crudele nei confronti di tutti, soprattutto dei suoi nemici. Tuttavia, complice la scrittura e la scarsa capacità recitativa di Letitia Wright, ne risulta un racconto poco funzionante.

La stupidità di Namor

Namor è senza dubbio uno dei peggiori villain di tutto l’MCU.

Se per lo scorso film mi sono sentita di difendere il villain, perché tipicamente nei prodotti della Marvel è l’aspetto più debole.

Non posso farlo in questo caso: Namor è davvero indifendibile. La sua stupidità è talmente vasta che, proprio nel momento in cui sta distruggendo il Wakanda, decide di lasciare ai suoi nemici una settimana di tempo per riorganizzarsi contro di lui.

E non è credibile che questo avvenga per le sue motivazioni iniziali, ovvero di allearsi con il Wakanda: Namor dice letteralmente ho tanti guerrieri quanti i fili d’erba, ovvero migliaia, se non centinaia di migliaia, guerrieri col potere delle Pantere Nere. Per questo ha letteralmente nessun motivo per cercare ancora l’alleanza con il Wakanda, tanto più ora che gli si è dimostrata ostile.

Come se tutto questo non bastasse, è veramente imbarazzante che questo personaggio abbia in buona sostanza le stesse motivazioni e lo stesso piano del villain dello scorso film.

Poche volte ho visto una così profonda pigrizia narrativa.

Ramonda: racconto di una stronza

Ramonda, la regina, è per me uno dei peggiori personaggi del film, seconda solo a Namor.

Quasi come la figlia, è un personaggio totalmente incattivito, che si comporta in maniera impulsiva e ingiustamente cattiva. In particolare, l’ho trovata davvero terrificante nel suo comportamento con Okoye. Se non ve lo ricordate, la generale nel primo film aveva rivoltato la lama contro il suo stesso marito ed era sempre rimasta fedele al Wakanda, come aveva giurato.

Ma Ramonda decide di rinfacciargli questa, punendola ingiustamente e per pura cattiveria.

Non ho pianto la sua morte, sinceramente.

La pochezza estetica

Come nel primo film ero abbastanza interessata all’estetica e alla sua ispirazione del tutto particolare all’afrofuturismo, sono rimasta veramente delusa dalla scelta invece dall’estetica riguardo alla nuova nazione e ai villain.

Anzitutto per Talokan, che nel film evidentemente doveva sembrare un paradiso subacqueo, che invece ho trovato invece un incubo. Un luogo buio, tetro, spoglio, dove non vorrei mai mettere piede. Quindi quando Namor dice a Shuri vedi cosa devo proteggere, mi veniva quasi da ridere.

Poi in generale la maggior parte dell’estetica di Namor e del suo popolo l’ho trovata incredibilmente plasticosa e sinceramente brutta, molto lontana dall’eleganza che anche in questo film ho trovato nel Wakanda e nel suo popolo.

Per non parlare di quanto Namor appaia ridicolo con quelle alette ai piedi, che lo rendono un personaggio inutilmente cartoonesco e fumettoso, in maniera del tutto fuori contesto rispetto al resto del film…

Iron Heart: è ora di smetterla

Sono personalmente stufa delle introduzioni di nuovi supereroi in prodotti di altri. Mi rendo drammaticamente conto della necessità di marketing che c’è dietro: è la Marvel che imbocca forzatamente lo spettatore di qualcosa che non voleva, così da stuzzicarne la curiosità.

Perché, onestamente, quanti avrebbero accettato con entusiasmo e a scatola chiusa la serie dedicata a questo personaggio senza questa introduzione?

Ho sentito tanto entusiasmo intorno a questo personaggio, che dovrebbe seguire le orme di Ironman. Tuttavia, il tempo è poco e, nonostante si cerchi di mimare proprio le dinamiche del personaggio di ispirazione, Riri Williams mi è risultata davvero insipida.

Ma forse quello che mi ha fatto davvero arrabbiare è stata la battuta con cui il personaggio si auto introduce, che mi è sembrato quasi al pari del Ma sei una supereroina egiziana? in Moon Knight.

Insomma, quasi un modo per svelare un token.

Il rispetto di Wakanda Forever

Il racconto intorno al personaggio di Boseman non è stato così tanto di cattivo gusto come mi aspettavo, ma mi ha dato lo stesso fastidio.

Per quanto mi riguarda, avrebbero dovuto limitare questo omaggio ad un semplice accenno, e non metterlo così tanto in scena, fra l’altro come elemento della narrazione in maniera così plateale sul finale.

Perché, per quanto ne vogliamo dire, mentre mi si stringeva il cuore ricordando la sua tragedia, mi sono anche resa conto che questa narrazione era anche finalizzata a lucrare sulla stessa.

E nessuna dichiarazione in merito alla bontà dell’operazione da chi ci ha lavorato potrà togliermi questo pensiero dalla testa.

Dove si colloca Wakanda Forever (2022)?

Come per il primo film, anche Wakanda Forever è un film abbastanza a sé stante.

È ovviamente successivo Endgame (2019) – le cui vicende si svolgono nel 2023 – ma, secondo la timeline di Disney+, si colloca fra Moonknight e She Hulk, ovvero la primavera del 2025.

È l’ultimo film della Fase 4.

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Black Panther – Un capolavoro medio

Black Panther (2018) di Ryan Coogler è una origin story dedicata al personaggio omonimo, che era già stato brevemente introdotto in Captain America – The Winter Soldier (2014). Un film che è diventato un caso, per tanti motivi, nonché un prodotto di grande importanza per la comunità africana e afrodiscendente.

E ovviamente questa importanza è arrivata a raccontarlo come un capolavoro.

Prima di fiondarci in sala a guardare il sequel, Wakanda Forever (2022), vale la pena riflettere sul primo capitolo e su quello che, al di là del giudizio di pancia, è effettivamente. Sicuramente fu uno dei più grandi successi commerciali dell’MCU: a fronte di un budget di 200 milioni di dollari, incassò 1,3 miliardi in tutto il mondo.

Di cosa parla Black Panther?

Dopo la morte del padre, T’Challa diventa il nuovo re di Wakanda, lo stato africano isolazionista, mentre il suo trono viene minacciato da un personaggio misterioso…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Black Panther?

Chadwick Boseman in una scena di Black Panther (2018) di Ryan Coogler

La giusta domanda in realtà sarebbe: ha senso guardare Black Panther al di fuori del resto dei film dell’MCU?

Sì e no.

Anche se fondamentalmente riesce ad essere un prodotto abbastanza autonomo, in cui non ci sono altri personaggi di altri film in scena (a parte nelle ignorabili scene post-credit), a mio parere ha poco senso vederlo se non si è un minimo appassionati dell’MCU, soprattutto a quattro anni di distanza.

Infatti, come approfondiremo meglio nella parte spoiler, Black Panther è un film MCU e supereroistico in generale molto medio, che non brilla più di tanto, se non proponendo un setting diverso dal solito.

Se invece volete vedere Black Panther in vista di Wakanda Forever o per un recuperone generale dell’MCU, ovviamente vale la pena di guardarlo: in una mia ipotetica classifica, Black Panther sarebbe in una posizione mediana.

Insomma, senza infamia e senza lode.

Immagini in movimento

Chadwick Boseman e Lupita Nyong'o  in una scena di Black Panther (2018) di Ryan Coogler

Il mio principale problema con questo film è che tutti i personaggi in scena potrebbero lasciarci per una morte improvvisa e non me ne potrebbe interessare di meno.

E secondo è anche un difetto della pellicola, che non intraprende un particolare approfondimento del personaggio, che invece appare piuttosto distante dallo spettatore e con conflitti che sembra già subito capace di risolvere. E non è una scusante il fatto che sia stato introdotto in un’altra pellicola.

Perché lo stesso è successo con Spiderman in Captain America – Civil War (2016).

Premetto per correttezza che sono molto di parte, perché Spiderman Homecoming (2017) è il mio film MCU preferito e così lo Spiderman di Tom Holland è il mio Spiderman preferito.

Tuttavia, è anche vero che in Homecoming, complice anche una minore drammaticità della storia, mi sono trovata davanti ad un protagonista con una storia molto coinvolgente e che, soprattutto, era davvero fallibile e vicino allo spettatore.

Benché lo scheletro narrativo di Black Panther sia abbastanza simile (come simile alla maggior parte delle origin story supereroistiche), non sono riuscita a trovare lo stesso tipo di coinvolgimento. Anche perché tutti i problemi di T’Challa sono muscolari e si risolvono con combattimenti vinti da chi è più abile a menar le mani, fondamentalmente.

Insomma, secondo me questo personaggio manca di un’adeguata profondità narrativa e psicologica.

E non parliamo poi del villain…

Un villain insulso

Michael B. Jordan' in una scena di Black Panther (2018) di Ryan Coogler

Il villain di Black Panther è per me uno dei meno indovinati dell’MCU.

Non tanto per la sua introduzione o per il modo in cui si comporta, ma per le sue motivazioni.

Purtroppo in questo film si è deciso proprio di colpire alla pancia dello spettatore, e scegliere di raccontare una discriminazione a livello globale nei confronti delle persone afrodiscendenti.

Problema che indubbiamente esiste, ma che appare quanto mai evidente come il discorso al riguardo sia stato fatto principalmente con un’idea molto statunitense e provinciale.

Infatti il discorso di Killmonger sul razzismo e sulla discriminazione non è derivato da un’esperienza internazionale dove ha visto la sua comunità oppressa, ma, al contrario, semplicemente dalla sua infanzia difficile in un ghetto statunitense.

Ergo, anche se si sta parlando di razzismo a livello globale, in realtà si sta parlando unicamente della società statunitense, a cui il film è indirizzato. Ma, nonostante questo, Killmonger è convinto che sia giusto dichiarare guerra a tutti i paesi del mondo, dove apparentemente (ma senza che lui ne abbia una reale sicurezza), la sua comunità viene sempre e ugualmente discriminata.

Insomma, riflettendoci un attimo, le motivazioni del villain appaiono abbastanza ridicole e poco credibili.

Tuttavia, è anche giusto essere clementi.

I problemi di Black Panther sono i problemi di tutti

Daniel Kaluuy in una scena di Black Panther (2018) di Ryan Coogler

Sarebbe totalmente ingiusto accanirsi su alcuni problemi di questo film.

Infatti, diversi difetti che si possono imputare a questa pellicola, si possono allo stesso modo imputare a molti altri film Marvel.

Per esempio, il problema del protagonista freddo e distante è una questione ben più grave in Captain Marvel (2019). Così i villain insulsi si trovano in una buona parte di tutti i film Marvel, soprattutto all’inizio, partendo da Iron man (2008) fino a Doctor Strange (2016).

Allo stesso modo non ho neanche voglia di sprecare tante parole riguardo al villain minore, Ulysses Klaue, un antagonista da operetta interpretato da Andy Serkis in una delle peggiori prove attoriali della sua carriera.

E neanche mi voglio troppo accanire sulle motivazioni ridicole di Killmonger: è solo uno fra tanti.

Per questo motivo non considero Black Panther un pessimo film, ma un film medio dell’MCU.

Un setting diverso

Un merito indubbio del film è la novità delle ambientazioni e, in parte, dell’estetica.

L’estetica di Black Panther è basata in gran parte sulla corrente dell’afrofuturismo, un movimento nato negli Stati Uniti nella seconda metà del Novecento. Una corrente caratterizzata da diverse espressioni artistiche, ma accomunate in generale dall’elemento fantastico e fantascientifico affiancato alla cultura tradizionale africana.

Una corrente finalizzata quindi a rivendicare la cultura africana e il suo posto nell’evoluzione tecnologica e umana.

Questa pellicola ha fatto tornare questa corrente artistica molto in voga ed ha indubbiamente portato un elemento abbastanza unico nel panorama dell’MCU. Personalmente ho apprezzato questi elementi di incontro fra due realtà estetiche così diverse, tanto che le scene fuori dal Wakanda mi sono sembrate esteticamente poco interessanti.

Tuttavia, questa stessa corrente porta con sé dei problemi.

Black Panther è un film razzista?

Sembra una domanda stupida e provocatoria, ma per molti non lo è.

Alla luce di quanto detto sul tipo di corrente artistica seguita da questo film, è evidente che ad un pubblico occidentale possono apparire quantomeno strani certi accostamenti, come i palazzi ultramoderni con i tetti di paglia.

La mia idea è che questo film sia stato fatto con tutte le migliori intenzioni, che in parte si sono realizzate, e che in parte invece potrebbero aver avuto non il migliore degli esiti.

Con questo mi riferiscono principalmente al sistema elettivo basato su una lotta potenzialmente all’ultimo sangue.

Non parlo tanto di come questo elemento possa apparire proprio di una società più primitiva, ma più che altro come lo stesso possa non essere stato la migliore rappresentazione per la comunità afrodiscendente. Infatti, nella società statunitense, a cui la pellicola è principalmente indirizzata, gli afroamericani sono spesso raccontati come criminali, violenti e chiassosi.

E non si è pensato al rischio di rafforzare questo stereotipo raccontando una società di persone nere basata sulla violenza?

Black Panther è un capolavoro?

Per quanto mi rendo conto che il concetto di capolavoro è molto fumoso e personale, direi che possiamo metterci una mano sul cuore e dire che no, Black Panther non è un capolavoro.

Come detto, al di là dell’importanza che può aver avuto e delle emozioni che ha dato a tanti, è obiettivamente un film medio, con uno scarso valore artistico e che non aggiunge niente neanche al suo genere di riferimento.

E la sua candidatura agli Oscar è stata puramente per motivi politici.

Dove si colloca Black Panther (2018)?

Black Panther è un origin story abbastanza a sé stante.

Il personaggio era già stato introdotto in Captain America: Civil War (2016), ma ha la sua storia completa in questo film. La pellicola fa parte di quei prodotti che possiamo definire pre-Endgame: come per Captain Marvel (2019), viene introdotto un nuovo personaggio che poi combatte nella battaglia finale della Fase 3.

La pellicola dovrebbe essere ambientata fra il 2016 e il 2018, e fa parte della Fase 3.

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eXistenZ – Are we still in the game?

eXistenZ (1999) è uno dei film minori di Cronenberg, che alla fine degli Anni Novanta e con decisamente meno budget raccontava un mondo non tanto dissimile da quello di Ready Player One (2018).

Il tutto, sempre con lo stile inconfondibile del regista.

Davanti ad un budget comunque non risicato (30 milioni di dollari), incassò, come tipicamente nella sua produzione, appena 2,8 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla eXistenZ?

In un mondo futuristico, le console di videogiochi sono diventate biologiche e si attaccano direttamente al corpo dei giocatori. In occasione dell’anteprima del nuovo gioco, la vita di Allegra Geller, la designer del videogioco, viene attentata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere eXistenZ?

Jude Law in una scena di eXistenZ (1999) di David Cronenberg

In generale, sì.

Personalmente è il film della produzione di Cronenberg che mi hanno meno convinto. In generale l’ho trovata una pellicola che, togliendo il suo principale elemento di fascino, è abbastanza sottotono.

Al contempo, è anche uno di quei prodotti che, se siete veramente innamorati dell’estetica di Cronenberg e della sua fantascienza corporea, è probabile che vi piaccia molto. Tuttavia, manca del mordente dal punto di vista tecnico (pochi elementi di effetti speciali materiali) e di profondità narrativa.

Raccontare un videogioco…a metà

Jennifer Jason Leigh in una scena di eXistenZ (1999) di David Cronenberg

Un elemento non propriamente a mio parere ben sfruttato è quello della realtà del videogioco.

Per quanto complessivamente la storia sia credibile, pecca nella verosimiglianza del racconto dei cosiddetti NPC (Non Player Characters), ovvero quei personaggi dei videogiochi con cui il giocatore interagisce ma che sono di fatto dei bot.

Non so quanto fosse profonda la conoscenza del regista al riguardo e quanto di fatto gli interessasse, ma avendo in mente altri prodotti con storie analoghe mi è personalmente dispiaciuta questa mancanza. Più che altro sembra che i protagonisti siano immersi in una sorta di storia di spy story piuttosto intricata, più che all’interno di un effettivo videogioco.

Così il fatto che tutti i personaggi fossero a modo loro dei giocatori è indubbiamente funzionale alla narrazione, ma poco credibile sempre nel contesto videoludico: il videogiocatore vive per essere il protagonista, non il personaggio secondario.

Insomma, da questo punto di vista si poteva fare decisamente di meglio.

La costruzione a scatole cinesi

Willem Dafoe in una scena di eXistenZ (1999) di David Cronenberg

La costruzione a scatole cinesi, per cui non si sa mai quando i personaggi sono nella realtà e quando nel videogioco, l’ho trovato al contrario molto interessante. Ed è un elemento che funziona così bene anche perché il contrasto fra illusione e realtà è il pane quotidiano di Cronenberg fin da Videodrome (1983).

Di fatto i personaggi (e di conseguenza anche lo spettatore) non hanno mai la sicurezza di essere nella realtà vera, ma al contrario si perdono in diversi livelli di realtà virtuale, in un labirinto da cui sembra impossibile uscire.

E per lo stesso motivo il cliffhanger finale l’ho trovato anche molto indovinato.

Ancora il corpo

Jude Law in una scena di eXistenZ (1999) di David Cronenberg

In questa pellicola ho poco apprezzato gli effetti speciali e la gestione della corporeità in generale.

Per come è messo in scena, per certi versi questo film mi è sembrato il sogno di un feticista, sia per i game pod, che sono accarezzati e trattati quasi sessualmente (e infatti sembrano quasi dei seni), ma soprattutto la bioporta.

Fra tutti i modi in cui avrebbero potuto mostrarle, chissà come mai le bioporte hanno una forma così caratteristica e sono proprio vicino al fondo schiena, oltre ad essere penetrati da un elemento dalla forma così fallica.

E soprattutto il modo in cui il gamepod è preparato per essere inserito nella bioporta.

Signor Cronenberg, anche meno.

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2022 Avventura Azione Comico Commedia nera Drammatico Film Giallo Horror Humor Nero Scream - Il secondo rilancio Scream Saga Thriller

Scream 5 – Just another requel

Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett rappresenta il secondo e più recente rilancio della saga omonima, presa in mano da due giovani registi emergenti, dopo la triste dipartita di Wes Craven.

Una riproposizione del brand che, nonostante poche e contenute sbavature, riesce a riportare in scena un cult ormai nato quasi 30 anni fa e che è sempre riuscito a riproporsi e ad adattarsi ai nuovi tempi.

E con Scream 5 lo fa quasi con la stessa freschezza di Scream 4 (2011).

Tuttavia, in questo caso fu anche un successo commerciale: con un budget molto più contenuto del precedente (21 milioni contro 40 milioni di dollari) e con un incasso anch’esso contenuto, tuttavia portando complessivamente ad un film molto redditizio: 140 milioni dollari in tutto il mondo.

E infatti è già pronto il sequel, Scream 6 (2023).

Di cosa parla Scream 5?

Dopo 30 anni dall’inizio della scia di sangue di Woodsboro, la saga ricomincia nella stessa città, con questa volta due nuove protagoniste, Tara e Sam, perseguitate dal loro passato legato agli eventi del primo film…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scream 5?

Jenna Ortega in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Per quanto mi riguarda, assolutamente sì.

Scream 5 è un fresco e piacevole rilancio della saga, riuscendo ad adeguarsi ai nuovi gusti, ma mantenendo gli schemi classici dell’horror slasher e della saga in generale. La grande novità della pellicola è che, a differenza degli altri film, dove di solito si instaurava un dialogo metanarrativo con il film stesso, in questo caso il dialogo è con lo spettatore.

Una bella scelta che riesce a rinnovare la colonna portante della saga.

Inoltre gli elementi degli scorsi film sono utilizzati con maggiore consapevolezza e capacità, in maniera pure superiore a Scream 4, che comunque io avevo apprezzato, ma che forse come punto debole aveva proprio il rimettere troppo in scena i vecchi personaggi.

Qui è tutto perfettamente equilibrato.

Un nuovo horror

Jenna Ortega in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Ask me about Hereditary! Ask me about It follows!

Chiedimi di Hereditary! Chiedimi di It follows!

Il primo passo che il film doveva fare era riuscire a rimettersi in contatto con il nuovo pubblico e il nuovo gusto in fatto di horror. Non essendo fan dell’horror mainstream contemporaneo e quindi conoscendone poco, avevo paura di rimanere spaesata.

E invece il film ha voluto sorprendermi.

Quando a Tara nella prima scena viene chiesto quale sia il suo film horror preferito, lei risponde molto candidamente Babadook (2014), elogiando anche la profondità del racconto e della trama. E così dopo continua citando altro horror autoriale come The Witch (2015), Hereditary (2018) e It follows (2014).

Così si racconta un panorama del cinema horror davvero mutato, dove i film autoriali non sono più così tanto di nicchia, ma riescono anzi ad incontrare il gusto di un pubblico più ampio, e in generale ad essere elogiati, come viene fatto anche nel film.

Una scelta davvero azzeccata.

Dialogare col pubblico

Jack Quaid in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Real Stab movies are meta slasher whodunits, full stop

Un vero film di Stab è uno slasher metanarrativo di stampo giallo, fine.

Come anticipato, la grande novità del film è il dialogo fra il film e il pubblico.

Il punto centrale del film è come gli stessi registi fossero consapevoli che ci sarebbero state molte critiche nei confronti della loro pellicola da parte dei nostalgici, che avrebbero voluto rivedere una riproposizione della trilogia originale.

E infatti questa è la tendenza generale di molte riproposizioni di cult (horror e non), fra cui l’esempio più evidente è sicuramente Halloween, che utilizza ancora schemi narrativi dei primi slasher, gli stessi che Scream derideva negli Anni Novanta.

E gli stessi killer infatti sono dei fan incalliti di Stab, che vogliono creare una storia vera da utilizzare per un sequel degno di questo nome.

Anche se in certi momenti risulta eccessivo da questo punto di vista, è davvero interessante includere nel film un discorso così vero e attuale, anticipando appunto le stesse critiche del film, anche a fronte dell’insuccesso di Scream 4, che era molto innovativo rispetto all’originale.

La regola del prevedibile

Ghostface in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Uno dei punti forti del primo Scream era la sua prevedibilità.

Davanti ad un pubblico abituato all’idea che il killer non è mai la persona più prevedibile, Scream scelse come uno dei killer proprio la persona più prevedibile. In Scream 5 praticamente dall’inizio sentiamo la soluzione del mistero dalla bocca di Dwight:

Never trust love interest

Mai fidarsi del proprio fidanzato

e infatti uno dei killer è Richie, il ragazzo di Sam, come fra l’altro le sottolinea proprio nel momento della sua rivelazione. Fra l’altro scelta eccellente castare un attore come Jack Quaid, conosciuto in questo periodo soprattutto per il suo remissivo personaggio di Hughie in The Boys.

E sempre Dwight aggiunge:

The first victim always has a friend group that the killer is a part of

La prima vittima ha sempre un gruppo di amici di cui il killer fa parte

E infatti l’altro killer è Amber, che sembra anche il personaggio che, paradossalmente, più si preoccupa della salute di Tara.

Inserire l’originale con il nuovo

Melissa Barrera in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Come detto, Scream 5 riesce in maniera pure migliore di Scream 4 ad aggiornare effettivamente le protagoniste del film, che sono davvero al centro della scena e della storia.

Mi è piaciuta particolarmente Tara: Jenna Ortega, non comunque alla sua prima esperienza e pronta ad esplodere con la prossima serie tv Wednesday, è riuscita a portare in scena in maniera davvero convincente tutto il dolore fisico e reale del suo personaggio.

Mi ha leggermente meno convinto il personaggio di Sam, che viaggia pericolosamente sul filo del trash: il fatto che veda il padre Billy Loomis che la incita a fare quello che fa nel finale, dove sfoga la sua furia omicida, è un elemento che potrebbe facilmente sfuggire di mano, sopratutto in un sequel.

Ben organico invece l’inserimento di Sidney e Gale, che sono solo delle spalle dei protagonisti che riescono ad arricchire il racconto e ad aiutare i personaggi a risolvere il mistero con la loro esperienza passata, ma senza mai rubare la scena alle protagoniste.

Ed era ora di passare la fiaccola.

Una nuova regia

Marley Shelton in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

La regia di Scream 5 mi ha piacevolmente sorpreso.

Uno degli elementi più piacevoli della saga è sempre stata la regia molto ispirata e con non pochi guizzi, fin da Scream (1996). E uno degli elementi più importanti da gestire sono sempre state le morti e la violenza, riuscendo sempre a renderle spettacolari e quasi artistiche.

Altrettanto bene riesce questa coppia di autori a portare una regia interessante e con non pochi momenti di rara eleganza. Anzitutto, l’uso del sangue, che ho trovato veramente magistrale, andando non poche volte a creare quasi dei quadri grotteschi e drammaticamente splendidi da osservare.

Ma la sequenza che mi ha davvero colpito è stata quella riguardante la morte di Judy e del figlio Wes. La genialità nasce quando al telefono Ghostface dice alla donna

Ever seen the movie Psycho?

Hai mai visto Psycho?

e poi si stacca con un’inquadratura eloquente sulla doccia che si sta facendo Wes, che è una delle inquadrature iconiche della famosa scena della doccia di Psycho (1960), appunto. Fra l’altro, come viene anche raccontato in Scream 4, il capolavoro di Hitchcock è considerato fra i capostipiti del genere slasher.

E si prosegue con una lunghissima sequenza in cui la camera gioca continuamente con lo spettatore, con Wes che apre e chiude infiniti sportelli dietro ai quali ci aspetteremmo di vedere il killer che sappiamo essere in casa.

Puoi essere più metanarrativo di così?

Ghostface in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Stop fucking up my ending

Basta rovinare il mio finale

Nonostante non sia l’elemento principale, la metanarrativa e la consapevolezza dei protagonisti degli schemi del film stesso che stanno vivendo è presente, e pure fatta bene.

L’unica sbavatura che mi sento di segnalare è che tutto questo elemento avrebbe dovuto essere nelle mani di Mindy, la quale da un certo punto in poi prende le redini di questo discorso come erede spirituale di Randy.

E infatti è la stessa che diventa la protagonista della scena più metanarrativa del film: Mindy che grida a Randy in Stab di girarsi che ha il killer alle spalle, mentre lo stesso grida la medesima cosa a Jamie Lee Curtis in Halloween, mentre Mindy stessa ha alle spalle il killer.

Ed è la stessa che anche racconta la questione dei requel, ovvero di remakesequel che effettivamente abbondano in questo periodo e che, in un certo senso è pure Scream 5. E quando siamo alle porte del terzo atto, ovvero quello della rivelazione, Mindy istruisce Amber di cosa non fare per non essere uccisa dal killer, con anche diversi finti colpi di scena sull’identità del killer.

Con la stessa Amber che annuncia l’inizio dell’ultimo atto del film:

Welcome to act three

Benvenuti nel terzo atto
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2022 Avventura Azione Comico Commedia Dramma familiare Fantascienza Fantasy Film Oscar 2023

Everything everywhere all at once – Forse troppo

Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche è un film totalmente surreale, che riesce ad unire il genere fantascientifico e fantastico con il dramma familiare.

Un prodotto tanto creativo e profondo tanto, per certi versi, difettoso.

Il film è stato un successo di pubblico incredibile, sopratutto al botteghino statunitense: a fronte comunque di un budget non irrisorio di 25 milioni di dollari, è arrivato ad incassare ben 140 milioni in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Everything everywhere all at once (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior regista
Migliore sceneggiatura originale

Miglior attrice protagonista a Michelle Yeoh
Miglior attore non protagonista a Ke Huy Quan
Migliore attrice non protagonista a Jamie Lee Curtis

Migliore attrice non protagonista a Stephanie Hsu
Miglior montaggio
Migliori costumi
Migliore colonna sonora
Miglior canzone originale

Di cosa parla Everything everywhere all at once?

Evelyn è una donna immigrata che si spacca la schiena dietro alla gestione della sua lavanderia a gettoni e della sua complicata famiglia. Un giorno viene improvvisamente contattata da un uomo che dice di venire da un altro universo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Everything everywhere all at once?

Michelle Yeoh in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Dipende.

Everything everywhere all at once è uno di quei classici film che spaccano il pubblico: è in effetti un prodotto particolarissimo, neanche facilissimo da seguire, ma che, se siete ben disposti, vi entrerà nel cuore.

Insomma, se state cercando un film che è un’esplosione di creatività e di pura estetica, che cerca di trasmettere dei profondi messaggi sulla vita e sulla famiglia, riuscendo anche ad essere discretamente divertente, potrebbe fare per voi.

Se invece non siete propensi ad accettare un film che dà più valore al messaggio e all’estetica che alla trama di per sé, potreste genuinamente odiarlo.

Essere disastrosamente creativi…

Stephanie Hsu in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

La creatività e l’estetica di questo film è non solo ammirabile, ma davvero sensazionale.

Sopratutto con i diversi costumi e aspetti di Joy, riesce a sperimentare e a portare in scena veramente di tutto, con una varietà e una cura del suo personaggio che mi ha fatto veramente impazzire.

Al contempo, anche se le idee raccontate magari non sono il massimo dell’originalità, ma anzi pescano a piene mani da cult come Matrix, i registi riescono comunque a sbizzarrirsi parecchio.

Sopratutto particolarmente divertenti sono i trampolini, anche se ammetto che ho riso meno dei miei compagni in sala (e forse anche di voi), per certe battute.

Insomma, per me l’umorismo è vincente fintanto che non scade nello slapstick.

…ma dimenticarsi del resto

Michelle Yeoh e Jamie Lee Curtis in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Per quanto un film possa essere incredibilmente creativo e artistico, non può dimenticarsi di avere una struttura narrativa, a meno che non voglia lanciare una corrente cinematografica che si ribella alle strutture narrative stesse (e non credo sia questo il caso).

Penso sia più probabile che questa coppia di fantasiosi ma anche talentuosi registi si sia trovata con un’ottima idea fra le mani, ma non sono stati in grado di esplicarla efficacemente in una struttura narrativa.

Infatti sembra che la trama parta in un certo senso immediatamente, senza neanche una introduzione effettiva che porti ad un secondo atto, che si espanda disordinatamente fino ad un finale che è pure efficace, ma che non arriva in maniera organica.

Non del tutto da buttare, ma un pochino più di ordine e di idee chiare avrebbe indubbiamente giovato al film.

La spirale dell’autodistruzione

Stephanie Hsu in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Uno dei punti fondamentali del film è il racconto di questo senso di fallimento e del volersi del tutto annullare.

Volendo andare a leggere più drammaticamente il black bagel, è possibile che si volesse raccontare in maniera anche un po’ più scanzonata la depressione e probabilmente anche il suicidio.

Joy sembra infatti volersi lasciare totalmente travolgere da questo senso di inadeguatezza e di fallimento.

È invece la madre, Evelyn, che accetta infine il suo fallimento, di essere la sua versione peggiore possibile, ma comunque di riuscire ad apprezzare la bellezza di quel poco che ha e di tutto il valore che può avere anche solo stare con suo marito, cosa che in altri universi di successo non ha.

Un finale quasi da commedia, ma ben contestualizzato e che ti scalda il cuore.

Contro il sogno americano

Michelle Yeoh in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Due elementi mi hanno particolarmente colpito della pellicola: la scelta della protagonista e il racconto del sogno americano.

Anzitutto, particolarmente raro vedere come protagonista di un film con elementi anche action una donna di mezza età, con anche la sua controparte di Deirdre, interpretata da un’esplosiva Jamie Lee Curtis.

Altrettanto dissacrante il fatto che la realizzazione personale della protagonista, almeno in potenza, non avvenga negli Stati Uniti, la terra promessa, ma in patria. Anzi, la scelta di immigrare negli Stati Uniti è quello che l’avrebbe portata più alla povertà e alla poca realizzazione.

Una certa novità in un panorama recente che racconta di come gli immigrati negli Stati Uniti che hanno solo da guadagnare nella nuova situazione: basta guardare Shang-chi e la leggenda dei dieci anelli (2021) e Red (2022) per capire la tendenza.

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Avventura Azione Commedia nera Drammatico Film Horror Humor Nero Scream Saga Scream Trilogia Originale Thriller

Scream 3 – Una rara conclusione

Scream 3 (2000) di Wes Craven è il terzo capitolo della saga omonima, che chiude quella che potremmo chiamare la trilogia originale, che venne poi ripresa nel 2011 con Scream 4 e poi ancora nel 2022 con Scream 5.

Il capitolo che, insieme al successivo, ebbe il maggiore budget della saga: ben 40 milioni, ben ricompensato da un incasso complessivo di 161 milioni di dollari.

Di cosa parla Scream 3?

Dopo gli avvenimenti del precedente film, Sidney vive in una vita appartata, nascosta da tutti, per paura di essere di nuovo presa di mira da Ghostface. Tuttavia l’incubo non è finito, con anche la scoperta del passato misterioso della madre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

https://www.youtube.com/watch?v=tyABaaJCRRs&ab_channel=GhostfaceItalia

Vale la pena di vedere Scream 3?

Jenny McCarthy in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

Assolutamente sì.

Per quanto mi riguarda, il terzo capitolo di Scream è anche più interessante del precedente, con una costruzione più mirata e pensata, che è riuscita ad evitare un importante scivolone nel trash, pur esplorando il topos piuttosto tipico di scoperta del passato oscuro dei personaggi, che invece ha una risoluzione semplice ma efficace.

Un film che gioca veramente tanto con lo spettatore e con le sue aspettative, creando un fantastico dialogo metanarrativo fra i personaggi in scena e il film stesso, con un buon esempio di chiusura di una trilogia con poche sbavature.

Insomma, se vi è piaciuto Scream finora, non ve lo potete perdere.

Dialogare con il film

Liev Schreiber in scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

Il tratto metanarrativo di Scream 3 si arricchisce con un elemento nuovo: i personaggi che sembrano dialogare con i creatori stessi del film, tanto più quando sono i personaggi di Stab 3, con un cortocircuito mentale di grande eleganza e genialità.

Si comincia subito con la battuta di Cotton

Why can’t these guys write me a fucking decent part?

Perché non sono capaci di scrivermi una parte decente?

facendo riferimento narrativamente a Stab 3, ma in realtà metanarrativamente proprio al suo ruolo in Scream 2 quanto nel terzo capitolo: nel film precedente era alla stregua del comico-grottesco, mentre in questo capitolo è una delle prime vittime.

Jenny McCarthy in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

Così Sarah, che nel film interpreta Candy, la classica vittima dei film horror di serie b, e che infatti dice:

I’m Candy, the chick the gets killed second

Sono Candy, la sgallettata che viene uccisa per seconda

e infatti è la seconda vittima. Così anche il Detective Kincaid, che fa riferimento a come i killer di solito diano la caccia ai poliziotti che indagano sui loro casi.

Usually one cop makes it

Di solito uno dei poliziotti sopravvive

dice quasi un po’ con speranza. E nel finale rischia non poco di non essere così fortunato.

Il pericolo del trash

Jamie Kennedy in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

The past will come back to bite you in the ass

Il passato si ritorcerà contro di te

Un grande pericolo che ho percepito, soprattutto nella sequenza della cassetta di Randy, era il rischio che volessero strafare, e quindi di ricadere nel trash più putrido. Secondo le sue stesse parole, il terzo film di una saga horror è raro che venga prodotto.

Ma, quando succede, è un film con i fuochi d’artificio.

In particolare l’elemento più pericoloso era l’idea di indagare il passato della madre di Sidney, che poteva scadere nelle più terrificanti dinamiche da soap opera. Invece si è scelto di raccontare una backstory abbastanza semplice e credibile, in cui semplicemente la madre era un’aspirante attrice divenuta vittima delle ben note dinamiche di sfruttamento sessuale di Hollywood.

Il topos del killer imbattibile

Ghostface in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

You’ve got a killer who’s gonna be superhuman

Il killer è come un super umano

È tremendamente attuale il racconto che Scream 3 fa del topos del killer imbattibile: basti solo pensare che la questione è diventata quasi un meme per il personaggio di Michael Myers nella nuova trilogia di Halloween, dove torna sempre in vita, nella maniera più ridicola e incredibile che potete immaginare.

E senza voler essere divertenti.

In questo caso effettivamente il killer sembra effettivamente imbattibile, ma c’è una giusta ragione: si è attrezzato con una tuta antiproiettile. Tuttavia, una volta scoperto, basta semplicemente sparargli alla testa per riuscire effettivamente a batterlo.

Anche se comunque, in maniera ovviamente comica, Ghostface torna in vita.

Il buon finale per Sidney

Anyone, including the main character, can die

Chiunque, compreso il personaggio principale, può morire

Per mettere un po’ di pepe alla narrazione, all’interno del film si nomina la possibilità che la protagonista, la scream queen, possa effettivamente rischiare la vita e perdere del tutto la plot-armor che la definisce.

Ed infatti sembra che Sidney rischi più volte la vita, e, ad un certo punto, sembra davvero morta, ma utilizza lo stesso trucco del killer: si è protetta con la tuta antiproiettile ed effettivamente scompare dopo che è sembrato essere morta, cogliendo contropiede il killer stesso.

Una scelta che ho trovato veramente geniale.

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Avventura Azione David Cronenberg Fantascienza Film Horror

Scanners – Basta poco

Scanners (1981) è uno dei più importanti film di David Cronenberg, che rappresenta l’esempio tipico della sua filmografia, con un incontro l’horror e lo sci-fi classico.

Un film fatto con poco, praticamente nulla, ma che da quel poco riesce a trarre un prodotto validissimo.

Il budget si aggira infatti intorno ai 3,5 milioni di dollari (circa 11 milioni oggi), e ne incassò 14,2 milioni. Un buon successo tutto sommato, che portò infatti alla creazione di un franchise a dieci anni di distanza, senza però il coinvolgimento di Cronenberg.

E ci sono ottime ragioni sul perché non avrebbero dovuto farlo.

Di cosa parla Scanners?

Nel 1981, nella società esistono diverse persone con capacità telepatiche, potenzialmente mortali. Il gruppo ha un capo Darryl Revok, che vuole distruggere la società che l’ha creato e contro cui si oppone Cameron Vale, un uomo inconsapevole dei suoi poteri e delle sue origini…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Scanners?

Michael Ironside in una scena di Scanners (1981) di David Cronemberg

In generale, sì.

Forse non il miglior prodotto del regista, ma quello in cui è riuscito tanto di più a lavorare con quello che aveva, mostrando una regia molto indovinata, effetti speciali tutto sommato di ottima fattura e una storia complessivamente molto intrigante.

Aiuta anche una durata molto contenuta, che lo rende un prodotto facilmente digeribile, nonostante appaia decisamente più interessante nella prima parte, mentre sul finale diventa leggermente più lento e meno interessante.

Comunque un piccolo cult di Cronenberg da recuperare.

Il potere della regia…

Stephen Lack in una scena di Scanners (1981) di David Cronemberg

Come detto, Scanners è un prodotto un low-budget, paragonabile ai più recenti The Lighthouse (2021) e X – A sexy horror story (2022), che ci dimostrano proprio come anche con pochissimo si possono fare prodotti di alta qualità. In questo caso basta del trucco prostetico e degli effetti da discount, che a volte sembrano quasi ridicoli, per portare in scena sequenze di grande effetto.

Particolarmente iconica è la scena dello scontro finale, in cui i due scanners hanno le vene che si gonfiano e scoppiano, si strappano pezzi di carne, con degli effetti visivi evidentemente di un’altra epoca, ma che sono comunque davvero d’impatto.

Tuttavia, l’altro caposaldo del film dovrebbero essere gli attori…

…e il problema degli attori

Michael Ironside in una scena di Scanners (1981) di David Cronemberg

Nonostante il casting sia molto indovinato (l’eroe e l’antagonista hanno una fisionomia facciale perfetta per i loro ruoli), purtroppo l’unico attore che riesce veramente a sostenere la parte senza sembrare sciatto o ridicolo è Michael Ironside, che interpreta Darryl Revok.

Il suo personaggio è perfetto nel suo essere intrigante e profondamente malvagio.

Non si può dire lo stesso dell’attore protagonista, Stephen Lack, che interpreta Cameron: soprattutto sul finale, ha una recitazione veramente apatica, che non riesce trasmettere l’importanza delle rivelazioni e di quello che sta succedendo in scena. Il tutto aggravato dalla recitazione dell’attrice di Kim, che fra tutti è la peggiore.

E nel momento in cui tutta la credibilità della scena è rimessa nelle mani degli attori, la mancanza di credibilità degli stessi guasta certe scene.

Un eroe positivo?

In prima battuta Cameron sembrerebbe un eroe positivo, del tutto ignaro delle sue capacità, e che il Dottor Ruth sembra voler maneggiare a suo vantaggio. In realtà fin da subito, e poi per tutto il resto del film, si vedono delle ombre non indifferenti sul suo personaggio.

Anzitutto, perché utilizza con convinzione e con pochi scrupoli i suoi poteri, senza farsi veramente problemi. Anzi, a tratti sembra veramente ubriaco di tutto il potere che possiede, riuscendo alla fine a distruggere il nemico, potendo poi annunciare entusiasta, quando si è impossessato del suo corpo

We’ve won

Abbiamo vinto

Perchè i sequel di Scanners non hanno senso

Come anticipato, dal 1991 vennero prodotti due sequel, distribuiti direttamente in videocassetta, e poi due spin-off.

Non ho avuto il (dis)piacere di vedere questi prodotti, ma non ne sento neanche il bisogno, in quanto non sono opera di Cronenberg. E, soprattutto, perché l’idea stessa dei sequel di per sé non ha alcun senso.

Il film già di per sé è basato su un topos narrativo piuttosto semplice e tipico, che acquista valore perché nelle mani di un grande regista, che è stato appunto capace di tirare fuori un buon prodotto con poco. Ma allo stesso tempo il film scricchiola in alcuni punti, e basta davvero poco perché la storia stessa appaia ridicola.

Oltre a questo, il finale perde tutto il suo significato con l’idea di un sequel.

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Animazione Avventura Azione Cinema d'autunno Commedia Commedia nera Fantasy Wes Anderson

Fantastic Mr. Fox – Una favola per adulti

Fantastic Mr. Fox (2009) è il primo lungometraggio animato con la tecnica stop-motion di Wes Anderson, a cui è seguito L’isola dei cani (2018).

Il film fu purtroppo un pesante flop commerciale: a fronte di un budget non esattamente ridotto come 40 milioni di dollari, ne incassò appena 46 in tutto il mondo.

Di cosa parla Fantastic Mr. Fox?

In un mondo con animali semi-antropomorfi, Mr. Fox è una volpe che ha rinunciato alla sua natura animalesca di rubagalline su richiesta della moglie. Tuttavia, la sua avventatezza lo porterà a conseguenze inaspettate…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Fantastic Mr. Fox?

George Clooney come Mr Fox in Fantastic Mr Fox (2009) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Fantastic Mr. Fox è assolutamente quello che vi potreste aspettare da Wes Anderson, con una tecnica di animazione che sembra calzargli a pennello e che per certi versi mi ha ricordato alcune sequenze di Grand Budapest Hotel (2018).

Un piccolo film di breve durata che ho trovato davvero piacevole da guardare, con una trama a sorpresa davvero piena di colpi di scena. Come al solito, non fatevi frenare dal fatto che sia un prodotto di animazione: non è un prodotto per l’infanzia, anzi è molto più godibile da un pubblico adulto.

Cos’è la tecnica stop-motion

La tecnica stop-motion, in Italia nota come passo uno, è una tecnica di animazione con l’utilizzo di una speciale macchina da ripresa, che riprende fotogramma per fotogramma.

Questo richiede diverse pose degli elementi della scena, rendendola una tecnica quanto affascinante che complessa.

Nel caso di Fantastic Mr. Fox i soggetti in scena sono dei pupazzi, avendo alle spalle professionisti come lavoratori anche con Tim Burton per La sposa cadavere (2005), altro prodotto creato con la stessa tecnica.

Anderson, oltre al successivo prodotto di animazione L’isola dei cani, utilizzò tecniche simili anche per Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004) e Grand Budapest Hotel.

Se volete approfondire, ecco un dietro le quinte della realizzazione del progetto:

Perché è così difficile trasporre Roald Dahl

Vale la pena di spendere due parole su questa questione, soprattutto perché Roald Dahl è stato l’autore della mia infanzia, di cui lessi ogni storia, compresa l’autobiografia e la biografia.

E per l’occasione ho ripreso anche in mano il romanzo originale.

Generalmente parlando, la particolarità di questo autore sta tutto in certi elementi grotteschi, quasi orrorifici che inseriva nelle sue opere, nonché le morali non scontate dietro alle sue storie.

Uno dei punti più alti era forse ne Gli Sporcelli, in cui la coppia protagonista quasi si mangiava dei bambini che catturava, oltre a farsi gaslighting a vicenda, con tinte davvero horror.

Ma anche più semplicemente il finale de Le Streghe, che non è esattamente quello che ti aspetteresti da una storia per bambini, e che infatti è stata edulcorata senza alcuna vergogna nel film del 1990.

Paradossalmente è stato meglio che l’abbia preso in mano un regista come Wes Anderson, che ha cercato anzi di rendere la storia originale più digeribile per il suo pubblico.

Tuttavia, mentendo un totale rispetto per l’opera originale, arricchendola di contenuti, invece che cambiarla radicalmente

Una trama inaspettata

Willem Dafoe come Rat in Fantastic Mr Fox (2009) di Wes Anderson

In un prodotto più banale mi sarei aspettata che il punto di arrivo sarebbe stato la scoperta da parte della moglie delle malefatte di Mr. Fox.

E invece le stesse sono quasi il motore della vicenda che porta al finale.

Questa apparente anomalia riguarda anche il modo in cui Anderson ha cercato di arricchire la storia, che originariamente era molto più lineare e molto più breve. Nel libro in particolare manca tutta la sequenza iniziale di contrasto di Mr. Fox e la moglie.

Il regista è riuscito ad aggiungere dove bisognava aggiungere, soprattutto rendendo i personaggi più tridimensionali e la storia più ampia, ma mantenendo inalterato il cuore della storia.

Antropomorfi, ma non del tutto

Il carattere di antropomorfismo dei personaggi è reso con grande equilibrio, senza renderli del tutto umani, ma mantenendo il loro lato animalesco.

Si vede particolarmente nei momenti in cui le volpi mangiano come animali, appunto.

Nonché la questione di Badger, l’opossum, che in dei momenti improvvisamente perde coscienza del mondo. Questa caratteristica tanto strana è tipica del comportamento dei membri della sua specie, che in dei momenti sembrano morti.

Una reazione quasi involontaria che questi animali hanno quando si sentono minacciati, e che ha uno spassoso effetto comico all’interno del film.

Altrettanto geniale è tutta la messa in scena di come Mr. Fox organizzi di fatto una rapina umana, ma del tutto coerente con la sua natura da volpe ruba galline, appunto.

Il topos della fuga dal quotidiano

Un elemento che potrebbe apparire quantomeno bizzarro di questa pellicola è il tipo di rappresentazione del rapporto matrimoniale fra Mr. Fox e Mrs. Fox.

Tuttavia, facendo abbastanza attenzione si può notare come evidentemente la storia sia ambientata negli Anni Sessanta-Settanta, proprio quando fu pubblicato (e ambientato) il libro di ispirazione.

Così appare molto più comprensibile questa idea dell’uomo scapestrato in gioventù che si sente intrappolato nella vita matrimoniale, come effettivamente era tipico a livello sociale in quel periodo.

Fra l’altro il personaggio di Mr. Fox è molto più ampliato rispetto al libro, in cui era un eroe positivo in tutto e per tutto, nonostante in certi momenti si mettesse in luce la sua furbizia per finalità non del tutto positive…

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Bullet train – Perché gli action movie sono noiosi?

Bullet train (2022) di David Leitch è un action movie uscito recentemente in sala. O, meglio, uno dei migliori action movie che potreste vedere negli ultimi tempi. Non è un caso che alla regia ci sia l’autore di due dei migliori film d’azione degli ultimi anni: John Wick (2014) e Atomica Bionda (2017). E, per non farsi mancare nulla, è stato anche regista di Deadpool 2 (2018).

E si vede.

Ad oggi ha incassato 213 milioni in tutto il mondo, a fronte di un budget di 90: rientrati pienamente nel budget, anche se meritava di più.

Di cosa parla Bullet train?

La trama ruota intorno a diversi personaggi, accomunati dall’essere invischiati con i peggiori boss del crimine al mondo. Fra colpi di scena e voltafaccia, come sempre nulla è come sembra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché guardare Bullet train?

Brad Pitt in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

Bullet train è un film da vedere per vari motivi, anzitutto per il fatto che prende i maggiori problemi degli action movie e li supera egregiamente. Quindi ve lo consiglio particolarmente se non vi piace particolarmente il genere.

La pellicola è incredibilmente divertente e intrattenente, costruendo anche un piccolo ma avvincente mistero che serpeggia per tutta la sua durata. Una bella sorpresa, per un autore di valore, che vale assolutamente la pena di recuperare.

Perchè gli action movie sono noiosi

Non me ne vogliano gli appassionati del genere: se non vi piace semplicemente (e anche giustamente) vedere la gente menarsi con grandi frasi ad effetto, è facile che vedendo molti action movie, soprattutto quelli poco ispirati, vi annoierete a morte.

Un film come The Gray Man, per capirci.

I due più importanti problemi degli action movie puri sono la mancanza di originalità (e chiarezza) nelle scene di azione e il prendersi incredibilmente sul serio.

E Bullet train supera entrambi questi problemi.

Anzitutto, come ci si potrebbe facilmente aspettare da questo regista, le scene di azione non solo sono piuttosto originali, ma spesso anche divertenti e, soprattutto, dirette con una regia dinamica, frizzante e chiarissima.

Inoltre, il film scherza spesso con se stesso e con gli stereotipi del genere a cui appartiene, non prendendosi mai veramente sul serio, ma riuscendo ad ironizzare su tutto, alleggerendo la situazione nei momenti giusti.

Mettere insieme i pezzi

Aaron Taylor-Johnson e Brian Tyree Henry in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

Una colonna portante di Bullet train, nonché uno degli aspetti che gli impedisce di essere un pallido film action, è la sua componente mistery. Un elemento che non è affrontato dai personaggi come se dovessero effettivamente investigare la questione, andando anzi a tentoni e mettendo insieme i pezzi quasi casualmente.

Infatti chi deve mettere insieme gli indizi, anche prima dei personaggi stessi, è lo spettatore stesso, cui viene fornita una pista visiva inequivocabile. Così come il figlio di Morte Bianca è morto piangendo sangue, così anche tutti gli invitati al matrimonio di Wolf muoiono nella stessa maniera.

E qui il film dà la prima finta soluzione: il cameriere che urta Wolf al matrimonio e che di fatto gli impedisce di bere il vino è Ladybug. Ma, differentemente da quello che si pensa, non l’ha fatto appositamente. E, soprattutto, il veleno non era nel vino che Wolf non ha bevuto, ma nella torta che Hornet aveva preparato.

Tutti i pezzi vanno al loro posto quando si racconta la fuga del serpente e poi l’introduzione di Honert, che chiude il cerchio.

Creare un universo di ironia

Brad Pitt in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

Quando si scrive un film comico, o quando comunque si vuole inserire una linea comica all’interno di un prodotto, la strategia migliore è quella di farlo affezionare alla comicità del film.

Nel caso di Bullet train con pochi tocchi e scelte indovinate si è riuscito a creare un universo di ironia perfettamente funzionante.

Già l’immagine di Lemon, un uomo adulto che giudica le persone tramite un cartone per bambini, anche portandosi dietro gli stickers della serie, è esilarante. Ma questo elemento viene ancora più intelligentemente sviluppato in due direzioni.

Da una parte le battute comiche, che incredibilmente non smettono mai di far ridere. Dall’altra, con un effetto anche drammatico e funzionale alla storia: sul treno sono tutti dei Diesel, perché bluffano.

E ha anche una funzione nella trama: Lemon lascia lo sticker di Diesel su Prince per far capire all’amico che non è una persona di cui fidarsi. E, nel piccolo monologo dopo la sua morte, gli dice che lui era come Thomas.

Personaggi mai banali

Brad Pitt e Brian Tyree Henry in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

Complessivamente i personaggi del film sono tutti a loro modo interessanti, mai banali e con la loro unicità. Infatti, a differenza di altri film di questo genere in cui i personaggi sono solo figurine sullo sfondo, ognuno ha i suoi tratti caratteristici. Tangerine è iroso e impulsivo, Lemon è un uomo semplice ma anche spietato, LadyBug è la linea comica ed un uomo ossessionato dalla sua crescita personale.

E così via.

La sceneggiatura riesce insomma a mettere in scena un piccolo universo di personaggi che riescono perfettamente ad incastrarsi fra loro in maniera mai banale e scontata, ma in continuo cambiamento e in maniera sempre interessante.

Con splendide eccezioni…

I pochi difetti?

Joey King in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

I pochi difetti del film si concentrano tutti intorno ai momenti in cui si prende sul serio. In particolare, riguardo ai personaggi di Morte Bianca e The Prince. La figlia di Morte Bianca non è di per sé un personaggio poco interessante, ma alla lunga l’ho trovata leggermente ridondante nei suoi comportamenti. E ha una fine non soddisfacente, ma distrutta dall’elemento comico: per quanto abbia riso quando Lemon la investe per vendicarsi della morte del fratello, mi aspettavo una conclusione più interessante.

Ancora meno convincente ho trovato Morte Bianca, che è un personaggio fortemente costruito all’interno del film, arrivando ad un reveal finale che ho trovato complessivamente poco soddisfacente. Il suo personaggio mi è parso troppo stereotipato e poco tridimensionale per l’importanza che gli era stata data nel film.

Insomma, tutti i momenti in cui il film è troppo attaccato al suo genere mi è piaciuto di meno.

Pochi tocchi di David Leitch

Zazie Beetz in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

In questo film troviamo diversi elementi quasi tipici di questo regista: eredita anzitutto da Deadpool 2 il cameo di Ryan Reynolds, nonchè l’attrice di Hornet, Zazie Beetz, che in Deadpool 2 intepretava Domino, la ragazza fortunata.

Dallo stesso film conferma il suo gusto nell’inserire cameo di attori famosi: come nel cinecomic aveva messo Tom Cruise, qui vediamo anche Channing Tatum e il già citato Ryan Reynolds.

Ovviamente poi conferma la sua capacità di raccontare scene d’azione in maniera appassionante e mai banale, fra l’altro ancora con la splendida scelta di sparatoria dalle macchine come in John Wick.

Cosa succede in Bullet train?

Se non siete sicuri di aver compreso tutta la trama di Bullet Train, ecco una spiegazione per voi.

La trama prende le mosse dal piano di Morte Bianca, che ha portato a bordo del treno le diverse persone che considerava come colpevoli della morte della moglie. Anzitutto Lemon e Tangerine, che dovevano salvare il figlio, che sono gli stessi autori della strage in Bolivia degli uomini del boss, che ha dovuto andare a gestire la situazione e quindi non essere sulla macchina in cui c’era la moglie.

Al contempo la moglie è morta perchè l’unico chirurgo che doveva salvarla era stato avvelenato da Hornet, che quindi Morte Bianca ha ingaggiato per uccidere il figlio, promettendogli i soldi della cauzione per il rapimento dello stesso. E l’omicidio del figlio era voluto perchè la sua ulteriore bravata era stato il motivo per cui la moglie era sulla macchina in cui poi è stato uccisa. Infine LadyBug era sul treno al posto di Carver, che era l’autore della morte della donna.

Joey King in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

The Prince non fa parte del piano di Morte Bianca, ma aveva un piano tutto suo: ha attirato il figlio di Yuichi sul tetto di un centro commerciale per spingerlo giù e poi rivelare al padre che era stata lei a mandarlo in ospedale, riuscendo così ad attirarlo sul treno.

Infatti Yuichi gli serve per uccidere Morte Bianca: l’uomo avrebbe dovuto cercare di uccidere il boss, con un tentativo che sarebbe ovviamente andato a vuoto come tutti i precedenti, e a quel punto Morte Bianca l’avrebbe ucciso, come sua abitudine, tramite la stessa arma dell’attentato. E quell’arma conteneva un meccanismo per cui, premendo il grilletto, scoppiava in faccia al malcapitato.

La valigetta con il meccanismo analogo serviva come piano di riserva per lo stesso fine.

Il bullet train esiste veramente?

Sì, il bullet train esiste veramente.

Inoltre, come viene mostrato nel film, in Giappone vi è una rete di treni ad alta velocità che collega le maggiori città. La velocità si aggira sui 320 km/h: per fare un paragone, un nostro Frecciarossa può raggiungere i 400 km/h.

Però no, in cinquant’anni di servizio, non vi è stato un solo incidente a bordo di questi treni.

E alla fine arriva Sandra Bullock a rovinarmi il film. E vabbè.