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Prendi i soldi e scappa – L’arte del paradosso

Prendi i soldi e scappa (1969) è una delle prime pellicole di Woody Allen, in un periodo in cui sperimentava ampiamente con il surreale e con quel tipo di comicità che è diventata la sua firma.

L’ho scelto come prima tappa per la mia (ri)scoperta di questo regista perché è stato forse il primo film che ho visto della sua cinematografia e fra i primi film che mi hanno fatto innamorare del cinema.

Una pellicola prodotta veramente con niente: appena 1.53 milioni di dollari (circa 12 milioni oggi), con un incasso di 2,9.

Di cosa parla Prendi i soldi e scappa?

Nella forma del mockumentary, il film racconta la storia di Virgil, timido ragazzo cresciuto nella criminalità e il degrado e che non è mai riuscito a trovare il suo posto nel mondo. Per colpa di una serie di improbabili situazioni, diventerà uno dei criminali più ricercati degli Stati Uniti.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Prendi i soldi e scappa?

Woody Allen in una scena di Prendi i soldi e scappa (1969) di Woody Allen

Assolutamente sì.

Prendi i soldi e scappa è un film abbastanza particolare, proprio per i suoi due elementi portanti: la forma del finto documentario e la comicità assolutamente surreale, che gioca in maniera intelligente con lo slapstick.

In generale è un film che vi consiglierei di guardare un po’ a prescindere, anche per vedere le prime mosse che Allen muoveva all’inizio della sua produzione. Tuttavia, se questi elementi di cui sopra non sono nelle vostre corde, potrebbe non essere così godibile.

Il mockumentary before it was cool

Woody Allen in una scena di Prendi i soldi e scappa (1969) di Woody Allen

Prima Allen il cinema aveva sperimentato con il genere mockumentary, a partire dal classico della cinematografia, Quarto potere (1941). La particolarità di Prendi i soldi e scappa è utilizzare questo taglio narrativo in maniera comica.

E l’effetto comico nasce anzitutto dalla voce della voce fuori campo che racconta la maggior parte degli avvenimenti, con il classico tono del documentario più agèe, rimanendo del tutto seria ed imponente anche quando racconta qualcosa di evidentemente comico.

Fra le scelte più esilaranti, le mie preferite sono sicuramente i genitori di Virgil, che viene raccontato con estrema serietà che si coprono il viso per la vergogna del figlio, e quando si riferisce il commento speranzoso del protagonista riguardo alla sua condanna a 800 anni galera:

At the trial, he tells his lawyer confidently that with good behavior, he can cut the sentence in half.

Al processo, ha detto al suo avvocato in confidenza che, grazie alla buona condotta, può dimezza la sua pena.

Esilarante.

L’arte del paradosso

Woody Allen in una scena di Prendi i soldi e scappa (1969) di Woody Allen

Come detto, la colonna portante del film è la comicità paradossale: oltre all’utilizzo comico del documentario, Allen si dimostrò fin da subito capace di ridere di sé stesso. Il regista, spesso protagonista delle sue pellicole, ha infatti un aspetto ormai iconico e innocuo, che nel contesto del film appare davvero ai limiti del paradosso.

Ovviamente la narrazione è estremizzata, raccontando Virgil proprio come un idiota, che diventa uno dei criminali più ricercati degli Stati Uniti nonostante abbia partecipato a crimini uno più improbabile dell’altro.

Tematica su cui Allena tornerà, seppur in maniera diversa, in altre pellicole successive dal taglio anche più drammatico, come Criminali da strapazzo (2000)

La comicità mai scadente

La comicità della pellicola è a tratti fantozziana, ma, a differenza di questa, non scade mai nello slapstick puro e, di fatto, prevedibile. Al contrario lavora sempre sull’effetto sorpresa, sia nei momenti comici più elaborati, sia in quelli di comicità più semplice.

Ad esempio, all’inizio è esilarante l’assurdità della situazione per cui Virgil suona nella banda cittadina, ma non può di fatto farlo perché per suonare il violoncello ha bisogno di stare seduto.

O ancora il climax comico dell’arresto alla fine, quando l’amico che sta rapinando gli prende gentilmente la pistola di mano e gli dice di essere un poliziotto.

Un tipo di comicità più semplice, ma mai scadente, è quella per esempio della scena in cui in prigione il protagonista cerca di piegare la camicia col macchinario apposito, ma questa gli si rivolta contro.

Insomma, una comicità che non sbaglia un colpo.

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Jungle Cruise – Tutto nacque da una giostra…

Jungle Cruise (2021) di Jaume Collet-Serra è un classico blockbuster estivo. Uscì in quella strana estate del 2021, quando distribuire le pellicole in sala era ancora un terno al lotto.

Nonostante la presenza di due star come The Rock e Emily Blunt, nonostante tutti gli elementi che lo rendono una piacevole avventura per ragazzi, non fu un buon successo commerciale. Infatti, a fronte di un budget di 200 milioni di dollari, ne incassò appena 220.

Tuttavia, per il momento storico fu considerato soddisfacente, tanto che è stato ordinato un sequel.

Di cosa parla Jungle Cruise?

Londra, 1916. La Dottoressa Lily è una giovane e intraprendente avventuriera che vuole mettersi sulle tracce delle leggendarie Lacrime della Luna, che permetterebbero di guarire ogni malattia. La sua avventura viene ostacolata da un misterioso principe europeo, che vuole fare di tutto per mettere le mani su quel tesoro…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Jungle cruise?

The Rock in una scena di Jungle Cruise (2021) di Jaume Collet-Serra

Jungle cruise è un film senza molte pretese, ma che comunque si impegna a dare tutto il tempo ai personaggi per respirare e farsi conoscere dal pubblico. Per certi versi anche troppo, vista la durata atipica per un prodotto di questo genere (più di due ore!).

Tuttavia, è anche una pellicola divertente e che intrattiene facilmente, con una regia frizzante e coinvolgente. Lo consiglio per una visione rilassata, sopratutto se siete appassionati dei film di avventura per ragazzi di questo tipo.

Che cos’è la Jungle cruise?

Come anticipato, questo film è tratto dalla giostra omonima di Disneyland.

Non è la prima volta che Disney fa un’operazione del genere: la stessa cosa era successa anche con la saga di Pirati dei Caraibi. E in questo caso l’ispirazione primaria si vede molto bene all’interno del film: una delle scene principali riguarda proprio un gruppo di turisti che viene portato su un battello attraverso la giungla, con tanti effetti speciali per intrattenere il pubblico.

E infatti, provando la giostra di ispirazione, potrete vivere praticamente quello che vedete nel film.

Perché Lily è un buon personaggio…

Emily Blunt in una scena di Jungle Cruise (2021) di Jaume Collet-Serra

Alla prima visione ero rimasta poco convinta dalla gestione dei personaggi di Lily e di MacGregor. Se per il fratello ho ancora qualche riserva, per lei mi sono effettivamente ricreduta.

Il suo personaggio è indubbiamente costruito a tavolino: è una ragazza giovane e avventurosa, che non si lascia fermare da niente, neanche da un mondo di uomini che cercano di bloccarla e sminuirla. Oltre a questo, è anche animalista e non può assolutamente sopportare il maltrattamento di animali.

Un personaggio che appare forzato per come è messo in scena, sopratutto per il contesto storico, ma che è anche giusto per il tipo di target. Mi immagino quanto facilmente una bambina o ragazzina riesca ad immedesimarsi in questa protagonista le cui dinamiche, con le dovute differenze, può ritrovarle anche nella sua vita quotidiana.

…ma MacGregor forse no.

The Rock e Jack Whitehall in una scena di Jungle Cruise (2021) di Jaume Collet-Serra

Il personaggio di MacGregor è stato costruito con lo stesso concetto, ma in questo caso forse ricadendo in uno stereotipo troppo pesante per essere gestito con così tanta leggerezza.

Anche se non viene detto esplicitamente, il suo dialogo con Frank suggerisce abbastanza chiaramente che MacGregor è un uomo omosessuale che vive in una società ostile, e che solo la sorella lo supporta. E per questo viene associato ad una serie di stereotipi, come la sua passione per il vestirsi bene e in generale la vita raffinata.

Tuttavia, anche questo può essere un personaggio in cui un bambino si può rivedere: magari un giovane spettatore con le stesse difficoltà del personaggio, che non riesce ad imporsi e a rispettare le richieste che la società che lo circonda. E che alla fine, in diversi momenti prende coraggio e interviene nell’azione.

Quindi, non del tutto da buttare, ma avrei preferito che fosse meno stereotipato.

Un film animato?

La regia del film come detto è piuttosto frizzante, tanto da portare una messa in scena che sembra nè più nè meno quella di un lungometraggio animato. E per questo funziona perfettamente.

Lo conferma il character design dei personaggi: Mr Nilo e il Principe sono incredibilmente esagerati nell’aspetto e nei comportamenti, al limite della macchietta. Ma in questo caso delle macchiette simpatiche e che funzionano, con degli attori eclettici e di altissimo livello.

Non a caso Paul Giamatti è uno dei miei caratteristi preferiti, a partire dal suo personaggio in Una notte da leoni 2 (2011)

E Jessie Plemons conferma ancora il suo eclettismo, passando da un film di questo tipo a ruoli incredibilmente complessi come in I’m Thinking of Ending Things (2020). E la morte del suo personaggio, schiacciato comicamente come la Strega dell’Ovest da un masso enorme, non fa che confermare la vena comica e cartoonesca della pellicola.

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American Animals – L’insoddisfazione rapace

American Animals (2018) di Bart Layton è un heist movie di rara bellezza, capace di sperimentare con il formato del documentario in maniera assolutamente originale e sperimentale. È difficile spiegare questo film a chi non l’ha mai visto: basti sapere che non è ispirato ad una storia vera, ma, come il film stesso spiega fin dall’inizio, è effettivamente una storia vera.

Le notizie sul budget non sono sicure, ma dovrebbe aggirarsi intorno ai 3 milioni di dollari, con un incasso di 4 milioni in tutto il mondo: un incasso piuttosto misero, per un film di grande valore.

Di cosa parla American Animals?

Spencer e Warren sono due studenti universitari annoiati dalla vita, totalmente insoddisfatti del percorso che sembra già stato scelto per loro. Per questo decidono di intraprendere una apparentemente semplicissima rapina…

Vi metto qua il trailer, ma personalmente vi sconsiglio di guardarlo: un caso da manuale di come banalizzare drammaticamente un prodotto, cercando di collegarlo ad un film di maggior successo.

Infatti nella pellicola si cita brevemente Le iene (1992) di Quentin Tarantino, e il trailer italiano gira tutto intorno a questo, quando di fatto è una citazione che, se decontestualizzata come in questo caso, mostra un taglio narrativo che il film di fatto non possiede.

Perché guardare American Animals?

Evan Peters in una scena di American Animals (2018) di Bart Layton

Come anticipato, American Animals è un prodotto incredibilmente sperimentale. All’interno del film ci sono le interviste dei protagonisti reali della rapina raccontata, che interagiscono anche direttamente con gli attori in scena. Quindi la storia raccontata è totalmente genuina e corrispondente agli eventi reali.

Non dovete però immaginarvi un mockumentary: il documentario è reale e ottimamente integrato all’interno della pellicola, ma non finge di essere quello che non è. Ma, per capire di cosa sto parlando, dovete guardarlo voi stessi.

È un film che mi sentirei di consigliare abbastanza a tutti: se siete appassionati di heist movie, sopratutto quelli più interessanti e di concetto come Logan’s Lucky (2017), non potete veramente perdetevelo.

Perché i manoscritti sono così importanti in American Animals?

Ci tengo a spendere due parole riguardo all’importanza e alla preziosità dei manoscritti, perchè potrebbe apparire strana a chi non è del settore.

Anzitutto, certi manoscritti sono considerati effettivamente delle opere d’arte: i cosiddetti volumi illuminati sono impreziositi da miniature, di fatto piccoli dipinti di anche di grande valore, fatti per esempio con la foglia d’oro. Non a caso facevano (e fanno) parte delle collezioni di re e regine.

Inoltre, i manoscritti, anche senza essere belli, possono avere un valore storico incalcolabile: semplificando molto, più un volume si avvicina temporalmente ed a livello di fedeltà al testo originale dell’opera, più è prezioso. E, soprattutto nel caso dei testi a stampa, le prime edizioni hanno un valore altissimo fra studiosi, ma anche e soprattutto collezionisti.

E il mercato nero di questi manoscritti è più prolifico di quanto si possa pensare…

Raccontare una storia vera

Evan Peters in una scena di American Animals (2018) di Bart Layton

L’incontro fra la forma del documentario e film in senso stretto è fondamentalmente perfetta: oltre ad una messa in scena della parte documentaristica che si vede essere passata nelle mani di un autore capace, il montaggio è magistrale.

La fluidità con cui si passa da una scena all’altra, con un montaggio dinamico e che riesce perfettamente a coniugare le parole delle persone reali della vicenda con gli attori in scena. E la macchina da che riesce veramente a cogliere l’essenza del loro racconto, lasciando che i protagonisti si raccontassero, per riportare visivamente le loro parole sullo schermo.

La scelta degli attori

Barry Keoghan in una scena di American Animals (2018) di Bart Layton

Il casting degli attori è davvero ottimo: tutti gli interpreti sono scelti e diretti con grande cura, riuscendo oltre ad assomigliare moltissimo alle persone reali, ad essere le loro perfette controparti in scena.

In particolare è stato veramente interessante vedere in scena due attori di grande valore, ma che abbiamo cominciato a conoscere davvero solo recentemente. Anzitutto Evan Peters, che è noto principalmente al grande pubblico per il suo ruolo di Quicksilver negli ultimi due film degli X-Men e come Fietro (Fake Pietro, in riferimento al casting finto di Piero Maximoff) in Wandavision. In realtà ha fatto molto altro, anzitutto vincendo recentemente l’Emmy per l’acclamata serie Omicidio ad Easttown.

E come non parlare di Barry Keoghan, interprete con un volto e un’espressività tutta sua, che lavorato in film molto di nicchia come Il sacrificio del cervo sacro (2017) e che recentemente si è affacciato al grande pubblico con Eternals (2021). Ma probabilmente lo ricorderete soprattutto per il poco che l’abbiamo visto come Joker in The Batman (2022).

L’insoddisfazione rapace

Barry Keoghan in una scena di American Animals (2018) di Bart Layton

American Animals si propone anche di esplorare le motivazioni dietro ai protagonisti, che sembrano del tutto essere ricondotti ad una insofferenza e insoddisfazione rapace. La stessa insoddisfazione che sembra divorarli dentro, rinchiusi in una vita già definitiva senza aver fatto nulla di interessante.

Per certi versi mi ha ricordato Bling Ring (2013), anche se in questo caso la motivazione è molto più profonda. I protagonisti si immaginavano al centro di una vicenda avventurosa e avvincente, che gli cambierà la vita e che ricorderanno per sempre. E che sarà di fatto senza conseguenze.

Ma la realtà si rivela molto diversa.

Il punto di rottura

Evan Peters in una scena di American Animals (2018) di Bart Layton

Il punto di rottura gira tutto intorno alla figura della bibliotecaria.

La donna è infatti l’incognita del piano che nessuno, nemmeno Warren, vuole davvero affrontare. Nel suo racconto del piano la questione sembra molto semplice: la donna gli sviene semplicemente fra le braccia.

Ma quando invece deve molto maldestramente colpirla e legarla, quando la donna piange e addirittura si urina addosso, allora tutto crolla. Se notate prima di quel momento i personaggi sono abbastanza contenuti, anzi decisamente scherzosi nei loro rapporti.

Invece, da quel momento in poi la situazione precipita, e tutte le tensioni sotterranee esplodono, arrivando fino al punto in cui Chas li punta una pistola addosso, Eric fa a botte per un nonnulla, Warren ruba stupidamente da un supermercato e Spencer provoca un incidente.

Di fatto tutti i personaggi arrivano ad un punto di esplosione, in cui vogliono solo farsi prendere, farsi punire.

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Nope – L’orrore di concetto

Nope (2022) è l’ultima pellicola di Jordan Peele, cineasta diventato famoso per Get out (2015) e poi per Us (2019).

Una pellicola dove il regista statunitense compie un ulteriore passo avanti nella sua produzione, portando un prodotto più complesso, maturo ed intrigante, che si spoglia del didascalismo che aveva un po’ guastato la sua seconda pellicola.

Purtroppo il film non sta incassando moltissimo, essendo già uscito da un mese in quasi tutto il mondo: davanti ad una produzione di 68 milioni, finora ne ha incassati solo 115.

Di cosa parla Nope?

OJ è un giovane addestratore di cavalli per produzioni cinematografiche, che si trova ad affrontare un misterioso nemico che infesta i cieli delle sue praterie…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Nope?

Steven Yeun in una scena di Nope (2022) nuovo film di Jordan Peele in uscita l'11 Agosto 2022

Assolutamente sì: dopo aver sperimentato con il genere horror, Peele si contamina con il genere sci-fi e western in maniera originale e assolutamente iconica.

Se siete già appassionati al cinema di Jordan Peele, non potete assolutamente perdervelo. Se avete paura di trovarvi davanti ad un horror davvero spaventoso e violento, non preoccupatevi: il film crea una tensione non da poco, con concetti non poco disturbanti, ma non mostra mai una violenza sanguinosa e spaventosa.

Un orrore più sottile, che ti entra sottopelle, ma che è di concetto e lasciato in parte all’immaginazione dello spettatore, più che veramente mostrato.

Uno dei migliori film di quest’anno finora, senza dubbio.

Cosa significa nope e altri piccoli concetti essenziali

Il senso del titolo purtroppo si perde del tutto nel doppiaggio, ma era inevitabile: nope è un modo più colloquiale di dire no, nel senso no, neanche per sogno: per citare UrbanDictionary, un no definitivo, che nega in qualunque modo quello di cui si sta parlando. Quindi, se lo vedete doppiato, ricordatevi che a volte, quando sentirete gli attori dire no, in originale dicono nope. Parola che ha un significato ben più ampio e preciso, appunto.

Sono state date non poche interpretazioni su questo titolo, ma Peele ha assicurato che voleva solo che fosse la reazione dello spettatore davanti alla pellicola.

Oltre a questo, per capire una battuta che altrimenti cadrebbe piatta, History Channel è un canale televisivo statunitense noto per trasmettere documentari pseudo scientifici e scandalistici, di fatto delle riconosciute bufale.

Infine, il nome del protagonista è OJ, omonimo di O.J. Simpson, che è stato al centro di uno dei più famosi casi di cronaca nera in ambito statunitense negli Anni Novanta.

Ora siete pronti per vedere il film. 

Raccontare il mostro

Per raccontare il mostro, Peele non poteva prendere come modello un caposaldo della cinematografia occidentale: Lo squalo (1972), pellicola che è citata continuamente.

Infatti, se si confronta la modalità di svelamento del nemico di Nope con il capolavoro di Spielberg, l’omaggio è evidente: prima mostrato in maniera sfuggevole, tanto che non si vede neanche la sua forma, poi come ombra, infine potentemente presente in scena.

Ed è incredibile come il mostro faccia paura appunto come concetto: vediamo uomini vivi all’interno del suo apparato digerente, li vediamo urlare, ma non capiamo perchè dovremmo aver paura. Ma, quando lo capiamo, è tremendamente disturbante.

A vedersi, il nemico non è un mostro pauroso, ma anzi molto enigmatico. Sembra al contempo limitato ad una bocca enorme ed a degli occhi che non possiamo vedere, ma poi appare molto più complesso e incomprensibile quando rivela tutta la sua natura sul finale.

Alzare lo sguardo

Daniel Kaluuya in una scena di Nope (2022) nuovo film di Jordan Peele in uscita l'11 Agosto 2022

La tecnica registica è veramente un tocco di classe: in non poche scene Peele riesce non solo farti seguire con lo sguardo la visione dei personaggi verso il mostro, ma ti porta veramente ad alzare gli occhi verso il margine dello schermo, quindi a diventare tu stesso un protagonista della scena.

Oltre a questo le scene sono incredibilmente travolgenti per questo uso dell’inquadratura che taglia di sbieco il soggetto, lasciandolo ai margini e insistendo sul cielo dove dovrebbe apparire il mostro. Come se il regista si dimenticasse di star girando un film volesse solo riuscire a catturare questa incredibile creatura.

Gordy: rafforzare un concetto

La storia secondaria e parallela è quella di Jupe, traumatizzato dalla visione in gioventù della strage della scimmia Gordy. Il collegamento con la trama principale è veramente debole ed è un aspetto che a mente fredda potrebbe pure essere considerato un difetto.

Ma la scena di Gordy serve a rafforzare un concetto, ad irrobustire la sensazione di inquietudine e di pericolo della vicenda. L’animale del film è quello che l’uomo cerca di domare, ma che in realtà è un predatore, una bestia incontrollabile, che semplicemente non puoi addomesticare.

Come la creatura protagonista del film, Gordy non ha un aspetto inquietante e minaccioso, anzi era un personaggio simpatico portato all’interno di una sit-com televisiva di successo. E questa tecnica è amplificata anche dal personaggio di Haley, la ragazza che partecipava allo show insieme a Jupe, e che rivediamo fra il pubblico durante il suo spettacolo. Una figura muta e inquietante, che porta le terribili conseguenze dell’attacco.

Di nuovo, un personaggio che non aggiunge niente alla trama, ma che arricchisce la scena dell’attacco.

La non-lettura

Daniel Kaluuya in una scena di Nope (2022) nuovo film di Jordan Peele in uscita l'11 Agosto 2022

Ho sentito molte interpretazioni date a questa pellicola: riferimenti al mondo delle maestranze del cinema, al ruolo degli attori neri nel cinema, al COVID… Per me la bellezza di questa pellicola è la mancanza di una spiegazione chiara e l’apertura a molteplici interpretazioni.

Non avendo letto immediatamente alcun significato ulteriore, preferisco non trovarne alcuno, ma considerarlo semplicemente un ottimo film horror che gioca con generi diversi e che definisce un definitivo passo avanti per la cinematografia di questo regista.

La fantascienza credibile

Steven Yeun in una scena di Nope (2022) nuovo film di Jordan Peele in uscita l'11 Agosto 2022

In questa pellicola Peele non solo è riuscito a sperimentare con generi diversi, ma a portare una fantascienza che per certi versi mi ha ricordato Arrival (2016): una fantascienza credibile. In particolare si smarca dall’immaginario collettivo, alimentato da diversi film sci-fi e catastrofici dagli Anni Settanta in poi: l’idea che gli extraterrestri, se ci invadessero, sarebbero esseri molto più intelligenti di noi, capaci di dominarci.

Invece l’alieno, se così vogliamo considerarlo, di Nope è niente di più che una bestia, un animale primitivo che caccia l’uomo e che l’uomo deve cacciare per sopravvivere. Un concetto che è stato rafforzato da una scena apparentemente inutile, ma che è pregna di significato: quando i ragazzini cercano di terrorizzare OJ travestendosi da alieni.

In quel momento lo spettatore viene ricondotto su binari consueti, pensando che quelli che vede sono la minaccia del film. Invece quelle figure non sono altro che uno scherzo, un gioco con lo spettatore e con le sue aspettative. Il nemico del film, infatti, è tutta un’altra cosa.

Chi è il mostro?

Nel film non viene spiegata per nulla l’origine della creatura, ma la pellicola sembra suggerire che sia in circolazione dagli Anni Cinquanta e che per tanto tempo sia stato confuso con un disco volante. In realtà, a meno che non si voglia pensare che sia stato particolarmente attivo in quella zona perché Jupe gli offriva in pasto i cavalli per il suo spettacolo, non sembra molto credibile.

Tuttavia qui si apre la strada alle interpretazioni e all’immaginazione dello spettatore. E la scelta di lasciare questo spazio al pubblico è stata una delle più indovinate, evitando di andare ad incagliarsi in spiegazioni non del tutto soddisfacenti come in Us, appunto.

Un grande passo avanti, appunto.

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The Martian – La commedia del sopravvissuto

The Martian (2015) di Ridley Scott è un simpatico (e sottolineo simpatico) film di fantascienza con protagonista Matt Damon.

Un ottimo successo commerciale: 603 milioni di dollari di incasso contro un budget di 108 dollari. Anche piuttosto contenuto per una produzione del genere.

Un film che vidi con piacere a poca distanza con Interstellar (2014), di cui condivide anche parte del cast, e che mi aveva lasciato un ottimo sapore in bocca. Pensavo che fosse per l’ottima regia di Scott: niente di più sbagliato.

Di cosa parla The Martian?

Durante una missione sul Pianeta Rosso, il team di astronauti viene colpito da una tempesta e perde uno dei suoi componenti, il botanico Mark Watney. A sorpresa in realtà Mark è sopravvissuto e, mentre cerca di contattare la Terra per farsi salvare, deve trovare un modo per sopravvivere…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare The Martian?

Matt Damon in una scena di The Martian (2015) di Ridley Scott

Differentemente da come mi ricordavo, The Martian è un film incredibilmente accessibile. In maniera un po’ anomala per una fase di produzioni più drammatiche come appunto Interstellar, ha un inaspettato taglio comico.

Per questo vi consiglio di non guardarlo aspettandovi un film di Ridley Scott, ma piuttosto un buon film di fantascienza, maledettamente appassionante, ma con valore artistico vicino allo zero.

Niente di male in questo senso, ma se siete appassionati del regista potreste rimanerne delusi. Inoltre non ve lo consiglio se non potete sopportare quel tipo di film molto americani e costruiti a tavolino per piacere a quel tipo di pubblico, quindi con dinamiche anche molto prevedibili.

Ma, in generale, è un piacevolissimo film di genere.

La commedia del sopravvissuto

Jeff Daniels e Kristen Wiig in una scena di The Martian (2015) di Ridley Scott

La scelta di questo titolo non è casuale: come anticipato, il film ha un taglio inaspettatamente comico-realistico in senso stretto. È una storia con un eroe comico, piacevole e naturalmente simpatico, per cui tifiamo e di cui seguiamo un’avventura che ha pochi momenti veramente drammatici.

Ed è obiettivamente una storia di cui è facile appassionarsi, perché gioca su pochi elementi vincenti e ben posizionati: un andamento fondamentalmente comico e leggero, tutto costruito intorno al personaggio di Matt Damon, puntellato di pochi ma importanti momenti drammatici che portano ad una costruzione della tensione ben bilanciata.

Senza accorgermene, alla fine della pellicola mi sono trovata nella stessa situazione del pubblico nel film che segue con passione il salvataggio di Mark: col fiato sospeso, col cuore stretto quando avviene un imprevisto, con la commozione quando finalmente Mark viene salvato.

Un eroe americano

Matt Damon in una scena di The Martian (2015) di Ridley Scott

Il grande successo di questa pellicola a livello commerciale è anche legato a quanto sia impregnato di una forma mentis del tutto americana. Si parla infatti di un eroe molto statunitense, che si trova in una situazione di pericolo, ma non si perde mai d’animo e sopravvive solo grazie alle proprie forze. Una sorta di sogno americano traslitterato su un altro pianeta: se ti impegni, otterrai tutto quello che vuoi.

Infatti si può notare come Mark non sia presentato come un personaggio particolarmente intelligente, ma, piuttosto, molto creativo e instancabile. E, di nuovo, un protagonista naturalmente simpatico e che il popolo statunitense e così anche il pubblico in sala ama fin dalla prima scena.

Perché, per quanto Mark parla di cose complesse e reali, accompagna lo spettatore, anche guardandolo dritto negli occhi grazie ad un ottimo escamotage narrativo. E così il coinvolgimento è assicurato.

Bellezza, non arte

Come detto, non ricordandomi il tipo di regia del film, davo per scontato che fosse un elemento di grande valore della pellicola. Niente di più sbagliato, appunto: la regia è piuttosto nella media, niente che ti aspetteresti da un autore come Scott.

Non mancano certo le riprese aeree sicuramente belle da vedere, ma nel complesso non si può parlare più che di una regia buona, ma quasi alcuni guizzo degno di nota.

Aguzza la vista!

Nel film sono presenti moltissimi attori più o meno noti, noti soprattutto per serie tv, di grande successo.

Oltre a Jessica Chastain e Matt Damon, visti poco tempo prima in Interstellar, Chiwetel Ejiofor, che qui interpreta Venkat, è famoso sopratutto per essere il protagonista di 12 anni schiavo (2013) ed è recentemente apparso in Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) nei panni di Modor.

L’indimenticabile Sean Bean, che qui interpreta il ribelle Mitch, ma che è famoso sopratutto per essere stato Ned Stark in Game of thrones e Boromir ne Il signore degli Anelli – La compagnia dell’Anello (2001).

Abbiamo poi tre attori dell’MCU: Sebastian Stan, che qui interpreta Chris, uno della squadra di Mark, e che è famoso sopratutto per aver interpretato il Soldato d’inverno nella saga di Captain America, e che abbiamo visto recentemente anche in Pam & Tommy nei panni di Tommy Lee. Poi Michael Peña, uno degli attori comici più irresistibili della saga di Antaman, dove interpreta Luis, uno degli amici di Scott. In questo caso è Rick, uno della squadra di scienziati capitanata da un terzo attore dell’MCU, Benedict Wong, lo Stregone Supremo di Doctor Strange.

Annie è Kristen Wig, attrice associata sopratutto a prodotti di scarso valore e successo come il cosiddetto Gosthbusters al femminile (2016) e il recente Wonder Woman 1984 (2020), dove interpretava Cheetah. Poi Jeff Daniels, che qui interpreta il capo della NASA, famoso sopratutto per essere il protagonista della serie The Newsroom. Infine Nick Mohammed, che ricorderete sicuramente come Nathan della serie Ted Lasso.

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The Gray Man – Niente di più, niente di meno

The Gray Man (2022) è un action movie uscito recentemente su Netflix. La pellicola si porta dietro un team che prometteva meraviglie: non solo i Fratelli Russo, registi di Captain America – The Winter Soldier (2014), Avangers Infinity War (2018) e Avengers Endgame (2019), ma anche gli sceneggiatori che si occuparono di tutti i loro prodotti per l’MCU.

Purtroppo The Gray Man conferma come ottimi registi e sceneggiatori, tolti dal contesto giusto, possano dimostrarsi meno capaci di quanto ci si potrebbe aspettare. Questa pellicola si inserisce infatti nella scia di prodotti di poco o nessun successo cui i Fratelli Russo hanno partecipato al di fuori dell’MCU, come Cherry (2021) e City of Crime (2019), in quest’ultimo caso come produttori.

Di cosa parla The Gray Man?

Court Gentry è un galeotto con ancora almeno dieci anni di reclusione davanti, che viene inaspettatamente reclutato dalla CIA per far parte di un progetto ombra, chiamato il progetto Sierra. Tuttavia, a dieci anni di distanza, Court comincia a scoprire inquietanti retroscena…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare The Gray Man?

Ryan Gosling in una scena di The Gray Man (2022) dei Fratelli Russo

In generale no, ma ci sono buoni motivi per cui questo film potrebbe quantomeno intrattenervi. Bisogna ammettere che ancora una volta i Fratelli Russo si dimostrano ben più di mestieranti, cercando di portare una regia interessante e dinamica.

Il principale problema è infatti rappresentato dalla sceneggiatura, di una povertà creativa devastante, che snocciola mano a mano tutti gli stereotipi del genere. E in generale, c’è anche poco tempo per la storia, visto che due terzi del film sono scene di azione neanche troppo originali. Insomma, non stiamo parlando di John Wick.

Per questo è un film che, se non siete patiti degli action movie, soprattutto di quelli più banali, non vi consiglio di guardare. Io, personalmente, me ne sono ampiamente pentita.

Non saper essere originali (ma proprio in niente)

Ryan Gosling in una scena di The Gray Man (2022) dei Fratelli Russo

Un grande problema, se così vogliamo dire, di The Gray Man è la sua totale mancanza di originalità. Il film è incredibilmente piatto, non porta nessuna idea interessante sul tavolo, ma è proprio il classico prodotto in serie basato sulle solite dinamiche che funzionano per il cinema commerciale.

E potrebbe essere la pellicola giusta all’interno della strategia di Netflix di rilasciare una marea di film ogni anno: prodotti usa e getta di cui si parla per un paio di giorni, per poi finire totalmente nel dimenticatoio. Tenendo però sempre alta l’attenzione sulla piattaforma.

Chris Evans: crederci

Chris Evans in una scena di The Gray Man (2022) dei Fratelli Russo

Personalmente sto assolutamente adorando la rinascita attoriale di Chris Evans, che sta cercando in tutti i modi di allontanarsi dalla figura di Captain America. E così, come in Knives Out (2019), anche in questa pellicola interpreta un personaggio anomalo e negativo.

Per questo ho ampiamente apprezzato l’ironia e l’impegno che Chris Evans ci ha messo in questa parte, pur probabilmente consapevole anche lui di star lavorando in un film di livello molto mediocre. E non è un caso che, per quanto mi riguarda, il suo personaggio è l’unico veramente interessante e convincente dell’intera pellicola.

Che bella cagnara

Ryan Gosling in una scena di The Gray Man (2022) dei Fratelli Russo

Come Chris Evans è stato convincente, il resto del cast è un generale pianto. Lo spreco maggiore è stato indubbiamente Ryan Gosling, attore con un’espressività molto particolare e che deve essere maneggiato con cura, posto nei giusti ruoli e con la giusta direzione creativa, come è stato per The First Man (2018).

In questo caso invece si vede quanto Gosling fosse poco convinto del prodotto e quanto poco questo ruolo fosse adatto a lui. Ed è atroce quando cercano di affidargli delle battute comiche, che cadono totalmente piatte per incapacità o cattiva direzione. La chimica fra lui e Evans, poi, è assolutamente inesistente.

E non è neanche la parte peggiore.

Ma che bei personaggi femminili all’avanguardia!

Ana De Armas in una scena di The Gray Man (2022) dei Fratelli Russo

Al di là in generale dei dimenticabilissimi personaggi secondari, è stato al limite dell’imbarazzo vedere personaggi femminili inseriti così forzatamente per fingersi inclusivi, quando la storia è così evidentemente maschile (e non dovrebbe neanche essere un problema di per sé).

Poche volte ho visto personaggi femminili così insipidi, piatti e poco interessanti, che hanno un ruolo del tutto accessorio alla trama. Non si voleva appiattirli nel ruolo di femme fatale o di interesse amoroso dei protagonisti maschili. E quindi si è giustamente deciso di renderle totalmente futili alla narrazione.

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Us – Gli invisibili

Us (2019) di Jordan Peele è la seconda pellicola del cineasta diventato famoso già con la sua acclamata opera prima, Get out (2017). Purtroppo Us non ebbe lo stesso successo, nonostante degli incassi più che buoni: 255 milioni di dollari di incasso contro un budget di 20.

Il fatto che Us sia stato così poco considerato mi è davvero dispiaciuto: nonostante alcune indubbie ingenuità di sceneggiatura, si vede un importante passo avanti nella produzione del regista.

A voler essere polemici, si potrebbe pensare che questo sia dovuto al fatto che il film non parla più di razzismo come Get out, ma di un tema meno digeribile per il pubblico statunitense.

Di cosa parla Us?

1986, Santa Cruz. Durante una serata ad un luna park, giovane Andy si allontana dai genitori e entra in una Casa degli Specchi. Qui farà un incontro che le cambierà per sempre la vita.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Us può fare per me?

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

A differenza della precedente produzione, Us potrebbe farvi veramente paura. A me ogni visione trasmette un’inquietudine non da poco, e mi lascia un senso di terrore sotterraneo.

Questo perché, come spiegherò nella parte spoiler, Peele fa di tutto per evitare i jump scare, anche quando sarebbero ovvi da utilizzare. Così il film non ti trasmette una paura improvvisa, ma costruisce una tensione che colpisce molto più nel profondo.

Insomma, se riuscite a sopportare un certo tipo di inquietudine e volete continuare la scoperta della cinematografia di Peele e dell’horror autoriale contemporaneo, non potete perdervelo.

Emarginazione sociale

In Us si parla di emarginazione e dell’insuperabile divario sociale della società statunitense. Un tema caldo e onnipresente, in questo caso raccontato in una maniera molto articolata (e non sempre vincente).

Infatti le copie vivono in una realtà sotterranea, dove possono vivere le stesse esperienze di chi sta sopra (quindi dei ricchi e dei privilegiati), ma in una versione distorta e punitiva.

Piuttosto emblematico in questo senso il monologo di Red alla fine, quando si vede la stessa situazione del luna park di sopra con la scena delle copie di sotto: una situazione felice e spensierata, trasformata in un incubo.

La magnifica Lupita Nyong’o

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Ho avuto non pochi problemi con questa attrice, che ho visto acclamare per la sua interpretazione in 12 anni schiavo (2013), che non ho trovato così sorprendente (come il film in generale, del resto).

Per fortuna in questa pellicola mi ha permesso di riscoprirla: nonostante la sua interpretazione incredibile sia stata poco considerata nelle maggiori premiazioni, io l’ho trovata in uno delle migliori prove attoriali della sua carriera finora.

La sua abilità di interpretare non solo due personaggi diversi, ma soprattutto di riuscire a recitare strozzando la voce in maniera innaturale, così disturbante e drammaticamente credibile.

La rappresentazione delle copie

Ho trovato incredibilmente interessante la rappresentazione delle copie: individui che non hanno mai visto la luce del sole, che non sono né capaci di parlare né di muoversi in maniera umana, ma solo animalesca.

E infatti Red li tratta come degli animali, scatenando la loro furia vendicativa. Particolarmente emblematico come, nella prima scena in cui entrano in casa, Red li tenga intorno a sé come se fossero i suoi animali da compagnia.

Valorizzare i corpi neri

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Un elemento di assoluto interesse di questa pellicola è stata la capacità di Peele di valorizzare i corpi degli attori della famiglia protagonista.

Il regista infatti, cosciente del fatto che vi è un razzismo sotterraneo ad Hollywood che tende a privilegiare attori afrodiscendenti dalla pelle non troppo scura, ha scelto attori che solitamente sarebbero meno considerati come protagonisti.

E riesce a metterli in scena in modo che li valorizza, con il contrasto degli occhi bianchi che emergono nel buio con la pelle nera. Tanto che, a confronto, le copie interpretate da attori bianchi sembrano dei comuni zombie e sono molto meno di effetto, nonostante l’indubbia bravura degli attori.

Diciamo no ai jump scares

Lupita Nyong'o, Shahadi Wright Joseph e Evan Alex in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Una cosa che, se ci fate caso, non riuscirete più a non notarla, è quanto Peele giochi con i jump scares, al punto di evitarli sistematicamente anche nelle scene in cui lo spettatore, abituato alle dinamiche dell’horror commerciale, se lo aspetterebbe.

Una scena davvero emblematica è quella in cui Zora e Ombrae sono ai lati opposti della macchina e quest’ultima scompare all’improvviso. Zora quindi si accovaccia sotto ai piedi della macchina. E a quel punto in qualunque altro film Ombrae sarebbe apparsa all’improvviso davanti allo schermo.

E invece la tensione non viene spezzata, ma accresciuta dal cigolio che fa capire a Zora che la sua copia malvagia è in piedi sopra la macchina. E così la macchina da presa sale lentamente verso l’alto insieme allo sguardo di Zora, rivelando Ombrae che torreggia famelica su di lei.

Essere troppo entusiasti della propria storia

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Questa pellicola, nonostante io l’abbia ampiamente apprezzata, ha degli importanti difetti. O, meglio, delle grandi ingenuità di sceneggiatura. Ammiro Peele per essersi imbarcato in un’opera decisamente più complessa di Get out, ma questo stesso coraggio ha rivelato quanto questo autore sia ancora acerbo.

Quando si scrive una sceneggiatura o una storia in generale bisogna arrivare da un punto ad un altro, cercando di far tornare tutto nel mezzo. E si può finire per essere troppo entusiasti per la propria creazione e non riuscire a definirla chiaramente in tutte le sue parti.

E questo è successo con Us, che solleva non pochi punti di domanda: come fa Red ad organizzare la rivolta? Dove ha trovato le forbici, la divisa? Perché improvvisamente le copie non sono più state legate a quelli di sopra?

Oltre a questo, purtroppo, quando si vedono le scene flashback della realtà sotterranea non rende l’idea di un gruppo di milioni di persone.

Us Folli dettagli degni di nota

Nella prima parte del film ci sono una serie di forshadowing veramente ben fatti, che si notano solamente alla seconda visione.

Ne flashback del luna park Andy passa accanto a due ragazzi che giocano a carta sasso e forbice e la ragazza si lamenta che l’altro stia barando facendo sempre il segno della forbice. Davanti al labirinto degli specchi c’è scritto find yourself e infatti lì Andy troverà l’altra se stessa. In spiaggia nel presente Andy dice a Kitty che ha difficoltà a parlare, come infatti Red non è capace. Sempre nella scena della spiaggia, Jason sta scavando un tunnel.

Rivelatorio è alla fine, quando Andy uccide Red, e fa dei versi simili a quelli della sua copia, a rivelare la sua vera natura e origine.

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Interstellar – La monumentalità guastata

Interstellar (2014) di Christopher Nolan è uno dei più ambiziosi progetti in ambito fantascientifico degli ultimi anni.

Non a caso è stato un grande successo commerciale: 703 milioni di dollari di incasso contro un budget di 165. Ed è infatti uno dei film più citati ed apprezzati del regista.

Di cosa parla Interstellar?

In una Terra al limite del collasso, l’ingegnere Joseph Cooper viene inaspettatamente coinvolto in una missione spaziale per salvare l’umanità. Questo però significherà abbandonare i figli per un numero indefinito di anni…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Interstellar è un film imperdibile

Matthew McConaughey, Timotheè Chalamet e Mackenzie Foy in una scena di Interstellar (2014) di Christpher Nolan

Assolutamente sì.

Come detto, Interstellar è una delle produzioni più ambiziose degli ultimi anni, un film che si propone di portare il racconto dei viaggi nello spazio ad un altro livello. Paradossalmente, la storia di per sé è davvero semplice, ma viene arricchita da una serie di concetti scientifici e pseudo-fantascientifici non poco complessi.

Un film davvero monumentale, sia nell’estetica sia nella sua durata, assolutamente necessaria per raccontare un’avventura così importante e ricca di colpi di scena e concetti importantissimi.

Insomma, non potete assolutamente perdervelo.

E se alla fine sarete più confusi che altro, potete tornare qui e vedere la risposta a (spero) tutte le vostre domande.

Perché ho amato Interstellar

La bellezza (e bruttezza paradossalmente) di Interstellar è la sua complessità. E si tratta di una complessità voluta perché Nolan ama profondamente essere complesso, come Tenet (2020) ha ben dimostrato.

Tuttavia, a differenza di Tenet, la complessità è quasi dovuta per rendere credibile un’avventura così monumentale. Soprattutto perché basata su varie teorie scientifiche (come la Teoria della Relatività) e pseudo-scientifiche (il Wormhole), che sono la colonna portante della narrazione.

Matt Damon in una scena di Interstellar (2014) di Christpher Nolan

Al contempo Interstellar è una storia molto umana: i personaggi sono profondamente guidati dalle loro passioni e dai loro sentimenti. Ed è anche un tema del film: il Dr. Mann racconta proprio come l’uomo sia spesso guidato dell’interesse egoistico verso gli affetti vicini a lui e incapace di pensare sul lungo periodo.

Ma paradossalmente il dramma di Mann è anch’esso totalmente egoistico: sapendo di poter essere salvato solamente portando dei dati incoraggianti, li falsifica. Allo stesso modo inizialmente Cooper pensa principalmente a tornare dalla propria famiglia, Amelia a ricongiungersi con il suo amato.

E così gli stessi personaggi sono incredibilmente fallibili, e sono infiniti i drammi che devono affrontare e i complessi morali cui sono continuamente messi davanti. Ma sono comunque ricompensati da un finale positivo e fondamentalmente consolatorio.

Cosa non sopporto di Interstellar

Ci sono due elementi che poco sopporto di Interstellar: il facile dramma e la povertà di spiegazione.

Per me il dramma fra Cooper e Murph poteva essere facilmente evitato se questo avesse spiegato letteralmente alla figlia che stava andando a salvare il mondo. Ed era anche più giusto nei confronti di una bambina neanche tanto piccola, che avrebbe probabilmente meglio sopportato l’angoscia del mondo (evidentemente) al collasso piuttosto che l’abbandono del padre.

Allo stesso modo avrei preferito che le spiegazioni nel film fossero più ricche e chiare, e non volutamente nebulose. Insomma, non sopporto quando vengono lasciati così tanti punti di domanda, e non per dare spazio alle teorie, ma per volontà proprio di non dare spiegazioni (e a volte incapacità, anche se non in questo caso).

Tutto quello che non hai capito di Interstellar

Come funziona il tempo?

Per come è rappresentato il tempo in Interstellar, valgono due concetti fondamentali: il loop e la Teoria della Relatività. Il primo è il più semplice da capire: tutto il film è un loop in cui il Cooper del futuro influenza le azioni di Murph e di se stesso del passato.

Oltre a questo, il tempo è assolutamente relativo: il tempo è una dimensione che è da noi considerata lineare, ma in realtà non lo è. E, per questo, cambiando prospettiva e ambiente, il tempo ci appare scorrere in maniera differente.

Chi sono loro?

Matthew McConaughey in una scena di Interstellar (2014) di Christpher Nolan

I personaggi vengono aiutati dell’umanità del futuro, capace di vivere in cinque dimensioni e di permettere all’uomo del passato di viaggiare attraverso il wormhole da loro creato per raggiungere i nuovi pianeti abitabili.

Cos’è il wormhole?

Il wormhole di cui si parla nel film è una teoria scientifica che prevede il collegamento fra due luoghi anche molto distanti nello spazio. In questo caso appunto permette ai protagonisti di raggiungere in un tempo accettabile una nuova galassia con pianeti abitabili.

Cosa succede nel finale?

Matthew McConaughey in una scena di Interstellar (2014) di Christpher Nolan

Cooper attraversa il buco nero e si trova in uno spazio artificiale, il tesseract (o tesseratto) dove il tempo diventa una dimensione materiale. Così tutti i momenti di Murph sono visibili materialmente e Cooper può intervenire e mandare dei messaggi alla figlia.

Così le manda tramite il codice morse dei dati quantistici contenuti all’interno del buco nero che le permettono di avere le conoscenze matematiche per costruire le tecnologie con cui poter viaggiare attraverso il wormhole e raggiungere altri pianeti abitabili.

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Arrival – Una fantascienza diversa

Arrival (2016) di Denis Villeneuve è un film fantascientifico di genere invasione aliena. Un momento importante nella cinematografia del regista, con cui riuscì finalmente, e ancor prima di Dune, a farsi conoscere dal grande pubblico.

La pellicola fu infatti un grande successo commerciale: 203 milioni di incasso contro un budget di 47. Un ottimo investimento su un ottimo regista.

Di cosa parla Arrival?

Dodici astronavi aliene atterrano in diversi luoghi della Terra. La linguista Louise viene coinvolta nel cercare di venire a contatto e comprendere le intenzioni di questi potenziali invasori, in uno scacchiere internazionale piuttosto bollente…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Arrival è un film imperdibile

Jeremy Renner e Amy Adams in una scena del film Arrival (2016) di Denis Villeneuve

Assolutamente sì.

Arrival è uno di quei film che non puoi non recuperare, in particolare se ti è piaciuto Dune (2021). Villeneuve è stato capace di spogliare il genere sia della retorica americanocentrica sia del tipo narrazione piatta e ripetitiva che vediamo in molti film di questo tipo.

Al contrario ha portato una pellicola riflessiva, con un taglio potentemente credibile e una morale molto interessante. Insomma, è stato capace di prendere una storia apparentemente semplice e impreziosirla con una tecnica registica di altissimo livello.

Una fantascienza credibile

Amy Adams in una scena del film Arrival (2016) di Denis Villeneuve

Un elemento di grande valore della pellicola è la sua credibilità, per nulla scontata per questo tipo di film.

Solitamente, infatti, ci si trova davanti a prodotti di largo consumo che vengono inutilmente esagerati e che si appiattiscono in topoi ripetitivi. Così l’eroe per caso, il padre di famiglia che deve salvare la figlia o la famiglia, e via dicendo.

In questo caso invece troviamo un racconto credibile fin dalle prime battute: inizia come un qualunque film catastrofico (simile a quella schifezza di Birdbox, che ha avuto lo stesso sceneggiatore), ma a sorpresa non parte con l’azione come ci si potrebbe aspettare.

Vediamo invece l’inizio della narrazione in cui la protagonista è un personaggio passivo, quasi indifferente agli eventi. Diverse sequenze in cui resta inerme davanti alla televisione, a veder raccontati eventi su cui non può intervenire.

E fin da subito, per una volta, la vicenda non coinvolge solamente gli Stati Uniti, ma anche il resto del mondo. D’altronde Villeneuve è canadese e quindi non imbevuto di questo tipo di egocentrismo tutto statunitense.

E infatti la potenza militare più minacciosa non sono gli Stati Uniti, ma la Cina.

Come sarebbero gli alieni

Amy Adams in una scena del film Arrival (2016) di Denis Villeneuve

Molto spesso per semplificare la narrazione, sia in prodotti cinematografici che fumettistici, si utilizzano diversi escamotage per fare in modo che gli alieni possano parlare la nostra lingua. E che al contempo abbiano delle sembianze per noi comprensibili.

Nessuna delle due cose in Arrival: il modo di comunicare degli alieni è del tutto incomprensibile per noi e così nel loro aspetto non troviamo elementi riconoscibili. Non hanno la bocca né gli occhi, per esempio. E realisticamente è molto più credibile che, se incontrassimo gli alieni, sarebbero più come quelli di Arrival che come quelli dell’immaginario collettivo.

L’incomunicabilità

Amy Adams in una scena del film Arrival (2016) di Denis Villeneuve

Il punto centrale della pellicola è l’incapacità degli umani di comunicare con la specie aliena.

E infatti, per la complessità dello studio di Louise, si è scelto di non raccontarlo in maniera estensiva, ma di portare un’ellissi narrativa che mostra poi i protagonisti in una fase più avanzata dei loro studi. In questo modo si è evitato di semplificare un discorso davvero complesso.

E alla fine Louise riesce a comprendere la loro lingua e così anche il loro modo di pensare, così avendo una visione circolare del tempo. Infatti il film si basa su una teoria per cui, imparando una lingua nuova, se ne assorbe anche il modo di pensare dei parlanti.

Così la protagonista, comprendendo il linguaggio circolare degli alieni, riesce ad assorbire la loro capacità di conoscenza totale del tempo.

Una morale divisiva?

Amy Adams in una scena del film Arrival (2016) di Denis Villeneuve

La morale del film è tutt’altro che scontata.

Se sapessimo che la nostra vita potesse andare verso un evento drammatico, pur regalandoci degli splendidi momenti nel mentre, sceglieremmo comunque di viverli?

Louise, in un modo forse egoista, decide di vivere quel poco di felicità che la vita le potrebbe concedere, una piccola parentesi che poi probabilmente la porterà al punto di partenza in cui la vediamo all’inizio del film. Ma, per una donna così svuotata dalla vita come la vediamo all’inizio, è stato un regalo a cui non poteva dire di no.

Perché il finale di Arrival non mi ha convinto del tutto

Per quanto il finale non sia per nulla pessimo, anzi ben integrato nel contesto della pellicola, mi ha poco convinto perché l’ho trovato troppo idealizzato e ingenuamente ottimista.

Basta quindi una frase per far tornare sui suoi passi un generale così agguerrito?

È molto bello da immaginare così, ma è poco credibile.

E la credibilità è il punto di forza della pellicola…

Cosa dice Louise al generale?

La frase che Louise dice al generale Shang in mandarino significa

In the war there are no heroes, only widows.

In guerra non ci sono eroi, ma solo vedove.
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Baywatch – Rinnovare un cult

Baywatch (2017) di Seth Gordon è stato il tentativo di rilancio dell’iconica serie omonima.

Il film non fu di per sé un flop, ma neanche un grande successo commerciale, come forse ci si aspettava per un revival di questo genere.

Infatti, davanti ad un budget di 69 milioni di dollari, ne incassò appena 177. Non a caso il sequel fu più o meno annunciato durante la prima proiezione, ma del progetto non si ebbe più notizia.

Di cosa parla Baywatch

Il tenente Mitch Buchannon è il caposquadra dei bagnini delle spiagge di Emerald Bay. Si trova improvvisamente a dover gestire Matt Brody, ex atleta olimpico e testa calda che vuole unirsi a tutti costi al gruppo. Nel frattempo la baia è minacciata dall’avida imprenditrice Victoria Leeds…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Baywatch fu un insuccesso?

Baywatch è stato un interessante tentativo di riportare in auge il franchise della serie tv iconica.

Purtroppo, si tratta di un prodotto ben poco adatto ai tempi, sia per la comicità datata, sia per il tipo di rappresentazione dei personaggi, schiacciati da un machismo e da una ipersessualizzazione insopportabile.

Per questo si è scelto una via di mezzo: circoscrivere determinati aspetti datati su pochi personaggi e mettere maggiormente in risalto i personaggi femminili.

In particolare, rendere il villain una femme fatale potente e spietata è stata la classica soluzione di compromesso.

Purtroppo Baywatch richiede molto di stare al gioco e capire che si tratta di un prodotto revival che riprende il taglio della serie. Quindi una comicità molto spicciola, machista e corporale, una trama molto cartoonesca e non particolarmente spettacolare.

Se non ci si rende conto di questo aspetto fin da subito e se si fa parte della generazione dei millennial in su, a cui il film è indirizzato, si potrebbe provare un certo imbarazzo per quello che si vede in scena e di conseguenza non sentirsi coinvolti.

Baywatch può fare per me?

Zac Efron e Jon Bass in una scena di Baywatch (2017) di Seth Gordon

Dipende.

Se apprezzate i classici film con protagonista The Rock, probabilmente sì. Tuttavia, come detto, la comicità è un po’ più datata, un incontro fra la saga di Scary Movie e Magnum P.I. Tuttavia complessivamente io l’ho trovato un film godibilissimo, con una trama sicuramente semplice e piena di stereotipi, ma che riesce facilmente ad intrattenere.

Quindi se già dal trailer vi ispira, dategli un’occasione.

Sessualizzazione contestualizzata

Kelly Rohrbach in una scena di Baywatch (2017) di Seth Gordon

Una questione abbastanza problematica era la sessualizzazione del corpo femminile, di cui si è ben parlato nella serie Pam & Tommy.

In questo senso, hanno scelto una via di mezzo: i personaggi femminili in generale sono messi in primo piano nella storia e non sono quasi mai sessualizzati, e soprattutto non vi è tendenzialmente una regia voyeuristica sui loro corpi.

Una parziale eccezione è rappresentata da Casey, che riprende fondamentalmente le parti di Pamela Anderson nella serie. Ma anche Casey è una scelta calibrata. Anzitutto, si è evitato di imporre la ipersessualizzazione su Stephanie, interpretata da un’attrice latina (e con tutti gli stereotipi che ne sarebbero seguiti).

Al contrario, è stata scelta un’attrice come Kelly Rohrbach, con un volto pulito e che incarna la dream girl californiana. Quindi molto diverso dalla ragazza bella e impossibile come era Pamela Anderson, appunto.

Quindi l’oggetto del desiderio del personaggio maschile, con alcune soggettive un po’ infelici sul suo seno, che è comunque molto messo in mostra. Ma al contempo, per fortuna, Casey non è appiattita nel ruolo di pixie girl, ovvero il personaggio femminile che esiste unicamente in funzione della maturazione del personaggio maschile.

Machismo distruttivo

Zac Efron e Alexandra Daddario in una scena di Baywatch (2017) di Seth Gordon

Un’altra tematica molto forte della pellicola è il machismo distruttivo fra i due protagonisti maschili.

Tuttavia anche questo è stato costruito con un minimo di intelligenza: non esclusivamente un antagonismo fra Mitch e Matt, ma un tentativo di Mitch di ridimensionare Matt e fargli imparare qualcosa, pur talvolta cercando di devirilizzarlo.

Questo accade infatti quando Mitch parla della manvagina di Mitch e quando lo salva facendogli la respirazione bocca a bocca sul finale, e prendendolo in giro per questo. Ma, tutto sommato, la storia è più che altro funzionale a raccontare il percorso di crescita di Matt.

Una comicità datata

Kelly Rohrbach, Jon Bass e Hannibal Buress in una scena di Baywatch (2017) di Seth Gordon

Non solo la comicità, ma in generale la storia raccontata è proprio quella di un altro periodo. È così comico e poco credibile già solamente l’esistenza di bagnini che risolvono il crimine, e soprattutto che nella baia ci siano questo tipo di problemi.

Oltre a questo, la comicità è in generale molto datata: senza dover scomodare gli Anni Ottanta, sembra molto un umorismo tipico di quelle commedie primi Anni Duemila bellissime e terrificanti come Dodgeball (2004).

E questo potrebbe aver anche allontanato il pubblico dalla sala…

Cameo a tempo perso?

Nel film ci sono due camei che dovrebbero farti rimanere a bocca aperta, ma potrebbero essere stati totalmente inutili, in quanto il pubblico che principalmente è andato in sala è quello attirato dai film di The Rock più che dalla serie di Baywatch.

È così evidente che l’apparizione di David Hasselhoff doveva stupire lo spettatore che mi sono sentita in imbarazzo quando non l’ho riconosciuto. Meno imbarazzante l’apparizione di Pamela Anderson, che ho riconosciuto, ma che purtroppo non mi ha dato l’emozione che dovrebbe dare ai fan storici della serie.

Il film insomma strizzare l’occhio ai fan di Baywatch, che però è possibile che non fossero neanche in sala…