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Dune – Il prologo necessario

Dune (2021) di Denis Villeneuve è il primo capitolo della probabile trilogia di film tratti dal ciclo di romanzi cult di Frank Herbert.

Anche per via di una distribuzione criminale – negli Stati Uniti uscì allo stesso tempo al cinema e sul servizio streaming della Warner Bros – non fu un grande successo commerciale: a fronte di un budget di 165 milioni di dollari, ne incassò appena 433 in tutto il mondo.

Di cosa parla Dune?

Paul è il primogenito della famiglia Atreides, che viene resa improvvisamente il vassallo dell’Impero nel prezioso pianeta Arrakis, anche detto Dune…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dune?

Timothée Chalamet e Oscar Isaac in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Assolutamente sì.

Denis Villeneuve è riuscito dove persino David Lynch ha fallito: portare in scena un ciclo fantascientifico che già dal primo romanzo risulta estremamente complesso da rendere – per la mitologia, i significati e il taglio narrativo.

In questo senso, la scelta piuttosto ardita di rendere il primo film una sorta di capitolo introduttivo non solo è intelligente, ma assolutamente necessaria: prima di arrivare ai punti caldi della storia, è essenziale che il pubblico abbia una conoscenza robusta del mondo di Dune.

In ogni caso, non ve lo potete perdere.

Mitologia

Zendaya in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

La gestione della mitologia in Dune è impeccabile.

La sequenza introduttiva getta le basi fondamentali per la comprensione del complesso panorama politico, creando un climax narrativo sulla dualità di Arrakis: nelle parole di Chani Dune è un luogo splendido, incontaminato…

…ma è anche una fonte di inesauribile ricchezza, che ha portato al pugno di ferro della terribile famiglia Harkonnen, la cui dipartita non porta nessun sollievo al popolo dei Fremen, che invece già si chiedono chi sarà il loro prossimo oppressore.

Timothée Chalamet in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Un’introduzione che si ricollega perfettamente al protagonista…

…e in ben due modi diversi.

Come infatti Chani è la ragazza misteriosa – che rimane senza nome fino sostanzialmente alla conclusione della pellicola – protagonista degli strani sogni di Paul, che sembrano anticipare un futuro ora sereno, ora profondamente drammatico…

…sia nei piccoli inserti esplicativi di vari elementi della mitologia, essenziali per la comprensione del film e inseriti come parte della formazione del protagonista, profondamente interessato a capirne di più della sua nuova casa.

Piccolo

Oscar Isaac in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Dune viaggia a due velocità.

All’inizio il fulcro della storia sembra la piccola storia di gelosia politica che ha come protagonista il Duca Leto, un personaggio più volte definito come sacrificabile e poco importante nel grande schema delle cose.

Non è un caso che Leto sia l’unico raccontato come smaccatamente positivo, consapevole dell’inganno in atto, ma deciso a portare fino in fondo la sua missione, volendo distinguersi dal crudele cugino Harkonnen.

Oscar Isaac in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

A differenza infatti dei precedenti oppressori, Leto cerca un dialogo con i Fremen.

Mandando in avanscoperta il suo migliore guerriero – Duncan – accettando tutte le stranezze del popolo – come quando Stilgar sputa davanti ai suoi occhi – e accogliendo tutte le condizioni che gli indigeni gli impongono.

Questa suo tentativo di essere conciliante si dimostra infine fallimentare all’interno di un panorama politico dominato dall’inganno e dalla violenza, in cui la morte di Leto diventa sia lo sfogo della gelosia dell’Imperatore, sia la spinta necessaria per il concretizzarsi del destino di Paul.

Crudele

Stellan Skarsgård in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Il Barone Harkonnen è un villain incredibile.

Il film è riuscito perfettamente ad inquadrare un personaggio profondamente – a tratti quasi inutilmente – crudele, con la sua presenza imponente e terrorizzante, sempre intento ad intessere una trama di inganni e crudeltà, finalizzata unicamente al guadagno.

Particolarmente elegante ammorbidire un personaggio davvero impresentabile al cinema, ma nondimeno inserire indizi del suo terribile carattere: diciamo solo che i ragazzini che appaiono come servitori, in realtà lo servono soprattutto in altro modo…

Stellan Skarsgård in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

In generale, il Barone incarna il senso di Dune.

Il mondo di Herbert è basato sull’inganno nell’ombra, la trama politica nascosta – di cui Vladimir Harkonnen è lo splendido protagonista – in cui l’attacco diretto, l’azione ne è solo l’ultimo capitolo – ed infatti i momenti dedicati alla stessa sono pochissimi.

Eppure, persino questo villain appare minuscolo nel grande schema narrativo: pure se per motivi totalmente diversi, anche il Barone è concentrato unicamente sul guadagno immediato, sul potere politico presente…

Dominio

Infatti, il vero potere è nelle mani delle Bene Gesserit.

Questa congrega centenaria di donne è riuscita a spingere oltre ogni limite le potenzialità dell’umanità, destinata a sostituire la macchina: secondo la religione dominante, le tecnologie sono ridotte all’osso, e l’umano stesso deve diventare un computer vivente.

In questa ottica, la preziosa spezia che per gli Harkonnen e l’Impero è solo una fonte di guadagno, per le Bene Gesserit è invece uno strumento che permette loro di costruire un piano spalmato su arco temporale di secoli, se non millenni.

Rebecca Ferguson in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

In questo schema, Jessica è solo una pedina.

Una pedina che, però, ha scelto di fare di testa sua.

La donna ha cercato di imporsi nello stringente piano della sua sorellanza, sfidando il potere delle Madri per intrecciare la sua linea di sangue con Leto e far nascere una figura mitologica dai tanti nomi – Kwisatz Haderach, Lisan al Gaib – che sarà protagonista dell’ambigua sorte di Dune.

Ma, soprattutto, Jessica ha scelto di sfidare il potere delle Bene Gesserit, formando un maschio ai poteri propri di una religione esclusivamente femminile, ponendo le basi per un destino ancora oscuro ed imprevedibile.

Imposto

Zendaya e Timothée Chalamet in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Per questo, il destino di Paul è imposto.

Al riguardo, è stato piuttosto intelligente da parte del film inserire un elemento estraneo alla narrativa di Herbert: nel romanzo il protagonista accettava quasi passivamente, e con estrema freddezza, la sorte che era stata scelta per lui, come se fosse qualcosa di inevitabile.

Al contrario, nella pellicola Paul è costantemente tormentato da omen, visivi e vocali, che gettano i semi per la comprensione del suo fondamentale ruolo nella storia di Dune, che il personaggio vive ora con angoscia, ora con una genuina disperazione.

Timothée Chalamet in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Ma la vera evoluzione di Paul è uscire dal controllo della madre.

Per assumere il suo ruolo, il protagonista deve effettivamente immergersi nella realtà di Arrakis, basata sull’idea di adattamento, non l’imposizione: i Fremen sopravvivo su Dune perché hanno imparato a conviverci, a muoversi imitando i naturali movimenti del deserto…

…al contrario degli oppressori che si sono susseguiti, i quali, nella loro corsa al guadagno e al profitto, si sono lasciati in più momenti divorare dai veri dominatori di Arrakis, ovvero i Vermi della Sabbia, attirati proprio dai segnali di mutamento dell’ambiente.

Per questo, Paul deve imparare a farne parte.

Inizio

Timothée Chalamet in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Il destino di Paul è incerto.

Più viene a contatto con il deserto, e quindi con la spezia, più il protagonista si rende conto che la sua vittoria passa attraverso il lasciarsi guidare dagli istinti, intendere gli stimoli che lo circondano…

…e non pensare che gli avvenimenti futuri siano già stati matematicamente decisi, ma piuttosto viverli come ancora del tutto definibili dalle sue azioni e delle sue scelte – in particolare, la scelta di diventare personaggio attivo della storia.

Infatti, Paul riesce a diventare effettivamente protagonista del suo destino quando sceglie di farsi ingoiare da Dune: immersi nella terribile bufera di sabbia che avrebbe ucciso chiunque, il protagonista capisce che non deve forzare la sua presenza in quell’ambiente…

…ma piuttosto lasciare che la sua navicella si immerga nel pianeta, ascoltandolo e così capendo quale direzione prendere per arrivare alla prima tappa del suo viaggio predestinato: l’incontro con i Fremen.

Ma anche in questo caso, è un evento ambiguo.

Infatti, quando finalmente Paul si trova davanti sia a Chani sia, soprattutto, a quello che dovrebbe essere il suo futuro alleato – il Fremen Jamis – capisce che il futuro è ancora tutto da scrivere.

Per questo accetta infine l’inevitabile morte dell’uomo che gli si è opposto, non forza la relazione con la misteriosa ragazza, ma piuttosto accetta di entrare a far parte dei nativi, muovendo i primi passi verso questo nuovo inizio.

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Ready Player One – È solo un gioco?

Ready Player One (2018) di Steven Spielberg, benché non sia stato forse l’incredibile successo economico che ci si aspettava, è diventato in poco tempo un piccolo cult.

Infatti, a fronte di un budget di 175 milioni di dollari, ha incassato appena 600 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Ready Player One?

Terra, 2045. Wade vive in un mondo che da decenni ha una sola ossessione: OASIS, un gioco multigiocatore il cui solo limite è la fantasia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ready Player One?

L'avatar di Wade in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

In generale, sì.

Ready Player One è uno spettacolo per gli occhi, uno dei migliori progetti artistici ad alto budget degli ultimi anni, fra l’altro diretto con grande precisione ed eleganza da un regista del calibro Spielberg, che omaggia una pop culture che lui stesso ha contribuito a formare.

Tuttavia, il grande problema di questo film è la sua ossessione nel voler sminuire il mondo dei videogiochi e della realtà digitale, insistendo su come le stesse siano esperienze irreali e per questo poco significative, utilizzando fra l’altro motivazioni piuttosto triviali…

Insomma, da vedere, ma preparati.

Finzione

L'avatar di Wade e Samantha in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

Il mondo di OASIS è spettacolare.

La sequenza iniziale – così come quella finale – è uno dei migliori esempi di utilizzo consapevole della CGI, impreziosito da una regia attenta e precisissima, riuscendo a portare in scena una sequenza piuttosto affollata e apparentemente confusionaria in maniera chiara e comprensibile.

E bastano poche righe di sceneggiatura per raccontare le informazioni essenziali del mondo in cui la storia si muove, senza andarsi a perdere in una mitologia troppo complessa, ma invece introducendo gradualmente i diversi elementi in gioco.

L'avatar di Sorrento in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

In particolare, davvero indovinata la rappresentazione della morte degli avatar all’interno del gioco, con un’esplosione non solo di monetine, ma, come si vede nel finale, anche di tutti gli oggetti accumulati negli anni dal giocatore.

Ancora più incredibile è il character design semplicemente splendido dei diversi personaggi, che riescono a ricalcare l’aspetto reale degli attori con degli avatar che già da soli rappresentano uno splendido omaggio alla cultura pop.

E non è finita qui.

Quest

Il Fondatore in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

Il film sarebbe già stato perfetto per la sua fantastica resa del mondo di gioco.

Ma la trama è persino impreziosita da un mistero intrigante ed avvincente, che si sviluppa all’interno di una quest piuttosto classica, ma che racconta la genuina passione degli autori per il tema fondante della pellicola.

Personalmente la mia tappa preferita è la prima: pur nella sua semplicità, mi colpisce sempre per la brillantezza della quest e della sua risoluzione, che riesce a ricalcare una sequenza già splendida – la corsa – ma riproponendola in una veste nuova e per nulla scontata.

Non meno splendidamente realizzata la seconda quest, dedicata a una rilettura di Shining (1980), che utilizza l’escamotage del personaggio ignorante sulla materia per riproporre in una veste nuova alcuni degli elementi più iconici del film.

Così l’ultima tappa è uno splendido omaggio ad uno degli elementi a tratti più avvincenti dell’esperienza videoludica: scovare gli easter egg nascosti, la cui scoperta è talvolta effettivamente più intrigante della banale vittoria contro il boss di turno.

Ma Ready Player One vive di omaggi.

Omaggio

Il gigante di ferro in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

In Ready Player One si contano quasi 140 citazioni.

Da Il gigante di ferro (1999) a Animal House (1978), da colossi del mondo videoludico – almeno al tempo – come Overwatch e Mario Kart fino a cult imprescindibili come Gremlins (1984) e Akira (1988), il film è un enorme omaggio alla cultura pop.

Ed è un omaggio che, nonostante l’affollamento di citazioni, non appare mai forzato o eccessivo, ma perfettamente integrato all’interno della narrazione, con elementi ora centrali alla scena, ora sapientemente relegati nelle sue retrovie.

E non è cosa da poco.

E proprio per questo un dubbio mi sale…

Gioco…

Wade e Halliday in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

È solo un gioco?

Davanti ad una costruzione così articolata, all’omaggio per nulla scontato, anzi quasi alla celebrazione della cultura pop e videoludica, mi ha sempre stranito quanto Ready Player One sembri odiare il mondo che porta in scena.

O, almeno, se non odiare, quantomeno profondamente sminuire, insistendo su un’idea veramente vetusta per cui i videogiochi – e il mondo virtuale in genere – siano un’esperienza irreale, che deve rimanere confinata al semplice passatempo.

Insomma, all’esperienza videoludica prima maniera.

Discorso che avrei potuto accettare forse negli Anni Ottanta e Novanta, ma che oggi quanto nel 2018, in una realtà così variegata e in continua ascesa, con alcuni titoli videoludici che rivaleggiano col cinema stesso, mi sembra un’idea davvero superficiale e superata.

Per questo mi disturbano profondamente gli ultimi due atti, in cui si cerca di sottolineare quasi ossessivamente la differenza fra realtà e finzione, come se un nome da noi creato online non ci potesse definire, come se i rapporti del protagonista non fosse già profondi ed importanti anche prima di incontrare nella realtà i suoi amici…

Villain

Sorrento in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

Secondo questo concetto, il villain è uno degli elementi più deboli della pellicola.

Il suo ruolo è definire in maniera netta la differenza fra un mondo videoludico – e digitale – passato e quasi privo di interessi economici, e una realtà futura – e in qualche modo ormai presente – ingoiata dalla pubblicità e guidata unicamente dal profitto.

In questo modo, il film rimane su un piano veramente semplice e ingenuo, non presupponendo neanche la possibilità di una serena via di mezzo, fra l’azienda assassina che crea campi di concentramento e un mondo digitale senza regole.

Allo stesso modo, la storyline dedicata alla sconfitta del villain l’ho trovata poco interessante, in quanto basata su schemi narrativi piuttosto classici, provenienti proprio dai tanto sospirati Anni Ottanta-Novanta, risultando però così l’elemento meno indovinato del film.

Tanto più che la storia di Sorrento, anche nella sua semplicità, non ha il coraggio di compiere il passo decisivo verso una riflessione più profonda riguardo alla penetrazione delle aziende all’interno del mondo dell’intrattenimento.

Ed è un’importante mancanza.

Realtà?

Wade e Samantha in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

La visione nostalgica di Ready Player One l’avrei anche potuta accettare se avesse fatto un passo in più verso una riflessione più sentita e contemporanea, invece che ridurre il tutto ad uno stereotipo piuttosto superato del nerd senza una vita sociale.

Infatti, se nel finale il film mi avesse raccontato che la sospensione settimanale dell’accesso ad OASIS fosse finalizzata a ricreare la comunità, a ricostruire le città distrutte, a smuovere il governo verso investimenti lungimiranti, sarebbe stato anche uno spunto riflessivo interessante…

Wade in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

…invece la messinscena e la sceneggiatura sembrano ridurre il tutto al protagonista che diventa più sessualmente intraprendente, andando a sanare la colpa di James Halliday, con una eloquente chiusura della pellicola su Wade e Samantha che si baciano appassionatamente.

Insomma, due protagonisti sono infine concentrati solo sulla loro piccola realtà, ma del tutto ignari di tante persone intorno a loro che potrebbero per i più svariati motivi – distanze fisiche incolmabili, disabilità… – non poter sentire per due giorni i loro più cari affetti…

…non potersi svagare da una realtà magari irrimediabilmente angosciante.

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The Marvels — Un film ad ostacoli

The Marvels (2023) di Nia DaCosta è il sequel di Captain Marvel (2019).

A differenza del primo capitolo, la pellicola è stata un pesante flop commerciale: con budget di circa 220 milioni di dollari, ha incassato appena 206 milioni in tutto il mondo…

Di cosa parla The Marvels?

Per uno strano incrocio di eventi e destini, Carol Danvers, Monica Rambeau e Kamala Khan si ritrovano coinvolte in un’avventura per la salvezza della galassia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Marvels?

Dipende.

Di per sé The Marvels è un film di qualità medio-bassa per l’MCU: non arriva ai picchi di orrore di Ant-Man and the Wasp: Quantumania (2023), ma al contempo è del tutto evidente come sia un prodotto piuttosto scarso – per scrittura, finalità e montaggio.

Da persona che si è lasciata per anni facilmente coinvolgere nell’umorismo anche molto sempliciotto targato Marvel, sono rimasta piuttosto fredda, anzi quasi imbarazzata, davanti ai tentativi di rendere simpatici e affabili due personaggi così freddi e seri come Carol Danvers e Monica Rambeau.

Ma l’errore più grande di questa pellicola è indubbiamente il suo sconvolgente gatekeeping: pur avendo visto entrambi i prodotti introduttivi dei personaggi – Wandavision (2021) e Ms. Marvel (2022) – mi sono ritrovata comunque confusa dalla totale mancanza di una reintroduzione degli stessi.

E se ero confusa io, posso solo immaginare come si sia sentito chi non sa neanche di chi si sta parlando…

Diversa

Carol appare fin da subito diversa.

Se il suo personaggio aveva preso una direzione caratteriale inedita fin dalla post-credit di Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli (2021), in The Marvels è fin da subito presentata come molto più ironica, affabile, pasticciona.

E così anche per il modo di vestire: se nel primo film prediligeva colori scuri e decisi, in questo caso opta per un abbigliamento molto più simpatico, quasi ironico, che ha il suo picco nella molto discutibile scena in cui diventa una principessa.

Un tentativo che si sposa perfettamente con tutte le difficoltà sia di riproporre in maniera vincente questo personaggio sullo schermo, poco spendibile sia a livello caratteriale – all’inizio appariva fredda e distante – sia per i suoi poteri spropositati.

Ma più che un tentativo di cambiamento, è un tentativo di adattamento.

Uniformare

In The Marvels, Carole deve essere sempre meno simile a sé stessa…

…e sempre più vicina a Ms. Marvel.

La serie di Kamala Khan è il punto di riferimento per il taglio della pellicola – o, almeno, il taglio che la pellicola avrebbe voluto avere – cercando di rendere il più possibile ironiche e divertenti le scene di combattimento quanto di team building.

Si passa così dall’assurdità del primo scontro – con lo scambio continuo ed imprevedibile fra le tre protagoniste – alle scene di training del terzetto, fino a momenti fra il comico e il grottesco di Goose e la sua famiglia che divorano l’equipaggio…

E se questo cambiamento tutto sommato potrebbe pure funzionare grazie alle capacità attoriali di Brie Larson, lo stesso non si può assolutamente dire per Monica Rambeau, personaggio nato in un contesto estremamente drammatico – ricordato anche nella pellicola…

…e i cui gli accenni comici – come quando non vorrebbe volare per salvare Ms. Marvel – mal si adattano alla figura più fuori luogo del terzetto: per quanto ci si sforzi in quella direzione, purtroppo il personaggio di Teyonah Parris è totalmente agli antipodi rispetto a Ms. Marvel.

Elemento che aggrava ancora di più il gatekeeping selvaggio della pellicola.

Ostacolo

The Marvels è una pellicola davvero poco accessibile.

Che sia per via di tagli in fase di post-produzione, che sia per una visione ormai tramontata di stretta connessione fra serie tv e cinema, in ogni caso il pubblico generalista si è trovato totalmente spaesato davanti a due personaggi di cui non sapeva nulla.

Discorso meno grave per Ms. Marvel, di cui quantomeno si recupera il taglio ironico e la regia frizzante ed originale della sua serie di riferimento, nonché le simpatiche dinamiche familiari – anche se le stesse, senza aver visto la serie, risultano molto meno godibili.

Monica Rambeau è invece un mistero.

Oltre alla già citata difficoltà di adattare un personaggio così drammatico ad un contesto così fortemente ironico, si aggiunge la totale mancanza di reintroduzione del suo personaggio, con pochi accenni alle dinamiche di Wandavision e un maggiore focus sul rapporto con Carol.

Tuttavia, trovo piuttosto ingenuo sperare di coinvolgere emotivamente lo spettatore con un collegamento così debole, riferito non solo ad un film di diversi anni fa, ma soprattutto ad un personaggio che, per ovvi motivi, in Captain Marvel era interpretato da un’altra attrice.

E non è neanche l’aspetto peggiore della pellicola.

Quota

L’elemento più incomprensibile, anzi genuinamente ridicolo di The Marvels, è il suo villain.

Nonostante l’MCU abbia raramente brillato per i suoi antagonisti, in questo caso il villain di Captain Marvel aveva un’importanza non da poco, in quanto doveva giustificare i decenni di assenza della protagonista dall’universo cinematografico.

Purtroppo, la vicenda raccontata è ben poco efficace, e anzi toglie valore alla storia stessa di Captain Marvel, i cui problemi sembrano sostanzialmente limitati ad uno dei tanti mondi che avrebbe liberato dall’Intelligenza Suprema.

Ma il villain diventa praticamente parodistico per l’interpretazione dell’attrice, Zawe Ashton, costantemente sopra le righe, inutilmente eccessiva a dei livelli tali che è incredibile come non sia stata candidata ai Razzie Awards.

Per il resto, il villain si integra nella costante mediocrità del film, proponendo una motivazione banale e già ampiamente esplorata, e a cui la pellicola non sembra neanche particolarmente interessata, concedendogli un minutaggio abbastanza limitato.

Dove si colloca The Marvels (2023)?

Vista la quantità di personaggi presenti, The Marvels si colloca in maniera abbastanza precisa nell’universo MCU.

Il film è ambientato nell’autunno del 2025, subito dopo Ms. Marvel – a cui si collega direttamente – e Hawkeye (2021) – che era ambientato nel Natale del 2024 – e probabilmente anche dopo Secret Invasion (2023).

La pellicola si colloca nella Fase 5 e nella Saga del Multiverso.

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Captain Marvel – Un simbolo vuoto

Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck è stato uno dei più grandi successi commerciali dell’MCU – che fosse per il personaggio o per la vicinanza ad Endgame (2019), è ancora un mistero.

Infatti, a fronte di un budget di 152 milioni di dollari, ha incassato 1,1 miliardi di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Captain Marvel?

Vers fa parte della Starforce, una potente squadra di nobili guerrieri dell’impero Kree. Ma niente è quello che sembra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Captain Marvel?

Brie Larson in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

Dipende.

Già al tempo dell’uscita fu piuttosto palese che Captain Marvel fosse niente più che un film molto medio dell’MCU, con un ottimo reparto tecnico – viene da piangere se confrontiamo la CGI di questo film con quella di Secret Invasion (2023) – e una struttura abbastanza classica.

Appare altresì piuttosto evidente, soprattutto ad una revisione ad anni di distanza, quanto la pellicola vada incasellata all’interno delle nuove tendenze del cinema post-metoo, con una Marvel che propose un film bandiera per far vedere di essere dalla parte giusta...

…finendo per produrre un prodotto estremamente vuoto e fine a sé stesso.

Costretta

Brie Larson e Jude Law in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

L’incipit risulta molto più eloquente a visione conclusa.

La protagonista si trova fra due fuochi – il suo caposquadra e allenatore, Yon-Rogg, e la Suprema Intelligenza con un aspetto misterioso – accomunati dalla volontà di limitarla nell’espressione dei suoi poteri e del suo potenziale.

Ma, oltre ad essere frustrata, Vers è totalmente indottrinata dalla propaganda politica dell’Impero Kree, che vorrebbe schiacciare totalmente il popolo degli Skrull – il quale, sulle prime, appare infatti piuttosto ostile ed intrigante.

Brie Larson in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

Una situazione iniziale che metanarrativamente racconta tutt’altro.

La condizione della protagonista vorrebbe in altri termini rappresentare la situazione di donna media all’interno della società in cui vive, la quale cerca costantemente di soffocare le sue potenzialità e di tenerla sotto controllo, tramite una propaganda spicciola e pressioni sia fisiche che psicologiche.

Questa volontà così squisitamente politica finisce involontariamente per depotenziare la protagonista stessa, che manca totalmente di un arco evolutivo, fondamentale in ogni origin story per rendere l’eroe interessante e vicino allo spettatore.

Limitata

Brie Larson in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

In altre parole, Captain Marvel è un personaggio totalmente fine a sé stesso.

Carol Danvers è infatti una figura già arrivata, che non deve veramente affrontare nessuna sfida fondamentale per diventare effettivamente un’eroina, ma il cui punto di arrivo è semplicemente la scoperta del suo vero potenziale.

Ma, nel frattempo, pur subendo le costrizioni imposte dai Kree, la protagonista è comunque un personaggio potente ed irriverente, i cui errori sono sostanzialmente inutili nell’economia narrativa, vista la facilità con cui li risolve…

Brie Larson in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

…risultando così talmente perfetta da apparire per questo fredda, distante, potendo soddisfare solamente le necessità immediate del basso ventre del pubblico di quel periodo, ma rendendola sostanzialmente un personaggio senza futuro.

Non a caso, il film stesso si affretta a spiegare retroattivamente e in più momenti la mancata presenza del personaggio nelle avventure degli Avengers fino a quel momento, risultando però, in ultima analisi, ben poco credibile.

Importanza

Brie Larson in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

Captain Marvel non è un personaggio importante.

Neanche il tempo di essere introdotta, Carol Danvers fu messa immediatamente da parte nel film successivo: in Endgame ritorna solamente alla fine della battaglia, risultando comunque l’elemento meno interessante della scena, quasi un deus ex machina.

A posteriori, insomma, Carol Danvers rappresenta la poca lungimiranza dell’MCU post-Endgame, proprio nella scelta di introdurre un personaggio ben poco riutilizzabile, che non conquistò il cuore del pubblico, ma che anzi venne sempre più odiato negli anni.

Brie Larson in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

E risulta particolarmente sconfortante che il primo personaggio femminile protagonista di un film dell’universo cinematografico ottenne una gestione così ingenua e superficiale, capace, come detto, solamente di guardare alle necessità immediate del pubblico…

…e invece totalmente incapace di costruire un’eroina tridimensionale e sfaccettata, della cui storia avremmo potuto appassionarci nei film successivi, portando invece ad un’icona vuota, che diventerà la futura protagonista di uno dei più pesanti flop della Marvel.

Contorno

Brie Larson e Samuel Jackson in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

Paradossalmente, la parte più interessante di Captain Marvel è il suo contorno.

Se infatti mettiamo da parte le sequenze prettamente dedicate alla protagonista, il film è una spy story anche piuttosto intrigante nelle sue dinamiche – ovviamente dimenticandoci da come queste siano state in seguito mal sfruttate in Secret invasion…

In particolare, il personaggio che rimane più positivamente impresso è il giovane Fury, che rappresenta anche la linea comica della pellicola, assolutamente necessaria a fronte del carattere così freddo e insapore della protagonista.

Brie Larson e Samuel Jackson in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

Meno convincente invece, come detto, il tentativo di incasellamento e di importanza retroattiva per questo film, in particolare nello smaccato tentativo di collegare direttamente il personaggio agli Avengers.

Per questo a mio parere sarebbe stato molto più intelligente creare una storia di maturazione realistica e coinvolgente – come poteva essere quella del poco precedente Spider-Man: Homecoming (2017) – anche sacrificando il collegamento diretto con l’universo di appartenenza.

Dove si colloca Captain Marvel (2019)?

Captain Marvel si colloca nella preistoria dell’MCU: essendo ambientato nel 1995, volgarmente potremmo dire che si trova fra Captain America (2011) e Iron Man (2008).

E, proprio come il primo film di Steve Rogers, entrambe le post-credit collegano il film ad Avengers: la prima direttamente al successivo Endgame, la seconda – anche se più alla lontana – a The Avengers (2012)

Anche se alcuni folli consigliano, nella visione cronologica dell’MCU, di guardarlo dopo il film sul primo vendicatore, Captain Marvel è uno degli ultimi titoli dell’affollata Fase 3, conclusiva della Saga dell’Infinito.

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Prova a prendermi – La fuga eterna

Prova a prendermi (2002) è uno spy-movie firmato da Steven Spielberg con un terzetto di attori d’eccezione: Tom Hanks, Christopher Walken e un giovane Leonardo di Caprio.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 52 milioni di dollari – fu un ottimo successo commerciale, con 408 milioni di dollari di incasso.

Di cosa parla Prova a prendermi?

New York, 1964. Frank è un giovane studente con una certa passione per il role play…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Prova a prendermi?

Leonardo di Caprio in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

Prova a prendermi è una piacevolissima spy-story con un cast di grandi talenti, fra cui spicca un brillante Leonardo di Caprio, che già qui dimostrava le sue incredibili capacità recitative, tanto da riuscire a portare in scena un personaggio estremamente complesso e variegato.

Personalmente ho anche apprezzato che, a differenza del poco successivo The Terminal (2004), in questo caso il film non si perde in un buonismo un po’ fine a sé stesso, non mancando comunque di un finale estremamente appagante.

Insomma, da vedere.

Orme

Leonardo di Caprio e Christopher Walken in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Le tendenze criminali di Frank sono ereditarie.

Il ragazzo ha passato tutta la sua vita ad osservare, anzi ad essere coinvolto nelle truffe del padre, apprendendo un insegnamento fondamentale: l’apparenza e la convinzione sono la chiave del successo di ogni con artist.

E se si aggiunge la lusinghiera corruzione…

Leonardo di Caprio in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Un gioco che prosegue finché non è il figlio stesso a volersi mettere in gioco, in maniera così brillante e convincente da riuscire a condurre una settimana intera come insegnante, arrivando persino ad organizzare un viaggio scolastico…

Una scelta che dovrebbe essere durante punita dal padre, ma che invece viene promossa con una risata condivisa.

Ma Frank è cieco di fronte a tutto il resto.

Persecuzione

Christopher Walken in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Nonostante Frank Senior si sente come il topo furbo che è riuscito a gabbare il sistema…

…in realtà è affogato nello stesso.

Questa sua passione per le truffe lo porta infatti a distruggere dall’interno la sua famiglia, a vivere sostanzialmente perseguitato dall’IRS, e, soprattutto, a passare un’errata convinzione al figlio, che sente come di poter riscattare la memoria del padre con una truffa nuova di zecca.

Ma il giovane protagonista è ancora più ingenuamente miope davanti alla sensazione del padre di essere costantemente osservato, controllato, di non poter vivere serenamente neanche il regalo di un figlio per paura di essere messo dietro le sbarre…

Ruolo

Leonardo di Caprio in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Per interpretare un personaggio, la preparazione è fondamentale.

Frank si destreggia fra un ampio di ventaglio di ruoli primari e secondari, accettando persino situazioni di estremo disagio – assolutamente fondamentali ai fini narrativi per raccontare anche le debolezze di un protagonista apparentemente così infallibile.

Così comincia con un’importante ricerca sul campo, che lo porta a farsi raccontare da personaggi totalmente ignari tutte le informazioni necessarie per poter prendere parte al primo ruolo – il pilota – scoprendo ogni volta nuovi modi per riscattare assegni sempre più importanti.

Leonardo di Caprio in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Ma se la mascherata del pilota è tutto sommato moralmente innocua, altro discorso è quando il protagonista si finge dottore per farsi assumere in ospedale, in realtà usando la sua posizione come un trampolino per sistemarsi con un matrimonio di comodo.

E, proprio a quel punto, la facciata comincia a cadere a pezzi.

Maschera

Tom Hanks in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Carl è l’unico vero amico del protagonista.

Nonostante infatti cerchi costantemente di mostrarsi circondato da belle donne e da uomini che vorrebbero essere al suo posto, in realtà Frank è un individuo estremamente solo, che non può parlare realmente con nessuno dei suoi veri sentimenti e delle sue paure.

Per questo l’agente dell’FBI, inizialmente gabbato da un inganno assolutamente improvvisato – basato sempre sulla distrazione creata al momento giusto, andando a scavare i più profondi sentimenti e preoccupazioni di chi ha davanti…

…è l’unico che riesce davvero ad inquadrare il protagonista, l’unico che conosce la sua vera faccia, ed anche l’unico interlocutore a cui Frank si rivolge quando si sente del tutto abbandonato a sé stesso, nonostante così si metta costantemente in pericolo…

Prigione

Leonardo di Caprio in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Fino agli ultimi momenti, Frank deve scegliere fra l’essere braccato o l’essere rinchiuso.

E il concetto di prigione nel suo caso è piuttosto ampio.

La galera è sia quella fisica – in Europa o negli Stati Uniti – sia quella provvisoria – l’aereo – sia, infine, gli uffici dell’FBI in cui è costretto a lavorare finché lo stesso Carl non deciderà diversamente – in una condizione che, per quanto molto vantaggiosa, gli appare estremamente angosciante.

In ogni occasione, anche quelle più improbabili e già perse in partenza, Frank tenta comunque la fuga – in particolare dall’aereo, riuscendo a svitare il gabinetto e sfilarsi da sotto al velivolo che sta atterrando…

Leonardo di Caprio e Tom Hanks in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Per questo nel finale Carl capisce che deve cambiare tattica.

Avendo ormai compreso che, pur dopo quattro anni, Frank sta cercando ancora un’occasione per scappare, l’agente lo intercetta solamente per ricordargli a cosa sta andando incontro – la prigione o una vita come quella del padre, braccato e paranoico – per poi lasciargli la libertà di scelta.

Così una perfetta regia ci accompagna verso un finale che riesce a tenere con il fiato sospeso fino all’ultimo minuto, mostrando infine un Frank che è finalmente riuscito ad essere in pace con sé stesso e ad accettare una vita forse meno eccitante, ma certamente più serena.

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Minority Report – La sicura illusione

Minority Report (2002) rappresenta la prima prolifica collaborazione fra Steven Spielberg e Tom Cruise, che al tempo ancora si destreggiava fra i maggiori autori hollywoodiani.

A fronte di un budget abbastanza importante – 102 milioni di dollari – fu nel complesso un buon successo commerciale, con 358 milioni di incasso.

Di cosa parla Minority Report?

2054, Washington. John Anderson è a capo del cosiddetto programma Precrime, che dovrebbe predire i delitti prima che avvengano…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Minority Report?

Tom Cruise in una scena di Minority Report (2002) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

Minority Report è un incredibile thriller fantascientifico che riesce a sorprendere grazie ad una costruzione del mistero e della tensione semplicemente perfetta, pur non puntando particolarmente sulle classiche dinamiche da action adrenalinico che hanno reso famoso il suo attore protagonista.

Piuttosto l’intreccio del mistero e i continui colpi di scena bastano da sé per rendere questa pellicola un piccolo gioiello della fantascienza dei primi Anni Duemila.

Insomma, da riscoprire.

Preparazione

Tom Cruise in una scena di Minority Report (2002) di Steven Spielberg

Anche se la primissima sequenza potrebbe apparire pedante, in realtà è del tutto necessaria ai fini della narrazione.

Infatti, la pellicola lascia ampio spazio per la trattazione di un caso tipo, in modo che per gli eventi successivi lo spettatore abbia ben chiare le coordinate del mondo in cui la vicenda si muove, proprio in prospettiva di una ulteriore complicazione della stessa.

La soluzione proposta dal Precrime è assolutamente avveniristica, sembra anzi la ricetta vincente per la risoluzione del dilagante problema della criminalità negli Stati Uniti, andando proprio a fare leva su un dibattito ancora piuttosto attuale.

Samantha Morton in una scena di Minority Report (2002) di Steven Spielberg

Ovvero, la sicurezza collettiva a discapito della privacy del singolo.

Una situazione pure più pressante all’indomani dell’11 settembre, in cui la caccia alla potenziale minaccia nazionale era all’ordine del giorno, che in Minority Report viene riletta in chiave fantascientifica…

…ma risulta abbastanza facile nel futuro prossimo immaginare al posto dei Precog dei computer particolarmente abili.

Scricchiolio

Tom Cruise in una scena di Minority Report (2002) di Steven Spielberg

La sconvolgente scoperta di essere un futuro killer è il primo scricchiolio di un sistema apparentemente perfetto.

La previsione di per sé è infatti vanificata dalla presenza della stessa, in quanto – come si vede anche chiaramente nella pellicola – già solamente cercare di prevedere un evento futuro porta ad influire sullo stesso, vanificando così la veridicità della predizione.

In particolare, il paradosso del Precrime è fin da subito sottolineato da Danny Witwer: la previsione presuppone l’annullamento del libero arbitrio, della possibilità che la persona ci ripensi, andando a punirla per un crimine che, di fatto, non ha mai commesso.

Tom Cruise in una scena di Minority Report (2002) di Steven Spielberg

Il problema risulta particolarmente evidente quando Iris Hineman, la creatrice del sistema di previsione, rivela al protagonista che i Precog sono frutto di esperimenti umani che si sono risolti nel terzetto presente, che si regge però tutto sul personaggio di Agatha.

In questo modo si vanifica la spiegazione di Wally, il curatore dei Precog, che cerca di convincere il seccante agente del Dipartimento di Giustizia che le sue creature non sono umane – quindi non possono sbagliare – cercando di farle apparire come macchine.

O, ancora meglio, come oracoli.

Occhio

Una volta che la dottoressa gli ha affidato la sua missione per liberarsi dal suo infausto destino, John comincia immediatamente a sentire il peso della sua identità, in particolare dei suoi occhi, elemento imprescindibile per l’identificazione di una persona in Minority Report.

Così Spielberg raccoglie l’ossessione propria di Philip Dick, autore dell’opera ispiratrice della pellicola, ovvero quella del progresso unitamente positivo e negativo, secondo una visione per cui le nuove tecnologie donano all’uomo il progresso, ma anche la sua perpetua disfatta.

Per questo il protagonista è costretto a rimuovere l’elemento più distintivo della sua identità.

Samantha Morton in una scena di Minority Report (2002) di Steven Spielberg

Gli occhi.

La pericolosa e dolorosissima operazione gli permette infatti di sottrarsi al feroce intervento dei ragni, macchine del tutto legittimate a terrorizzare ed immobilizzare chiunque serva, intrufolandosi in una serie di scenette familiari che raccontano proprio la penetrazione invasiva dell’occhio giudicante del Governo.

Un’operazione che funge da appendice al tema di fondo della pellicola stessa, ovvero una prospettiva di sempre maggiore rinuncia alla propria incolumità e privacy per favorire il bene comune, secondo una dinamica già in realtà presente nella società odierna.

Edipo

Tom Cruise in una scena di Minority Report (2002) di Steven Spielberg

La corsa del protagonista è dettata da una ossessiva quando ingenua illusione.

La presenza di un Minority Report, appunto.

Cercando di svelare il neo principale del Precrime, in realtà John arriva a comprendere la debolezza di fondo di tutta l’operazione, che nel suo stesso tentativo di negare la possibilità del libero arbitrio, si dimostra invece fallibile e manipolabile.

In questo senso appare piuttosto ovvio il parallelismo con il mito di Edipo, a cui l’oracolo aveva predetto un destino tremendo, che l’eroe tragico, proprio per la mancanza di alcune conoscenze fondamentali, aveva infine realizzato.

E il destino sembra avere la meglio su entrambi i protagonisti, i quali, pur cercando di sottrarsi a quello che sembra ormai scritto, inevitabilmente lo realizzano: Edipo uccide il padre e giace con la madre, mentre John, pur scegliendo di appellarsi alla propria volontà, finisce comunque per uccidere Leo Crow e per essere arrestato.

E infine, non sembra esserci un’alternativa.

Alternativa

Lamar è la chiave per il fallimento del Precrime.

Tramite la sua macchinazione, viene rivelata la fallibilità dei Precog, dovuta non tanto alle abilità degli stessi, ma soprattutto al filtro dell’occhio umano che inevitabilmente si pone fra la previsione e la risoluzione del crimine: un occhio, come abbiamo visto, facilmente manipolabile.

Infatti, Lamar Burgess ha cercato di proteggere la sua creazione proprio andandosi ad inserire nelle pieghe del sistema, nei suoi punti deboli, riuscendo così a creare un delitto costruito ad arte che potesse eliminare l’unico ostacolo che si poneva fra lui e il successo del Precrime.

Così nell’atto finale Lara, avendo ormai assistito allo svelamento dell’inganno del Precrime, proprio per via della fallibilità umana del suo stesso direttore, diventa agente attivo per lo scioglimento della vicenda, realizzando l’altra profezia indiretta che aveva ricevuto il marito:

In un mondo di ciechi, l’uomo con un solo occhio è ricco.

Ed infine è proprio Lamar a smentire ancora più platealmente la fallibilità del progetto, scegliendo infine di non essere l’assassino di John, ma piuttosto di sé stesso, portando ad una chiusura del film ben più speranzosa del romanzo di partenza, ma che forse appare come un’ipotesi fin troppo ottimista per il futuro che ci attende…

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Hook – Ti ricordi, Peter?

Hook (1991), in Italia conosciuto anche con il sottotitolo Capitan Uncino, è uno dei film per ragazzi più iconici non solo della filmografia di Steven Spielberg, ma in generale di tutta la produzione cinematografica degli Anni Novanta.

Nonostante il buon riscontro commerciale – circa 300 milioni di dollari a fronte di 70 milioni di budget – incassò ben al di sotto delle aspettative, e lo stesso Spielberg si dimostrò insoddisfatto del risultato.

E i motivi non sono difficili da immaginare…

Di cosa parla Hook?

Peter Banning è un avvocato aziendale, del tutto assorbito dal suo lavoro e incapace di passare del tempo con i suoi figli. Ma il passato sta venendo a bussare alla porta…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Hook?

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

L’insuccesso commerciale di questa pellicola è spiegabile proprio per il tono del film, che si allontana quasi immediatamente dal target infantile, inserendo alcuni elementi non solo poco adatti ad un pubblico di bambini – come la violenza e la morte – ma temi proprio non pensati per loro.

Infatti, Hook è una rilettura intelligente e consapevole della fiaba di Peter Pan, ma il cui protagonista rappresenta non un bambino troppo cresciuto, ma un adulto, un padre che deve riscoprire la meraviglia dell’infanzia e la bellezza del calore familiare.

Insomma, da adulti probabilmente lo apprezzerete di più.

Oblio

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Nell’incipit di Hook Peter è immerso nell’oblio.

Una caratteristica del protagonista che denota una profonda conoscenza dell’opera letteraria – l’oblio rappresenta l’altro lato dell’infanzia perpetua della sua controparte letteraria – e che permette di mettere in scena un primo atto per molti tratti agrodolce.

Il lato più drammatico è l’incapacità di Peter di rimanere bambino, arrivando fino a disprezzare proprio il concetto di infanzia, in particolare adirandosi davanti ai comportamenti infantili del figlio maggiore, mostrandosi interessato – anzi ossessionato – unicamente alla sua noiosa vita adulta.

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Un gustoso paradosso che spesso sfocia anche nella comicità.

Particolarmente spassoso in questo senso il terrore del protagonista all’idea di salire su un aereo – il quale, ad un livello più profondo, racconta la totale perdita di spensieratezza che caratterizzava il vecchio Peter – e che gli permetteva di volare.

Al contempo, il protagonista è circondato dai suoi simboli identitari: oltre alla costante dimenticanza dei nomi dei personaggi che lo circondano, la sua ombra rivelatoria è sempre in agguato, la moglie prende il nome dalla nonna – Moira – col primo apice drammatico nella realizzazione di Wendy:

So Peter you became a pirate!

Peter, sei diventato un pirata!

Rivelazione

La rivelazione di Peter avviene in due parti.

Anzitutto tramite Wendy, che rappresenta una riscrittura piuttosto arguta del personaggio, togliendole il peso di quella maternità piuttosto costrittiva che la caratterizzava nel romanzo, e trasferendolo all’interno di tema più generale e meno opprimente – l’accoglienza degli orfani.

Il suo personaggio è un elemento chiave per un primo riavvicinamento di Peter alla verità sulla sua natura, prima sottilmente nelle diverse punzecchiature, poi più esplicitamente, mostrando direttamente al protagonista quello che è stato.

Ma ancora più fondamentale è l’intervento di Trilli.

Anche nel romanzo la fatina è sempre stata una compagna essenziale nella storia di Peter Pan, nonostante i numerosi contrasti fra i due, ed è emblematico che sia lei stessa a riportarlo nell’Isola che non c’è…

…andando così a risolvere un problema di fondo che altrimenti avrebbe rovinato la narrazione: ricordarsi come si vola è un passaggio fondamentale dell’arco evolutivo del protagonista, e come tale può arrivare solo nell’atto finale.

Annullamento

Dustin Hoffman in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

L’Uncino di Dustin Hoffman è un personaggio profondamente drammatico.

Nonostante non si tocchino i toni più tragici del personaggio di Jason Isaacs in Peter Pan (2003), anzi si cerchi in più momenti di ammorbidire la sua figura, il Capitano presenta una personalità malinconica, a tratti persino autodistruttiva.

Infatti, sotto alla patina di umorismo che il film propone, intravediamo un adulto disilluso e avvilito, che si rifugia nell’assurdo desiderio di vendetta nei confronti di Peter Pan – che rappresenta quello non è e che non può essere – nonostante lo stesso non ne abbia più interesse.

Per questo è tanto più interessante quando inconsapevolmente cerca di rubare a Peter il suo sogno.

Tramite una dinamica anche piuttosto tipica, con un tono ancora fortemente agrodolce, Uncino cerca di mettere Jack contro il padre, proprio andare a fare leva sulle mancanze del protagonista come genitore, cercando in qualche modo di prenderne il posto.

Un’idea che si traduce nell’iconica e meravigliosa sequenza della partita di baseball – uno dei momenti di più intelligente attualizzazione dell’opera letteraria – e nelle divertentissime lezioni con cui il villain avvelena la mente del ragazzino.

Dustin Hoffman in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Ancora più interessante il fatto che il suo personaggio non si affezioni mai veramente a Jack, dimostrando ancora più profondamente la sua incapacità di amare, la quale gli impedisce di trovare un riscatto – l’essere padre – nella sua realtà adulta.

Un totale annullamento che porta – a quanto pare più volte – Uncino a decidere di farla finita, non trovando più nessuna soddisfazione nella sua condizione attuale, ma ricercando nella morte, l’unica avventura a cui può ancora ambire.

Riscoperta

Il secondo atto di Hook è geniale.

Particolarmente intelligente anzitutto reimmaginare il covo dei Bimbi Sperduti, trasformandolo in niente di più che un quartiere periferico di New York, e riuscendo così a rappresentare la multiculturalità già propria del periodo di uscita del film.

Così si alternano momenti profondamente commoventi – come quando uno dei bimbi sperduti riconosce Peter – e sequenze più comiche, in particolare quando si cerca di far volare il protagonista, con delle dinamiche tipiche dei film per ragazzi del periodo.

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Ma il primo momento di rivelazione è ancora più significativo.

La maggior parte dell’opera di Peter Pan si basa sulla finzione giocosa che scandisce i rapporti fra il protagonista e i Bimbi Sperduti, particolarmente per la cena immaginaria, che nel film è il primo momento in cui Peter riesce effettivamente a capire il potere dell’immaginazione.

Ma l’epifania è rappresentata dall’effettiva riscoperta del suo passato, in particolare della figura di Wendy, e del motivo che gli aveva fatto infine abbandonare l’Isola che non c’è, ovvero una felicità ignota, ma incredibilmente appagante: la paternità.

Ma è una rivelazione rischiosa…

Insidia

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Il ricordo del passato è il primo passo per un ulteriore oblio.

La condizione di totale spensieratezza di Peter Pan nell’opera letteraria rappresentava proprio il perdersi totalmente nei sogni d’infanzia, dimenticandosi di tutto il resto: così in Hook Peter Pan rischia di dimenticarsi della sua stessa famiglia.

Ancora fondamentale, quando struggente, è l’intervento di Trilli, che rappresenta l’altro lato della scoperta felice di Peter: come il protagonista prende il posto della Wendy letteraria – che riscopre il valore di una condizione che aveva finora disprezzato…

…allo stesso modo la fata prende il posto del Peter letterario, sentendosi esclusa dalla nuova vita del suo compagno di avventure, nonostante nella stessa sperava forse di trovare la maturità sentimentale che gli avrebbe permesso di condividere una vita insieme.

Una maturità che la stessa Trilli trova, anche solo per un momento, diventando abbastanza grande per poter contenere nel suo corpo un sentimento così importantele fatine sono troppo piccole per contenere più di un sentimento alla volta – ma inutilmente…

Equilibrio

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Nonostante lo straripante entusiasmo del protagonista, il suo punto di arrivo è all’insegna dell’equilibrio.

Nell’ultimo atto Peter non ha alcun altro interesse se non ricomporre la sua famiglia, mostrandosi del tutto indifferente davanti alle richieste di Uncino, che vorrebbe invece trovare sfogo per la sua personale ossessione.

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Così, mentre Peter è già sulla via di casa e gli volta le spalle, Uncino lo trascina in un duello che inevitabilmente perde, rivelandosi come nient’altro che un vecchio ridicolo, che non riesce a trovare nessuna piacevolezza nella sua vita – e mai la troverà.

Infine, nel suo ritorno a casa, il protagonista mantiene la sua ritrovata felicità e eccitazione, ma senza cadere nel totale oblio che viveva in giovane età, ma trovando una buona via di mezzo.

Ovvero, essere un adulto, ma anche un padre affettuoso, non dimenticandosi della creatività e dell’immaginazione che teneva in vita il suo personaggio.

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Il ragazzo e l’airone – Come vivrai?

Il ragazzo e l’airone (2023) – traduzione piuttosto impropria di 君たちはどう生きるか, lett. E voi come vivrete? – è l’ultimo (per ora) film creato dalla meravigliosa mente di Hayao Miyazaki.

A fronte di un budget piuttosto importante per un film animato orientale – 64 milioni di dollari – si sta rivelando uno dei maggiori incassi del genere degli ultimi anni: 137 milioni di dollari in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Il ragazzo e l’airone (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film d’animazione

Di cosa parla Il ragazzo e l’airone?

Tokyo, 1943. Nel bel mezzo del Secondo Conflitto Mondiale, il giovane Mahito e il padre si ritirano nella loro tenuta di campagna. Sarà l’occasione per il protagonista per riscoprire sé stesso e il suo passato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il ragazzo e l’airone?

L'airone in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

Dipende.

Non voglio assolutamente sminuire il grande valore artistico de Il ragazzo e l’airone, ma mi rendo conto che è un film che potrebbe lasciare spiazzati molti spettatori, soprattutto se abituati alle altre opere di Miyazaki, in cui l’elemento simbolico è sempre secondario rispetto all’impianto narrativo.

Al contrario, con la sua ultima fatica, il maestro nipponico confeziona un’opera incredibilmente metaforica e simbolica, che si apre a diverse e variegate interpretazioni, in cui i temi tanto cari al regista – l’ambientalismo e la guerra – si intrecciano al racconto del suo passato e del suo presente.

Insomma, un’esperienza a cui bisogna arrivare pronti.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Il ragazzo e l’airone il pericolo non esiste.

Perché?

Dopo tanti anni di attività, la Lucky Red ha finalmente deciso di affidare il doppiaggio a qualcuno che non sia Cannarsi. E, per questo, finalmente è un film godibile anche doppiato.

Evviva, evviva!

Questa recensione non sarà fatta in ordine cronologico, ma personaggio per personaggio, elemento per elemento, proprio per la natura stessa dell’opera.

Il ragazzo

Mahito in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

Mahito si presta ad un ampio ventaglio di interpretazioni.

La lettura più semplice è ritrovare nel protagonista Miyazaki stesso, andando a ricalcare alcuni momenti chiave della sua vita – pur con date e situazioni diverse – e il suo ritrovarsi sotto la guida di Yasuo Ōtsuka, il suo maestro, per poi intraprendere la propria personale carriera artistica.

Mahito in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

Ribaltando invece i ruoli, il protagonista potrebbe in qualche misura rappresentare Hiromasa Yonebayashi, collaboratore storico dello Studio Ghibli, che ha lavorato alla maggior parte dei titoli prodotti dallo stesso, proponendone anche uno proprio – Quando c’era Marnie (2013)

…ma che nel 2015 ha scelto di distaccarsi da Miyazaki e fondare il proprio studio – lo Studio Ponoc.

Quindi forse una delle poche persone che erano interne allo Studio Ghibli in cui Miyazaki vede una sua possibile eredità artistica – lo stile di Yonebayashi è evidentemente erede di quello del maestro – davanti all’evidente incapacità del figlio – di cui bisogna fare un discorso a parte.

Il ragazzo e l’airone

Mahito in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

Ad un livello invece più generale, Mahito può rappresentare la generazione post-atomica.

Il tema della rinascita dopo la tragedia della bomba atomica – e del secondo conflitto mondiale in generale – è estremamente tipico del cinema orientale – lo si può trovare esplicitamente in Gen di Hiroshima (1983) e City of life and death (2009), o, più indirettamente, in Akira (1988).

Di fronte alla drammaticità di eventi che segnarono così profondamente l’immaginario nipponico, il protagonista de Il ragazzo e l’airone potrebbe appunto rappresentare una generazione che ha deciso di non arrendersi, di non rifugiarsi in una realtà altra, ma di trovare il meglio possibile nella propria.

L’airone

L'airone in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

L’airone è una figura incredibilmente enigmatica.

Ad un livello prettamente narrativo, il suo personaggio è la maligna presenza che cerca di attirare il protagonista nella torre per volontà del prozio stesso, per poi riuscire a convincerlo a prenderne il posto.

Leggendo invece il suo personaggio da un punto di vista artistico, l’airone potrebbe rappresentare le creazioni stesse di Miyazaki – è infatti la creazione del prozio – che in più occasioni ha sperimentato con creature fra l’animale e l’umano – si veda Haku in La città incantata (2001) e, soprattutto, Howl in Il castello errante di Howl (2004).

L'airone e Mahito in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

In questo senso – e riabbracciando l’interpretazione per cui Mahito rappresenta Hiromasa Yonebayashi – l’airone rappresenterebbe l’eredità artistica di Miyazaki, e così il suo tentativo di conciliare la stessa con un suo possibile successore.

Questa interpretazione ben si accorda con la malvagità della pietra con cui è creato il mondo alternativo, come una sorta di ripensamento disilluso del maestro nipponico riguardo la sua opera, che appare ad oggi mancante di un vero futuro.

Il ragazzo e l’airone

L'airone e Mahito in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

Secondo un’altra interpretazione, l’airone potrebbe essere Gorō Miyazaki.

Se infatti Yonebayashi si è dimostrato un buon erede del maestro, lo stesso non si può dire per il figlio di Miyazaki, particolarmente nel suo tentativo del tutto fallimentare di rilanciare lo studio con l’animazione 3D con Earwig e la strega (2020).

Forse nella severità del prozio nei confronti della sua creatura possiamo intravedere un sofferto ammonimento del maestro nei confronti del figlio, ma anche un tentativo di conciliazione delle parti – Yonebayashi e Gorō – per trarre il meglio della sua eredità.

Ma il figlio si può ritrovare anche in un terzo personaggio.

Il limbo

La realtà sotterranea rappresenta indubbiamente un mondo altro e forse ultraterreno – da cui la frase, tratta da Inf. III, 5, fecemi la divina podestate.

Proprio come l’airone, il mondo immaginario al di là della torre potrebbe essere una rappresentazione degli alti e dei bassi – almeno secondo la visione di Miyazaki – della sua produzione – e la difficoltà dello stesso di tenerla ancora insieme.

All’interno di questo mondo altro il Re Parrocchetto potrebbe essere una punzecchiata proprio al figlio, che si credeva ormai padrone dello Studio Ghibli, cercando di far cambiare totalmente strada allo stesso, ma risultando infine del tutto incapace.

In un altro senso, nel mondo sotterraneo è racchiusa un’amara riflessione sull’umano.

Trovandosi in una realtà in cui non si riconosce più, il prozio del protagonista si è rifugiato in un mondo alternativo, creandolo, proprio come un dio, secondo la sua visione, trovandosi tuttavia infine a creare un’alternativa per nulla migliore rispetto al mondo di partenza.

In questa realtà alternativa, infatti, l’umano si è comportato al suo peggio, in particolare nei confronti degli animali, diventati aggressivi e davvero umani, ma proprio perché costretti dallo stesso a diventare tali.

Non a caso, Kiriko spiega che in quel mondo ormai ci sono più morti che vivi.

Il creatore

Il prozio in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

L’azione del creatore è in ultimo fallimentare.

In questo senso è molto più probabile che in questa figura Miyazaki volesse rappresentare un sé stesso ormai incapace di tenere in piedi un mondo – lo Studio Ghibli – che lui stesso ha creato, nonostante ci siano tutte le possibilità per farlo – la pietra buona che infine trova per ricostruirlo.

Al contempo, la sua posizione è definita dai simboli della vita e della morte.

Questa dicotomia è racchiusa nelle due sorelle, Hisako e la zia Natsuko.

La gravidanza contenuta dentro al mondo del prozio potrebbe rappresentare un desiderio sopito, ma forse impossibile, di produrre ancora qualcosa – anche non in prima persona – all’interno dello Studio Ghibli.

In questo senso, non è decisamente un caso che questa pellicola, creata a seguito dal suo abbandono dalle scene, sia un’opera così poco tipica

Il ragazzo e l’airone

Mahito e Hisako in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

Allo stesso modo Hisako può rappresentare sia la tragedia storica – la bomba atomica – sia la tragedia personale – la morte della madre di Miyazaki e, soprattutto, l’improvvisa scomparsa del suo compagno ed amico, nonché cofondatore dello Studio Ghibli, Isao Takahata.

Il protagonista prende infine le mosse dalla stessa, accettandola dentro sé stesso e decidendo così di proseguire con la sua vita: così Miyazaki ripensa al suo essere riuscito a proseguire con la sua carriera pure dopo la morte dell’amico proprio con questa pellicola…

…volendo forse incoraggiare un suo possibile erede – chiunque sia – a continuare la sua eredità nonostante la situazione dubbia dello Studio.

Ma, proprio per questo, Miyazaki gli chiede: E tu, come vivrai?

A dieci anni di distanza, con Il ragazzo e l’airone Miyazaki porta nuovamente in scena la sua tecnica precisa e impeccabile, pure con qualche novità.

L’evoluzione più evidente è l’animazione di alcune scene particolarmente intense – specificatamente quelle dell’incendio – con una tecnica magnetica e ricca di movimento, che riprende le mosse da Si alza il vento (2013):

Se invece per buona parte dei volti umani Miyazaki rimane su tratti semplici e simili all’opera precedente…

…stupisce con le nuove e ampie sperimentazioni sui volti anziani:

E, al contempo, per la prima volta utilizza un modello di un volto maschile per un volto invece femminile:

Ma la punta di diamante è indubbiamente lo splendido character design dell’airone, con il suo aspetto estremamente mutaforme, e le splendide animazioni che lo portano in vita:

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1917 Avventura Azione Dramma storico Drammatico Film Film di guerra i miei film preferiti Racconto di formazione

1917 – La guerra tragica

1917 (2019) di Sam Mendes è uno dei più ambiziosi film di guerra dello scorso decennio, anche solo per l’utilizzo totale del piano sequenza.

A fronte di un budget non poco importante – 90 milioni di dollari – è stato un grande successo commerciale: 384 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla 1917?

1917, Fronte Occidentale. I due giovani soldati Tom Blake e William Schofield vengono incaricati di fare da messaggeri per una comunicazione fondamentale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere 1917?

Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes

Assolutamente sì.

1917 è un’opera di altissimo valore artistico, sia per l’utilizzo sapiente del piano sequenza – con diversi trucchi scenici per renderlo effettivamente possibile – sia per la grande sperimentazione sul lato della fotografia e della resa scenica.

Di fatto Sam Mendes riprende una trama tipica non tanto dei film di guerra, ma della narrativa bellica stessa – specificatamente quella statunitense – degli eroi per caso, riportandola però su un livello molto più terreno e realistico.

Insomma, da non perdere.

Il risveglio

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
Io non so ben ridir com'i' v'intrai / tant' era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai (Inf. I, 10-12)

L’incipit di 1917 ci racconta già tutto del protagonista.

Will rimane per diversi minuti in primo piano, apparentemente addormentato, in realtà scegliendo consapevolmente di ignorare quello che gli succede intorno, preferendo invece sonnecchiare qualche momento in più.

Intanto, alle sue spalle, il compagno Blake si leva immediatamente, immediatamente è un soldato pronto all’azione, ed è anche il personaggio che incoraggia il protagonista a tirarsi in piedi e a cominciare la narrazione.

George MacKay e Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes

Così anche il dialogo seguente è rivelatorio.

Blake legge felicemente la sua lettera, dimostra un importante legame con la realtà oltre al fronte – anche per la presenza del fratello – mentre Will si dimostra piuttosto distaccato, e si rianima solo quando comincia a mangiare il suo panino.

Il panino – come poi il vino scambiato per la medaglia – rappresenta lo stato iniziale del protagonista: Will ha scelto di abbandonare la sua vita precedente, di non ritornare a casa e di vivere sul momento, pensando solo alle necessità immediate.

Per questo insiste così tanto nel non voler partire per la missione – cercando di distogliere il compagno da quell’idea in più occasione – non riuscendo a sentire il medesimo slancio nel voler portare a termine la missione.

Il limbo

George MacKay e Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
Allora si mosse, io li tenni dietro (Inf. I, 36)

La sezione della Terra di nessuno è incredibilmente ingannevole.

In più momenti il film cerca di convincerci che Will sia il personaggio destinato a morire – quando si ferisce la mano nel filo spinato, quando rimane vittima della bomba… – e forse anche quello che in qualche maniera se lo merita di più.

Infatti, come Blake è sicuro e impegnato nella sua missione, mosso soprattutto dal desiderio di riabbracciare il fratello, al contrario Will è amareggiato e disilluso, con l’apice drammatico rappresentato dal suo racconto sul perché si è liberato della medaglia e sul perché non vuole tornare a casa.

George MacKay e Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes

Lo stesso paesaggio è illusorio.

I due personaggi si muovono in uno spazio dove tutto sembra ormai già successo, dove la tragedia si è già consumata, tanto che le vittime ormai fanno parte del paesaggio stesso, nel ruolo di grotteschi punti di riferimento.

Questo inganno prosegue fino alla fine della sezione – l’arrivo alla fattoria – raccontando un mondo apparentemente immobile, ma in realtà incredibilmente attivo e reattivo nei confronti dei viaggiatori, pronto ad intrappolarli

E infatti…

Fervore

George MacKay e Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
ma Virgilio n'avea lasciati scemi di sé, Virgilio dolcissimo patre, Virgilio a cui per mia salute die'mi (Pur. 49-51)

Con la morte di Blake, Will acquisisce nuove consapevolezze.

Avendo scelto ormai da tempo di chiudere il suo cuore a qualunque sentimento, davanti alla morte di un innocente, davanti all’impossibilità di salvarlo – nonostante la possibilità fosse a portata di mano – il protagonista si risveglia.

Per quanto già nella sequenza successiva sembri ingoiato dalla scena, rimanendo una presenza silenziosa durante i dialoghi dei soldati sul camioncino, in realtà al primo intoppo della missione si riscopre incredibilmente attivo e coinvolto.

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes

La morte di Blake rappresenta insomma per Will un risveglio di coscienza, la riacquisizione di un senso di impegno e di importanza, anche se non della guerra, ma, piuttosto, della vita umana: come il compagno è ingiustamente morto, così la vita di molti soldati è nelle sue mani.

Il distacco dai discorsi propagandistici è esplicitamente raccontato dal breve scambio fra i giovani sul camioncino: soldati che non parlano né di gloria né di nemici, ma bensì esprimono pensieri molto più pratici, splendidamente ingenui.

Fra tutti, mi ha colpito profondamente il discorso di uno dei soldati riguardo ai tedeschi:

Why they just don’t bloody give up? Don’t they wanna go home?

Perché cavolo non si arrendono poi? Non li aspettano a casa?

La Genna

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
e caddi come l'uom cui sonno piglia (Inf. III, 136)

Come in qualche modo gli aveva predetto il suo superiore – Giù nella Geenna (l’inferno) o su al trono nel cielo più rapido viaggia chi viaggia da soloWill si trova da solo nel primo effettivo fronte

…o il primo effettivo inferno.

E se la luce poteva aiutarlo a muoversi in un panorama meno angosciante, uno sfortunato incontro con il nemico lo porta a cadere svenuto per diverse ore, ritrovarsi infine sveglio in un panorama che vive di una totale dualità.

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
Quell'è 'l più basso loco e' l più oscuro, è 'l più lontan dal ciel che tutto gira (Inf. IX, 28-29)

Tenebra e fuoco.

Comincia così una corsa disperata fra l’oscurità e la fiamma, riuscendo solo in parte a portare a termine il suo nuovo proposito, ereditato da Blake: salvare più vite possibili lungo il suo cammino.

A poco serve la lieta sosta con la ragazza, con la quale si spoglia di tutti i suoi averi, perché il tocco improvviso delle campane gli ricorda che il suo viaggio non è finito: ci sono ancora nemici da uccidere, pallottole da evitare, tragedie da sventare…

La quiete

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
Tratto m'avea il fiume infin la gola, e tirandosi me dietro sen giva sovresso l'acqua lieve come scola (Purg. XXXI, 94-96)

L’inizio dell’atto conclusivo di 1917 ha più significati.

La fuga nel fiume sembra inizialmente portarlo ad un inferno ancora peggiore, trovandosi totalmente travolto dai flutti, sospinto verso una cascata, inghiottito dall’acqua che sembra volerlo seppellire…

…per poi riemergere, dolcemente accarezzato dalle prime luci del mattino, ormai distrutto dal viaggio, ma trovandosi circondato da un simbolo che gli ricorda indirettamente Blake e la sua missione: i petali di ciliegio.

E una melodia dolce correva per l'aere luminoso (Purg. XXIX, 22-23)

In questa apparente calma Will si trascina lentamente fuori dal fiume e attraverso il boschetto, guidato dal dolce canto dei soldati in lontananza, come raccolti in preghiera, a cui si mischia ormai provato dal viaggio.

Di nuovo Will è uno spettatore silenzioso, che si risveglia improvvisamente quando i personaggi intorno a lui gli fanno intendere che è arrivato alla fine del viaggio, ma che ancora deve affrontare l’ostacolo più arduo: riuscire a farsi credere.

Agli occhi dei soldati e soprattutto degli ufficiali infatti il protagonista non è altro che un ragazzino impaurito che farfuglia cose senza senso, mentre si vede sfuggire dalle mani centinaia di vite che non ha potuto salvare…

La corsa

È a questo punto che Will dimostra veramente di essere cambiato.

Se all’inizio della pellicola era un soldato cinico e ignavo, che non voleva neanche lasciare la sicurezza della sua trincea, ora è una forza irresistibile, pronto persino a buttarsi in mezzo alla battaglia pur di portare a termine la sua missione.

Ma la sua apparente vittoria non è che l’anticamera di una lenta ma fondamentale realizzazione: sia nel dare la notizia della tragedia scampata che della morte di Blake, Will trova nei suoi interlocutori una profonda impotenza, un’insoddisfazione, persino un malcelato nervosismo.

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
se non che la mia mente fu percossa da un fulgore (Par. XXXIII, 140-141)

Probabilmente le sue azioni saranno premiate con una fondamentale spilla da portare al petto, ma il vero guadagno di Will è l’amara realizzazione che questo era solo un altro giorno al fronte.

La guerra non è finita oggi: oggi ha solo salvato un pugno di innocenti che domani probabilmente moriranno comunque, in questa spirale di dolore e violenza che è ancora lontana dall’esaurirsi.

Ma almeno ora il protagonista ha il coraggio di guardare le foto della sua famiglia, di ricominciare a pensare ad una realtà altra oltre a quella del fronte, un paradiso forse, a cui guardare in questo attimo di quiete…

…prima del prossimo massacro.

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Die Hard – Il gioco delle maschere

Die Hard (1988) di John McTiernan – in Italia noto anche come Trappola di cristallo – è uno dei più grandi cult del cinema action, nonché il film che lanciò la carriera di Bruce Willis.

A fronte di un budget di circa 30 milioni, fu un grande successo commerciale: 140 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Die Hard?

John McClane è un poliziotto di New York che approda a Los Angeles per passare le vacanze con la famiglia. Ma qualcosa di inaspettato sta per metterlo alla prova…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Die Hard?

Bruce Willis in una scena di Die Hard (1988) di John McTiernan

Assolutamente sì.

Die Hard è un action movie incredibile, che è riuscito ad incantare persino una non amante del genere come me.

Infatti, questa pellicola adrenalinica non ha paura di sporcarsi le mani, di portare in scena sequenze cariche di tensione e di salvataggi all’ultimo secondo, impreziosite da una costruzione dei caratteri dei personaggi davvero notevole.

Insomma, da non perdere.