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1917 – La guerra tragica

1917 (2019) di Sam Mendes è uno dei più ambiziosi film di guerra dello scorso decennio, anche solo per l’utilizzo totale del piano sequenza.

A fronte di un budget non poco importante – 90 milioni di dollari – è stato un grande successo commerciale: 384 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla 1917?

1917, Fronte Occidentale. I due giovani soldati Tom Blake e William Schofield vengono incaricati di fare da messaggeri per una comunicazione fondamentale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere 1917?

Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes

Assolutamente sì.

1917 è un’opera di altissimo valore artistico, sia per l’utilizzo sapiente del piano sequenza – con diversi trucchi scenici per renderlo effettivamente possibile – sia per la grande sperimentazione sul lato della fotografia e della resa scenica.

Di fatto Sam Mendes riprende una trama tipica non tanto dei film di guerra, ma della narrativa bellica stessa – specificatamente quella statunitense – degli eroi per caso, riportandola però su un livello molto più terreno e realistico.

Insomma, da non perdere.

Il risveglio

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
Io non so ben ridir com'i' v'intrai / tant' era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai (Inf. I, 10-12)

L’incipit di 1917 ci racconta già tutto del protagonista.

Will rimane per diversi minuti in primo piano, apparentemente addormentato, in realtà scegliendo consapevolmente di ignorare quello che gli succede intorno, preferendo invece sonnecchiare qualche momento in più.

Intanto, alle sue spalle, il compagno Blake si leva immediatamente, immediatamente è un soldato pronto all’azione, ed è anche il personaggio che incoraggia il protagonista a tirarsi in piedi e a cominciare la narrazione.

George MacKay e Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes

Così anche il dialogo seguente è rivelatorio.

Blake legge felicemente la sua lettera, dimostra un importante legame con la realtà oltre al fronte – anche per la presenza del fratello – mentre Will si dimostra piuttosto distaccato, e si rianima solo quando comincia a mangiare il suo panino.

Il panino – come poi il vino scambiato per la medaglia – rappresenta lo stato iniziale del protagonista: Will ha scelto di abbandonare la sua vita precedente, di non ritornare a casa e di vivere sul momento, pensando solo alle necessità immediate.

Per questo insiste così tanto nel non voler partire per la missione – cercando di distogliere il compagno da quell’idea in più occasione – non riuscendo a sentire il medesimo slancio nel voler portare a termine la missione.

Il limbo

George MacKay e Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
Allora si mosse, io li tenni dietro (Inf. I, 36)

La sezione della Terra di nessuno è incredibilmente ingannevole.

In più momenti il film cerca di convincerci che Will sia il personaggio destinato a morire – quando si ferisce la mano nel filo spinato, quando rimane vittima della bomba… – e forse anche quello che in qualche maniera se lo merita di più.

Infatti, come Blake è sicuro e impegnato nella sua missione, mosso soprattutto dal desiderio di riabbracciare il fratello, al contrario Will è amareggiato e disilluso, con l’apice drammatico rappresentato dal suo racconto sul perché si è liberato della medaglia e sul perché non vuole tornare a casa.

George MacKay e Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes

Lo stesso paesaggio è illusorio.

I due personaggi si muovono in uno spazio dove tutto sembra ormai già successo, dove la tragedia si è già consumata, tanto che le vittime ormai fanno parte del paesaggio stesso, nel ruolo di grotteschi punti di riferimento.

Questo inganno prosegue fino alla fine della sezione – l’arrivo alla fattoria – raccontando un mondo apparentemente immobile, ma in realtà incredibilmente attivo e reattivo nei confronti dei viaggiatori, pronto ad intrappolarli

E infatti…

Fervore

George MacKay e Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
ma Virgilio n'avea lasciati scemi di sé, Virgilio dolcissimo patre, Virgilio a cui per mia salute die'mi (Pur. 49-51)

Con la morte di Blake, Will acquisisce nuove consapevolezze.

Avendo scelto ormai da tempo di chiudere il suo cuore a qualunque sentimento, davanti alla morte di un innocente, davanti all’impossibilità di salvarlo – nonostante la possibilità fosse a portata di mano – il protagonista si risveglia.

Per quanto già nella sequenza successiva sembri ingoiato dalla scena, rimanendo una presenza silenziosa durante i dialoghi dei soldati sul camioncino, in realtà al primo intoppo della missione si riscopre incredibilmente attivo e coinvolto.

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes

La morte di Blake rappresenta insomma per Will un risveglio di coscienza, la riacquisizione di un senso di impegno e di importanza, anche se non della guerra, ma, piuttosto, della vita umana: come il compagno è ingiustamente morto, così la vita di molti soldati è nelle sue mani.

Il distacco dai discorsi propagandistici è esplicitamente raccontato dal breve scambio fra i giovani sul camioncino: soldati che non parlano né di gloria né di nemici, ma bensì esprimono pensieri molto più pratici, splendidamente ingenui.

Fra tutti, mi ha colpito profondamente il discorso di uno dei soldati riguardo ai tedeschi:

Why they just don’t bloody give up? Don’t they wanna go home?

Perché cavolo non si arrendono poi? Non li aspettano a casa?

La Genna

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
e caddi come l'uom cui sonno piglia (Inf. III, 136)

Come in qualche modo gli aveva predetto il suo superiore – Giù nella Geenna (l’inferno) o su al trono nel cielo più rapido viaggia chi viaggia da soloWill si trova da solo nel primo effettivo fronte

…o il primo effettivo inferno.

E se la luce poteva aiutarlo a muoversi in un panorama meno angosciante, uno sfortunato incontro con il nemico lo porta a cadere svenuto per diverse ore, ritrovarsi infine sveglio in un panorama che vive di una totale dualità.

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
Quell'è 'l più basso loco e' l più oscuro, è 'l più lontan dal ciel che tutto gira (Inf. IX, 28-29)

Tenebra e fuoco.

Comincia così una corsa disperata fra l’oscurità e la fiamma, riuscendo solo in parte a portare a termine il suo nuovo proposito, ereditato da Blake: salvare più vite possibili lungo il suo cammino.

A poco serve la lieta sosta con la ragazza, con la quale si spoglia di tutti i suoi averi, perché il tocco improvviso delle campane gli ricorda che il suo viaggio non è finito: ci sono ancora nemici da uccidere, pallottole da evitare, tragedie da sventare…

La quiete

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
Tratto m'avea il fiume infin la gola, e tirandosi me dietro sen giva sovresso l'acqua lieve come scola (Purg. XXXI, 94-96)

L’inizio dell’atto conclusivo di 1917 ha più significati.

La fuga nel fiume sembra inizialmente portarlo ad un inferno ancora peggiore, trovandosi totalmente travolto dai flutti, sospinto verso una cascata, inghiottito dall’acqua che sembra volerlo seppellire…

…per poi riemergere, dolcemente accarezzato dalle prime luci del mattino, ormai distrutto dal viaggio, ma trovandosi circondato da un simbolo che gli ricorda indirettamente Blake e la sua missione: i petali di ciliegio.

E una melodia dolce correva per l'aere luminoso (Purg. XXIX, 22-23)

In questa apparente calma Will si trascina lentamente fuori dal fiume e attraverso il boschetto, guidato dal dolce canto dei soldati in lontananza, come raccolti in preghiera, a cui si mischia ormai provato dal viaggio.

Di nuovo Will è uno spettatore silenzioso, che si risveglia improvvisamente quando i personaggi intorno a lui gli fanno intendere che è arrivato alla fine del viaggio, ma che ancora deve affrontare l’ostacolo più arduo: riuscire a farsi credere.

Agli occhi dei soldati e soprattutto degli ufficiali infatti il protagonista non è altro che un ragazzino impaurito che farfuglia cose senza senso, mentre si vede sfuggire dalle mani centinaia di vite che non ha potuto salvare…

La corsa

È a questo punto che Will dimostra veramente di essere cambiato.

Se all’inizio della pellicola era un soldato cinico e ignavo, che non voleva neanche lasciare la sicurezza della sua trincea, ora è una forza irresistibile, pronto persino a buttarsi in mezzo alla battaglia pur di portare a termine la sua missione.

Ma la sua apparente vittoria non è che l’anticamera di una lenta ma fondamentale realizzazione: sia nel dare la notizia della tragedia scampata che della morte di Blake, Will trova nei suoi interlocutori una profonda impotenza, un’insoddisfazione, persino un malcelato nervosismo.

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
se non che la mia mente fu percossa da un fulgore (Par. XXXIII, 140-141)

Probabilmente le sue azioni saranno premiate con una fondamentale spilla da portare al petto, ma il vero guadagno di Will è l’amara realizzazione che questo era solo un altro giorno al fronte.

La guerra non è finita oggi: oggi ha solo salvato un pugno di innocenti che domani probabilmente moriranno comunque, in questa spirale di dolore e violenza che è ancora lontana dall’esaurirsi.

Ma almeno ora il protagonista ha il coraggio di guardare le foto della sua famiglia, di ricominciare a pensare ad una realtà altra oltre a quella del fronte, un paradiso forse, a cui guardare in questo attimo di quiete…

…prima del prossimo massacro.

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Avventura Azione Cult rivisti oggi Dramma romantico Drammatico Film Unconventional Christmas

Die Hard – Il gioco delle maschere

Die Hard (1988) di John McTiernan – in Italia noto anche come Trappola di cristallo – è uno dei più grandi cult del cinema action, nonché il film che lanciò la carriera di Bruce Willis.

A fronte di un budget di circa 30 milioni, fu un grande successo commerciale: 140 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Die Hard?

John McClane è un poliziotto di New York che approda a Los Angeles per passare le vacanze con la famiglia. Ma qualcosa di inaspettato sta per metterlo alla prova…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Die Hard?

Bruce Willis in una scena di Die Hard (1988) di John McTiernan

Assolutamente sì.

Die Hard è un action movie incredibile, che è riuscito ad incantare persino una non amante del genere come me.

Infatti, questa pellicola adrenalinica non ha paura di sporcarsi le mani, di portare in scena sequenze cariche di tensione e di salvataggi all’ultimo secondo, impreziosite da una costruzione dei caratteri dei personaggi davvero notevole.

Insomma, da non perdere.

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Avventura Azione Back to...Zemeckis! Commedia Drammatico Film

All’inseguimento della pietra verde – Un classico inizio

All’inseguimento della pietra verde (1984) è uno dei primi film di Robert Zemeckis, nonché il primo titolo con cui riuscì ad ottenere un successo commerciale, appena prima del fenomeno di Ritorno al futuro (1985).

Infatti, a fronte di budget abbastanza contenuto – appena 10 milioni di dollari, circa 30 oggi – incassò 115 milioni in tutto il mondo (circa 340 oggi)

Di cosa parla All’inseguimento della pietra verde?

Joan Wilder è una scrittrice di romanzi rosa di grande successo, che si ritrova coinvolta in un’avventura che sembra uscita da uno dei suoi libri.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere All’inseguimento della pietra verde?

Danny De Vito in una scena di All'inseguimento della pietra verde (1984) di Robert Zemeckis

In generale, sì.

All’inseguimento della pietra verde è un titolo forse più acerbo all’interno della brillante carriera di Robert Zemeckis: pur giocando con il genere avventuroso e cercando di offrirgli un taglio più realistico, spesso la pellicola ricade negli stereotipi più classici di questo tipo di film.

Tuttavia, questo elemento può risultare in una piacevole visione di un prodotto che, se preso con il piglio giusto, può risultare incredibilmente intrattenitivo e piacevole da guardare, forte anche di una coppia di attori di grande valore.

Insomma, vale una visione.

Un’inguaribile sognatrice

L’incipit del film ha più significati.

All’inseguimento della pietra verde si apre con una scena che appare fin da subito artificiosa, con una dramma spinto all’inverosimile per dare modo di strappare più di una lacrima allo spettatore.

Oltretutto, i personaggi in scena appaiono, anche scenicamente parlando – la persistente ombra sul viso della protagonista – dei placeholder per la scrittrice stessa, talmente coinvolta nella storia che racconta da sognare di farne parte.

Mi ha stupito in particolare il forte sottofondo erotico della scena, con anche la macchina da presa che indugia molto spesso sulle forme della protagonista, elemento che rimarrà costante per tutto il resto della pellicola anche nelle interazioni fra Jack e Joan.

Forse in maniera anche fin troppo avanguardistica, si potrebbe leggere l’avventura della protagonista non tanto come un modo semplicemente per trovare quell’amore che fino a quel momento era limitato alla finzione, ma forse proprio per conquistare una soddisfazione sessuale…

Tipico?

Michael Douglas e Kathleen Turner in una scena di All'inseguimento della pietra verde (1984) di Robert Zemeckis

Il rapporto fra Joan e Jack comincia come il più classico enemy to lovers.

Il protagonista maschile sembra fin da subito volersi solamente approfittare di questa donna così apparentemente smarrita ed indifesa, tramando anche alle sue spalle per ottenere il tanto desiderato tesoro.

Ma in realtà il suo ruolo è fortemente depotenziato.

Michael Douglas e Kathleen Turner in una scena di All'inseguimento della pietra verde (1984) di Robert Zemeckis

Sicuramente Jack ha il suo piccolo arco narrativo e viene in qualche modo smascherato da Ralph…

…ma in realtà Joan è spesso diversi passi avanti a lui.

Infatti, la protagonista gode di ampi spazi di autonomia, in cui riesce spesso a salvare sé stessa prima ancora che la sua controparte maschile riesca anche solo a raggiungerla – particolarmente nel finale – riuscendo a sfruttare la sua astuzia per battere nemici ben più minacciosi e imponenti di lei.

E di fatto la sua vittoria è il portare nella realtà le sue stesse storie, e così diventare una donna attiva e altrettanto vincente come le sue protagoniste.

Cosa poteva essere…

Kathleen Turner in una scena di All'inseguimento della pietra verde (1984) di Robert Zemeckis

In chiusura, parliamo di cosa questo film sarebbe potuto essere.

Se questo film fosse stato girato più avanti negli anni, dopo magari aver dimostrato la sua brillantezza di scrittura e regia in Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988), forse Zemeckis avrebbe potuto portare in scena un film più arguto, magari giocando di più sulla parodia o sul contrasto fra realtà e finzione letteraria.

E sarebbe stato un valore: All’inseguimento della pietra verde è uno dei pochi prodotti in cui il regista porta in scena un personaggio femminile effettivamente tridimensionale, a differenza dei successivi – soprattutto nella trilogia di Ritorno al futuro – dove le figure femminili sono molto meno importanti ed approfondite…

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2023 Avventura Azione Biopic Dramma familiare Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film Film di guerra Nuove Uscite Film Oscar 2024

Napoleon – Distruggere un mito

Napoleon (2023) è un biopic dedicato alla figura del mitico condottiero che portò la storia europea ad una nuova era politica e militare, ma con un taglio piuttosto inaspettato…

A fronte di un budget assai ingente – 200 milioni di dollari – è stato un importante insuccesso commerciale, con solo 218 milioni di dollari di incasso, anche se meno da quel disastro chiamato The Killers of the Flower Moon...

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Napoleon (2023)

in neretto le vittorie

Migliore scenografia
Migliori costumi
Migliori effetti speciali

Di cosa parla Napoleon?

La pellicola ripercorre le più importanti tappe della vita di Napoleone Bonaparte, con un particolare focus sulla turbolenta relazione con la prima moglie, Joséphine.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Napoleon?

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Dipende.

Se vi aspettate un racconto preciso e documentaristico della vita politica e della strategia militare di Napoleone, non è il film che fa per voi: anche per via di un obbiettivo squilibrio fra le parti, il film di Ridley Scott si propone di raccontarne solo le tappe più importanti – e spesso in maniera neanche molto approfondita.

Al contrario, se vi può interessare una visione più brutalmente verosimile del dietro le quinte, un’effettiva distruzione del mito di uno dei personaggi più importanti della storia europea, potrebbe essere una visione gratificante.

A voi la scelta.

L’uomo

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

La parte più strettamente umana di Napoleon è quella più discussa.

Il Napoleone presentato è piuttosto lontano dal mito creato da lui stesso e dai vari storici nel corso dei secoli, andando invece a tratteggiare un uomo quasi ridicolo, pieno di debolezze e piccole e grandi ossessioni.

Ma, a differenza di quanto potrebbe sembrare, il ritratto del Napoleone di Scott è molto credibile.

Per quanto fosse un abile stratega e osservatore – come viene fra l’altro rappresentato – è altrettanto vero che, agli occhi delle grandi case aristocratiche europee, Napoleone non era altro che un buzzurro con un’origine non particolarmente brillante – la tristissima Corsica.

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Allo stesso modo, Bonaparte era profondamente legato alla tradizione corsa, nello specifico al suo stringente tradizionalismo – infatti non fece certamente sue grandi battaglie sociali – e mosso da una strabordante ambizione.

In questo senso, per quanto sia d’accordo sul fatto che Phoenix sembri un po’ imbrigliato in una recitazione a tratti limitante, allo stesso modo la performance che ci porta in scena racconta perfettamente questo carattere ambiguo, con le sue luci e ombre…

Lo stratega e…

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

In Napoleon Scott si impegna a rappresentare lodevolmente la parte più meritevole dell’opera di Napoleone.

Ovvero, la sua capacità da stratega.

Bonaparte visse una carriera militare piuttosto lampante, che gli permise di collocarsi nel solco della Rivoluzione Francese, e così acquisire una posizione di grande potere politico, fino a diventare l’Imperatore della Francia post-rivoluzionaria.

Pur piegando date ed eventi a suo favore, in particolare nella scena della decapitazione di Maria Antonietta – storicamente inesatta – l’occhio attento di Bonaparte sull’apice della Rivoluzione ne racconta indirettamente la consapevolezza del mutato scenario politico tutto da riscrivere.

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Per questo si impegnò in diverse campagne militari, sempre necessarie per riuscire a mantenere il potere politico, con una serie di guerre lampo – forse in questo caso anche troppo frettolosamente raccontate – che lo portarono agilmente al successo.

Per questo la scena del bombardamento in Egitto e dell’incendio in Russia sono complementari: in entrambi i casi Scott racconta in maniera molto semplice ed immediata per uno spettatore inesperto due momenti fondamentali della carriera militare del protagonista.

Infatti come l’Egitto fu una vittoria schiacciante e determinante per la sua popolarità, allo stesso modo l’incendio a Mosca – nella realtà storica solo accidentale – rappresenta il fuoco distruttivo di tutte le altre potenze europee che, infine, lo schiacciarono.

E, nondimeno, quell’incendio fu anche rappresentazione di un successo molto precario e momentaneo: anche a fronte di ambiziose conquiste come una capitale così simbolica, allo stesso modo le fondamenta del suo potere erano fin troppo fragili…

Concetto raccontato anche, con un simbolismo piuttosto calzante, nella scena del faccia a faccia con la mummia, a cui un Napoleone ancora all’inizio della sua ascesa pone in testa il suo capello, quasi si rivedesse in quella rappresentazione di una gloria assai passeggera…

Josephine o…

Vanessa Kirby in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Il focus fondamentale di Napoleon è il rapporto con Josephine.

Lo stesso, ha più funzioni.

Anzitutto, un racconto abbastanza naturale del proseguire degli eventi: tramite le lettere appassionate all’amata, Napoleone riesce a raccontare lo svolgersi degli eventi militari e politici, soprattutto quando era lontano dalla Francia.

In secondo luogo, rappresenta la grande debolezza del personaggio: anche se appassionatamente innamorato – come dimostrano le varie lettere a lei dedicate – Napoleone era anche un personaggio piuttosto opprimente dal punto di vista relazionale.

Joaquin Phoenix e Vanessa Kirby in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Se da una parte si dimostrò più volte un genitore e un amante affettuoso, è altrettanto vero che aveva una visione molto tradizionalista della donna, da cui l’atteggiamento oppressivo nei confronti di Josephine, e lo squallore delle scene di sesso, finalizzate unicamente ad un consolidamento della sua posizione.

E infine, Napoleone arrivò a soffocare la sua amante, tenendola da parte in un cassetto e portandola solamente ad essere più sola e triste, impedendole di vivere veramente una seconda vita relazionale al di fuori di lui.

Ma è possibile anche una seconda interpretazione.

…la Francia?

L’importanza del personaggio di Josephine all’interno della pellicola permette una seconda interpretazione.

In questa visione, la donna amata di Napoleone simboleggia la Francia stessa: qualcosa di cui Bonaparte, nonostante le sue origini, era profondamente innamorato, ma che gli portò anche diversi dispiaceri e angosce.

In questo senso il brusco ritorno in patria dall’Egitto – del tutto reale e documentato – per via del tradimento della moglie – non altrettanto veritiero – può essere letto come una sorta di presa di consapevolezza dello stato deplorevole della Francia in sua assenza – come testimoniato dal suo stesso scambio col Direttorio.

E così, la necessità di rimetterla in riga.

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Allo stesso modo, la conclusione del matrimonio racconta un’altra tendenza del personaggio.

Napoleone non si accontentò mai di rendere sicura e compatta la Francia, ma aspirò sempre ad avere il controllo su molti altri territori, rivaleggiando con le diverse potenze europee, tanto da finire per utilizzare milizie non francesi per il suo esercito.

Una scelta spesso considerata motivo del fallimento finale della sua avventura, e che potrebbe essere proprio traslato nella scelta di abbandonare l’amore per Francia – Josephine – per conseguire le sue ambizioni politiche, proprio sposando una straniera – Maria Luisa d’Austria.

La riscrittura del mito

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Questa riscrittura storica potrebbe turbare molti spettatori.

Ma è proprio questo il punto.

La vera vittoria di Napoleone non è stata tanto l’aver incarnato il cambiamento della Rivoluzione e l’aver fatto tremare l’intera Europa per vent’anni, ma l’essere riuscito a costruire e a mantenere un mito personale che perdura tutt’oggi.

Questo elemento si nota particolarmente nell’ultima scena, che fa riferimento al fondamentale Memoriale di Sant’Elena: Napoleone fu, fino all’ultimo, attivo nel tramandare una storia e un’immagine di sé stesso il più vantaggiosa possibile, anche se deviata.

Non a caso, se si vanno meglio ad indagare i singoli eventi fondamentali – fra tutti, la possibile disfatta al Parlamento, salvata in extremis dal fratello Luciano – si scopre tutta la fragilità del mito e della quantità di momenti in cui la fortuna salvò la sua ascesa.

Per questo, è così sbagliato provare a mettere in bocca allo spettatore una storia che non ha mai sentito, piuttosto che la solita celebrazione di cui siamo ormai ubriachi?

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Lettere da Iwo Jima – Le due guerre

Lettere da Iwo Jima (2006) di Clint Eastwood si può annoverare fra i film di guerra di produzione occidentale più sui generis del cinema contemporaneo – basti solo pensare al fatto che è interpretato tutto da attori giapponesi in giapponese.

A fronte di un budget piuttosto contenuto per una produzione del genere – appena 19 milioni di dollari – fu un ottimo successo commerciale, con 69 milioni di incasso.

Di cosa parla Lettere da Iwo Jima?

Diverse storie di soldati semplici e generali innamorati del proprio paese si susseguono sullo sfondo della drammatica sorte dell’isola di Iwo Jima, ultima linea di confine per l’Impero Giapponese nella Seconda Guerra Mondiale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Lettere da Iwo Jima?

Kazunari Ninomiya in una scena di Lettere da Iwo Jima (2006) di Clint Eastwood

Assolutamente sì.

Lettere da Iwo Jima è una riproposizione dell’opera precedente dello stesso Eastwood, Flags of our fathers (2006), però portando il punto di vista giapponese della turbolenta vicenda di questa ultima linea di confine, in cui i soldati nipponici dovettero veramente dimostrare il loro valore

Attraverso una regia attenta e una scrittura il più possibile realistica e verosimile, con questa pellicola il regista statunitense porta in scena uno spaccato piuttosto variegato dei diversi sentimenti che popolavano l’altra parte del fronte…

Insomma, non ve lo potete perdere.

Lettere da Iwo Jima realtà

Alcune utili indicazioni per orientarsi nel film.

La battaglia di Iwo Jima (硫黄島の戦い Iōtō no tatakai?) si svolse durante la Guerra nel Pacifico (19 Febbraio-26 marzo 1945) nell’omonima isola giapponese tra le forze statunitensi e le truppe dell’esercito imperiale giapponese.

Insieme a Okinawa, Iwo Jima rappresentava uno scudo avanzato per le isole metropolitane dell’Impero giapponese che potevano essere coinvolte in uno sbarco degli Alleati: le due posizioni erano perciò presidiate da guarnigioni numerose e bene armate.

Anche per gli Stati Uniti, Iwo Jima rivestiva notevole interesse, poiché dagli aeroporti dell’isola sarebbero potute decollare le scorte di caccia ai bombardieri strategici Boeing B-29 Superfortress basati nelle isole Marianne e in Cina, che dal giugno 1944 colpivano le industrie e le infrastrutture giapponesi.

I lavori di fortificazione precedenti lo sbarco avevano trasformato l’isola in una vera e propria fortezza che, nonostante i bombardamenti preliminari effettuati dall’8 dicembre 1944, oppose una strenua resistenza alle unità statunitensi, principalmente del Corpo dei Marine, sbarcate il 19 febbraio sotto lo schermo protettivo di una completa supremazia aeronavale.

La feroce battaglia si concluse ufficialmente il 26 marzo 1945 con il quasi totale annientamento della guarnigione giapponese e la perdita di oltre 23 000 uomini fra morti e feriti per gli Stati Uniti (unico episodio della campagna di riconquista del Pacifico in cui gli USA soffrirono più perdite dei giapponesi).

Ecco una piccola galleria di foto d’epoca.

L’onore

Come per La sottile linea rossa (1998), anche Lettere da Iwo Jima può essere letto su più livelli.

Il primo livello è quello della guerra ideale.

Il senso di onore e di fedeltà all’Imperatore rendeva l’esperienza nipponica diversa per molti aspetti da quella statunitense: se all’interno del fronte americano vi era una ricerca dell’eroismo individuale, al contrario l’azione dell’esercito giapponese era volta alla salvezza della comunità.

Così vi è una generale consapevolezza persino da parte delle alte cariche dell’esercito di quanto la missione sia fondamentalmente suicida e senza speranza, al punto che persino la madrepatria si rifiuta di inviare i rinforzi adeguati.

Nonostante questo, sbocciano facilmente negli animi di questi personaggi slanci di patriottismo che li porta persino ad una sorta di suicidio fra il politico e rituale, all’urlo di 万歳 (banzai!) – Mille anni di vita all’ imperatore!

Di fatto per questi soldati è proibito tornare alla propria vita, non è possibile né arrendersi né farsi catturare, ma solo dimostrare fino all’ultimo la loro tenacia e fedeltà alla madrepatria, anche quando la stessa non sta facendo niente per aiutarli…

A metà

Ken Watanabe in una scena di Lettere da Iwo Jima (2006) di Clint Eastwood

In questo senso, Tadamichi Kuribayashi è una figura di mezzo fra le due guerre.

Dopo aver avuto un’esperienza fondamentale nella realtà militare statunitense, il generale cerca di trovare una via alternativa per risolvere con maggior successo una situazione già di per sé insalvabile, scegliendo la strategia dell’imboscata al posto della trincea suicida.

Tuttavia, le gallerie di Kuribayashi rappresentano due volti della sua personalità.

Ken Watanabe in una scena di Lettere da Iwo Jima (2006) di Clint Eastwood

Se da una parte quegli intricati sotterranei possono diventare una roccaforte, un ultimo tentativo di protezione dei suoi soldati, al contempo è piuttosto rivelatorio il discorso di Saigo nelle lettere alla moglie:

This is the hole that we will fight and die in. Am I digging my own grave?

Questo è il buco in cui combatteremo e in cui moriremo. Sto scavando la mia tomba?

Di fatto il generale è animato da ultimo e atipico fervore, che lo porta a combattere fianco a fianco con i suoi sottoposti, cercando in tutto e per tutto di proteggerli dal peggio, dando persino valore alla loro individualità.

Ken Watanabe in una scena di Lettere da Iwo Jima (2006) di Clint Eastwood

In questo senso è indicativa la differenza dell’utilizzo delle luci nella scena in cui Kuribayashi cerca di incoraggiare i soldati:

Come il generale è illuminato da una luce piuttosto netta, che ne evidenzia l’entusiasmo del discorso, al contrario i soldati sono inghiottiti dall’oscurità dell’ambiente, sferzati da queste ombre drammatiche che evidenziano l’arrendevolezza dei loro cuori.

L’ultimo tentativo di ricongiungersi con la sua patria è nel finale, in cui Kuribayashi sceglie di compiere un 切腹 (seppuku), ovvero un suicidio rituale per morire con onore ed evitare di essere catturato dal nemico.

Ma un colpo di pistola gli nega anche questo ultimo desiderio.

Reale

Kazunari Ninomiya in una scena di Lettere da Iwo Jima (2006) di Clint Eastwood

Do what is right because it is right.

Fa ciò che è giusto, perché lo ritieni giusto, non perché devi farlo.

L’altro livello narrativo è la guerra reale.

Per la scrittura dei soldati semplici si sceglie un taglio il più possibile realistico e verosimile, a tratti quasi comico, mostrando fin da subito quanto la maggior parte di loro siano fortemente disillusi dalla guerra e non si facciano problemi a fare discorsi considerati antipatriottici.

Nello specifico Saigo è il fulcro di questa narrazione, mostrandosi il più delle volte del tutto lontano dal modello di soldato perfetto della propaganda, anzi apparendo piuttosto trasandato, molto improvvisato – e infatti ammette subito di non essere un soldato.

Kazunari Ninomiya in una scena di Lettere da Iwo Jima (2006) di Clint Eastwood

Per questo il giovane soldato sfugge consapevolmente tutte le dinamiche di patriottismo e di sacrificio immotivato che i suoi superiori cercano di imporgli, sottraendosi al sacrificio rituale e cercando anche di ribaltare la narrazione patriottistica a suo favore:

We can die here, or we can continue fighting. Which would better serve the emperor?

Possiamo morire qui, oppure continuare a combattere. In che modo serviremmo meglio l’imperatore?

Anzi infine sceglie di evadere il conflitto stesso, venendo spalleggiato da un altro compagno che dice testualmente di non poterne più di questa guerra, a sottolineare un senso di frustrazione generale che pervade l’esercito.

Significativo anche la sua decisione finale, in cui aggredisce il soldato inglese quando si accorge che lo stesso ha requisito la pistola del generale Kuribayashi: a suo modo il protagonista sceglie di fare un attacco banzai (suicida), ma per qualcosa in cui credeva veramente.

Ovvero, una persona a cui davvero teneva e che non meritava di essere spogliata del suo valore.

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Il Corvo – Un semplice amore

Il Corvo (1994) di Alex Proyas, tratto dall’omonimo fumetto di James O’Barr, è uno dei più grandi cult cinematografici degli Anni Novanta.

La sua fama è legata anche all’infausto incidente dell’attore protagonista, Brandon Lee, che morì sul set a soli ventott’anni e non poté mai vedere il film finito…

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 23 milioni di dollari – fu un enorme successo commerciale, con 95 milioni di dollari di incasso in tutto il mondo, tanto da portare a ben due sequel.

Di cosa parla Il Corvo?

Eric e Shelly sono una giovane coppia innamorata, il cui destino viene stroncato da un evento improvviso. Ma la vendetta è dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il Corvo?

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

In generale, sì.

Non voglio troppo sbilanciarmi: Il Corvo è un film che va veramente inquadrato nel periodo in cui è uscito, in quanto figlio di un’estetica che ad oggi potrebbe essere considerata quasi trash e dozzinale.

Inoltre, se siete appassionati del fumetto d’origine, potreste rimanere parzialmente delusi – per me è stato così – in quanto questa trasposizione cerca di rendere più digeribile una vicenda davvero cupa e malinconica.

Tuttavia, al di là di questo, Il Corvo è indubbiamente una lettera d’amore verso l’opera di James O’Barr – presente anche con un piccolo cameo – che riesce al meglio delle sue possibilità – e con scelte complessivamente vincenti – a rendere una graphic novel così complessa e sofferta.

Insomma, da vedere.

In questa recensione inevitabilmente ci saranno dei confronti con l’opera originale, che vi invito a riscoprire.

Frammenti di dolore

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

Non era semplice rendere la scena dell’omicidio iniziale de Il Corvo.

Il film sceglie un taglio peculiare, ma assolutamente adatto alla narrazione dell’opera originale: un montaggio travolgente, in cui frammenti della scena si susseguono sullo schermo, attimi di dolore e paura…

Inoltre la pellicola opera alcuni cambiamenti funzionali alla riuscita del film: la violenza non avviene in strada, ma nell’appartamento della coppia, e così Shelly non viene uccisa con un colpo alla testa, ma affronta trenta ore di dolore in ospedale.

La monumentalità ammorbidita

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

Allo stesso modo, anche portare in scena Eric era la sfida più ardua.

Nel fumetto il protagonista è una figura monumentale e paurosa, che vive del contrasto fra l’orrido presente e la morbidezza delle scene d’amore quotidiano con Shelly, che sottolineano la profondità del dolore e del desiderio di vendetta del suo personaggio.

La pellicola in questo senso sceglie un taglio leggermente diverso: Brandon Lee sembra quasi uno zombie che riemerge dalla tomba…

…e riesce nel complesso a reggere sulle spalle un personaggio così complesso, con una buona presenza scenica e una resa visiva veramente calzante.

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

Al contempo però il film sceglie anche di riportare il protagonista più coi piedi per terra, di non giocare troppo con il contrasto fra presente e passato…

…ma piuttosto di mantenere questa dicotomia nel presente stesso: come Eric è un killer insaziabile, al contempo è anche un giovane ragazzo distrutto dal lutto, ma ancora legato agli affetti terreni.

Nello specifico, al personaggio di Sarah.

La felicità intrusiva

Nonostante ne comprenda la funzione, Sarah è l’elemento che ho meno apprezzato.

Nel fumetto Sarah ha un ruolo minore, limitato a pochi momenti, mentre nel film diventa una figura fondamentale per rendere più umano il protagonista e permettere allo stesso di trovare col suo ritorno in terra una funzione ulteriore oltre alla vendetta.

Insomma, serve a dare un briciolo di speranza in più allo spettatore.

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

Sempre per lo stesso fine, la madre di Sarah segue un percorso di redenzione proprio grazie al protagonista, liberandosi dalla dipendenza dalle droghe e ricominciando a curare la figlia.

Una scena di per sé inutile ai fini della trama, ma del tutto funzionale per ammorbidire il tono del film.

E lo stesso avviene nel finale.

Il vero amore?

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

Il finale del film ruota principalmente intorno al personaggio di Sarah.

A differenza del fumetto, Eric nel terzo atto ha fondamentalmente concluso la sua missione ed è pronto a ricongiungersi con Shelly, ma ritorna in campo proprio per salvare la ragazzina, perdendo anche parte dei suoi poteri – l’immortalità – e quindi dovendo combattere ad armi pari T-D.

Nel complesso tuttavia ho apprezzato il cambiamento della fine di del boss, che solo alla fine Eric comprende essere il vero artefice del suo dramma: per questo decide di punirlo con qualcosa di peggiore della morte stessa.

Ovvero, fargli provare l’insopportabile dolore di Shelly prima di morire.

Al contrario, mi è ha meno convinto la chiusura del film.

Per rendere la vicenda più comprensibile allo spettatore medio, si sceglie di glissare totalmente sul motivo originario – nel fumetto – della vendetta di Eric, ovvero il tentativo di liberarsi dalla colpa di non essere riuscito a salvare la sua amata, così da poter lasciare questa vita di mezzo e ricongiungersi con lei.

Il film sceglie una via più semplice, sottolineando la forza di un amore così sincero ed immortale come quello fra Eric e Shelly, che gli ha permesso di tornare in vita e di punire i suoi aguzzini, e, infine, di ricongiungersi amorevolemente con lei.

Il Corvo Sequel

A cura di Carmelo.

Vale la pena di vedere i sequel de Il Corvo?

Il secondo film è molto vicino allo spirito del primo capitolo: nonostante il protagonista sia diverso, la sua motivazione e le dinamiche della sua storia sono simili.

Fra l’altro, è presente un collegamento diretto con il film del 1994, per la presenza di Sarah, che funge da guida per il nuovo protagonista.

Un sequel che si distingue per un taglio più onirico e surreale, ma che può essere comunque apprezzato.

Lo stesso si può dire de Il Corvo 3 – Salvation (2000).

In questo caso il protagonista è un ragazzo condannato alla sedia elettrica per il presunto omicidio della sua fidanzata, e torna per vendicarsi dei veri assassini.

Insomma due sequel che cercano di mantenere il taglio del primo film, e che possono comunque essere apprezzati se vi intriga la dinamica raccontata.

Assolutamente sconsigliato invece il quarto capitolo, Il Corvo – Preghiera maledetta (2005): girato tutto alla luce del sole – quindi mancando totalmente dell’atmosfera originale – porta l’elemento magico-fantastico in direzioni molto meno desiderabili, snaturando l’opera originale.

Insomma, da evitare.

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Chi ha incastrato Roger Rabbit – L’inganno perfetto

Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988) è probabilmente l’opera più ambiziosa di Robert Zemeckis, uno dei migliori esempi dell’uso della tecnica mista nella storia del cinema.

Con un budget piuttosto consistente – 50 milioni di dollari, circa 130 oggi – fu un enorme successo commerciale, con 350 milioni di incasso (circa 900 oggi).

Di cosa parla Chi ha incastrato Roger Rabbit?

Eddie è un detective privato pieno di debiti e ubriacone, che viene coinvolto in una vicenda piuttosto piccante ma con retroscena inaspettati…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Chi ha incastrato Roger Rabbit?

Roger Rabbit e Eddie Valiant in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Assolutamente sì.

Chi ha incastrato Roger Rabbit è un classico della filmografia di Zemeckis, in cui sperimentò splendidamente con una tecnica piuttosto complessa, ovvero l’utilizzo del live action misto all’animazione…

…raccontando sostanzialmente un noir crudelmente realistico e con riferimenti culturali piuttosto attuali – nello specifico, il razzismo – ma cambiando un paio di elementi in scena e riuscendo a portarlo al cinema come un film per tutta la famiglia.

Un’opera imperdibile, insomma.

La seguente interpretazione più sul versante politico-sociale è avvallata anche dal libro di ispirazione, Who Censored Roger Rabbit? (1981, inedito in Italia), che presenta queste tematiche in maniera più netta.

Strappo

L’incipit di Chi ha incastrato Roger Rabbit è perfetto.

Infatti, volendo rivolgere la sua opera ad un pubblico piuttosto variegato, Zemeckis sceglie di mettere tutti sullo stesso livello.

Se il pubblico più adulto può riconoscersi nelle follie cartoonesche di Hanna & Barbera con cui è cresciuto, così anche gli spettatori più giovani, magari più abituati ai nuovi cartoni di derivazione nipponica, riescono a riavvicinarsi ad un taglio narrativo del tutto diverso.

Eddie Valiant in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

La sequenza iniziale non è infatti altro che il più classico episodio di un prodotto di animazione degli Anni Quaranta, nelle sue follie violente e profondamente comiche, che richiamano le dinamiche di serie popolarissime come Tom & Jerry e Willy il Coyote…

…che viene improvvisamente interrotta, accompagnandoci nel ben più crudo realismo del film, in uno studio hollywoodiano con star capricciose e artisti sottopagati, allontanando progressivamente l’inquadratura da un Roger Rabbit disperato, per rivelare un burbero figuro di spalle, che in una sola battuta rivela tutta la sua personalità:

Toons.

Un classico noir

Jessica Rabbit e Eddie Valiant in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Quello che segue è l’avvio piuttosto classico di un film noir.

Più Eddie ci viene introdotto, più scopriamo quanto sia un detective ormai fallito, pieno di debiti e schiavo dell’alcol, disposto a tutto per guadagnare qualcosa, persino scattare delle foto piccanti per far risvegliare le energie di un personaggio come Roger Rabbit.

Per il resto, l’introduzione di Jessica Rabbit è tutto un programma.

Betty Boop e Eddie Valiant in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

La donna è incredibilmente fascinosa e sensuale, ma svelerà a suo tempo come questa sua apparenza risulti col tempo insopportabile, in quanto la vincola ad essere un puro oggetto sessuale e nient’altro, anche facilmente dimenticabile come la povera Betty Boop, che cerca ancora di essere ammiccante…

…ma che è lasciata nel dimenticatoio, in quanto cartone d’altri tempi.

Per questo la battuta iconica Non sono cattiva, mi disegnano così racconta proprio la tragicità di questo personaggio intrappolato in un corpo più deleterio che premiante, e che infatti ricerca un compagno che la apprezzi non solo per la sua bellezza.

Il doppio inganno

Jessica Rabbit in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Proprio su questa linea, tutta la costruzione del Patty-Cake (in italiano farfallina) inganna lo spettatore per due volte.

Lasciando per lungo tempo le immagini esplicite fuori scena, Zemeckis fa credere abilmente che Jessica si stia intrattenendo sessualmente con Acme – e, oltre al velo della finzione filmica, è esattamente quello che succede – fingendo di utilizzare un’espressione gergale per indicare il tradimento sessuale…

Jessica Rabbit in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

quando in realtà il Patty-Cake non è altro che un gioco per bambini.

Ad un livello più profondo, si tratta del primo tassello di una storia ben più complessa di ricatti e di sesso, in cui sia Jessica Rabbit – personaggio molto più attivo di quanto sembri – sia Roger sono coinvolti apparentemente come i colpevoli, in realtà come vittime incastrate in un complotto.

L’autodistruzione

Giudice Morton in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Il giudice Morton – Judge Doom in inglese – è probabilmente l’elemento più iconico di Chi ha incastrato Roger Rabbit.

Interpretato in maniera magistrale da un Christopher Lloyd che dopo Back to the future (1985) era ormai il feticcio di Zemeckis, bastano pochi dettagli di trucco per caratterizzare un villain lugubre e spietato, che non è nient’altro che una rappresentazione neanche troppo edulcorata di un boss del crimine.

In una dinamica che ricorda molto da vicino quella di Wilson Fisk in Daredevil, questo spietato imprenditore ha ripulito la sua immagine e si è riproposto sullo scenario politico in modo da prendere lentamente il possesso di Cartoonlandia, sviluppando contro la stessa un piano di totale distruzione.

Giudice Morton in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Se non ci vuole tanta fantasia per rileggere la salamoia come l’acido in cui i mafiosi sono soliti a sciogliere le loro vittime, non viene neanche difficile sostituire i toons con delle minoranze etniche nel mondo dello spettacolo, dove sono maltrattate e sottopagate – si veda Dumbo, che si accontenta di un pugno di noccioline.

Secondo questa lettura, Morton non è altro che un uomo che faceva parte della stessa suddetta minoranza che ora perseguita, in una totale follia autodistruttiva che l’ha portato non solo a scalare la gerarchia sociale, ma a distruggere le sue stesse radici, nello specifico Cartoonlandia, un ghetto per i Toons, mal accettati in molti altri contesti per umani.

Edulcorare

Salamoia in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Dopo una rocambolesca fuga propria dei migliori buddy movie, quasi per caso Eddie scopre la verità dietro alle mosse di Morton, arrivando così ad un finale incredibilmente classico per il genere, ma nondimeno anche straordinariamente avvincente e scandito sul filo dei secondi.

Potrebbe risultare piuttosto sorprendente la scelta di non mostrare del tutto il vero aspetto del Giudice Morton, ma limitarsi ad un agghiacciante quanto iconico confronto con Eddie, che rivela la malvagità e la spietatezza di questo cartone…

Tuttavia, questa scelta è dettata da una motivazione metanarrativa.

Per questo film Zemeckis si fece prestare un gran numero di personaggi animati da altre case di produzione, evidentemente a patto che nessuna di queste ne uscisse danneggiata – e infatti sono tutti personaggi positivi – e un personaggio così diabolico come Morton non poteva essere in alcun modo associato al mondo dei cartoni.

Infatti, nonostante anche la spietata violenza che caratterizzava in quel periodo l’animazione per bambini, nessuno poteva essere considerato effettivamente cattivo come Morton, ma piuttosto le azioni negative dei villain venivano spesso stemperate da un taglio comico e grottesco a misura di bambino.

Non è quindi un caso che in chiusura Topolino e tutti gli altri toons si interroghino sulla vera identità del villain, chiosando che sicuramente non era né un papero, né un topo

…insomma, niente di associabile ai personaggi tanto amati dai bambini del periodo.

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Il villaggio dei dannati – La prole mostruosa

Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter, conosciuto anche come John Carpenter’s Village of the Damned, è il remake dell’omonimo film del 1960.

Nonostante il finale fosse piuttosto aperto, il film fu un tale fiasco al botteghinoappena 9,4 milioni di dollari di incasso a fronte di un budget di 22 milioni – che non se ne sentì più parlare…

Di cosa parla Il villaggio dei dannati?

In una tranquilla cittadina della California un improvviso blackout fa svenire tutti gli abitanti della città. Subito dopo, molte donne si ritrovano improvvisamente incinte…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il villaggio dei dannati?

Lindsey Haun in una scena di Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter

Dipende.

Il villaggio dei dannati purtroppo non si può annoverare fra le migliori opere del maestro dell’horror americano, in particolare per via di una sceneggiatura estremamente debole e difettosa – e, infatti, non opera di Carpenter – pur a fronte di un primo atto salvato da una regia ed un montaggio ben pensati.

Uno di quei film da vedere senza farsi aspettative, ma magari rimanendo intrattenuti dall’assurdità delle svolte narrative e dall’incubo degli effetti speciali – ingiustificabili davanti ad un The Thing (1982) di pochi anni prima.

Insomma, abbastanza dimenticabile, ma non tutto da buttare.

Un buon inizio

Il primo atto de Il villaggio dei dannati è il meglio riuscito.

La tranquillità della fiera cittadina viene stravolta da un blackout improvviso, senza che ci sia alcun tipo di preparazione in merito, riuscendo effettivamente a prendere contropiede lo spettatore, con anche una regia piuttosto indovinata.

Altrettanto azzeccato è il montaggio successivo, in cui si susseguono diverse scene con dialoghi spezzati, in cui le donne del paese scoprono della loro improvvisa gravidanza, con alternanza di gioia e di profonda angoscia, sopratutto da parte del pensieroso Dottor Alan.

Lo scambio fra il suo personaggio e Jill fa da prologo ad un’inquietudine che serpeggia costante anche nei momenti subito successivi, a fronte di una scena anche troppo realistica in cui il governo prende i cittadini per il portafoglio, riuscendo a renderli protagonisti del suo piccolo esperimento scientifico.

Così, al netto degli effetti speciali tremendi, la prima vittima di questi terribili bambini è al centro di una scena complessivamente ben raccontata, in cui il terrificante potere dei neonati nel controllare la volontà degli adulti viene mostrato in tutta la sua drammaticità.

Ma i problemi cominciano dopo.

Una terrificante ingenuità

Kirstie Alley in una scena di Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter

Per ovvie necessità di sceneggiatura, i bambini demoniaci non potevano rimanere neonati…

…ma è assurdo come gli adulti si comportino con loro.

Sarebbe bastata una linea di sceneggiatura per raccontare la crescita vertiginosamente veloce di questi infanti, così da superare il pesante problema della poca credibilità del secondo atto: se i bambini sono cresciuti naturalmente, dovrebbero ormai essere passati quantomeno dieci anni…

…e così non è verosimile che gli adulti – non invecchiati neanche di un minuto – sembrino raggiungere la consapevolezza della pericolosità di questi personaggi solamente a questo punto, come se prima il pericolo non fosse visibile.

Lindsey Haun in una scena di Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter

L’unica parte che effettivamente funziona di questo atto centrale è lo scambio fra i bambini e la Dottoressa Susan – il personaggio più magnetico della pellicola – e il terribile incidente oculistico, che mostra come queste creature siano davvero vendicative e senza pietà.

Al contempo, Carpenter ebbe la fortuna di lavorare con dei bambini piuttosto abili nel reggere la parte, particolarmente la brillante Lindsey Haun, che interpreta la terribile Mara – in un certo senso il villain principale della pellicola.

Poi, il delirio.

Repetita iuvant?

Lindsey Haun in una scena di Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter

L’atto finale presenta due problemi principali.

Anzitutto, la terrificante ripetitività delle scene: a fronte dei primi incidenti – i due con protagonista Barbara e l’accecamento – i successivi attacchi dei bambini risultano incredibilmente monotoni sia per la messinscena che per le dinamiche.

Sembra, insomma, di vedere per diverse volte la stessa scena.

E, ancora una volta, i personaggi – ad eccezione del Dr. Alan – sembrano solamente carne da macello, totalmente ignari dei poteri dei bambini e così incapaci di combatterli o anche solo di evitarli per non morire tutti nella stessa stupida maniera.

Lindsey Haun in una scena di Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter

Proprio su questa linea, i personaggi principali sono riportati in scena e fatti morire quasi a casaccio, e senza che la loro storia abbia un particolare significato – nello specifico, l’inutile dipartita del Reverendo George.

Particolarmente sprecata la morte della Dottoressa Susan, la cui scoperta della vera natura delle creature cade quasi nel dimenticatoio, all’interno dello scontro finale fra il Dr. Alan e i bambini che sembra più puntare sulla tensione che sull’essere effettivamente interessante.

E per fortuna il finale aperto non ha mai avuto un seguito…

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Back to the future Part II – Un terribile futuro

Back to the future Part II (1989) di Robert Zemeckis è il sequel del fortunato prodotto omonimo uscito qualche anno prima, e che confermò il successo del progetto.

Pur a fronte di un budget duplicato – 40 milioni di dollari, circa 100 oggi – fu un grande successo al botteghino, con 332 milioni di incasso (circa 820 oggi).

Di cosa parla Back to the future Part II?

Dopo la rocambolesca avventura nel passato, la coppia di protagonisti intraprende un viaggio nel futuro per risolvere i problemi familiari di Marty…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Back to the future Part II?

Christopher Lloyd in una scena di Back to the future Part II (1989) di Robert Zemeckis

Assolutamente sì.

Il secondo capitolo della saga è per certi versi anche più avvincente del primo, con un ritmo serrato e travolgente soprattutto nei momenti cardine della trama, scegliendo, a differenza del precedente, di seguire maggiormente la strada dell’avventura fantascientifica in senso stretto.

Back to the future Part II è insomma una corsa continua, con un’estetica futuristica diventata ormai iconica, e che poteva solo esistere in quella visione forse più semplice del futuro che si aveva alla fine degli Anni Ottanta…

Insomma, da vedere.

L’aggancio diretto

Michael J. Fox e Christopher Lloyd in una scena di Back to the future Part II (1989) di Robert Zemeckis

L’incipit di Back to the future Part II si ricollega direttamente con il precedente.

E per un motivo molto pratico.

Anzitutto, essendo ormai passati quattro anni, il film vuole riconquistare sia il pubblico di appassionati sia quello dei casual watchers, riportandoli all’epica conclusione del primo capitolo, evitando così di travolgerli con una storia potrebbero non ricordarsi alla perfezione.

Michael J. Fox in una scena di Back to the future Part II (1989) di Robert Zemeckis

Ma la fretta sta tutta nell’incipit.

Il primo assaggio di questo mondo futuristico sono i nuovi vestiti di Marty – con un furbissimo product placement – che ci svelano un mondo dove tutto è più semplice, più automatizzato, più imprevedibile – dalle scarpe che si allacciano da sole agli skateboard volanti.

Ma lo sconvolgimento avviene quando Marty entra in un luogo noto.

Il falso passato

Michael J. Fox in una scena di Back to the future Part II (1989) di Robert Zemeckis

Con l’entrata nel bar nostalgico Anni Ottanta – una previsione incredibile dell’effettiva ossessione dei futuri Anni Dieci per quella decade – Marty si ritrova in un luogo noto e al contempo incomprensibile.

Nonostante infatti la musichetta che richiama le atmosfere del passato, ogni oggetto dentro al locale è snaturato: non c’è più un cameriere, ma una televisione insistente da cui ordinare una Pepsi che però non è più la solita Pepsi – per poi provare a giocare un videogioco che appare troppo fuori dal tempo per i ragazzini del futuro.

Michael J. Fox in una scena di Back to the future Part II (1989) di Robert Zemeckis

Per fortuna Back to the future Part II non ricade nel pericolo di essere ridondante nel riproporre la medesima dinamica del precedente film: Marty deve sempre salvare qualcuno dalle grinfie di Biff – non il padre, ma suo figlio – secondo una dinamica di scambio già nota.

Tuttavia, la sequenza è intrigante proprio per la grande capacità attoriale di Michael J. Fox, che riesce perfettamente a portare in scena il Marty degli Anni Ottanta e a distinguerlo dal futuro figlio, molto più insicuro e fuori posto, nonostante i due si differenziano solamente per il taglio di capelli.

Così lo stesso inseguimento ha un forte sapore di déjà-vu – per ammissione dello stesso Biff – ma è comunque piacevolissimo ed indimenticabile proprio per la presenza dello skateboard volante, elemento che tornerà utile anche nella conclusione della pellicola.

Il pericolo in agguato

Una scelta piuttosto intelligente del è il ribaltare la dinamica del presente da salvare.

Se infatti il divieto di cambiare il passato a favore del futuro era stato mandato completamente a gambe all’aria già nella prima pellicola, nulla vieta al villain di seguire le orme dei protagonisti, ma per un proprio guadagno personale.

Così, dopo aver assistito impotente al suo sconsolante futuro, Marty ritorna nel 1985 con la prospettiva di non viaggiare mai più nel tempo – con simpatici foreshadowing del terzo capitolo – ma notando non pochi elementi fuori posto nel suo presente…

Molto funzionale in questo senso riutilizzare la dinamica della famiglia impaurita che scaccia un Marty confuso da quella che dovrebbe essere la sua casa, e che va alla scoperta di un quartiere ormai devastato da una criminalità dilagante.

Questo spaccato del nuovo presente è funzionale a dare maggior valore alla missione dei protagonisti: cambiare il passato non è semplicemente un’esigenza egoistica di costruirlo su misura per le proprie esigenze, ma serve ad evitare un mondo che è a svantaggio di tutti, ad eccezione di Biff.

L’angosciante quadro familiare è introdotto dal museo dedicato all’eroe americano, così da rendere la spiegazione più digeribile e meno didascalica, seguita dall’introduzione di una Lorraine distrutta dall’alcol e dai debiti, del tutto in balia del suo oppressore, che racconta a Marty il triste destino del padre.

Tornare indietro

Michael J. Fox in una scena di Back to the future Part II (1989) di Robert Zemeckis

Se nel primo film il viaggio nel passato era totalmente casuale, questa volta è invece programmato con uno specifico obbiettivo.

Per fortuna Back to the future Part II riesce tutto sommato a non impelagarsi nella sua stessa narrazione, rendendo l’avventura di Marty tendenzialmente indipendente dal suo passato, andando ad inseguire un Biff che per la maggior parte del primo film era rimasto fuori scena.

E tanto più avvincente è l’inseguimento apparentemente impossibile dell’almanacco sportivo, che ha un percorso tutto tranne che lineare, anzi piuttosto caotico, pieno di imprevisti e colpi di scena, fra cui l’indimenticabile rivista pornografica Oh la là!

Michael J. Fox e in una scena di Back to the future Part II (1989) di Robert Zemeckis

E così ancora più appassionante la parte finale dell’inseguimento di Biff, che sembra davvero impossibile fino all’ultimo, ma che si risolve con la seconda umiliazione del villain, ma anche un finale apparentemente tragico per Doc…

…salvato all’ultimo da un messaggio imprevisto proveniente dal passato, che è solo il prologo – così come era stato nel primo capitolo – per il sequel, il cui trailer rappresenta la chiusura rassicurante della pellicola, che anticipa già il ricongiungimento fra Doc e Marty e le loro nuove – ed imperdibili – avventure.

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Back to the future – Il cambiamento positivo

Back to the future (1985) non solo è fra i titoli più apprezzati della filmografia di Robert Zemeckis, ma è soprattutto uno dei più grandi cult di fantascienza della storia del cinema.

Non a caso, al tempo divenne un fenomeno culturale: a fronte di budget medio – 19 milioni di dollari, circa 54 oggi – e incassò 383 milioni di dollari in tutto il mondo (circa un miliardo ad oggi).

Di cosa parla Back to the future?

Marty McFly è un adolescente che viene coinvolto in una particolarissima avventura con il suo amico, lo scienziato pazzo Doc Brown…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Back to the future?

Michael J. Fox in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Assolutamente sì.

Back to the future è un cult non per caso: un film con una storia semplice, ma orchestrata perfettamente in tutte le sue parti, con una scrittura e una regia ben calibrate per raccontare le differenze fra le diverse epoche storiche e gli inevitabili parallelismi.

Uno di quei film che, anche a decenni di distanza, lascia facilmente un buon sapore in bocca per il suo ottimo equilibrio fra il dramma e una piacevole comicità, oltre a due protagonisti assolutamente iconici.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Il primo inizio

A sorpresa, il dramma familiare in Back to the future è importante quanto il viaggio nel tempo.

L’incipit serve infatti ad inquadrare la famiglia di Marty e il suo carattere, con un utilizzo di rara intelligenza delle didascalie: tramite le parole dei personaggi e le dinamiche in scena, scopriamo anzitutto come il protagonista si senta un emarginato incompreso, dalla scuola e dai suoi parenti.

Così la sua famiglia rappresenta la classica situazione della middle class americana, con l’aggravante di uno zio galeotto e di un padre totalmente sottomesso al suo bullo storico, Biff, e per questo incapace di farsi veramente strada in una vita di successo.

Così ampio spazio è concesso anche alla madre di Marty, che appare fin da subito piuttosto bacchettona e puritana, tanto che il protagonista le nasconde consapevolmente il suo progetto della gita al lago con la fidanzata.

La fantascienza di sottofondo

Christopher Lloyd in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Il dramma familiare si alterna ottimamente con l’elemento fantascientifico.

Lo stesso è introdotto fin dall’inizio, con un Doc che però rimane fuori scena fino alla fine del primo atto, ma che conosciamo già perfettamente dal dialogo al telefono con Marty: un intraprendente scienziato, autore di invenzioni piuttosto bislacche, legato da un forte rapporto col protagonista.

Così quando entra in scena rappresenta in tutto e per tutto il modello di inventore pazzo, che però non cade mai nel ridicolo grazie alla recitazione appassionata e ormai iconica di Christopher Lloyd – che ritornerà a lavorare con Zemeckis anche in Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988).

Christopher Lloyd e Michael J. Fox in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Così tutti gli elementi del viaggio del tempo vengono raccontati con precisione e creando anche una piccola tensione iniziale, quando il mistero non è ancora svelato, in modo da far identificare il totalmente l’ignaro Marty con lo spettatore.

Infine, quando l’avventura sta ormai per partire, il protagonista sembra già star per uscire di scena, in maniera talmente credibile che allo spettatore verrebbe anche da chiedersi a cosa è servita tutta la sua introduzione…

…ma proprio per questo l’atto centrale funziona così bene.

Un atto consapevole

Michael J. Fox in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Tutti gli elementi della parte centrale sono gestiti con particolare consapevolezza.

Appena Marty arriva nel 1955, già ci risuonano nella mente le parole di Doc, in una frase che sul momento sembrava inutilmente nostalgica, ma che invece è fondamentale per l’identificazione dello spettatore: qui intorno prima era tutta campagna.

Allo stesso modo la reazione della famiglia che entra per la prima volta in contatto con il protagonista sembra puramente una gag, ma risulterà invece determinante successivamente, quando il protagonista dovrà convincere il padre ad invitare al ballo scolastico la sua futura moglie.

E, al contempo, la dinamica della scena racconta il sentimento di Marty per tutta la sua permanenza nel passato: lo straniamento.

Allo stesso modo, Back to the future convince particolarmente nel raccontare le incomprensioni di un ragazzo del 1985 in un contesto così anomalo.

A partire dal fatto che viene continuamente scambiato per un marinaio per il suo giubbotto smanicato – tipico della moda degli Anni Ottanta – fino ai vari riferimenti storici – l’elezione futura di Ronald Raegan e gli eventi intorno alla famiglia Kennedy – tutti elementi che contestualizzano perfettamente il panorama di riferimento.

Così, per avvicinare ancora di più il protagonista al padre, particolarmente brillante la scena del loro incontro, in cui si muovono allo stesso modo e si girano contemporaneamente verso Biff quando il bullo chiama il padre di Marty per cognome.

Il teen drama âge

Lea Thompson e Michael J. Fox in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

La parte centrale di Back to the future è dominata dal teen drama.

La pellicola riprende un topos abbastanza tipico, in cui un personaggio cerca di far smuovere un suo compagno un po’ nerd così che riesca a conquistare la ragazza di turno e a diventare più sicuro di sé.

In questo caso ovviamente la situazione è molto più interessante ed avvincente, in quanto non c’è in ballo solamente un rapporto amoroso, ma piuttosto la sopravvivenza stessa del protagonista, e, più in generale, la maturazione del padre.

Lea Thompson e Crispin Glover  in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Infatti, tutti i personaggi compiono un percorso di maturazione.

Anzitutto, il protagonista diventa ben più consapevole di sé stesso e delle proprie potenzialità, riuscendo a superare il suo limite dell’essere mingherlino, tramite l’intraprendenza e l’inventiva, e così tenendo testa ad un bullo minaccioso come Biff.

Ma la maturazione principale, sopratutto a posteriori, è quella del padre, che smette di essere un totale perdente che si fa mettere i piedi in testa, per diventare invece un uomo consapevole e di successo, che riesce a combattere contro le sue paure.

Lorraine McFly

Ma la storia più interessante è quella della madre.

Back to the future riesce ben ad inquadrare la situazione femminile negli Anni Cinquanta: Lorraine vive alternativamente nel sogno della crocerossina e della principessa da salvare, all’interno di un mondo maschile violento e ostile.

Non a caso, anche se non è detto esplicitamente, la madre di Marty è stata sostanzialmente salvata da un tentato stupro da parte di Biff, e così, anche durante il ballo, prima di essere ripresa da George, è un pacco che viene passato di mano in mano.

Tuttavia, anche il suo personaggio ha il suo margine di maturazione: se all’inizio del film la donna era aspramente bigotta, al contrario nella situazione finale scopriamo un personaggio che è riuscito a trarre il meglio dalla sua esperienza adolescenziale, mantenendo una mente aperta e sapendosi prendere cura di sé.

Una nuova occasione

Christopher Lloyd e Michael J. Fox in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Parallelamente alla parentesi adolescenziale, la trama fantascientifica è indubbiamente la più iconica.

Il rincontro con Doc pone al suo personaggio un dilemma morale fondamentale, che è in realtà tipico dei racconti del viaggio del tempo: l’importanza di non cambiare il passato, consapevoli dei risultati potenzialmente disastrosi che potrebbe portare al presente.

Per questo, nonostante i vari tentativi di Marty, lo scienziato si ribella all’idea di essere salvato dal protagonista.

Christopher Lloyd e Michael J. Fox in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Invece, davanti ad un finale che rischiava di essere assai drammatico, Back to the future sceglie una via diversa.

Infatti, capiamo che il presente deve essere cambiato, perché ne va della sopravvivenza dei personaggi stessi, e, più in generale, della loro maturazione, compresa quella di Doc: l’uomo diventa meno rigido sulle dinamiche del viaggio del tempo e ne accetta le piacevoli conseguenze.

E, anche di più, il suo personaggio da questa esperienza riesce anche a migliorare la sua invenzione, rendendola meno dipendente da un materiale così difficilmente reperibile – il plutonio – e non più una semplice macchina, con tutti i limiti del caso, ma un mezzo che non ha bisogno di strade:

Roads? Where we’re going, we don’t need roads.

Strade? Dove andiamo non ci servono strade.