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Terrore dallo spazio profondo – L’invasione silenziosa

Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman, remake di L’invasione degli ultracorpi (1956), è considerato uno dei migliori film di fantascienza mai realizzati.

A fronte di un budget molto contenuto – 3,5 milioni di dollari, circa 16 oggi – incassò piuttosto bene: 28 milioni di dollari (solo negli Stati Uniti), corrispondenti a circa 122 milioni oggi.

Di cosa parla Terrore dallo spazio profondo?

In un angolo remoto dello spazio, una misteriosa entità discende sulla Terra, camuffandosi fra gli umani…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Terrore dallo spazio profondo?

Leonard Nimoy, Donald Sutherland e Jeff Goldblum in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

Assolutamente sì.

Confrontandolo con Incontro ravvicinati del terzo tipo (1977), Terrore dallo spazio profondo rappresenta l’altra faccia del genere: una fantascienza che innova il tema dell’invasione aliena, con un taglio molto più orrorifico e pessimistico, per certi tratti quasi un thriller.

Ma la bellezza del prodotto è rappresentata anche dalla sua incredibile regia, con diverse inquadrature di grandissima raffinatezza e artisticità, e una scelta della messinscena e della colonna sonora sempre precisa ed efficace.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Un inizio a metà

Brooke Adams in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

L’inizio di Terrore dallo spazio profondo offre solo le informazioni essenziali per poter mettere lo spettatore sullo stesso piano dei personaggi.

Inizialmente infatti sappiamo solo che qualcosa di misterioso, senza faccia e senza forma, è piovuto sulla terra nell’aspetto più innocuo possibile: un fiorellino che chiunque di noi avrebbe voglia di raccogliere e conservare in casa.

E così seguiamo brevemente l’ampio gruppo di personaggi e la loro profonda emotività, mentre l’invasione rimane sotterranea e invisibile, riconoscibile solamente per i piccoli particolari, per un primo atto con una tensione perfetta.

Un presentimento

Prima della scoperta – dello spettatore e dei personaggi – dell’effettivo piano degli alieni, il film vive di atmosfere e presentimenti.

Si comincia a percepire che qualcosa è cambiato, che tutto quello che sembra normale, in realtà è profondamente mutato, anche se in maniera quasi impercettibile, con un sublime dialogo fra Elizabeth e Matthew.

Today everything seemed the same, but it wasn’t.

Oggi tutto sembrava uguale, ma non lo era.

Un dialogo, fra l’altro, accompagnato da sequenze che, nella loro semplicità e precisione, rendono perfettamente il senso di angoscia della protagonista, e ci permettono di immergerci nei suoi dolorosi presentimenti oscuri, culminati con un sanguinoso incidente mostrato in tutta la sua brutalità.

Un racconto a cui non solo crediamo, ma in cui possiamo totalmente ritrovarci: un ambiente familiare, definito da elementi riconoscibili, può mutarsi in una realtà irriconoscibile, minacciosa, quando anche solo pochi sguardi sbagliati cambiano tutto…

Invisibile e inarrestabile

Donald Sutherland in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

Per gli ultimi due atti Terrore dallo spazio profondo alterna l’angoscia psicologica e al terrore visivo.

L’invasione invisibile è prima di tutto un orrore psicologico, che fa cadere i personaggi nella completa paranoia, davanti alla facilità con cui gli alieni distruggono i corpi umani e li sostituiscono con delle copie perfette.

Inoltre, si introduce un sottile dubbio nella mente dei personaggi e dello spettatore: la specie umana è quella che davvero dovrebbe vivere sulla Terra, visto quanto è dilaniata dalle emozioni che portano gli esseri umani a distruggersi fra di loro?

Al contempo l’orrore visivo è garantito da un uso veramente ottimale degli effetti visivi materiali, che raccontano la rinascita del corpo scegliendo appositamente elementi che provocano disgusto e sconvolgimento, mostrando esseri volutamente contraddittori.

Feti con forma adulta, uomini che nascono da bozzoli…

La chiusura

Brooke Adams in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

La chiusura di Terrore dallo spazio profondo è magistrale.

Gli elementi del finale vengono introdotti a poco a poco, anzitutto con il tentativo dei protagonisti di ingannare gli alieni, ma essendo continuamente messi alla prova dalla loro profonda debolezza umana, che li rende del tutto schiavi delle emozioni.

Ancora più agghiacciante è la morte e rinascita di Elizabeth, il cui corpo si sfalda fra le braccia di Matthew, per poi mostrarsi di nuovo in una forma quasi primordiale, nuda e senza vergogna, saggia e riflessiva, del tutto in contrasto con il personaggio che era stato finora.

Donald Sutherland in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

Il culmine è l’iconico finale, in cui Nancy crede ancora di poter trovare nell’irreprensibile Matthew, l’ultimo uomo in vita, un alleato. E invece, grazie all’incredibile espressività di Donald Sutherland, la donna diviene agonizzante, sommersa dal terribile verso di allarme dell’alieno…

…e, al contempo, dalla consapevolezza della fine dell’umanità.

Terrore dallo spazio profondo regia

Ammetto che, prima di vedere Terrore dallo spazio profondo non conoscevo l’opera di Kaufman – noto anche per altri titoli, come Uomini veri (1983) e L’insostenibile leggerezza dell’essere (1988).

Ma in questa pellicola l’ho trovata una regia così elegante ed indovinata che ci tenevo a scrivere un paio di righe per sottolineare gli aspetti che mi hanno colpito di più.

Anzitutto, la profondità dello sguardo.

In non pochi momenti Kaufman sceglie una messinscena con inquadrature molto profonde, sia per creare dei significati visivi, sia per dare maggiore respiro alla scena.

Nel primo caso, vediamo ad esempio nella scena in cui Jack si stende, e in secondo piano scorgiamo il mutante, creando una simmetria visiva che racconta come il personaggio si stia per trasformare:

Per il secondo caso è emblematica è la scena in cui Matthew cerca di chiamare Elizabeth, e, dopo diversi primi piani e particolari, l’occhio della cinepresa si allarga per mostrarci anche quello che succede intorno al personaggio:

Un altro aspetto che ho molto apprezzato della regia è l’uso mai banale delle ombre sul volto dei personaggi, creando delle inquadrature quasi artistiche, che ne sottolineano di volta in volta l’atmosfera tetra e angosciante:

Infine, mi ha fatto impazzire la raffinatezza con cui la regia sporca l’inquadratura con evidenti elementi di disturbo, che si rivelano in realtà ingredienti imprescindibili per delle inquadrature magnifiche:

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70s classics Avventura Azione Comico Drammatico Fantascienza Film Frammenti di sci-fi Recult Steven Spielberg

Incontri ravvicinati del terzo tipo – La fantascienza positiva

Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) è un classico della fantascienza Anni Settanta (e non solo), nato dalla mente di uno dei più grandi maestri dei cult vivente, Steven Spielberg, al tempo forte del recente successo di Lo squalo (1975).

Con un budget di appena 20 milioni di dollari – circa 100 oggi – ebbe un successo stratosferico, con un incasso di 300 milioni di dollari – circa un miliardo e mezzo oggi.

Di cosa parla Incontri ravvicinati del terzo tipo?

Durante un turno di lavoro notturno, Roy Neary viene coinvolto in un inseguimento di quattro UFO da parte della polizia, vivendo così un incontro ravvicinato...

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Incontri ravvicinati del terzo tipo?

Richard Dreyfuss in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

Incontri ravvicinati del terzo tipo è veramente un titolo imperdibile se siete appassionati di fantascienza, soprattutto a quel tipo di fantascienza pensata per un pubblico più giovane.

Fra l’altro una pellicola che mostra tutta l’intelligenza di Spielberg anche come sceneggiatore, capace di creare scene dal taglio orrorifico diventate immediatamente iconiche – e citate in Stranger Things – e passare organicamente a momenti di pura comicità.

Insomma, cosa state aspettando?

Gli eroi per caso

Richard Dreyfuss in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

Incontri ravvicinati del terzo tipo si basa su un modello narrativo molto semplice, ma che io adoro dei film di fantascienza.

L’eroe incompreso.

Il protagonista principale è Roy, che fin da subito è raccontato come personaggio fondamentalmente non preso sul serio dalla sua famiglia, testardo, quasi infantile, contrapposto alla più autoritaria figura femminile.

A lui viene affidata un’importante sequenza comica, che crea un climax fondamentale per cucire in maniera ancora più importante la relazione con lo spettatore: del tutto vittima degli impulsi psichici a cui è stato sottoposto, in un momento di apparente follia cerca di ricreare materialmente il messaggio degli alieni.

E proprio per questo viene abbandonato.

Richard Dreyfuss e Melinda Dillon in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

Questo modello è trasmesso anche ad altri due personaggi: il piccolo Barry e sua madre, Jillian.

In questo caso il personaggio femminile è un po’ sacrificato, vincolato praticamente solo al ruolo materno. Ma non c’è da stupirsi: eravamo ancora agli albori della fantascienza moderna, in cui il genere era principalmente pensato per un pubblico maschile, molto lontano dell’innovazione di Alien (1979) e dalle eroine di Cameron.

Tuttavia, il contrasto fra Jillian e suo figlio ha un risultato irresistibile.

Punti di vista

Cary Guffey in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

La scena più iconica della pellicola è indubbiamente l’attacco alla casa di Barry e il suo rapimento.

Una scena diretta con grande maestria e un uso delle luci veramente indovinato, che fanno da sfondo perfetto per l’orrore e le grida di Jillian, che vede improvvisamente la casa animarsi e urlare, come posseduta dai fantasmi.

Al contrario il bambino, che aveva già vissuto felicemente il primo contatto, è del tutto affascinato da questo divertente gioco di luci, e per questo si lascia rapire dalla bellezza di questo nuovo amico da scoprire.

Ed è, di fatto, l’unico a capire il vero significato del messaggio degli alieni.

La fantascienza positiva

Cary Guffey e Melinda Dillon in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

La peculiarità di Incontri ravvicinati del terzo tipo è il suo approccio molto positivo alla fantascienza.

Come per Una nuova speranza – uscito lo stesso anno – Spielberg predilige una visione molto più vicina ad un target più giovane, diversamente dal taglio più drammatico e violento che sarà invece tipico del genere nel decennio successivo.

In particolare, la positività dell’incontro fra alieni e umani è racchiusa nel personaggio di Berry.

Cary Guffey e Melinda Dillon in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

Il bambino vive tutto come un sogno, ed è evidente il parallelismo del montaggio fra i piccoli alieni che si vedono alla fine – interpretati effettivamente da delle ragazzine – e il volto del giovane personaggio umano: non sono poi così diversi.

Allo stesso modo il contatto con gli extraterrestri è un finalizzato al legame, e non al conflitto: tramite un linguaggio universale – la musica – questi pacifici alieni cercano di insegnare agli umani come poter comunicare e poter unire le due specie.

Tanto che nel finale il protagonista è accolto sulla nave, pronto ad essere ambasciatore dell’umanità…

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70s classics Avventura Azione Cult rivisti oggi Drammatico Fantascienza Film Frammenti di sci-fi Futuristico Recult Western

Westworld – La vacanza perfetta

Westworld (1973) di Michael Crichton è uno dei film di fantascienza più di culto degli Anni Settanta, precursore di tematiche e dinamiche che saranno poi riprese in cult successivi come Jurassic Park (1993) e Terminator (1984).

La storia godette di un sequel e di due serie tv, la più recente del 2016.

A fronte di un budget veramente ridotto – appena 1,2 milioni di dollari, circa 8 milioni oggi – incassò piuttosto bene: 10 milioni in tutto il mondo – circa 68 oggi.

Di cosa parla Westworld?

In un futuristico 1983, Peter e John visitano un parco a tema unico al mondo: i personaggi al loro interno non sono figuranti, ma robot dalle sembianze umane, apparentemente molto docili…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena vedere Westworld?

Richard Benjamin in una scena di Westworld (1973) di Michael Crichton

Assolutamente sì.

In Westworld troviamo una fantascienza semplice, lineare, che lascia volutamente spazio al mistero e al dubbio, che preferisce raccontare per immagini e per atmosfere, piuttosto che sprecarsi in utili spiegoni.

Un misto fra comico e horror con effetti di montaggio quasi grotteschi, con un senso di angoscia che comincia lentamente a serpeggiare all’interno della pellicola, rivelando a poco a poco la sua trama…

Un inizio rilassato

Yul Brynner in una scena di Westworld (1973) di Michael Crichton

La pellicola si apre in maniera abbastanza simile alla serie omonima.

Dopo un incipit che sembra uno spot pubblicitario – in realtà perfettamente calzante per dare una contestualizzazione allo spettatore – incontriamo i due protagonisti – se così vogliamo chiamarli – in arrivo al parco.

Ci troviamo subito all’interno di un’atmosfera apparentemente rilassata, in cui la coppia di amici comincia ad ambientarsi nel parco, pur con qualche elemento che ci svela quello che succederà – come il colpo di pistola…

Ma l’indizio visivo più evidente appare quando siamo ormai ad un terzo del film: la bella ragazza androide con cui Peter si è intrattenuto a sua insaputa tiene lo sguardo fisso nel vuoto, con gli occhi che le luccicano in maniera sinistra…

Dietro le quinte

Yul Brynner in una scena di Westworld (1973) di Michael Crichton

We aren’t dealing with ordinary machines here

Non stiamo parlando di semplici robot

Un piccolo incidente ci porta dietro le quinte del parco.

Osserviamo i tecnici che armeggiano sui corpi degli androidi, che aprono e chiudono a piacimento, svelando l’intrico di cavi che stride così fortemente con quei volti così apparentemente e perfettamente umani…

E così veniamo messi al corrente di una terrificante rivelazione: queste macchine sono molto meno docili e molto più imprevedibili di quanto si possa pensare. E, ancora peggio, un virus sembra causare diversi malfunzionamenti, e non sempre risolvibili…

La rivolta incontrollabile

Richard Benjamin in una scena di Westworld (1973) di Michael Crichton

Il fuoco del malfunzionamento, della rivolta è inarrestabile.

Si comincia dalle piccole cose, da siparietti apparentemente innocenti: la coppia di amici nel deserto che viene attaccata da un serpente a sonagli, la ragazza di corte che si rifiuta di cedere alla avance di uno degli ospiti…

…e lo stesso viene trafitto dal Cavaliere Nero.

Come per l’ospite appena ucciso, i due protagonisti si risvegliano totalmente ignari della situazione, e decidono di stare al gioco con l’inquietante pistolero, sicuri di poterla avere vinta con facilità.

E così uno dei due viene ucciso.

…e allora il silenzio

Yul Brynner in una scena di Westworld (1973) di Michael Crichton

Nell’ultimo atto il tema della macchina incontrollabile si mostra in tutta la sua tragicità.

In scena cala un drammatico silenzio: Peter e il Pistolero sono le ultime pedine rimaste in gioco, destinate allo scontro determinante fra il creatore e la sua creazione.

L’ultimo uomo è tampinato come un animale negli oscuri corridoi sotterranei, incapace di avere la meglio sulla macchina inarrestabile.

Ma, sul finale, per un momento sembra essere vittorioso…

Yul Brynner in una scena di Westworld (1973) di Michael Crichton

Per un attimo Peter sembra tornare nel mondo reale, nel mondo degli uomini, trovando una ragazza incatenata che sente di voler salvare, quasi come un premio per l’impresa appena compiuta, concedendole la pietà di un sorso d’acqua…

E invece la reazione della donna ne rivela la vera natura, prima che il Pistolero, totalmente spogliato di ogni aspetto umano, si fiondi ancora su di Peter, mentre il volto gli si schiude e rivela la fredda verità che il protagonista pensava di aver scampato:

Questo è il mondo dei robot.

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Avventura Azione Drammatico Fantascienza Film Il pianeta delle scimmie - Reboot Racconto di formazione

Rise of the Planet of the Apes  – Dalla parte di Cesare

Rise of the Planet of the Apes (2011) di Rupert Wyatt – tradotto in Italia con il titolo poco lungimirante di L’alba del pianeta delle scimmie – è il primo film della saga prequel – reboot del cult Il pianeta delle scimmie (1968)

Un prodotto che ebbe un incasso medio per un blockbuster, pur rivelandosi un buon successo commerciale: con un budget di circa 90 milioni, incassò 481 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Rise of the Planet of the Apes?

Will Rodman è un fisico che sta lavorando da anni su una medicina che potrebbe rivelarsi rivoluzionaria, sperimentandola proprio sulle scimmie…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Rise of the Planet of the Apes?

Cesare (Andy Serkis) in una scena di Rise of the Planet of the Apes (2011) di Rupert Wyatt

In generale, sì.

Non posso fare confronti con il classico del ’68 – non avendolo ad oggi visto – ma vi posso dire che Rise of the Planet of the Apes è un buonissimo film di fantascienza, pur con qualche inciampo lungo la strada.

Non è personalmente il titolo che preferisco di questo rilancio – apprezzo molto di più i successivi diretti da Matt Reeves – ma è comunque una visione piacevole con una costruzione abbastanza solida.

Insomma, ve lo consiglio.

Dalla parte delle scimmie

Cesare (Andy Serkis) in una scena di Rise of the Planet of the Apes (2011) di Rupert Wyatt

Un aspetto che mi ha sempre sorpreso di questa saga è come le scimmie siano dei protagonisti fondamentalmente positivi.

Al contrario, gli umani sono le vere bestie.

Non a caso il film si apre con una scena che mostra delle scimmie catturate per diventare cavie da laboratorio. Per poi, appena non sono più immediatamente utili, essere ingabbiate in luoghi deprimenti, per essere poi ripescate all’occorrenza.

In questo senso è particolarmente emblematica la frase pronunciata da Jacobs, quando Will cerca di farlo ragionare sui pericoli del 113:

Per questo sperimentiamo sulle scimmie, giusto?

Un protagonista positivo?

Cesare (Andy Serkis) e James Franco in una scena di Rise of the Planet of the Apes (2011) di Rupert Wyatt

In questo senso, Will, il protagonista umano, non è proprio un personaggio positivo.

Infatti, per la maggior parte del tempo agisce principalmente per proprio interesse, anche se lo stesso è legato ai suoi affetti – di cui, casualmente, fa parte anche Cesare.

Ma la scimmia e Charles per certi versi sono anche le sue cavie da laboratorio, con cui Will sperimenta la sua invenzione, non potendo farlo altrove…

Allo stesso modo Will non sembra particolarmente interessato al deprimente destino delle scimmie, ma unicamente a Cesare – senza avere neanche in mente i suoi effettivi interessi.

Per fortuna, almeno sul finale accetta di lasciarlo libero.

Un personaggio difficile

Cesare (Andy Serkis) e in una scena di Rise of the Planet of the Apes (2011) di Rupert Wyatt

Ma il vero protagonista è Cesare.

La seconda parte della pellicola l’ho particolarmente apprezzata proprio per questo: Cesare diventa definitivamente protagonista e il film si trasforma in un gustosissimo prison break.

E la regia è talmente abile nel riuscire a raccontare tutti i pensieri e le intenzioni del personaggio, senza che da loro venga pronunciata praticamente alcuna parola.

Al contempo il piano di Cesare è preciso e limpido, e va anche di pari passo con il suo processo di consapevolezza, la sua presa di coscienza di come rendere veramente liberi i suoi fratelli.

La stupidità umana

Cesare (Andy Serkis) e in una scena di Rise of the Planet of the Apes (2011) di Rupert Wyatt

In Rise of the Planet of the Apes gli uomini non sono solo malvagi, ma profondamente stupidi.

Totalmente accecati dal loro desiderio di ricchezza e di potere, sottovalutato enormemente la minaccia potenziale che hanno fra le mani.

Sia all’inizio che alla fine non sono capaci né di contenere né di prevedere i comportamenti delle scimmie, e sul finale sembrano del tutto ignari della loro superiorità fisica…

E lo stesso vale anche per la ricerca scientifica stessa, totalmente guidata dal desiderio di guadagno personale, risultando approssimativi e disattenti nelle sperimentazioni, arrivando così a distruggersi da soli…

Andy Serkis Il pianeta delle scimmie

Cesare non è un pupazzo in CGI, ma creato grazie alla motion capture, tecnica con cui un attore reale dà le movenze al personaggio, che poi verrà ricoperto di CGI.

E chi poteva dare un’interpretazione così magistrale se non Andy Serkis?

L’attore è un vero professionista di questa tecnica, venendo unanimemente apprezzato ed acclamato per la sua ottima interpretazione di Gollum in tutti i film de Il Signore degli Anelli.

Ma bisogna fare anche un plauso a tutti i professionisti che hanno partecipato, anche per i personaggi secondari.

Scimmie Rise of the Planet of the Apes

Uno dei problemi principali quando si gestiscono personaggi in totale CGI è mostrarli in scene illuminate, quando tutte le possibili mancanze vengono alla luce, appunto.

Tuttavia, per essere un film del 2011, Rise of the Planet of the Apes se la cava piuttosto bene.

Oltre al perfetto character design delle scimmie, che le rende davvero espressive e eloquenti, complessivamente le stesse risultano credibili anche nelle scene finali, quelle più illuminate.

Ma nei seguiti si sceglierà, forse più saggiamente, di prediligere scene ben più oscure…

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Avventura Azione Drammatico Fantascienza Film Il pianeta delle scimmie - Reboot Postapocalittico

Dawn of the Planet of the Apes – L’odio intestino

Dawn of the Planet of the Apes (2014) di Matt Reeves è il secondo film della saga prequel reboot de Il pianeta delle scimmie (1968), sequel di Rise of the Planet of the Apes (2011).

Un capitolo che fu anche il più grande incasso dell’operazione: a fronte di un budget quasi raddoppiato (170 milioni), incassò ben 710 milioni di dollari.

Di cosa parla Dawn of the Planet of the Apes?

Dieci anni dopo Rise of the Planet of the Apes, Cesare ha costruito una realtà apparentemente solida e protetta per la sua tribù. E gli umani sembra che siano scomparsi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dawn of the Planet of the Apes?

Cesare in una scena di Dawn of the Planet of the Apes (2014) di Matt Reeves

Assolutamente sì.

Soprattutto se vi è piaciuto il primo film, non potete davvero perdervi questo secondo capitolo, dove finalmente la direzione passa a Matt Reeves – che, se ve lo foste dimenticato, è autore di quella meraviglia di The Batman (2022).

E si vede.

Le atmosfere oscure e piene di tensione, la recitazione – corporea e facciale – davvero sorprendente di Andy Serkis (Cesare) e Toby Kebbell (Koba) sono ingredienti imperdibili in una storia epocale e ricca di emozione.

Non mancano ancora tematiche fondamentali – ambientalismo, fragilità umana – già accennate nel precedente capitolo, ma in questa occasione ancora meglio esplorate, a fronte di una sceneggiatura ben costruita.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Dieci anni sono troppi?

Cesare in una scena di Dawn of the Planet of the Apes (2014) di Matt Reeves

Sulle prime devo dire che questa importante ellissi temporale di ben dieci anni mi ha lasciato leggermente stranita.

E così anche il drastico cambio di personaggi umani – che si ripeterà, fra l’altro, anche nel successivo War for the Planet of the Apes (2017) – di fatto rendendo debole ogni tipo di collegamento con la prima pellicola.

Ma alla fine ci ho ripensato.

Cesare e Will in una scena di Dawn of the Planet of the Apes (2014) di Matt Reeves

Fin dall’inizio i veri protagonisti della pellicola sono le scimmie, non gli umani, che in questo film in particolare vengono resi più dei topoi, del tutto funzionali alla trama, più che degli effettivi personaggi tridimensionali.

Infatti, se di fatto i protagonisti della pellicola sono Cesare e Koba, i personaggi umani sono dei vettori per approfondire le tematiche della trama e creare una sorta di parallelo fra l’esperienza delle scimmie e quella umana…

Due esperienze, due emozioni

Lo scontro fra Koba e Cesare nasce dalle loro due esperienze opposte.

Nonostante infatti entrambi siano di fatto stati delle cavie per gli esperimenti umani, Koba si porta sulle spalle un’esperienza ben più dolorosa e drammatica, che non gli ha permesso di conoscere altro che la malvagità degli uomini – come spiega anche lo stesso Maurice.

Al contrario, Cesare è riuscito a venire a contatto, tramite Will, ad un lato meno negativo – anche se secondo me non positivo – dell’umanità e alle sue ambizioni.

E, proprio per questo, nonostante la sua ostilità iniziale, si apre infine ad un contatto proficuo con il genere umano.

E, proprio per una maggior lucidità mentale, Cesare si rende conto di quanto umani e scimmie non siano così diversi.

Non a caso, da entrambe le parti si vedono due realtà molto simili

Nel difficoltoso contatto con il genere umano, Cesare si dimostra tutto sommato – pur con qualche reticenza iniziale – aperto al contatto e all’arricchimento reciproco, arrivando a considerare addirittura Malcom un suo amico.

Anche perché lo stesso rappresenta il lato propositivo dell’umano che cerca di venire ad un accordo pacifico e rispettoso verso l’altro, prima di tutto assicurandosi con ogni mezzo di non venire meno ai patti, ma, anzi, proponendosi come supporto e aiuto.

Koba dawn of the planet of the apes

Koba in una scena di Dawn of the Planet of the Apes (2014) di Matt Reeves

Al contrario, sia Carver che Koba rappresentano il lato antagonistico e distruttivo.

Entrambi infatti non solo non sono aperti al confronto, ma continuano a considerare l’altro come un nemico, senza mai provare a cambiare idea: se per Koba gli uomini sono dei mostri da distruggere, per Carver le scimmie non sono altro che bestie pericolose.

E non è un caso in questo senso che Carver sia ucciso proprio da Koba…

La profondità del tradimento

Koba in una scena di Dawn of the Planet of the Apes (2014) di Matt Reeves

Perché Cesare uccide Koba?

Per comprenderlo, bisogna fare un passo ulteriore rispetto a quanto detto esplicitamente nella scena: Cesare dice all’ex-amico che non può risparmiarlo in quanto scimmia, perché Koba non è più una scimmia.

Quella che all’apparenza potrebbe sembrare semplicemente una scusa, in realtà rappresenta la profondità del tradimento del compagno: nella sua incapacità di ragionare, di riuscire a superare il suo odio intestino, di fatto Koba ha finito per diventare lui stesso umano.

Koba in una scena di Dawn of the Planet of the Apes (2014) di Matt Reeves

Ed umano nel senso più negativo del termine: un uomo incapace di vedere con apertura mentale qualcuno di diverso da lui, incapace di distinguere le colpe del singolo con quelle della collettività, e del tutto concentrato su sé stesso…

Arrivando al punto di imbracciare armi umani – di cui, come si vede più volte, le scimmie non hanno alcun bisogno – sterminando il nemico senza alcuno scrupolo, anzi arrivando ad ingabbiarlo per un puro desiderio di vendetta.

E, soprattutto, sparando a suo fratello come un umano qualsiasi…

La fragilità umana

Anche se i film di fatto non lo raccontano in maniera esplicita, il punto di arrivo di questa saga dovrebbe essere lo sterminio della razza umana, per arrivare appunto a Il pianeta delle scimmie (1968).

Ma comunque il tema della fragilità umana è presente.

Anche oltre ad una linea di dialogo in cui gli uomini si rendono conto della fondamentale differenza fra loro e le scimmie – del tutto indipendenti da certe esigenze tutte umane, come l’elettricità e il calore – in generale è evidente quanto l’umanità siano dipendente dalle sue stesse creazioni.

Infatti, è bastato veramente poco perché gli umani si riducessero a poche sacche di sopravvissuti, destinati comunque all’inevitabile estinzione per l’incapacità di ricostruire quel mondo tanto comodo quanto necessario per la propria sopravvivenza.

E, allora, chi è veramente la specie dominante?

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Avventura Azione Drammatico Fantascienza Film Film di guerra Il pianeta delle scimmie - Reboot Postapocalittico Racconto di formazione

War for the Planet of the Apes – La fine del viaggio

War for the Planet of the Apes (2017) di Matt Reeves è l’ultimo (per ora) capitolo della saga reboot de Il pianeta delle scimmie.

Nonostante il riscontro commerciale fu buono, subì una battuta di arresto rispetto al precedente: con un budget di circa 150 milioni, incassò quasi 500 milioni.

Di cosa parla War for the Planet of the Apes?

Dopo il tradimento di Koba, la guerra è iniziata e Cesare dovrà prendere delle importanti decisioni…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere War for the Planet of the Apes?

Cesare (Andy Serkis) in una scena di War for the Planet of the Apes (2017) di Matt Reeves

Assolutamente sì.

War for the Planet of the Apes è un ottimo punto di arrivo per la storia di Cesare, scegliendo un nuovo taglio narrativo: il viaggio.

L’aspetto registico e interpretativo rimane sempre altissimo, con Matt Reeves e Andy Serkis che ancora una volta sono elementi imprescindibili per portare in scena un blockbuster di altissimo livello.

Un capitolo ancora più cupo e sofferto, che non vi potete perdere.

La ricerca della pace

Cesare (Andy Serkis) in una scena di War for the Planet of the Apes (2017) di Matt Reeves

Cesare manca dalla scena per buona parte dell’incipit.

Immergendoci in atmosfere alla Apocalypse Now (1979), scopriamo questa guerra autodistruttiva e insensata, in cui gli uomini sfidano la potenza delle scimmie, rimanendo inevitabilmente sopraffatti…

E dopo una lunga sequenza, Cesare riappare nella monumentalità interpretativa di Andy Serkis, che si dimostra come l’unico che cerca veramente la pace fra le forze in gioco, nel tentativo di preservare la sua tribù…

Ma ogni tentativo è inutile quando ci si trova davanti ad un nemico imperscrutabile come il Colonnello, che non si vuole fermare, il cui motore dell’azione è un principio che non si può sradicare…

Rimanere umani

Con l’uccisione della sua famiglia, Cesare rischia di ricadere nello stesso errore di Koba.

Ormai costretto ad imbracciare armi umane, ad essere molto più umano nei comportamenti di quanto avrebbe mai voluto, sceglie la via più immediata ed istintiva: la vendetta.

Ed è una vendetta necessaria.

Ma al contempo riesce a non cadere del tutto nell’errore di Koba, a non disprezzare tutta la razza umana per l’azione di un singolo. E questo proprio grazie all’incontro con la bambina, la cui presenza inizialmente lo disturba, ma che si rivelerà necessaria…

Nova è infatti una creatura docile e pura, anzi una creatura da proteggere, che fa parte di quella schiera di deboli e oppressi che Cesare si era proposto di salvare…

Un parallelismo doloroso

Bad Ape in una scena di War for the Planet of the Apes (2017) di Matt Reeves

Per quanto non venga detto esplicitamente, è evidente che il campo di concentramento faccia riferimento ad una pagina molto buia del Novecento…

Le scimmie, le bestie, vengono schiavizzate per portare avanti il folle piano del Colonnello, rinchiuse in recinti senza copertura, in balia dei cambiamenti del clima, senza protezione, nutriti alla peggio come maiali.

Non manca nondimeno anche una metafora cristologica nella figura del Cesare crocifisso, che si prende sulle spalle tutti i dolori del suo popolo e ne diventa il Salvatore, resistendo di fronte ad ogni forma di ingiustizia.

Eppure, proprio Cesare è considerato sacrilego…

Nascondersi

Il Colonnello rappresenta il volto più estremo dell’umanità.

Incapace di mettersi davvero davanti alle sue colpe, derubrica il suo fallimento, il suo disastro ad una punizione divina posta sopra al suo capo come sfida ultima dell’umanità per la sua salvezza.

Secondo questa concezione, l’uomo è l’unica specie che ha il diritto di vivere sulla Terra, e per questo deve essere indubbiamente destinato a salvarla, per evitare che diventi il pianeta delle scimmie.

Tuttavia, il Colonnello non si rende conto che il suo stesso tentativo di salvezza si tradurrà solo in ulteriore guerra, in ulteriore distruzione, che porterà ancora una volta l’umanità ad essere distruttrice di sé stessa.

The War for the Plane of apes Il finale

Il finale è il vero momento di riscatto di Cesare.

Arrivato al letto di morte del suo nemico mortale, è messo davanti ad una scelta: proseguire fino in fondo con la sua vendetta, oppure defilarsi per sempre da questo conflitto, non volendone essere partecipe in alcun modo.

E Cesare sceglie la seconda.

Sceglie di non essere neanche per un momento l’esecutore della distruzione dell’umanità, anche se in quel momento è stata ricercata, di non cadere così in basso nel distruggere il nemico, quando lo stesso ci riesce benissimo da solo…

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Spider-Man: Across the Spider-Verse – Il canone tirannico

Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson è il sequel del quasi omonimo film del 2018, con protagonista Miles Morale – l’altro Spiderman.

Un film che promette molto bene al botteghino: a fronte di un budget di circa 100 milioni, ha già raddoppiato i suoi costi di produzione, con 208 milioni di incasso nel primo weekend.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film d’animazione

Di cosa parla Spider-Man: Across the Spider-Verse?

Dopo più di un anno dall’incontro con lo Spider-Verse, Miles e Gwen stanno facendo i conti con i loro irrisolti problemi familiari…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Spider-Man: Across the Spider-Verse?

Miles Morales in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Assolutamente sì.

Spider-Man: Across the Spider-Verse compie diversi ed importanti passi avanti rispetto al precedente film – che era già ottimo: una tecnica artistica che si evolve in nuove direzioni, raccontando visivamente in maniera nuova e fresca i diversi universi, retta anche da una scrittura molto più consapevole.

Infatti, questo film nasce inizialmente come un unico prodotto, ma si è scelto successivamente di dividerlo in due parti. E, a fine visione, sono sicura che di questo capitolo non avreste tolto un minuto: un’introduzione potente e robusta per una storia monumentale.

Insomma, assolutamente imperdibile.

Ricominciamo da Gwen

Gwen Stacy in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Spider-Man: Across the Spider-Verse ricomincia, a sorpresa, da Gwen.

Il suo personaggio è quanto essenziale, quanto poco esplorato nel precedente capitolo. In questo caso, invece, domina la scena per la primissima parte della pellicola, ri-raccontando per certi versi – ma in maniera più approfondita – il trauma personale che la definisce come Spider Woman.

E da qui si sviluppa anche il dramma del rapporto non risolto col padre, che si esplica anche in un senso di forte solitudine, di necessità di trovare un’identità e di far parte di un gruppo – ovvero la Spider Society.

Ma con una scelta che la porta – e per non poco tempo – ad abbandonare il padre stesso…

I super problemi

Miles Morales in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

La seconda parte del primo atto è invece dedicata a Miles.

Anche il giovane protagonista sta affrontando questioni non tanto dissimili da quelle di Gwen, anche se con un taglio narrativo decisamente molto più ironico – in funzione del finale, che invece raggiunge un picco drammatico non indifferente.

Ancora una volta, scopriamo Miles prima come Miles, e poi come Spiderman.

Un ragazzo che sta vivendo un momento di passaggio in realtà abbastanza tipico per il suo personaggio: pensare a che tipo di vita costruirsi oltre alla sua identità segreta, a vivere il peso di rivelare la stessa ai genitori – soprattutto al padre.

Ma anche Miles si lascia momentaneamente il problema alle spalle, per unirsi alla Spider Society.

Un villain di contorno?

Spot in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Spot ha un ruolo tutto particolare.

Inizialmente sembra veramente un villain puramente comico, il villain della settimana, che Spiderman sconfigge facilmente, per poi passare al prossimo super problema.

Ma lui stesso si ribella da questo ruolo, riuscendo invece a riscoprire i propri poteri come molto più interessanti di quanto aveva compreso finora. Purtroppo, le sue motivazioni sono molto banali: vendicarsi su Spiderman.

Per questo motivo nel terzo atto di fatto scompare, rimanendo solo come una minaccia nell’ombra, che aggrava ancora di più una situazione già di per sé assai spinosa…

Il problema del canone

Il vero nemico di Spider-Man: Across the Spider-Verse è Spiderman stesso.

Con un ottimo gioco metanarrativo, si racconta come tutti gli Spiderman, proprio per riuscire a mantenere intatto quello che volgarmente chiamiamo Spider-Verse, devono accettare e di fatto sottostare alle regole del canone.

In questo modo si giustifica come il personaggio, nelle sue varie incarnazioni cinematografiche – in particolare quelle della Sony – ripercorra bene o male le medesime tappe e affronti i medesimi problemi, pur con le dovute differenze.

Ma è questo il vero dramma.

Miguel O'Hara in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Spiderman per essere tale è costretto ad affrontare anche traumi davvero sconvolgenti, che solitamente riguardano la perdita degli affetti.

Per questo il personaggio di Miguel O’Hara è così tanto grigio: avendo vissuto sulla sua pelle cosa significa davvero andare contro il canone e vivere solamente per sé stessi, lo impone giustamente (?) anche a tutti gli altri.

Ma Miles è ancora troppo giovane, troppo inesperto – ancora una volta – e non è pronto ad affrontare un nuovo trauma in così poco tempo. Un trauma che, con ogni probabilità, lo porterebbe ad una distruzione della sua identità e a chiudersi in sé stesso.

E allora cos’è più importante?

Salvare sé stessi o salvare il multiverso?

Spider-Man: Across the Spider-Verse finale spiegazione

Il finale di Spider-Man: Across the Spider-Verse è piuttosto oscuro.

Quantomeno inizialmente Gwen ottiene un finale positivo: anche se scopre che per colpa sua il padre ha lasciato il lavoro da poliziotto, in questo modo non diventa capitano della polizia, non seguendo quindi la strada del canone che l’avrebbe portato alla morte.

Invece il finale di Miles è quasi macabro.

Finalmente pronto ad affrontare i suoi genitori per rivelare la sua identità segreta, il protagonista si confida con la madre, che sembra non capire di cosa stia parlando. E, se in un primo momento la situazione sembra credibile, minuto dopo minuto la verità comincia ad emergere…

Miles Morales in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Miles ha sbagliato universo, è finito in quello da cui deriva il ragno che l’ha morso, dove proprio per questo manca uno Spiderman. E non è neanche la cosa peggiore: Miles, perdendo il padre e non essendo morso dal ragno, è diventato un supercattivo, Prowler.

Ed è piuttosto credibile: nel primo film veniva raccontato quanto Miles fosse legato allo zio, quindi è altrettanto comprensibile che, in mancanza di un’altra strada, si sia lasciato sedurre dalla possibilità di essere super, ma dalla parte sbagliata…

Spider-Man: Across the Spider-Verse Andrew Garfield Donald Glover

Spider-Man: Across the Spider-Verse è il miglior racconto del multiverso di Spiderman portato finora al cinema.

La tecnica narrativa e artistica si arricchisce, portando nuovi e fantastici personaggi, ognuno definito da una propria estetica, peculiare e unica: dallo Spider Punk all’Avvoltoio di Età Rinascimentale.

Ma anche Gwen ha una propria identità visiva, quasi espressionista: una realtà molto sfumata, che cambia a seconda delle sue emozioni.

Un multiverso incredibilmente intelligente, che riesce anzitutto a portare un’ironia metanarrativa particolarmente indovinata:

Ma, soprattutto, sembra mettere finalmente un punto al rapporto fra live action e realtà animata nell’Universo Marvel-Sony.

Semplicemente, i personaggi in live action rimangono tali, non cambiano entrando nell’universo animato. E così il film si collega a tutti gli altri Spiderman della Sony, in maniera molto più organica rispetto a No Way Home (2021).

Ma il collegamento più importante è anche quello che potrebbe sfuggire: Donald Glover nei panni di Prowler, che molti potrebbero essersi dimenticati che è apparso – pur con un minutaggio limitato – in Spiderman: Homecoming (2016):

Quindi già al tempo sapevamo dell’esistenza di Miles Morales nell’universo live action.

Quindi è probabile che questi due mondi – animato e live action – rimangano divisi – e che altrettanto probabilmente ci sarà un Miles Morales diverso in live action (nel già annunciato film) e un sequel di No Way Home, che sembra già essere in produzione.

Così, se tutto va bene, non faranno un disastro.

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Avventura Azione Comico Dramma romantico Drammatico Fantascienza Film Star Wars - Gli spin-off

Solo – A flop story

Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard è stato il secondo tentativo di portare una storia spin-off nell’universo di Star Wars al cinema, dopo Rogue One (2016). E con risultati molto diversi…

Non a caso fu un discreto flop: a fronte di un budget stimato di 275 milioni di dollari, ne incassò appena 392 milioni in tutto il mondo…

Di cosa parla Solo?

Il giovane Han (non ancora Solo) è imprigionato dal pianeta Corellia, sotto lo stringente controllo di Lady Proxima. Ma ha forse trovato finalmente una via di fuga…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Solo?

Chewbecca in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

Sì e no.

Solo non è un prodotto che mi sento di sconsigliare in toto, ma sicuramente non ve lo raccomando se vi è piaciuto Rogue One o se siete amanti di Star Wars: semplicemente, non è un film della saga.

È un generico film di fantascienza su cui hanno appiccicato alcuni elementi di Star Wars, con una scrittura assai banale, un protagonista che purtroppo non ha un’unghia del carisma di Harrison Ford e una storia nel complesso veramente poco appassionante…

Perché Solo è stato un flop?

Il flop di Solo è secondo me la coincidenza di diversi fattori.

Anzitutto, il periodo di uscita: a differenza di Rogue One, che arrivò in un momento di rinascita del brand, il mercato cinematografico nel 2018 era ormai saturo di Star Wars, con già cinque nuovi prodotti nel giro di pochi anni.

In secondo luogo, Solo partiva molto più svantaggiato: se il precedente spin-off era uscito dopo un film accolto abbastanza positivamente dal pubblico, questa pellicola arrivò dopo Gli ultimi Jedi (2017), prodotto che ancora oggi è incredibilmente divisivo per il pubblico.

Emilia Clarke in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

In ultimo, forse più indirettamente, la situazione dei personaggi della trilogia originale non era delle più rosee: sia Luke che Han erano ormai morti per il canone, e in particolare Harrison Ford si era prestato controvoglia al ritorno nel personaggio.

E se a tutto questo si aggiunge la scarsa qualità della pellicola…

Dove si colloca Solo?

Solo è ambientato esattamente dieci anni prima di Una nuova speranza (1977).

Cominciamo male

Alden Ehrenreich in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

Per molti tratti, ho avuto la sensazione che Solo volesse copiare spudoratamente Rogue One, ma senza capirne i punti di forza.

Infatti, l’incipit è molto simile: una sorta di prologo, a cui segue un’ellissi temporale abbastanza ampia, che purtroppo diventa totalmente irrilevante vista banalità dello sviluppo del rapporto fra Han e Qi’ra.

Ma non è finita qui.

Anche peggio è come si compone il gruppo principale della storia: sia per l’introduzione di Chewbacca, totalmente out of character, ma soprattutto con la devastante debolezza delle motivazioni che portano Tobias ad accogliere Han nella sua squadra.

Basta un così veloce scambio di battute per far passare il personaggio dal voler condannare il protagonista a morte all’includerlo in una missione così importante e pericolosa?

Il mancato interesse

Una cosa che Rogue One aveva capito molto bene è quanto sia essenziale che la storia raccontata sembri importante allo spettatore.

Se ci pensate, tutti i prodotti cinematografici di Star Wars hanno come fine ultimo qualcosa di davvero importante – solitamente la salvezza della galassia – che riesce a coinvolgere lo spettatore all’interno di una dinamica imponente e fondamentale.

Invece, perché dovrebbe importarmi della storia di Solo?

Tutta la missione non sembra altro che una side quest molto diluita, un riempimento sentito come necessario per arrivare a due ore di film e per collegare infine tutti gli elementi che caratterizzano il personaggio di Han Solo.

E non è neanche credibile.

Un film di nicchia

Alden Ehrenreich in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

Vi ricordate quando parlavamo di quanto fosse importante in Rogue One la scelta di eliminare tutti i personaggi in scena, per evitare buchi di trama incolmabili con la Trilogia Originale?

Solo non solo sbaglia in questo, ma fa gli stessi errori dei film successivi.

Andando a fare qualche ricerca, si scopre che il futuro di Q’ira dopo questa pellicola viene raccontato nell’Universo Espanso a fumetti, usciti, ovviamente, dopo La trilogia originale.

Prodotti di nicchia, per la maggior parte non conosciuti dal grande pubblico.

Emilia Clarke in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

In questo modo, si dà per scontato che lo spettatore non abbia un cortocircuito mentale vedendo il personaggio sopravvivere e non apparire nei film successivi, visto che facilmente non conoscerà i fumetti.

In questo modo, come è stato per la seconda stagione di The Mandalorian, ma anche per la futura serie di Asoka, si allontana una buona fetta di pubblico, quegli stessi casual fan (come me) che hanno di solito una conoscenza limitata ai prodotti cinematografici.

E i risultati si vedono…

Star Wars?

Alden Ehrenreich in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

E, nonostante questo, paradossalmente Solo è il film meno Star Wars che mi sia capitato di vedere in tempi recenti.

Evidentemente Ron Howard non ha la stessa eleganza e intelligenza per riuscire a rinnovare l’aspetto della saga di quella che ha dimostrato Gareth Edwards in Rogue One. Infatti, Solo presenta un’estetica molto generica, che non riesce a ricollegare visivamente la pellicola al brand, tranne per pochi elementi.

E, anche peggio, Han Solo non sembra sé stesso.

Per quanto Alden Ehrenreich si sia impegnato, non ha lo stesso carisma e iconicità di Harrison Ford, e quindi non riesce veramente a raccontare un personaggio più giovane e immaturo, portando una backstory francamente neanche così interessante, anzi…

Inutili colpi di scena

Emilia Clarke in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

Il finale di Solo vive di colpi di scena.

Ogni personaggio si scopre di avere un secondo, terzo, quarto obbiettivo o piano nascosto fino a questo momento, con una sequela di colpi di scena quasi nauseante, che sembra voler tenere lo spettatore con la bocca aperta per tutto il terzo atto.

Tuttavia, vuoi per la debolezza delle relazioni dei personaggi, vuoi per il poco interesse che la storia in generale mi ha suscitato, mi sono sentita veramente poco coinvolta, e più esasperata che sorpresa…

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Avventura Azione Comico Dramma romantico Drammatico Film Recult Road movie Spy story Thriller

Intrigo Internazionale – Il thriller comico

Intrigo internazionale (1959) – traduzione molto goffa del titolo originale North by Northwest – è una delle opere più note della filmografia di Hitchcock, nonché l’ultimo in cui lavorò con il suo attore feticcio, Cary Grant.

A fronte di un budget medio – 4,3 milioni di dollari, circa 45 oggi – incassò abbastanza bene: 9,8 milioni di dollari (circa 102 oggi).

Di cosa parla Intrigo Internazionale?

Roger Thornhill è un agente pubblicitario che viene involontariamente coinvolto in uno scambio di persona e in un intrigo spionistico…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Intrigo Internazionale?

Cary Grant in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

Assolutamente sì.

Intrigo Internazionale è uno dei titoli più interessanti della filmografia di Hitchcock, dove sperimenta in maniera particolarmente avvincente con il genere thriller, ma con importanti contaminazioni comiche e della spy story.

Una storia intrigante e piena di tensione, che mi ha ricordato molto la storia di Carl Barks Paperino e le spie atomiche (1951).

Non manca qualche piccolo inciampo sul finale, ma elegantemente camuffato da una regia intelligente e piuttosto indovinata, che mostra un Hitchcock perfettamente padrone della sua arte, proprio alle porte del suo capolavoro…

Lo strappo

Cary Grant in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

L’incipit di Intrigo internazionale è magistrale.

Si apre con una lunga sequenza che ci introduce il personaggio: un agente pubblicitario piuttosto intraprendente, pienissimo di impegni e particolarmente carismatico. Piccole scene dal sapore comico, che fanno immergere lo spettatore in atmosfere apparentemente tranquille e quotidiane…

…per poi catapultarlo nel vivo dell’azione.

Mentre Roger sta serenamente intrattenendo la tavolata, la macchina da presa si muove improvvisamente, con uno scatto repentino, per mostrare un elemento della stanza che era rimasto fuori dalla scena fino a quel momento: due loschi individui che hanno adocchiato il protagonista.

Scene vertiginose

Cary Grant in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

Così Roger si trova incastrato in una situazione da cui sembra impossibile uscire, nonostante cerchi continuamente di imporre la propria autorità.

Tuttavia, viene costretto ad una rocambolesca fuga in auto, dopo essere stato ubriacato forzatamente. E qui Cary Grant sfodera le sue incredibili capacità di attore comico, reggendo sulle spalle una scena particolarmente complessa, soprattutto considerando le tecniche disponibili al tempo.

Ma l’attore feticcio di Hitchcock riesce perfettamente a calibrare la situazione nella sua grottesca comicità, aiutato anche da abili movimenti di macchina, che Hitchcock già aveva già utilizzato nella scena analoga di Caccia al ladro (1955).

E non è finita qui.

Un Grant inedito

Cary Grant e  Eva Marie Saint in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

Forse volendo smorzare i toni dopo la tiepida accoglienza del ben più drammatico Vertigo (1958), in Intrigo Internazionale Hitchcock lascia ampio spazio alla recitazione comica.

Tuttavia, non è la solita comicità alla Hitchcock, quell’humour nerissimo che aveva avuto il suo picco in La congiura degli innocenti (1955): troviamo invece dinamiche più semplici, quasi da slapstick comedy.

Ed è qui che Cary Grant dà veramente il suo meglio.

Già molto esperto nel genere, l’attore riesce a muoversi con abilità sia nelle sequenze più drammatiche e di tensione, con il suo sguardo penetrante, sia nei momenti più apertamente comici, in particolare la spassosissima scena dell’asta.

Un’intrusione fondamentale

Cary Grant in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

Una sequenza fondamentale, posta sul finale del primo atto, è quella dedicata allo svelamento dell’intrigo.

Ma solo allo spettatore.

Una breve scenetta in cui le menti dietro al fittizio George Kaplan raccontano il loro piano, fornendo una bussola chiara allo spettatore per il seguito delle vicende. Una tecnica già utilizzata in Vertigo, che permette di continuare a seguire il protagonista nei suoi inciampi senza esasperare la tensione.

In questo modo, inoltre, si rende anche più interessante il momento di svolta in cui il personaggio diventa veramente attivo negli eventi.

Il motore necessario?

Eva Marie Saint in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

Sulle prime ho particolarmente apprezzato il personaggio di Eva.

Una scelta di casting piuttosto peculiare per Hitchcock, che si lascia alle spalle le bellezze più magnetiche di Grace Kelly quanto di Kim Novak, preferendo invece un’attrice come Eva Marie Saint, che funziona molto bene nel ruolo della donna intrigante.

Una donna di difficile lettura, che ricorda quello che sarà poi Janet Leigh in Psycho (1960).

Intorno alla stessa ho anche apprezzato il momento di indipendenza del protagonista, che diventa più furbo delle spie stesse, riuscendo momentaneamente a sbrogliarsi dall’intrigo in cui era stato coinvolto.

Cary Grant e Eva Marie Saint in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

Ho invece meno apprezzato l’idea che Roger di leghi così profondamente ad Eva, tanto da rimettersi in gioco e rischiare davvero la propria vita per salvarla, volendo ovviamente portare all’happy ending romantico.

Una costruzione che ho trovato meno convincente rispetto ad altri prodotti di Hitchcock, che come sempre include l’elemento romantico, percepito evidentemente come necessario, ma che alla fine mi è parso abbastanza debole come motore della vicenda.

Anche se…

Intrigo Internazionale finale

Il finale di Intrigo Internazionale è uno dei più indovinati della filmografia di Hitchcock.

In una scena di incredibile tensione sul Monte Rushmore, quando sembra ormai che Eva sia destinata a morire, Roger la solleva e improvvisamente la scena si riforma in un contesto ben più intimo e accogliente: il treno.

Come creare un finale positivo e senza sbavature.

Intrigo internazionale titolo originale

Il titolo originale di Intrigo internazionale è North by Northwest.

Ma cosa significa?

Letteralmente significa Da nord a nordovest, facendo riferimento al percorso del protagonista: dal Palazzo delle Nazioni Unite (New York), al monte Rushmore (Sud Dakota).

Ma, secondo alcuni critici, lo stesso prende spunto da Amleto (2,2):

I am but mad north-northwest

Non son pazzo, altro che quando il vento spira dal nord-nord-ovest

quindi rendendo il protagonista un eroe shakespeariano moderno.

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Spider-Man: Into the Spider-Verse – Un inizio inaspettato

Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman è un lungometraggio animato di produzione Sony, con protagonista l’Uomo Ragno in una veste inedita.

Un prodotto che ebbe maggior successo nel suo rilascio in streaming, a fronte di un riscontro economico non eccellente: con un budget di 90 milioni, incassò appena 375 milioni – meno del prodotto più debole della Marvel lo stesso anno, Antman and the Wasp.

Di cosa parla Spider-Man: into the Spider-Verse?

Miles Morales è un ragazzino di quattordici anni, che vive stressato dalle aspettative del padre poliziotto e nell’ammirazione dello zio, non sapendo quali strade prendere nella sua vita. Un incidente gli cambierà per sempre la vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Spider-Man: into the Spider-Verse?

Miles Morales in una scena di Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman

Assolutamente sì.

Spider-Man: into the Spider-Verse è stata una grande sorpresa per molti, soprattutto dopo il recente successo dello Spiderman di Tom Holland, e quando il multiverso al cinema era ancora solo timidamente esplorato.

Io non lo vidi in sala – per colpa anche di una distribuzione piuttosto anomala in Italia – ma lo riscoprì grazie all’ottimo passaparola un paio di anni dopo.

E ne rimasi estremamente soddisfatta: un film veramente ben scritto, con una tecnica d’animazione pazzesca ed originale, che gioca fra l’altro in maniera perfetta con l’elemento metanarrativo.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Un inizio (non) ridondante

Raccontare le origini di Spiderman non è affare da nulla.

La sua origin story è nota tanto quanto quella di Batman, e raccontarla identica per l’ennesima volta poteva apparire incredibilmente ridondante e – di fatto – noioso. Per questo Spider-Man: into the Spider-Verse ha scelto la via più intelligente.

L’autoironia.

Collegandosi direttamente – ma non troppo – a Spiderman (2002) di Raimi, riassume in prima battuta la storia dello Spiderman più canonico, per poi passare a raccontare Miles prima di tutto come personaggio e, solo dopo, come l’Uomo Ragno.

Ma c’è di più.

Non il solito Spiderman

Peter B Parker e Miles Morales in una scena di Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman

L’altro elemento di grande novità di Spider-Man: into the Spider-Verse è che Miles non è Peter Parker.

Anche se le origini sono simili, il fatto che non si tratti del medesimo personaggio permette di spaziare nella scoperta di poteri altri oltre a quelli canonici dell’Uomo Ragno, e, soprattutto, di giocare in maniera davvero interessante con la figura di Peter Parker stesso.

Se infatti Miles si aspettava di avere come mentore il suo eroe del cuore, in realtà si trova in mezzo allo psicodramma di un Peter Parker nella sua versione più fallimentare, che ha preso tutte le scelte sbagliate nella vita.

Sapore di verità

Miles Morales in una scena di Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman

L’altro elemento che ho particolarmente apprezzato è quanto Miles sia un eroe molto quotidiano.

Un aspetto che avevo già adorato in Spiderman: Homecoming (2017), prodotto però mancante – per ovvi motivi – di tutta la parte del primo approccio ai poteri del protagonista.

Una sezione invece presente sia in Spiderman (2002), sia in The Amazing Spider-Man (2012), ma che non mi aveva mai veramente soddisfatto.

In questo caso la scoperta delle nuove abilità non solo ha un taglio molto realistico e piacevole, ma è riuscita anche ad avvicinarmi emotivamente al protagonista, nella sua confusione per questa inedita situazione…

Scoprire sé stessi

Miles Morales in una scena di Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman

A primo impatto il modo in cui Miles accetta i suoi poteri potrebbe apparire forzato.

In realtà, è perfettamente coerente col personaggio.

La figura di Spiderman è legata all’istinto e ai sensi ragneschi. Per questo è del tutto comprensibile che, per riuscire a diventare effettivamente l’Uomo Ragno, il protagonista debba riuscire a fare questo salto di fede e accettare istintivamente questi poteri come propri.

E, sempre per i motivi di cui sopra, ho amato il fatto che l’estetica del suo costume è perfettamente coerente con il suo personaggio e, soprattutto, che Miles non debba crearsi – come in The Amazing Spiderman – il costume da solo, ma solo renderlo suo.

Fantastici secondari

Peni Parker, Gwen Stacy, Peter B Parker, Spiderman Noir e Piggy Parker Miles Morales in una scena di Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman

Uno dei punti di forza di Spider-Man: into the Spider-Verse sono le versioni alternative dell’Uomo Ragno.

Elemento che probabilmente – e felicemente – si confermerà anche in Spider-Man: across the Spider-Verse (2023).

Particolarmente vincente l’idea di portare in scena personaggi così tanto diversi da loro, ma pur sempre legati al canone. E un grande successo è stato anche scrivere così bene Spider-Woman, quando c’erano tutti i presupposti per renderla una Mary Sue

Ma il mio preferito è sicuramente Spiderman Noir, la versione alternativa più iconica e rimasta nel cuore degli spettatori.

Parlando invece di Peni Parker…

Peni Parker Spider-Man: Into the Spider-Verse

Capisco tutto di Peni Parker.

Capisco la necessità di inserire un ulteriore personaggio femminile in un team principalmente maschile, di fare ancora una volta un passo verso il pubblico orientale…

Ma il suo personaggio è veramente l’unica cosa che non mi è piaciuta del film.

Oltre ad essere una versione troppo diversa dal personaggio di partenza, l’ho trovata davvero di troppo, non riuscendo a comunicarmi granché, se non un sincero fastidio…

Spider-Man: into the Spider-Verse animazione

Spider-Man: into the Spider-Verse è ricordato anche per la tecnica veramente rivoluzionaria.

Un incredibile incontro fra animazione 3D e 2D, in questo caso particolarmente azzeccata per rendere – anche metanarrativamente – la dimensione fumettistica.

Una boccata d’aria fresca all’interno di produzioni animate ormai abbastanza standardizzate, che ha aperto la porta anche ad altre interessanti sperimentazioni in questo senso.

Fra le più interessanti, la serie Arcane (2021 – …) e Il gatto con gli stivali 2 – L’ultimo desiderio (2022).