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Rogue One – Una falsa speranza

Rogue One (2016) di Gareth Edwards è un film prequel spin-off di Star Wars.

Un progetto piuttosto ambizioso, facente parte dei piani iniziali della Disney di portare un prodotto di Star Wars all’anno – nel 2015 era uscito Il risveglio della forza.

E fu anche un grande successo: a fronte di un budget fra i 200 e i 265 milioni, incassò più di un miliardo in tutto il mondo.

Di cosa parla Rogue One?

Galen Erso è un ex-scienziato al servizio dell’Impero, che viene scovato dalle forze imperiali per tornare a lavorare ad un certo progetto oscuro…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena vedere Rogue One?

Felicity Jones in una scena di Rogue One (2016) di Gareth Edwards

Assolutamente sì.

Rogue One è indubbiamente il miglior prodotto concepito dopo la Trilogia Originale.

Il suo grande pregio è il riuscire a raccontare finalmente una storia diversa dal solito coming of age di un membro sconosciuto della famiglia Skywalker, segretamente lo Jedi che salverà la Galassia – come è stato fatto, pur rimescolando le carte, con tutti gli altri prodotti della trilogia prequel e sequel.

Purtroppo, fa anche un po’ di tristezza vedere questo prodotto con la consapevolezza di quanto sarebbe arrivato dopo: una bellissima, ma falsa speranza della rinascita del brand…

Dove si colloca Rogue One?

Rogue One ha una collocazione molto precisa all’interno della timeline di Star Wars: si ambienta nei giorni immediatamente precedenti all’inizio di Una nuova speranza (1977).

Cominciare dal nulla

Felicity Jones in una scena di Rogue One (2016) di Gareth Edwards

La bellezza del personaggio di Jyn è il suo percorso di maturazione.

Una ragazza già piuttosto adulta, che vive una sostanziale indifferenza, se non addirittura un antagonismo, per tutto quello che riguarda la Ribellione. E questo la porta a vivere solo per sé stessa, come una criminale qualunque.

Il cambio di passo è scatenato in particolare dal confronto con le due figure paterne che l’hanno portata al suo annullamento: Saw e il padre, Galen Erso.

Felicity Jones in una scena di Rogue One (2016) di Gareth Edwards

Da entrambi si è sentita abbandonata e tradita, anche se per motivi diversi.

Viene così spinta ad un rincontro forzato, che però le permette di ricucire quelle ferite che l’avevano così profondamente colpita, comprendendo che invece entrambi si erano sacrificati e prodigati per la sua salvezza.

In particolare, vedendo il messaggio del padre, si riaccende in Jyn quel fuoco interiore da tempo sopito, che la fa diventare il protagonista più importante della Ribellione – senza il quale, di fatto, la vittoria contro l’Impero non sarebbe potuta avvenire.

Il buon fan service

Carrie Fisher in una scena di Rogue One (2016) di Gareth Edwards

Uno dei meriti maggiori di Rogue One è non solo il riuscire a raccontare una storia inedita, anche di andarsi a collocare perfettamente all’interno dell’universo di Star Wars.

Per quanto ci siano alcuni elementi ripescati dal canone di riferimento – il protagonista che ha un padre apparentemente malvagio, la presenza di uno Jedi, un robot a cui è affidata la linea comica del film – niente è forzato o eccessivo.

Inoltre, Gareth Edwards è riuscito ad aggiornare l’estetica della saga senza stravolgerla, ma apportando interessanti cambiamenti così che non sembrasse – come si è cercato di fare in altri film successivi – una sostanziale copia di quanto venuto prima.

Darth Vader in una scena di Rogue One (2016) di Gareth Edwards

Complessivamente i momenti di fanservice – se così vogliamo chiamarlo – rappresentano una porzione minuscola della pellicola, e sono comunque inseriti in maniera intelligente, con la funzione principalmente di contestualizzare la storia, più che di far emozionare i fan.

Inoltre, Rogue One racconta una storia effettivamente importante, che, invece che cambiare, arricchisce nel complesso la saga, andando a spiegare in maniera interessante e credibile un elemento che effettivamente poteva apparire forzato.

Ed è quasi ironico che abbiano usato lo stesso anche in L’ascesa di Skywalker pochi anni dopo…

Il domino

Forest Whitaker in una scena di Rogue One (2016) di Gareth Edwards

Rogue One è anche un film straziante.

È angosciante quanto dovuto vedere alla fine tutti i personaggi che muoiono.

Ma, appunto, non si poteva fare altrimenti: non si è voluto per questo film rischiare alcun tipo di forzatura, né di far sorgere domande per le quali, per ovvi motivi, non si sarebbe potuto dare una risposta.

In breve, se nessuno di questi personaggi appare nella Trilogia Originale, deve morire.

Tuttavia, l’eleganza di questo film sta non solo nel dare ad ognuno di loro una morte importante e che rimanga nella mente dello spettatore, ma anche nel saper concludere la pellicola con un aggancio al canone geniale quanto rincuorante.

Hope.

Speranza.
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Alfred Hitchcock Avventura Azione Dramma familiare Drammatico Film Spy story Thriller

L’uomo che sapeva troppo – La coppia maledetta

L’uomo che sapeva troppo (1956) è uno dei titoli più noti della filmografia di Hitchcock, nonché il remake del film omonimo che aveva diretto nel 1934.

A fronte di un budget medio – 1,2 milioni, circa 13 oggi – incassò tutto sommato molto bene: 11,3 milioni di dollari – circa 126 oggi.

Di cosa parla L’uomo che sapeva troppo?

Ben e la moglie Jo sono in vacanza in Marocco. Per via di una serie di avvenimenti, vengono coinvolti in un intrigo spionistico internazionale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’uomo che sapeva troppo?

James Stewart e Doris Day in L'uomo che sapeva troppo (1956) di Alfred Hithcock

In generale, sì.

L’uomo che sapeva troppo è un titolo in parte atipico nella filmografia di Hitchcock, anzitutto per la famiglia protagonista, che ha un ruolo incredibilmente centrale nella pellicola – forse anche troppo…

Inoltre, nonostante forse la lunghezza appaia eccessiva, ha una perfetta costruzione del mistero e soprattutto della tensione, anche grazie a una coppia di attori fenomenali: oltre al già noto James Stewart, è il primo film che ho visto con Doris Day, semplicemente perfetta nella parte.

Insomma, dategli un’occasione.

Una coppia atipica

James Stewart e Doris Day in L'uomo che sapeva troppo (1956) di Alfred Hithcock

Un elemento che mi ha sorpreso de L’uomo che sapeva troppo è la coppia protagonista.

Solitamente – almeno per mia esperienza – al centro delle pellicole di Hitchcock vi è sempre un eroe maschile affiancato da un personaggio femminile, con cui andrà infine a formare una coppia – si può vedere ad esempio in Notorious (1946) e in La finestra sul cortile (1954).

In questo caso invece marito e moglie sono ugualmente motori della storia, anzi si alternano in questo ruolo. Ovviamente Ben è comunque più protagonista della moglie, ma non vi è un significativo sbilanciamento a suo favore.

Anzi, Jo è la prima ad accorgersi che c’è qualcosa di strano…

Un MacGuffin?

Daniel Gélin in L'uomo che sapeva troppo (1956) di Alfred Hithcock

Hitchcock è famoso per l’uso del macguffin, in particolare nell’iconico caso di Psycho (1960).

Non so se Louis Bernard può essere considerato tale, ma vi si avvicina molto: inizialmente sembra un personaggio fondamentale della trama, probabilmente l’antagonista contro cui gli eroi si dovranno scontrare.

Ma poi, improvvisamente, esce di scena.

E così il motore dell’azione passa da lui alla coppia dei protagonisti, in particolare a Ben. Di conseguenza, se prima Bernard era l’uomo che sapeva troppo, adesso questo ruolo passa al dottore protagonista – e, in parte, alla moglie.

Nonostante, ironicamente, per buona parte della pellicola sappiano molto poco di quello che sta succedendo…

La costruzione della tensione

Doris Day in L'uomo che sapeva troppo (1956) di Alfred Hithcock

La costruzione della tensione mi ha convinto a metà.

Da una parte ho davvero apprezzato il percorso dei personaggi: persone comuni che si trovano coinvolte in una storia più grande di loro, costretti pure ad agire da soli. E così non mancano le false piste, le incomprensioni…

E, soprattutto, le situazioni di stallo.

Davvero magistrale la scena del teatro, in cui Jo si trova immobilizzata dalla paura e dall’indecisione, con davanti agli occhi il delitto che si sta per compiere, di cui lei è sostanzialmente complice…

E Doris Day è stata perfetta nel trasmettere lo struggimento di quel personaggio.

Bernard Miles e Mogens Wieth in L'uomo che sapeva troppo (1956) di Alfred Hithcock

Al contempo, non ho del tutto gradito altre sequenze in questo senso.

Prima di tutto il malinteso con Ambrose Chappell, che crea una tensione eccessiva per essere solamente una parentesi che fa perdere tempo al protagonista, facendoci sospettare per tutto il tempo che lui sia il vero colpevole.

Avrebbe funzionato meglio se fosse stata una scena dal sapore comico.

Allo stesso modo, Hank, benché sia fondamentale, ha uno spazio eccessivo: il suo salvataggio personalmente mi è sembrato un allungamento sproporzionato della trama, saltando da momento di tensione a momento di tensione…

L’uomo che sapeva troppo finale

Il finale è il momento in cui Hitchcock riesce a soddisfarmi o a deludermi a fasi alterne.

Non ho apprezzato il momento quasi melenso in chiusura a Io ti salverò (1945) – che tagliava un momento registico perfetto – mentre mi è piaciuta di più la conclusione piena di tensione di Notorious.

In questo caso Hitchcock sceglie di chiudere la sua pellicola con un momento comico particolarmente indovinato, che scioglie la tensione che aveva dominato fino a quel momento la storia.

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Star Wars: La vendetta dei Sith – Il riscatto

Star Wars: La vendetta dei Sith (2005) è il terzo capitolo della cosiddetta trilogia prequel, sempre scritto e diretto da George Lucas.

Dopo il drammatico calo di incassi del precedente capitolo, Episodio III riuscì a riconquistare parte del pubblico: con un budget di 113 milioni di dollari, ne incassò ben 868 milioni in tutto il mondo

Di cosa parla Star Wars: La vendetta dei Sith?

Tre anni dopo l’inizio della guerra dei Cloni, le forze separatiste rapiscono il Cancelliere Palpatine, e Obi-Wan e Anakin devono salvarlo. Ma niente è come sembra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena Star Wars: La vendetta dei Sith?

Yoda in una scena di Star Wars: La vendetta dei Sith (2005) di George Lucas

Con mia grande sorpresa, sì.

Personalmente considero La vendetta dei Sith il film migliore della trilogia prequel, che riesce complessivamente a trattare con intelligenza la costruzione del finale della trilogia, e a ricollegarlo coerentemente con i film successivi.

Ovviamente non mancano alcune forzature e momenti di puro ed ingenuo fanservice, ma il film si salva sia per un visibile miglioramento nella recitazione di Hayden Christensen, sia per diversi momenti assolutamente iconici.

Insomma, potreste rimanerne soddisfatti.

I tre anni fondamentali

Hayden Christensen e Ewan McGregor in una scena di Star Wars: La vendetta dei Sith (2005) di George Lucas

In questo capitolo conclusivo, finalmente sono riuscita ad apprezzare Anakin.

Il giovane Padawan non è più il personaggio totalmente immaturo e fortemente emotivo di Episodio II, ma uno Jedi ben più adulto e consapevole delle sue potenzialità.

Tuttavia, pur consapevole che il racconto dei tre anni fra questo film e il precedente è presente nella serie Clone Wars, durante la visione ho percepito ancora una volta un senso di vuoto.

Nonostante, infatti, come prodotto mi abbia soddisfatto, riguardandomi indietro avrei preferito una costruzione del tutto diversa della storia, che permettesse di arrivare ad un finale basato su solide fondamenta.

E questo si vede soprattutto nel punto focale della narrazione…

Una costruzione forzata?

Hayden Christensen e Natalie Portman in una scena di Star Wars: La vendetta dei Sith (2005) di George Lucas

Una critica spesso mossa nei confronti di questo film è la conversione fin troppo fulminea di Anakin al lato oscuro.

Io mi trovo in una posizione di mezzo.

Sicuramente la trasformazione del protagonista poteva essere costruita decisamente meglio, ma le colpe sono da attribuire principalmente ai film precedenti: nei primi due capitoli mancano basi ben più solide che raccontino non tanto il carattere turbolento di Anakin, ma il suo rapporto con Palpatine.

Hayden Christensen e Natalie Portman in una scena di Star Wars: La vendetta dei Sith (2005) di George Lucas

In La vendetta dei Sith per questo si è dovuti partire quasi da zero per costruire la loro relazione, con Darth Sidious che comincia ad avvelenare la mente di Anakin, facendo leva non tanto sulla sete di potere del protagonista, ma sulla sua paura per il destino Padmé.

Ed è anche qui il problema.

La scelta di passare al lato oscuro di Anakin è basata per la maggior parte sul salvare la donna amata, peccato che il loro rapporto sia molto più secondario in questa pellicola e non sia stato costruito così profondamente nei precedenti capitoli.

E così manca un vero coinvolgimento emotivo al riguardo…

Una maggior organicità

Hayden Christensen e Ewan McGregor in una scena di Star Wars: La vendetta dei Sith (2005) di George Lucas

Finora mi era sempre mancata una buona gestione dell’elemento più iconico della saga di Star Wars, ovvero i combattimenti con le spade laser: solitamente gli stessi si perdevano all’interno del marasma della battaglia finale.

In questo caso invece sono presenti diversi duelli, ben distribuiti nel complesso della pellicola, con scene dal sapore epico e monumentale – aspetto che non sempre ho percepito nei primi due film.

Hayden Christensen in una scena di Star Wars: La vendetta dei Sith (2005) di George Lucas

Ovviamente, l’iconico duello fra Anakin e Obi-Wan è il punto più alto della pellicola.

Uno scontro in cui si percepisce davvero l’epicità e la monumentalità di questo momento storico, con l’avvincente cornice del pianeta lavico, che racconta già da solo la natura di Anakin e del lato oscuro: una potenza attraente, ma incredibilmente pericolosa.

Inoltre, per la prima volta mi è finalmente piaciuto il rapporto fra i due personaggi, che avevo invece trovato eccessivamente velenoso nei precedenti capitoli. Anche qui avrei preferito una migliore costruzione, che portasse davvero ad un doloroso momento di scontro, ma mi posso accontentare…

Trilogia prequel fanservice

Come per i precedenti capitoli, anche La vendetta dei Sith è un film schiavo del fanservice.

In questo caso però mi è sinceramente dispiaciuto vedere diversi momenti e diversi snodi narrativi che mancano di spiegazioni adeguate – o di spiegazioni in generale – lasciando diverse domande senza una risposta chiara.

Fra le tante, perché Padmé sceglie proprio quei nomi per i suoi figli? Qual è il senso dell’armatura di Anakin, così facilmente pronta all’occorrenza nel momento del bisogno?

Questioni di per sé non estremamente rilevanti, ma che sarebbero state ben più interessanti se spiegate adeguatamente…

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Star Wars: L’attacco dei cloni – Il capitolo della resa

Star Wars: L’attacco dei cloni (2002) di George Lucas è il secondo capitolo della cosiddetta trilogia prequel.

Il budget fu lo stesso del primo capitolo – 115 milioni – ma guadagnò quasi la metà: appena 645 milioni di dollari.

Di cosa parla Star Wars: L’attacco dei cloni?

Dieci anni dopo Episodio I, Anakin è un giovane Padawan pieno di dubbi, e che non riesce a smettere di pensare a Padmé…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Star Wars: L’attacco dei cloni?

Natalie Portman in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Dipende.

Nonostante complessivamente abbia apprezzato un pochino di più questo capitolo rispetto al precedente, non mi ha lasciato un buon sapore in bocca. In questo film infatti si intraprende definitivamente la via più banale e meno interessante per raccontare un personaggio essenziale come Anakin.

Tuttavia, perlomeno il film dedica uno spazio importante ad Obi-Wan, con una storyline complessivamente interessante – soprattutto nel complesso della lore di Star Wars. Non un elemento che riesce a risollevare il mio entusiasmo, ma sicuramente meglio della noia che mi ha procurato il primo capitolo…

Insomma, se volete affrontare la trilogia prequel fino in fondo, dovete passare anche di qua.

Manca un pezzo?

Natalie Portman, Ewan McGregor e Hayden Christensen in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Cominciando L’attacco dei cloni, ho avuto un senso di vuoto.

Mi è stata sostanzialmente confermata la sensazione che Episodio I sia un prodotto sprecato, almeno per quanto riguarda la caratterizzazione del protagonista – che era l’elemento centrale nella trilogia originale.

Infatti, Anakin ci racconta tutte le sue problematiche e i suoi dilemmi solamente a parole, affrontando anche questioni piuttosto importanti – il sentirsi pronto all’essere un maestro ma non poterlo diventare, il suo sentirsi sottovalutato…

Hayden Christensen in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Insomma, l’idea alla base di questo capitolo centrale era di mostrare una maturazione – anche negativa – del personaggio, in particolare attraverso il tentativo di ricongiungimento tanto desiderato con la madre.

Tuttavia, neanche in questo caso a mio parere si è fatto centro: mi viene onestamente da chiedermi cosa servisse questa costruzione estremamente melodrammatica, se non a portare, ancora una volta, alla più banale caratterizzazione del personaggio come spietato e schiavo delle emozioni.

Hayden Christensen in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Rimango insomma dell’idea che manchi un pezzo fondamentale, che permettesse di rendere veramente tridimensionale questo importantissimo personaggio, che è stato fondamentalmente rovinato da una scrittura poco indovinata e da una recitazione molto approssimativa.

Tanto più che di fatto Anakin non è altro che un ragazzino, pieno di emozioni e incapace di canalizzarle correttamente. Ormai purtroppo con questo capitolo mi sono arresa all’idea che questa sia la strada scelta, ma non posso che soffrire la mancanza di un approccio ben più profondo e vincente…

Un amore senza basi

Hayden Christensen e Natalie Portman in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Per lo stesso motivo di cui sopra, la storia d’amore è monca.

Era evidente che Lucas avesse bisogno di questa relazione per giustificare quanto successo dopo, ma si è dimenticato di introdurla. Infatti, mi vengono i brividi anche solo a pensare che l’innamoramento sia sbocciato quando Anakin era ancora un bambino…

Ho percepito la volontà di Lucas di togliere questo pensiero dalla mente dello spettatore: all’inizio Padmé vede Anakin ancora come un bambino. Tuttavia, questo elemento si mette facilmente da parte davanti all’evidente insistenza del ragazzo – e nient’altro…

Al contempo, ho trovato del tutto ingiustificata la reazione della ragazza quando il futuro Darth Veder le racconta di aver sterminato un intero villaggio, anche di innocenti, evidente foreshadowing della sua malvagità.

Un elemento chiarissimo allo spettatore, non pervenuto per Padmé…

Per fortuna c’è Obi-Wan

Ewan McGregor in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Ma, nonostante tutto, Episodio II mi è piaciuto più del precedente.

Oltre al fatto che la trama politica sembra molto meno fine a sé stessa e già più interessante, ho trovato anche piuttosto intrigante la storyline di Obi-Wan, con la sua caccia al mistero – e ai cloni – piena di tensione e di colpi di scena.

Forse uno degli elementi più vincenti della trilogia prequel è stato infatti il riuscire ad approfondire questo personaggio – che aveva uno screentime piuttosto limitato in Una nuova speranza e – finora – un passato assai misterioso.

Al contempo però ho poco apprezzato il continuo e costante contrasto, quasi velenoso, fra Obi-Wan e il suo Padawan: ne comprendo la funzione, ne comprendo i fini, ma mi sembra ancora una volta scegliere la via più facile e banale…

Sempre alla fine…

Natalie Portman, Ewan McGregor e Hayden Christensen in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Come per il precedente, tutta l’azione è concentrata nel finale.

E ancora una volta mi sono trovata davanti ad un lungo ed impegnativo combattimento conclusivo, che ho trovato personalmente sempre troppo dispersivo e troppo lungo, risvegliando il mio interesse effettivamente solo negli ultimi momenti.

In particolare, con lo scontro fra Yoda e Doku.

Uno duello davvero emozionante e pieno di colpi di scena, che riporta al centro della scena uno dei miei personaggi preferiti – Yoda – che purtroppo arriva dopo una sequela combattimenti molto meno soddisfacenti, financo ridicoli pensando al comportamento di Anakin…

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2023 Avventura Azione Cinecomic Comico Dramma romantico Drammatico Fantascienza Film Guardiani della Galassia MCU Nuove Uscite Film Oscar 2024 Racconto di formazione

Guardiani della Galassia Vol. 3 – Farewell?

Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) è l’ultimo (?) capitolo della trilogia omonima creata e diretta da James Gunn per l’MCU.

A fronte di un budget piuttosto importante di 250 milioni di dollari, è stato il quarto maggior incasso del 2023, con 845 milioni di dollari al botteghino.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023)

in neretto le vittorie

Migliori effetti speciali

Di cosa parla Guardiani della Galassia Vol. 3?

Subito dopo lo Speciale di Natale, i Guardiani si trovano nella loro base, ma improvvisamente una nuova minaccia fa capolino…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Guardiani della Galassia Vol. 3?

Chris Pratt in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

In generale, sì.

Guardiani della Galassia Vol. 3 è un film fatto davvero apposta per i fan – dell’MCU, ma soprattutto del brand. Al punto che, per godere appieno della visione, è quantomai necessario vedere lo Speciale di Natale rilasciato nel 2022: la vicenda prende le mosse proprio da lì.

In generale, è un film che lavora moltissimo sul lato emotivo, con l’evidente intenzione – purtroppo per ovvi motivi – di chiudere dignitosamente tutti i personaggi, rischiando però in molti punti di forzare certe caratterizzazioni…

Ma, se siete fan dei Guardiani, ve ne innamorerete.

Il protagonista assente?

Rocket in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Una particolarità di Guardiani della Galassia Vol. 3 è il cambio di protagonista.

Nonostante infatti si cerchi di dare più o meno spazio a tutti, il centro emotivo non è più Star Lord, ma Rocket e il suo passato. Tuttavia, il personaggio è assente dalla scena per la maggior parte della pellicola, vivendo solamente nei flashback.

Una storia piuttosto dolorosa, che ridimensiona il personaggio e lo porta su binari meno esplorati finora, con un’inedita crudeltà che domina la scena – pur perfettamente nascosta grazie ad una tecnica registica estremamente abile.

Rocket in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Per quanto mi sia profondamente emozionata nel veder raccontare la sua storia – che ha toccato tutti i tasti giusti – d’altra parte un po’ mi è dispiaciuto vedere così poco in scena quel Rocket a cui ero abituata finora, uno dei miei personaggi preferiti dei Guardiani…

Ma ho comunque apprezzato che la missione della pellicola fosse il suo complesso e intricatissimo salvataggio, preferendola ad una narrazione più tipica con il villain di turno da sconfiggere – soprattutto per il collegamento emotivo che è riuscito a creare.

E a questo proposito…

Il villain nelle retrovie

Will Poulter in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Adam Warlock, interpretato dalla stella nascente Will Poulter, era stato venduto se non come il villain principale, sicuramente come una figura importante nel film.

E invece è tutto il contrario.

Un personaggio che è stato quasi sicuramente riscritto e di gran lunga ridimensionato, diventando una sorta di antagonista di contorno, con una caratterizzazione piuttosto abbozzata ed un arco evolutivo altrettanto debole.

Per quanto non avrei personalmente voluto che fosse più centrale nella scena – anzi, l’avrei direttamente eliminato – mi dispiace per l’attore, per cui questo film doveva essere probabilmente un punto di svolta per la sua carriera…

Ma parlando del vero villain…

Un villain per ogni occasione

Chukwudi Iwuji  in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Ho decisamente apprezzato l’Alto Evoluzionario.

Come nel precedente capitolo, Gunn ha scelto di scrivere un villain che fosse profondamente legato ad uno dei personaggi. E questo carattere così altalenante, che passa da una finta docilità ad una rabbia distruttiva, unito al suo totale disinteresse per il valore della vita, ai miei occhi l’ha avvicinato ad un altro villain importantissimo dell’MCU.

Thanos.

Anche se ovviamente l’Alto Evoluzionario non ha la medesima profondità ed importanza, presenta la stessa malvagità giustificata del villain della Saga dell’Infinito, in questo caso nel ruolo di un dio generoso quanto vendicativo. E l’ottima performance di Chukwudi Iwuji ha fatto il resto.

I secondari al centro

Mantis in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Dovendo dire addio per sempre ai suoi personaggi, James Gunn ha voluto dare ad ognuno un proprio arco evolutivo ed una conclusione.

L’esempio più evidente è Mantis.

Personaggio introdotto come secondario in Guardiani della Galassia Vol. 2, con un ruolo da protagonista nello speciale, Mantis ha un’evoluzione essenziale quanto brusca: viene emotivamente più approfondita, diventando al contempo anche quasi aggressiva.

Inoltre, si scopre come i suoi poteri possano essere essenziali non solo come supporto emotivo per il gruppo, ma anche all’interno degli stessi combattimenti e delle intrusioni. E da quello ne deriva il suo finale: l’inizio di un viaggio per riscoprire sé stessa.

Drax in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Drax è un discorso a parte.

Il suo personaggio di per sé non ha un cambiamento significativo, anzi rimane per certi versi troppo uguale a sé stesso. Infatti, la sua comicità è fondamentalmente sempre identica: indubbiamente divertente ma, arrivati al terzo film, non ugualmente brillante come poteva apparire all’inizio…

Ma la parte importante è il suo finale: al pari di Star Lord, anche Drax capisce che è il momento di fermarsi, non essere più Il Distruttore, ma un padre per la nuova famiglia che si è creato. E, anche se è fin troppo didascalica, è comunque una conclusione che mi è parsa coerente e che ho nel complesso apprezzato.

Un protagonista indebolito?

Chris Pratt e Zoe Saldana in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

In questo capitolo, Star Lord è un personaggio estremamente legato all’emotività.

Sia per il salvataggio di Rocket – di cui è il principale motore – sia per la relazione con Gamora. Se per certi versi la sua rappresentazione è forse troppo melensa e il suo rapporto con l’ex-compagna troppo insistente, probabilmente non si poteva fare diversamente.

Infatti, Peter aveva mostrato fin da subito un interesse per una ragazza che faticava anche solo ad accettarlo nella sua vita, con un rapporto, soprattutto sulle prime, assai antagonistico – in particolare da parte di Gamora – che si risolveva solo alla fine del secondo capitolo.

Zoe Saldana in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Tuttavia, ho personalmente apprezzato la conclusione.

Gunn ha scelto saggiamente di non abbassarsi alle dinamiche più tipiche da commedia romantica, con un ricongiungimento amoroso sul finale, magari costruito in maniera pure poco credibile e interessante.

Si mostra invece come Gamora ritorni ad un’altra famiglia, quella che ha ritrovato in questa realtà, e che non deve per forza di nuovo legarsi né a Quill né ai Guardiani – e trovando come loro una inaspettata nuova forma.

Ci saranno altri film sui guardiani della galassia?

All’indomani dell’uscita di Guardiani della Galassia Vol. 3, la maggior parte degli attori ha chiuso le porte a future partecipazioni alla saga.

Zoe Saldana (Gamora) non ha dimostrato ulteriore interesse per l’MCU – e, essendo legata all’estremamente redditizio brand di Avatar, non ne ha francamente neanche bisogno…

Dave Bautista (Drax) ha scelto una via più drammatica per la sua carriera – recentemente come protagonista di Army of the Dead (2021) e Bussano alla porta (2022). Gli altri due personaggi – Mantis e Nebula – per quanto interessanti, non sono così tanto di richiamo da farli riapparire né in singolo né in gruppo.

Come se non bastasse, Sean Gunn, fratello del regista, non solo interpreta l’ex-ravager Kraglin, ma dà anche le movenze a Rocket – e non è da sottovalutare la sua eventuale, ma quasi scontata, assenza…

Una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Quindi è l’ultimo film sui Guardiani?

Secondo me, per tutti i motivi di cui sopra, sì.

E questo anche perché questo brand è troppo legato alla figura di James Gunn, che nel prossimo futuro avrà decisamente molte e altre gatte da pelare…

Tuttavia, rimane la questione Star Lord – che, a quanto pare, ritornerà. Visto l’andamento di carriera di Chris Pratt, che avuto i suoi momenti più economicamente interessanti solo legandosi a grandi brand, non mi stupisce che abbia stretto un altro accordo con l’MCU.

Ma, per quali prodotti, è ancora un grande mistero…

Dove si colloca Guardiani della Galassia 3?

Come i precedenti capitoli di Guardiani della Galassia, anche il terzo film della saga è totalmente autonomo.

E, nonostante sembri che siano passati solo pochi mesi da Guardiani della Galassia (2014), il film si colloca nel 2024, quindi sia dopo Endgame (2019), sia dopo lo Speciale di Natale.

È il secondo film della Fase Cinque.

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Star Wars: La minaccia fantasma – Un tiepido inizio

Star Wars: La minaccia fantasma (1999) di George Lucas – denominato retroattivamente Episodio I – è il primo capitolo della cosiddetta trilogia sequel.

Già con questo film – come prevedibile – il budget aumentò notevolmente, e di conseguenza anche gli incassi: si portò a casa più di un miliardo di dollari in tutto il mondo, a fronte di un budget di appena 115 milioni.

Di cosa parla Star Wars: La minaccia fantasma?

Diversi decenni prima di Una nuova speranza, il Maestro Jedi Qui-Gon Jinn e il suo giovane Padawan, Obi-wan Kenobi, si recano in missione diplomatica con la Federazione. Ma la negoziazione non va come si aspettano…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Star Wars: La minaccia fantasma?

Keira Knightley in una scena di Star Wars: La minaccia fantasma (1999) di George Lucas

Dipende.

Personalmente La minaccia fantasma è il capitolo che meno apprezzo complessivamente di tutta la saga di Star Wars – secondo forse solo a L’ascesa di Skywalker (2019). E, più in generale, non apprezzo la trilogia prequel per diversi motivi. E non è neanche il capitolo da cui consiglierei di partire ad un neofita.

In realtà, per la visione di Star Wars mi limiterei alla saga originale.

Tuttavia, se volete fare i completisti e avere una visione d’insieme almeno dell’universo cinematografico della galassia lontana lontana, guardatelo – magari potrebbe pure piacervi. Se invece non sapete niente di Star Wars, ho qui una guida pronta per voi.

Un eroe già formato

Liam Neeson e Jake Lloyd in una scena di Star Wars: La minaccia fantasma (1999) di George Lucas

Nonostante il personaggio di Anakin sia universalmente odiato per la scarsa interpretazione di Hayden Christensen nei successivi capitoli, io vado controcorrente e vi dico che non lo sopporto già da Episodio I.

La bellezza di Luke come protagonista era proprio la sua propensione alla Forza, che però doveva essere modellata per farne un Cavaliere Jedi, così da riuscire anche a sconfiggere i suoi demoni.

Al contrario, Anakin viene raccontato subito come il prescelto e come il classico insopportabile bambino prodigio.

Liam Neeson e Natalie Portman in una scena di Star Wars: La minaccia fantasma (1999) di George Lucas

Mi rendo conto della necessità di introdurre il futuro antagonista della saga come dotato di incredibili poteri, raccontandone fin da subito la potenziale pericolosità, così da rendere gli spettatori affezionati quasi complici della disfatta futura.

Tuttavia, avrei preferito che non si scegliesse la strada più semplice.

Infatti, di per sé il giovanissimo Anakin non si dimostra tanto sensibile alla Forza, ma più che altro un prodigio in tutt’altro, cercando di fare una sorta di foreshadowing alle capacità che poi saranno anche proprie del figlio.

E, come se non bastasse, in questo film è quasi un secondario.

La politica al centro

Keira Knightley e Natalie Portman in una scena di Star Wars: La minaccia fantasma (1999) di George Lucas

Per tutta la visione della pellicola, ho avuto come la sensazione che non sapessero cosa raccontare.

Infatti, la trama gira principalmente intorno a questa intricata situazione politica, che ho personalmente trovato più noiosa che intrigante. Inoltre, è evidente che la stessa serve ad introdurre il personaggio di Palpatine e la sua ascesa al potere…

…ma anche per questo avrei preferito una gestione diversa.

Yoda in una scena di Star Wars: La minaccia fantasma (1999) di George Lucas

Tanto più che in questo modo le vicende di Anakin diventano quasi secondarie ed accessorie, puramente introduttive. Fra l’altro inserendo una complessa costruzione narrativa che porta alla sua liberazione da schiavo, che io avrei serenamente evitato.

Ed è ancora più paradossale che la vicenda politica appaia centrale, pur essendo di fatto superflua nel grande schema della trilogia, oltre a proseguire assai lentamente e a mettere in secondo piano anche l’importantissimo personaggio di Obi-Wan.

Era così difficile una più semplice, ma efficace gestione alla Episodio IV?

Dove sono i Jedi?

Natalie Portman, Liam Neeson, Ewan McGregor e Jake Lloyd in una scena di Star Wars: La minaccia fantasma (1999) di George Lucas

La così ampia presenza della trama politica è soffocante anche per uno degli elementi più iconici della saga.

I combattimenti con le spade laser.

Se ne vedono infatti non più di due – uno molto veloce all’inizio, poi l’ampia scena dello scontro sul finale. E, se comunque il duello con Darth Maul è piuttosto spettacolare, si trova all’interno di una sequenza di combattimento davvero troppo dispersiva.

In generale, sono rimasta veramente stupita per come, per certi versi, questo film si auto saboti: se insiste – in maniera anche abbastanza patetica – su diversi momenti di puro fanservice, al contempo si dimentica di quello che rendeva questa saga così interessante…

Jar Jar Binks Star Wars

Con questa sezione voglio aprire e chiudere la questione di Jar Jar Binks.

Il suo personaggio è uno degli elementi più odiati della saga prequel secondo solo alla recitazione di Hayden Christensen. E i motivi sono piuttosto evidenti: è un personaggio che vorrebbe essere buffo, ma che risulta solo insopportabile e fastidioso.

Un chiaro esempio di un tentativo davvero fallimentare di introdurre una spalla comica, che facesse le veci di C-3PO e R2-D2 per la saga originale. Tuttavia, ne risulta un personaggio che non ha un’unghia del fascino dei suddetti…

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Peter Pan & Wendy – Peter, dove sei?

Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery è il live action Disney tratto dal classico del 1953 e dall’opera teatrale di J. M. Barrie – almeno sulla carta.

Il film è stato rilasciato direttamente su Disney+.

Di cosa parla Peter Pan & Wendy?

Wendy è una giovane donna che sta per partire per un collegio lontano da casa, ma già rimpiange la sua vita da bambina, quando era tutto più semplice…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Peter Pan & Wendy?

Ever Anderson in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

Dipende.

Se volete vedere un film su Peter Pan, decisamente no: Peter Pan & Wendy, semplicemente, non parla di questo. Si tratta di tutto un altro tipo di storia, dal piglio fortemente drammatico, con al centro il racconto di un’amicizia – e non fra Peter e Wendy.

Il tutto condito da un girl power al limite del nauseante, che dimostra ancora una volta l’incapacità della Disney nel trattare temi delicati e nel metterli in scena in maniera credibile – e questo sia per i personaggi femminili, sia in generale per tutte le rappresentazioni inclusive.

Io vi ho avvertiti.

Uccidiamo Peter Pan!

Alexander Molony in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

Peter Pan & Wendy sembra vivere del desiderio di togliere Peter di scena.

Per ben due volte il personaggio viene considerato morto, riapparendo magicamente praticamente solo nelle scene in cui è strettamente necessario per portare avanti quello scampolo di trama presente nel film.

Per il resto, il film vuole solo parlare di Wendy.

E neanche bene.

Alexander Molony e Ever Anderson in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

Manca del tutto una costruzione emotiva del rapporto fra lei e Peter, che sembrano quanto più divisi per la differenza di età: nonostante gli attori siano sostanzialmente coetanei, Peter sembra avere l’età dell’opera originale – un preadolescente – mentre Wendy dovrebbe avere almeno 15 anni.

In questo senso si sarebbe potuto lavorare sulla costruzione di un rapporto fra loro due come sorella maggiore e fratello più piccolo – come era accennato proprio nell’incipit del film. Ma niente di tutto questo: semplicemente, il loro rapporto non esiste.

Ma parliamo di Wendy.

Non voglio crescere

Ever Anderson in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

Il personaggio di Wendy poteva essere riscritto in diverse direzioni.

All’inizio viene raccontato come la ragazza stia affrontando un momento di passaggio piuttosto fondamentale per la sua vita, ovvero andare a vivere lontano da casa. Troviamo quindi una Wendy già piuttosto matura rispetto alle precedenti trasposizioni – elemento che non sarebbe stato problematico di per sé.

In realtà i problemi sono molteplici.

Il primo problema riguarda l’eccessiva attualizzazione della sua storia al tempo presente: Wendy e i suoi genitori si comportano in maniera non tanto diversa da come si comporterebbero se vivessero nel 2023, mentre la storia è ambientata più di un secolo fa.

Emerge così un’evidente incapacità di raccontare le vere sfide che una donna all’inizio del Novecento doveva affrontare – come invece fatto ottimamente in Peter Pan (2003). Come se non bastasse, manca del tutto il suo percorso di maturazione emotiva che le faccia capire l’importanza di crescere.

Infatti, Wendy si limita a ripetere a pappagallo quello che la madre le ha detto.

E l’ambientazione non aiuta…

Fuggire l’infanzia?

Ever Anderson in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

Uno dei concetti fondamentali di Peter Pan è L’isola che non c’è.

Nel racconto originale, Wendy e i suoi fratelli venivano tentati dalle delizie della vita piena di avventure e creature fantastiche, all’interno di un’ambientazione dal forte sapore favolistico. E infatti Peter Pan era incapace di affrontare le responsabilità della vita adulta, scegliendo invece questa confortante ed infinita giovinezza.

Tuttavia, era altrettanto evidente come questo luogo rappresentasse l’oblio: non solo Peter Pan si dimenticava continuamente sia delle sue avventure, sia dei personaggi che lo circondavano, ma anche Wendy col tempo si rendeva conto di essere assorbita da questo ambiente, dimenticandosi gli affetti che si era lasciata indietro.

Alexander Molony e Ever Anderson in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

Al contrario, per stessa ammissione del film, L’isola che non c’è è un luogo deprimente.

È il luogo del conflitto continuo fra Peter e Uncino, con una scrittura piuttosto ambiziosa, che però si dimentica totalmente di inserire una narrazione coerente in merito: se Peter Pan è chiaramente contrario all’idea di ritornare a casa, manca tuttavia la spiegazione effettiva del perché.

Infatti, se già la mancanza della desiderabilità di Neverland era problematica, lo è ancora di più la scarsità del racconto del contesto storico dell’opera, che chiariva le paure di Peter di diventare un grigio e noioso adulto, dovendo mettere da parte i suoi sogni e le sue ambizioni.

Un uomo ridicolo

Jude Law in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

La riscrittura di Capitan Uncino è forse quella che ho meno digerito.

Il suo personaggio per sua natura è dotato di un fascino quasi magnetico, con i suoi abiti barocchi e sfarzosi, gli accessori che raccontavano il suo essere vanesio – come il bocchino per le sigarette di sua invenzione – e, più in generale, il suo modo di comportarsi.

Al contrario l’Uncino di Jude Law è un personaggio stanco, semplicemente miserabile, che porta strenuamente avanti la sua lotta con Peter Pan per motivazioni più personali che simboliche, ovvero la loro amicizia che si era conclusa tragicamente.

Jude Law in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

E se il concetto poteva comunque essere interessante nella scena della – apparente – morte del personaggio, che afferma di non avere pensieri felici, manca ancora una volta il percorso di maturazione di Peter per arrivare al perdono del suo eterno nemico.

Come se non bastasse, alla luce del contesto della storia estremamente angosciante e conflittuale, non si capisce neanche come lo stesso Peter possa essere così spensierato tanto da poter volare quasi senza bisogno della magia di Trilli, dal momento che si parla piuttosto di un personaggio davvero affranto…

Lavorare di sottrazione

Yara Shahidi in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

In Peter Pan & Wendy non sanno davvero cosa farsene del materiale originale.

Anche andando oltre gli aspetti più profondi dell’opera di cui sopra, manca tutto il resto: dove sono le sirene, le scene con gli indiani, i bimbi sperduti che cercano di uccidere Wendy istigati da Trilli?

Il film lavora incredibilmente per sottrazione, eliminando tutti gli elementi fondamentali della storia, e svuotando il film di un effettivo contenuto.

Ne risulta un prodotto che non è altro che un giro a vuoto intorno agli stessi due concetti, che manca totalmente di una parte centrale che permetta allo spettatore di conoscere i personaggi ed affezionarsi a loro, portando ad un finale freddo e distante.

Ever Anderson in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

E poi c’è il girl power.

Questo tentativo di rendere i personaggi femminili non solo più protagonisti del necessario, ma anche figure già formate, perfette e lodevoli, mi ha profondamente angosciato. Anzitutto Trilli, mancante totalmente della sua caratterizzazione da personaggio cattivello, pure smorzata come nel classico Disney.

Qui diventa un personaggio assolutamente perfetto e positivo, anzi inascoltato, come d’altronde tutti i personaggi femminili del film. Il picco di questa tendenza è rappresentato ovviamente da Giglio Tigrato, che più che un personaggio sembra la protagonista di una pubblicità di profumi

Peter Pan & Wendy politically correct

Ho rivisto recentemente il classico Disney Peter Pan, uscito nel 1953.

Prima dell’inizio del film compare un disclaimer che recita qualcosa tipo Questo film è pieno di rappresentazioni offensive, ma non vogliamo censurarlo. Il problema, anche se non è detto esplicitamente, è soprattutto la rappresentazione degli Indiani d’America.

Secondo i canoni odierni, l’idea di questo popolo come creatura fantastica di un mondo fantastico è già di per sé una feticizzazione. Ma, più in generale, anche la loro rappresentazione visiva piuttosto stereotipata, con anche la pelle rossa, poteva apparire offensiva.

Alyssa Wapanatâhk in una scena di Peter Pan & Wendy (2023) di David Lowery

Per questo giustamente in Peter Pan & Wendy hanno deciso direttamente di eliminare i personaggi.

Rimane solamente il personaggio di Giglio Tigrato, presente in scena più del dovuto con il suo fantastico cavallo bianco, e non si mostra nulla del rapporto fra gli Indiani e i pirati, né con Peter.

Inoltre, con una mossa che per me non è neanche inclusività forzata, ma proprio l’inserimento di token fatti e finiti, i bambini sperduti si tramutano in una graziosa e molto conveniente pubblicità di Benetton, con anche l’inclusione di un attore con la sindrome di down.

Sulla carta non era una cosa che trovavo troppo problematica, perché sarebbe bastata una facile e giusta spiegazione di questa riscrittura. Tuttavia, come al solito, anche per questo manca del tutto una contestualizzazione storica credibile, e si preferisce includere a casaccio.

Ma, d’altronde, questo non è un film di Peter Pan, quindi perché dovrei stupirmi…

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La principessa Mononoke – Caos naturale

La principessa Mononoke (1997) è il primo film del terzetto delle opere più ambiziose di Hayao Miyazaki – insieme ai successivi La città incantata (2001) e Il castello errante di Howl (2004).

Una pellicola che ottenne un ottimo riscontro internazionale, raddoppiando i risultati commerciali finora ottenuti da Miyazaki: a fronte di un budget di circa 23 milioni (2,1 miliardi di yen), ne ha incassò quasi 170 in tutto il mondo.

Di cosa parla La principessa Mononoke?

Il giovane principe Ashitaka rimane vittima di un attacco da parte di un cinghiale-demone, che lo porta a cercare una cura lontano da casa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La principessa Mononoke?

La principessa Mononoke e Moro in una scena di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

Assolutamente sì.

Anche se devo ammettere che è uno dei prodotti non solo più complessi, ma anche più impegnativi di Miyazaki, è comunque un’opera piena di fascino, che racchiude la totalità dei temi cari a questo regista, raccontati però in una forma più matura.

Una trama piuttosto intricata, affollata di tanti e diversi personaggi, focalizzata sulla tematica dell’ambientalismo, ma anche sulla caoticità, imprevedibilità, nonché la temibilità della natura, e delle conseguenze del provare a distruggerla…

Insomma, non un film facile, ma un film da vedere.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di La principessa Mononoke il pericolo è medio-alto.

Infatti, il doppiaggio è una barzelletta: oltre alle solite forzature, è il caso più iconico dell’incapacità di Cannarsi di scrivere degli adattamenti, con la traduzione del Dio della Foresta con Dio Bestia – e tutta l’ilarità correlata.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

La natura caotica

La principessa Mononoke e Moro in una scena di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

La principessa Mononoke riprende alcune tematiche e dinamiche centrali di Nausicaä della Valle del vento.

Ma le riscrive con un’ottica del tutto nuova.

Se infatti nella sua opera prima Miyazaki rappresentava una natura vista come nemica e distruttiva, ma solamente perché gli umani non erano capaci di comprendere i danni che le avevano inferto, e il tentativo della stessa di curarsi.

Diversamente nella pellicola del ’97 la natura è semplicemente caotica, financo temibile: animali giganteschi e aggressivi, quasi preistorici, testardi ed indomabili, pronti persino a sacrificare sé stessi in nome della salvezza del proprio ambiente.

La principessa Mononoke e Okkoto di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

In particolare, le due divinità, la lupa Moro e il cinghiale millenario Okkoto: bestie enormi, ricchissime di particolari, dei capi saggi, ma anche incapaci di scendere a compromessi e sempre pronti ad aggredire il nemico – anche solo presunto.

Al contempo, Re della Foresta, che rappresenta la Natura, racchiude al proprio interno sia la vita che la morte, come si vede chiaramente dal suo incedere: nelle sue orme la natura sboccia immediatamente rigogliosa, ma altrettanto velocemente perisce.

La violenza chiama la violenza

Lady Eboshi in una scena di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

Se la natura è violenza, l’umanità è distruzione.

L’ambientazione storica non è casuale: la pellicola si ambienta nel Periodo Muromachi (XIV-XVI sec.), in cui il Giappone vide un indebolimento del potere centralizzato, con una scena politica dominata invece dagli shōgun, i capi dell’élite militare.

Ma, soprattutto, fu l’epoca in cui il Giappone conobbe le armi da fuoco.

E infatti Lady Eboshi è proprio una shogun – una signora della guerra, se la volessimo dire all’occidentale – a capo della Città di Ferro, specializzata proprio nella produzione di queste armi moderne e micidiali.

Lady Eboshi in una scena di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

Ma Eboshi è anche il personaggio più tridimensionale della pellicola.

Anche se apparentemente è solamente un capo spietato e senza cuore – come testimoniato dal fatto che non raccoglie neanche i cadaveri dei suoi uomini dopo il primo attacco dei lupi – si mostra anche come protettrice degli ultimi degli esclusi.

E infatti la sua città accoglie non solo gli uomini, ma anche i lebbrosi e le prostitute, i suoi veri sostenitori. Quindi si potrebbe dire che basa il suo potere sulle armi e sull’essere una sorta di capopopolo.

Ma è vera benevolenza o semplice sete di potere?

Due anonimi protagonisti

La principessa Mononoke e Ashitaka in una scena di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

Come ho apprezzato Lady Eboshi come personaggio, ho molto meno gradito i due protagonisti.

Anche a fronte di uno screentime abbastanza ridotto per quelli che dovrebbero essere gli eroi della storia, li ho trovati molto più anonimi e bidimensionali di quanto si sarebbero meritati. Portano infatti sulle spalle entrambi tematiche e questioni piuttosto interessanti e non facili da trattare, ma si comportano anche con la massima ingenuità.

Da un certo punto di vista penso sia un aspetto anche voluto, per contrapporre agli antagonisti due eroi testardi e indomabili, effettivi motori della trama per molti tratti, così da seguire una strada tutto sommato semplice verso la conclusione, a fronte di una trama invece piuttosto complessa.

E a questo proposito…

Una trama (troppo) complessa

Forse anche nella sua volontà di voler rappresentare in maniera molto realistica e credibile il periodo storico scelto, Miyazaki ha scritto una trama per certi versi veramente troppo complessa.

E non era veramente necessario.

Infatti, si poteva facilmente alleggerire il lato degli antagonisti – non dovendo intrecciare addirittura tre gruppi di personaggi – e riequilibrare il lato invece degli eroi, offrendogli una maggiore personalità e tridimensionalità.

Soprattutto perché di fatto la storia non è di per sé così complicata, ma è stata inutilmente appesantita.

La principessa Mononoke e Ashitaka in una scena di La principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki

Nondimeno ho apprezzato molto il finale.

Il Dio sacrifica se stesso, dopo aver rischiato di distruggere la sua stessa foresta, e ridona il verde alla valle, concedendogli una seconda occasione per prosperare. E come spiega proprio Ashitaka, il Dio non è morto, ma è la vita stessa che continua a vivere e a rinascere.

I due protagonisti scelgono due vie diverse, per ricreare sia il mondo della Natura, sia la realtà degli uomini, con la speranza che possano coesistere in armonia. E l’apparizione del kodama alla fine fa ben sperare…

Cosa significa Mononoke in La principessa Mononoke

Anche se emerge molto meno nella traduzione sia italiana che inglese, Mononoke non è un nome proprio – e infatti la protagonista si chiama San – ma ha un significato preciso.

I mononoke ((物の怪) sono degli spiriti, in particolare spiriti maligni che prendono possesso di altri esseri viventi per causargli dolori e sofferenze.

In questo caso è possibile che si intenda la parola anche come yōkai, ovvero esseri soprannaturali del folklore giapponese, come termine ombrello per raccontare il mondo spirituale della foresta, con i suoi spiriti e i suoi dei (kami)

All’interno di un’opera così ambiziosa, era quasi scontato che il lato artistico di Miyazaki migliorasse ulteriormente.

Anzitutto, si vede un’interessante evoluzione nel rappresentare i volti femminili, riuscendo davvero a differenziare Lady Eboshi da San:

Fra l’altro il modello di Lady Eboshi è stata una rappresentazione talmente interessante per Miyazaki da utilizzarla in maniera quasi identica nel successivo La città incantata:

Al contempo, interessanti sperimentazioni per i volti maschili, evolvendo il modello di base utilizzato finora, che poi si ritrova sempre nel film successivo:

Ma soprattutto con l’introduzione di un modello del tutto nuovo, rappresentato in questo caso da Jiko-Bō, in La città incantata da vari personaggi maschili:

Ma le sperimentazioni più interessanti riguardano sicuramente la rappresentazione degli animali, ricchissimi di particolari e di tecniche del tutto nuove, che si evolveranno in maniera diverse sia in Il castello errante di Howl, sia in La città incantata:

E lo stesso vale anche per i corpi giganteschi e gelatinosi, qui per il Dio della Foresta, in la Città Incantata con il Senza-volto nella sua forma finale:

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Guardiani della Galassia Vol. 2 – Il film della maturazione

Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) è il sequel dell’omonimo film che fece la fortuna di James Gunn, confermata proprio da questo capitolo: dopo il licenziamento del regista per dei tweets di cattivo gusto (ma molto datati), cast e pubblico si rivoltarono contro la produzione.

Il resto è storia.

Fra l’altro un sequel che confermò l’andamento positivo del brand, con anche un aumento degli incassi: 863 milioni, contro 200 di budget – il primo ne aveva guadagnati circa un centinaio in meno.

Di cosa parla Guardiani della Galassia Vol. 2?

Pochi mesi dopo il primo film, i Guardiani sono impegnati in una missione per i Sovereign, ma non tutto va come si immaginavano…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Guardiani della Galassia Vol. 2?

Michael Rooker e Sean Gunn in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

In generale, sì.

Assolutamente sì se avete visto ed apprezzato il primo capitolo: vedendoli per la prima volta a così poca distanza, mi sono resa conto della superiorità di Guardiani della Galassia Vol. 2 rispetto alla pellicola del 2014, indice forse anche di una maggiore maturazione e libertà del regista a seguito del successo ottenuto.

Nonostante non manchi di qualche elemento anche di forte debolezza, riesce a migliorarsi sotto molti aspetti, anzitutto per l’antagonista e per la struttura narrativa, che evade la gestione più classica di questo tipo di prodotti, come era stato invece per il precedente.

Un nuovo obbiettivo

Michael Rooker e Rocket Raccon in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

Nel precedente film l’obbiettivo finale della pellicola era costituire il gruppo, in questo caso Gunn si è trovato davanti all’ostacolo di dover gestire un gruppo piuttosto folto di personaggi – vista anche l’introduzione di Mantis e la maggior importanza di Yondu.

E ha sperimentato una gestione dei personaggi che sarà poi la stessa di Infinity War (2018): dividerli in piccole storyline autoconclusive, per poi farli rincontrare nel finale.

L’arco narrativo più azzeccato è ovviamente quella di Yondu e Rocket, utile ad entrambi per un’interessante riflessione e conseguente maturazione: come Rocket si rende conto della sua irriverenza e incapacità di fare gruppo, Yondu sceglie di abbandonare la sua corazza burbera per rinsaldare il rapporto con Peter.

Ma qui nasce il primo problema…

Come si cambia…in fretta

Rocket Raccon e Groot in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

A conti fatti, l’arco narrativo di Rocket e Yondu è quello meglio costruito, mentre gli altri appaiono complessivamente molto più difettosi.

Escludendo la coppia Drax e Mantis, che rappresenta semplicemente un simpatico siparietto comico, l’arco narrativo che mi ha meno convinto è quello di Peter e suo padre.

Per quanto il film si impegni moltissimo nel raccontare la diffidenza di Star Lord nei confronti di Ego, concede molto meno minutaggio al racconto dell’assuefazione di Peter verso il ritrovato genitore.

Infatti, nonostante Ego riesca a convincere sottilmente il figlio della sua visione, al contempo lo stesso si rivolta fin troppo facilmente e nettamente contro di lui, anche se il trigger è molto potente – il trauma della morte della madre – e rivela immediatamente la vera natura dell’antagonista.

Karen Gillan in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

Altro discorso per Nebula e Gamora.

Il loro rapporto è in realtà una costante anche nei successivi film degli Avengers, ed era già stato introdotto nello scorso capitolo. Tuttavia, il loro parziale rappacificamento mi è parso un po’ troppo veloce, e avrebbe secondo me avuto bisogno di un maggiore screentime.

Tuttavia, mi sono anche in parte ricreduta quando l’argomento viene nuovamente affrontato sul finale, con almeno un parziale ed effettivo confronto fra le due, che verrà poi meglio raccontato nei film successivi, collocato proprio nel momento di riflessione generale di tutti i personaggi.

Lo stesso problema?

Pom Klementieff, Dave Bautista, Chris Pratt, Kurt Russell e Zoe Saldana in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

Uno dei principali problemi di Guardiani della Galassia era proprio la scelta dell’antagonista.

Nel sequel Gunn compie un parziale passo avanti.

E dico parziale in quanto, anche se indubbiamente il personaggio di Ego è ben gestito, raccontando abbastanza approfonditamente la sua psicologia e le sue motivazioni, sostanzialmente le stesse si riassumono – ancora una volta – nel desiderio di conquistare il mondo.

Anche peggio se parliamo dei Sovereign, l’elemento più debole, soprattutto esteticamente, dell’intera pellicola: personaggi veramente anonimi, che potevano essere sostituiti od eliminati dalla pellicola con poche righe di sceneggiatura.

Infatti, la loro vera utilità è introdurre il villain del terzo capitolo, Adam Warlock.

La morte di Yondu è probabilmente una delle più dolorose dell’intero MCU.

Ma era di fatto inevitabile.

È evidente che in questo capitolo Gunn volesse approfondire Yondu: nonostante sia un personaggio davvero accattivante e intrigante, aveva avuto fin troppo poco spazio nel primo capitolo.

E il suo approfondimento è anche finalizzato a farci comprendere meglio il significato della sua morte, essenziale per il personaggio di Quill: il protagonista dice definitivamente addio la figura paterna e scende a patti con un trauma che l’aveva accompagnato per tutta la vita, anche se nella maniera più tragica…

Dove si colloca Guardiani della Galassia 2?

Come il primo capitolo, Guardiani della Galassia Vol. 2 è un film altrettanto autonomo, tanto da essere ambientato appena un paio di mesi dopo la pellicola del 2014.

Non a caso le diverse post-creditben cinque! – non si collegano in alcun modo agli altri film dell’MCU, ma servono ad approfondire alcuni aspetti della pellicola stessa, ad inserire alcune gag per smorzare la tragicità del finale, nonché ad introdurre il villain del terzo capitolo.

La pellicola è fra i primi tre film dell’affollata Fase 3, conclusiva della Saga dell’Infinito.

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Guardiani della Galassia – Un film indipendente

Guardiani della galassia (2014) è il primo capitolo della trilogia omonima diretta da James Gunn – quando era ancora un regista di nicchia – nonché il film di introduzione di questo gruppo di personaggi.

Un prodotto che ottenne, a sorpresa viste le premesse, un buon successo – e non solo commerciale: con un budget di circa 232 milioni, ne incassò 733.

Di cosa parla Guardiani della Galassia?

Peter Quill, aka Star Lord, è un criminale spaziale che cerca di mettere le mani sul preziosissimo Orb, senza però saperne il vero valore…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Guardiani della Galassia?

Chris Pratt e Dave Bautista in una scena di Guardiani della galassia (2014) di James Gunn

In generale, sì.

Soprattutto se non siete particolarmente appassionati di cinecomic e siete dei casual watcher dell’MCU: a differenza di altre pellicole della Marvel, Guardiani della Galassia è un film così tanto a sé stante che non ci sono neanche delle post-credit che lo collegano agli altri prodotti del franchise.

Infatti, più che un film di supereroi, è un’avventura fantascientifica caratterizzata da una comicità anche piuttosto piacevole rispetto ad altri prodotti MCU, ma che pecca nei soliti problemi di questi film: struttura narrativa ripetitiva e villain insipido.

Tuttavia, come prodotto di intrattenimento, ve lo consiglio molto.

Creare un gruppo

Chris Pratt e Zoe Saldana in una scena di Guardiani della galassia (2014) di James Gunn

Una delle sfide più ardue era il saper creare un gruppo che fosse effettivamente unito e credibile.

Per quanto ci sia qualche debolezza narrativa – anche piuttosto prevedibile – il film riesce complessivamente bene in questo senso, utilizzando due elementi particolarmente vincenti: costruzione di un solido background ed assegnazione di un obiettivo personale ad ogni componente del gruppo.

Il primo elemento sembra molto scontato, ma non lo è per niente: basta pensare a prodotti con finalità analoghe come Suicide squad (2016), quasi comico da questo punto di vista, che allestisce una squadra di personaggi bidimensionali e che non hanno alcun motivo per fare gruppo.

Chris Pratt, Zoe Saldana, Dave Bautista e Vin Diesel in una scena di Guardiani della galassia (2014) di James Gunn

Al contrario, anche e soprattutto attraverso i dialoghi, Guardiani della Galassia riesce a rendere tutti i personaggi abbastanza tridimensionali e a fornire ad ognuno di loro un proprio personale e credibile motivo di fare gruppo con gli altri protagonisti.

Come elemento bonus ai fini della credibilità, i conflitti fra i personaggi non vengono risolti fino in fondo, anzi si ritrovano anche nei film successivi.

Ed è piuttosto indicativo in questo senso che il rapporto fra Gamora e Star Lord non venga concluso alla fine di questo capitolo – e neanche propriamente nel successivo, in realtà.

Tuttavia, qui sorgono i primi problemi.

Tornare all’essenziale

Chris Pratt, Zoe Saldana, Dave Bautista e Vin Diesel in una scena di Guardiani della galassia (2014) di James Gunn

Per i primi due atti del film la narrazione scorre in maniera piuttosto credibile ed interessante, e anche abbastanza anomala per un prodotto di questo tipo, non venendo mai meno all’identità dei personaggi stessi.

Poi, col terzo atto, questo elemento si indebolisce.

Il primo scontro con l’antagonista porta, come sempre, alla sconfitta degli eroi, che devono mettere da parte i propri principi per salvare il mondo, quindi seguendo binari più sicuri e consolidati del genere di riferimento.

Tuttavia, come scelta stona un poco con l’identità dei protagonisti stessi.

Ma non manca comunque una costruzione abbastanza piacevole e una conclusione non del tutto scontata, che apre anche le porte anche al sequel in maniera piuttosto coerente – indice di una progettualità presente fin da questo primo capitolo.

Il solito problema

Lee Pace e Karen Gillan in una scena di Guardiani della galassia (2014) di James Gunn

Un altro problema evidente della pellicola – e in realtà della maggior parte dei prodotti MCU – è la bidimensionalità dell’antagonista, Ronan l’Accusatore. E non è di sicuro un caso che lo stesso sia legato proprio allo snodo narrativo meno efficace della pellicola, di cui sopra.

E personalmente un po’ mi dispiace: si vede che Gunn ha comunque cercato di costruire un minimo di trama politica per contestualizzare il villain, così da non renderlo semplicemente un nemico spinto dal desiderio di conquistare il mondo.

Lee Pace in una scena di Guardiani della galassia (2014) di James Gunn

Tuttavia, è una strategia che purtroppo non funziona fino in fondo.

E mi dispiace anche per Lee Pace, attore che io ho sempre apprezzato, sia come l’elfo altezzoso in La desolazione di Smaug (2013), sia in quel ruolo veramente indovinato per le sue capacità di Fratello Giorno nella serie tv Fondazione (2021- …).

E questo è anche il motivo per cui Guardiani della Galassia è il mio secondo film MCU preferito, dopo a Spiderman Homecoming…

Gamora Guardiani della Galassia

Il personaggio di Gamora purtroppo fu un personaggio scritto nel periodo peggiore dell’MCU per i personaggi femminili, che dovevano essere o delle insopportabili Mary Sue, possibilmente anche acide, oppure ipersessualizzate come Black Widow in Iron Man 2 (2010).

E ovviamente il picco è stato Captain Marvel (2019).

E Nebula non è da meno.

Tuttavia, bisogna ammettere che quantomeno in questo caso entrambi i personaggi femminili sono ottimamente contestualizzati nella storia e nella loro caratterizzazione – qui e anche – e soprattutto – nei successivi prodotti.

Dove si colloca Guardiani della Galassia?

Come detto, Guardiani della Galassia è un film molto autonomo, ma dovrebbe indicativamente collocarsi nel 2014 durante Captain America – Civil War (2016) – e così anche il sequel.

Si trova a circa a metà della Fase 2.