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The Green Knight – La morte cammina con te

The Green Knight (2021) di David Lowery è la pellicola forse più strana ed ambiziosa della sua produzione (finora). Tratta da un poema cavalleresco anonimo del XIV sec., è una storia dal taglio medievaleggiante e fantastico.

A fronte di un budget anche abbastanza ambizioso per un prodotto indie – 15 milioni di dollari – come prevedibile per periodo ed il tipo di film, è stato un discreto flop: meno di 20 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla The Green Knight?

Il giovane Ser Gawain viene costretto dalla madre a partecipare ad una festa della Tavola Rotonda, organizzata da suo zio, Re Artù. In questa occasione si scontrerà con una sfida inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Green Knight?

Dev Patel in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

Assolutamente sì.

Per quanto sia un film incredibilmente complesso – tanto che mi ha ricordato per certi versi un’altra produzione della A24, Men (2022) – è anche una pellicola incredibilmente affascinante: un’avventura di stampo folkloristico, medievaleggiante, ma anche quasi surreale.

La sua bellezza è anche l’aprirsi a diverse chiavi di lettura, fornite in realtà dal regista stesso, ma che lasciano ampio spazio anche alla libera interpretazione allo spettatore, vista la complessità dell’opera di partenza in primo luogo.

Insomma, se vi affascinano storie complesse ed estremamente simboliche, guardatelo assolutamente.

Il punto di partenza

Dev Patel in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

La personalità del protagonista è chiara fin da subito.

Si intrattiene con la sua amante, passa le notti fuori casa, ma non riesce ancora ad essere un cavaliere, nonostante sia nipote di Re Artù nonché, come si vede nella scena della festa, il suo prediletto e il suo sicuro erede.

E, nel momento del lancio della sfida del Green Knight, mostra anche un altro lato della sua personalità: l’irriverenza e il desiderio di mostrare il suo valore, ma senza la saggezza e l’equilibrio che dovrebbe distinguere i Cavalieri di Artù.

E infatti quella è solo la prima prova.

La responsabilità della Madre

The Green Knight in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

La Madre di Gawain invoca il Green Knight.

Ma perché lo fa?

La risposta è più chiara a visione conclusa: la donna – che dovrebbe essere una rivisitazione di Morgana del ciclo arturiano – è consapevole dell’immaturità del figlio, il quale dovrebbe compiere il passaggio fondamentale alla vita adulta – diventare cavaliere e erede di Artù – ma non ha ancora la maturità necessaria, appunto.

Infatti al figlio mancano due capacità fondamentali.

Il senso di responsabilità e l’intraprendenza positiva.

Dev Patel in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

Ser Gerwig dimostra di essere intraprendente, ma in maniera non positiva: si può parlare meglio di avventatezza, irriverenza, appunto. Infatti accetta la sfida del Green Knight, ma non ne capisce minimamente la valenza: per lui è solo un modo per mostrare la sua virilità.

Il vero significato della sfida è dimostrare di saper saggiare la situazione: essere intraprendenti e pronti a mettersi alla prova, ma sapere anche meditare al meglio le proprie azioni – e quindi essere capaci anche di affrontare le conseguenze.

Il classismo?

Barry Keogan in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

Il primo ostacolo – anche se non ne è inizialmente consapevole – è il villano che Ser Gerwig incontra all’inizio del suo viaggio.

Nonostante il personaggio di Barry Keogan sia indubbiamente fastidioso e insistente, fornisce comunque informazioni fondamentali al protagonista per il suo viaggio. Ma, quando il ragazzo gli richiede qualcosa in cambio per la sua gentilezza, il protagonista lo tratta con grande arroganza e superiorità.

Appare qui evidente come Gerwig abbia vissuto fino a questo momento nella sicurezza e comodità della sua città, in una posizione di potere e prestigio, approfittandosi anche evidentemente delle persone a lui inferiori.

Ma il mondo esterno è molto più pericoloso.

Barry Keogan in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

Infatti il protagonista rimane vittima di un’imboscata, in cui perde la maggior parte dei suoi averi e dei suoi simboli – l’ascia e il cavallo. E, in un certo senso, il ragazzo sceglie di prendere il suo posto, quindi sottrargli la sua posizione che il protagonista considerava intoccabile.

Se fosse stato più generoso non sarebbe stato attaccato?

Forse no, ma, nel simbolismo della pellicola, è quantomai evidente che questa sia un momento di passaggio per il futuro re, che avrebbe dovuto mostrare saggezza e generosità nel trattare col popolo, soprattutto potendoselo permettere.

E proprio in quel momento sarebbe potuto anche morire…

L’incontro con Santa Winifred

Erin Kellyman in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

Il personaggio di Santa Winifred è meno casuale di quanto sembri.

Apparentemente l’incontro con la ragazza sembra solo una side quest portata avanti dal protagonista, impietosito dalla situazione della sfortunata. In realtà, oltre ad essere un racconto piuttosto fedele al mito originale, è una prova fondamentale per Ser Gerwig.

Infatti per la prima volta il protagonista si impegna nell’aiutare il prossimo, senza pensare ad un guadagno futuro – per esempio giacere con la ragazza – che in realtà diventa un aiuto fondamentale per la il suo viaggio, anche se sotto altra forma.

Nelle sue identità – la donna e la volpe – Winifred è un’effettiva guida per Ser Gerwig: grazie a lei capisce – o, meglio, lo spettatore capisce – che è la stessa madre ad aver invocato il Green Knight, e viene anche messo in guardia sulla pericolosità della prova finale.

Il misterioso castello

Alicia Vikander in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

Dopo un viaggio piuttosto stancante e faticoso, Ser Gerwig diventa ospite del misterioso lord dell’altrettanto misterioso castello, la cui moglie ha le sembianze proprio della sua amante, Essel.

Il castello è infatti una sorta di rappresentazione – con le dovute differenze – della vita presente e futura del protagonista. Sotto alla protezione di un benevolente signore – come era Re Artù – vivendo una vita sessuale piuttosto libertina con la lady del castello – come con Essel – ma sotto la stretta e minacciosa sorveglianza della madre – qui nei panni dell’anziana bendata.

Ma per la relazione con la lady le parti si invertono.

Alicia Vikander e Dev Patel in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

Nonostante sia sempre la sua amante, in questo caso è Essel a starsi approfittando di Gerwig, e non il contrario. Infatti il protagonista in questo caso sta sfruttando dell’ospitalità del lord, mentre a casa era lui che si approfittava della ragazza, senza darle nulla in cambio.

Questo passaggio è insomma un modo per mettere il protagonista non solo davanti alla sua vita miserabile vista da un altro punto di vista, ma anche a comprendere quanto le fortune possano essere alterne: un giorno Re, un giorno straccione.

The Green Knight finale

Il finale di The Green Knight è doppio.

Nel primo finale Ser Gerwig rimane saldamente legato alla sua cintura di protezione per tutta la sua vita, sottraendosi alla sua prova e alle sue responsabilità.

E questo lo porta ad una vita per nulla felice.

Continua ad approfittarsi di Essel, le strappa di braccia il figlio appena nato, si sposa con una moglie di convenienza, e il primo figlio gli muore in battaglia. E, nonostante tutto, alla fine deve comunque affrontare la morte che aveva cercato di fuggire.

Sean Harris in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

E questa vita è quella che gli passa apparentemente davanti agli occhi nel secondo finale, in cui capisce che non potrà fuggire dal suo destino, ma che è arrivata l’ora di affrontarlo. Ma, soprattutto, di affrontarlo senza una perpetua protezione.

Così viene ricompensato, con una vita – si spera – più saggia e felice.

La cintura verde The Green Knight significato

La cintura donata dalla madre a Ser Gerwig è fondamentale.

È uno strumento che la donna offre al figlio per proteggersi, come per portare con sé sempre una parte della maternità che fino a questo momento l’ha guidato e protetto – una sorta di coperta di Linus ante-litteram.

Proprio intorno a questo elemento in realtà gira l’insegnamento della madre: il protagonista deve essere capace di liberarsi da una protezione – vera o immaginaria – che sia della madre o della sua posizione, e diventare capace di agire autonomamente.

E infatti il protagonista alla fine sceglie in entrambi i finali di togliersi la cintura, arrivando in un modo o nell’altro ad affrontare le sue responsabilità. Ma solo facendolo nel momento giusto può evitare una vita di vigliaccheria e violenza, e di sola apparente sicurezza…

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Animazione Animazione giapponese Avventura Azione Commedia Dramma romantico Dramma storico Drammatico Fantastico Film La magia di Miyazaki

Porco rosso – Un’avventura italiana

Porco rosso (1992) è la prima avventura italiana di Hayao Miyazaki, nonché il primo suo lungometraggio con un protagonista maschile.

Un prodotto che confermò nuovamente l’andamento positivo del maestro nipponico a livello internazionale: sempre 44 milioni di dollari di incasso, a fronte di 9,2 milioni di yen (circa 7 milioni di dollari).

Di cosa parla Porco rosso?

Porco Rosso, soprannome dell’aviatore Marco Pagot, è un ex pilota dell’Aeronautica Italiana e cacciatore di taglie. Il nome deriva dal suo particolare aspetto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Porco rosso?

Porco Rosso in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

Assolutamente sì.

Porco rosso è fra i minori di Miyazaki che assolutamente preferisco, al pari del precedente Il mio vicino Totoro (1988). Solo la prima delle due avventure italiane del maestro nipponico, prima del più recente Si alza il vento (2013).

Una storia che unisce il realismo più stringente e l’elemento fantastico in maniera organica e ben pensata, con un protagonista carismatico e interessante. E non manca anche di un tono che mischia il drammatico e i momenti più gustosamente comici.

Da vedere, assolutamente.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Porco Rosso il pericolo è medio-alto.

Il solito appesantimento insostenibile dei dialoghi, con utilizzo di termini totalmente fuori contesto: insomma, al solito i personaggi parlano come dei libri stampati – e pure datati. Ci mancava solo che Cannarsi avesse tradotto il titolo Maiale cremisi

Proprio per questo, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

Una storia semplice e perfetta

Porco Rosso e Fio Piccolo in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

La bellezza della storia di Porco rosso è soprattutto nella sua semplicità.

Una piccola storia di pirati, che riprende i livelli di comicità degli analoghi personaggi di Laputa (1986) e un protagonista inedito Miyazaki, più complesso e non del tutto positivo, ma anzi con dei picchi drammatici piuttosto interessanti.

La vicenda è divisa in due atti e ruota intorno allo scontro fra Marco e Curtis, arricchendosi di tante sottotrame piacevoli e divertenti, e, al contempo, con approfondimenti sul protagonista e la sua storia, anche se non viene mai del tutto chiarita…

La donna oggetto?

Fio Picolo in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

Anche in questo caso Miyazaki conferma la sua superba gestione dei personaggi femminili.

Ambientando la vicenda alla fine degli Anni Venti, sarebbe stato del tutto irreale inserire un personaggio come Fio senza un’adeguata contestualizzazione. E infatti la ragazza viene trattata in maniera estremamente verosimile: sottovalutandola, sminuendola e oggettificandola.

All’inizio Porco Rosso non vuole che lei si occupi del suo aereo, dicendo esplicitamente che non si fida perché femmina e troppo giovane. Ma basta poco perché la ragazza dimostri le sue capacità, al punto che, grazie alla sua forte intraprendenza, diventi persino motore dell’azione.

In seconda battuta, con i pirati, e soprattutto con Curtis, Fio diventa l’oggetto del desiderio, ma in realtà è anche il personaggio che riesce a risolvere la disputa in maniera ordinata e senza che nessuno si faccia veramente male, dimostrando arguzia e intelligenza.

Essere liberi

Porco Rosso in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

Meglio maiale che fascista.

Il contesto storico è assai sottolineato durante la narrazione, con uno spiccato accento sul pacifismo e sull’opposizione al regime. Tuttavia, anche spogliando la narrazione del suo esplicito significato politico, la morale è un’altra.

Marco, dopo aver visto i suoi compagni morire, ha capito di dover volare da solo, libero, ma anche escluso dagli altri. Una libertà quindi guadagnata a caro prezzo, dovendo soffrire un aspetto repellente e al contempo l’essere nel costante mirino del Fascismo.

E a questo proposito…

Perché Porco Rosso è un maiale?

Il motivo della maledizione di Porco Rosso che lo rende un maiale non è esplicitato, ma si può intuire dal suo racconto.

Marco era un pilota dell’aeronautica, che ha visto morire amici e nemici insieme, trovandosi solo nel mondo, e capendo proprio in quel momento che quella doveva essere la maledizione della sua vita: volare da solo.

Una maledizione che forse è anche dovuto all’autosuggestione, a come il protagonista ha interpretato quella scena, decidendo anche di recidere ogni contatto personale e relazione potenziale, in particolare con Gina.

Cosa succede nel finale di Porco rosso?

Porco Rosso e Gina in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

Quindi cosa succede nel finale di Porco Rosso?

La narrazione è affidata alle parole di Fio, che spiega l’esito della scommessa di Gina è un segreto, ma che lei comunque non ha più incontrato Porco Rosso. Quindi un finale aperto, che lascia però una speranza allo spettatore.

Io personalmente spero che Marco sia riuscito a ricongiungersi con Gina, a stringere una vera e profonda relazione con lei, e, in questo modo, si sia liberato di quella maledizione che in qualche modo si è autoimposto. Così da tornare umano.

E meno solo.

Le parole italiane in Porco rosso

Miyazaki, come altri autori nipponici, dimostra un profondo amore per l’Italia. E, per questo, mi viene più facile perdonargli alcuni errori di pura ingenuità.

Fra tutte le scritte in italiano che compaiono nella pellicola, ce ne sono alcune con piccoli errori, in particolare nell’officina Piccolo vi è il classico cartello che dice Non si fa credito, ma è scritto Non si fo credito.

Al contempo, l’ambientazione della storia è abbastanza generica, in particolare la Milano rappresentata sembra più ispirata a diverse città europee, e non specificatamente alla capitale lombarda.

In ultimo, nella sua totale ingenuità, Miyazaki evidentemente non si rendeva conto di quanto sia involontariamente comico il fatto che Fio chiami il protagonista Porco, che ha un altro significato in italiano…

In Porco Rosso Miyazaki sperimenta in nuove direzioni.

Anzitutto, qui per la prima volta si vede il nuovo modello per i personaggi femminili, principalmente quelli adulti, che si distinguono più nettamente da quelli invece più giovani, che restano costanti fin da Nausicaä della Valle del vento (1984).

Infatti, Fio Piccolo è sostanzialmente identica a Nausicaä:

Mentre Gina è il primo personaggio femminile adulto veramente differente, con un modello poi ripreso sia ne La città incantata (2001) che nel Il castello errante di Howl (2004):

Elemento curioso: è la prima volta che in un film di Miyazaki i personaggi fumano, elemento incredibilmente presente in La città incantata:

Inoltre, continua qualche passo avanti nella rappresentazione degli oggetti domestici, con un netto miglioramento:

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Super Mario Bros. – Il film – Bastava poco…

Super Mario Bros. – Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic è un titolo già di per sé abbastanza esplicativo.

Ma, in altri termini, è anche molto probabilmente il più grande incasso dell’anno: con un budget di 100 milioni di dollari, ne ha incassati 470 in sole due settimane.

Di cosa parla Super Mario Bros. – Il film?

Mario e Luigi sono due fratelli aspiranti idraulici, che trovano un passaggio che porta in un regno magico, ma anche pieno di insidie…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Super Mario Bros. – Il film?

Mario in Super Mario Bros. - Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic

Dipende.

Ed è un enorme dipende.

Se siete anche minimamente appassionati dei giochi platform e dei vari titoli di Supermario, resterete molto facilmente abbagliati dalla bellezza delle animazioni e dei riferimenti inseriti all’interno della pellicola.

Se invece non avete il minimo interesse per questi temi, anzi vi danno pure un po’ fastidio questo tipo di argomenti e le trasposizioni videoludiche in genere, vi sentirete con ogni probabilità dei pesci fuor d’acqua.

Io vi ho avvisato.

Un’animazione perfetta

Mario in Super Mario Bros. - Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic

Finora non avevo visto nessun titolo della Illumination.

E sono rimasta letteralmente a bocca aperta.

Gli autori di questo film sono riusciti perfettamente a riportare in scena personaggi che già da anni hanno la loro versione 3D, ma senza farne una copia carbone, ma piuttosto arricchendo il loro character design.

E così la finezza nella gestione dei particolari dei personaggi e delle ambientazioni, la potenza delle animazioni, e pure una regia piuttosto indovinata, hanno reso i personaggi e gli ambienti vivi, materiali, reali.

E non è l’unico pregio.

La gestione dei ruoli

Mario in Super Mario Bros. - Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic

Era piuttosto importante sia per la robustezza della narrazione, sia per il coinvolgimento dello spettatore, gestire in maniera ottimale i ruoli di personaggi.

Soprattutto Mario e Peach.

Mario parte come un personaggio molto vicino allo spettatore, con cui è facile empatizzare: cerca di inseguire il suo sogno, nonostante sia da tutti considerato un perdente.

E per questo (ri)scopre il mondo di gioco insieme a noi, e con noi si emoziona, si stupisce di tutte le stranezze che si trovano davanti, e riesce piano piano, e in maniera assolutamente credibile, a diventare l’effettivo eroe.

Peach in Super Mario Bros. - Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic

Discorso diverso per la Principessa Peach.

Anzitutto interessante l’idea di mantenere il suo character design sostanzialmente intatto, riuscendo comunque a farla passare da figura canonicamente passiva (soprattutto nei primi giochi) ad attiva e molto presente sulla scena.

Una costruzione complessivamente intelligente, che riesce ben a contestualizzare il suo personaggio e le sue abilità senza che questo appaia forzato, e senza doverla far diventare più protagonista di quanto fosse necessario.

Parlando invece della costruzione narrativa…

Bastava così poco…

Mario in Super Mario Bros. - Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic

Analizziamo la trama.

Il primo atto è complessivamente solido: conosciamo il protagonista e l’antagonista, in particolare il primo con la sua piccola avventura urbana. Poi, appena Mario conosce la Principessa Peach, vi è un momento di passaggio fondamentale in cui il protagonista deve convincerla delle sue capacità.

Ma è molto debole.

Sembra che Mario impari ad essere un eroe nel giro di una giornata, pur mantenendo una certa fallibilità essenziale per il proseguo della storia e della sua maturazione. Ma il vero problema è che Peach sceglie di portarlo con sé per motivi non proprio chiari, dal momento che anche in seguito non ha così tanta fiducia in lui.

Mario e Peach in Super Mario Bros. - Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic

Sembra più che lo scelga come compagno di viaggio per aiutarlo nel suo percorso di crescita, ma senza che ci siano delle basi effetti per il loro rapporto. Bastava così poco per rendere Mario più convincente o indicare meglio il loro legame in quanto umani…

Così anche la parte centrale in generale non è stata sfruttata a dovere: sarebbe stato molto più equilibrato inserire qualche tappa in più, magari coinvolgendo Donkey Kong. E anche quest’ultimo funziona a metà: molto ben realizzato lo scontro con Mario, meno il rapporto che dovrebbe crearsi fra i due.

Lo stesso finale si poteva gestire meglio, in particolare rendendo meglio il piano di Peach, che è forse la parte meno credibile di tutta la pellicola: non esiste una vera costruzione del suo rapporto con Bowser, ne è chiaro come riesca ad ottenere il fiore per liberarsi.

Al contrario, gli ultimi momenti della pellicola sono davvero ben gestiti.

Appunto, bastava poco per fare un prodotto veramente buono.

Rendere il videogioco in Supermario film

Portare sullo schermo un videogioco senza sembrare dozzinali non è per nulla semplice, e si sprecano gli esempi in questo senso.

Super Mario Bros. rischia diverse volte di eccedere nel citazionismo, ma nel complesso è un aspetto ben gestito, soprattutto per la ricca presenza dei personaggi sullo sfondo, delle vere chicche per i fan.

Al contempo, la scena della corsa di Mario e Luigi per andare al lavoro è semplicemente perfetta nel raccontare un gioco platform, fluida e naturale nelle dinamiche.

Per non parlare di tutta la parte di Donkey Kong, in cui ogni appassionato del genere può facilmente rivedersi.

Ci sarà un seguito del Super Mario Bros il film?

La prospettiva di un sequel è praticamente certa, soprattutto visto il riscontro incredibile che questo prodotto sta ricevendo al botteghino.

La seconda scena post-credit che introduce Yoshi è un buon punto di partenza per ampliare e rinnovare il gruppo di personaggi, oltre alla probabile introduzione di Wario, già vociferata.

Inoltre, il mondo e i personaggi sono così vari che ci sono anche delle ottime basi per creare un seguito, anche con una storia abbastanza analoga, magari scritta un po’ meglio…

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The Old Man & the Gun – In fuga dalla noia

The Old Man & the Gun (2018) è un film scritto e diretto da David Lowery, autore indie che da qualche anno porta avanti una proficua collaborazione con la A24.

A fronte di un budget piuttosto sorprendente – addirittura 15 milioni di dollari – purtroppo è stato anche un flop commerciale: appena 17 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla The Old Man & the Gun?

Forrest Tucker è un rapinatore con una storia piuttosto particolare: in prigione praticamente per tutta la sua vita, è in fuga da due anni dopo una rocambolesca evasione. E il tutto alla veneranda età di 74 anni…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Old Man & the Gun?

Robert Redford in una scena di The Old Man & the Gun (2018) di David Lowery

Assolutamente sì.

Dopo A ghost story (2017) ero discretamente fiduciosa per questa pellicola, ma mai mi sarei aspettata che potesse piacermi così tanto. Ho apprezzato soprattutto il cambio di passo del regista, che ha abbandonato un taglio più marcatamente autoriale e concettuale, scegliendo invece di raccontare una storia più tridimensionale.

Il racconto di The Old Man & the Gun non solo è davvero ben gestito, con una messinscena pulita e puntuale, ma gode anche di un protagonista intrigante e di un taglio più leggero e godibile, nonostante non manchi di tematiche profonde e interessanti.

Insomma, fatevi un favore e guardatelo.

Il ladro gentiluomo

Robert Redford in una scena di The Old Man & the Gun (2018) di David Lowery

The day is still young.

La giornata è ancora lunga.

Mi ha piacevolmente colpito la sottile e gustosa ironia della pellicola: il protagonista è un ladro, ma anche un gentiluomo. Educato, gentile, mai violento, e con sempre un sorriso cordiale stampato in volto.

Fin da subito gli scambi con i manager delle banche e con le commesse raccontano tutta la sua piacevolezza e il divertimento che prova nel suo lavoro.

E infatti Forrest non ha alcun interesse né nei soldi né nel tempo passato in prigione: vuole solo e solamente vivere una vita spericolata, indipendentemente dalle conseguenze.

E infatti…

Il gusto del pericolo

Robert Redford in una scena di The Old Man & the Gun (2018) di David Lowery

Quando John Hunt parla con l’avvocato di Forrest, capisce la vera natura di questo criminale, con una frase in particolare:

It’s not about making a living. I’m just talking about living.

Non sto parlando di sopravvivere, ma di vivere.

E, proprio a sottolineare come per il protagonista sia solo un gioco, in entrambe le scene dell’insegnamento vediamo come sia lui stesso a provocarle, a scappare per farsi prendere, a non preoccuparsi se i soldi stanno volando via dalla macchina…

Allo stesso modo è lui stesso a volersi far catturare, mandando la banconota al detective, andandogli direttamente a parlare, al punto che Hunt, capendo le sue intenzioni, è quasi felice di non essere quello che mette fine al suo divertimento.

E non sarà certo neanche una donna a farlo…

Io ti salverò

Sissy Spacek in una scena di The Old Man & the Gun (2018) di David Lowery

Apparentemente Forrest sembra fare un passo indietro quando conosce Jewel.

La donna è evidentemente innamorata del suo fascino magnetico, ma, in diversi momenti, anche senza dire una parola, gli fa capire che non potrà vivere con lui se vorrà continuare con la sua carriera criminale.

E negli ultimi momenti del film sembra averlo davvero convinto – proprio quando Forrest sembrava già pronto alla sua prossima avventurosa evasione. Ma, quando esce di prigione, appare stanco, infelice, quasi annoiato.

E così, con il sorriso sulle labbra, si butta in una nuova avventura…

The old man and the gun

La bellezza del personaggio di Forrest è proprio nel suo voler essere protagonista di un infinito e spericolato gioco di ruolo.

Purtroppo, è un giocatore solitario: solo lui – e parzialmente il Detective Hunt – capisce veramente le regole della partita. E allora quando arrivano i poliziotti per arrestarlo alla fine, invece che consegnarsi, si mette in macchina e scappa.

Facciamo che eravate dei poliziotti e mi inseguivate?

Robert Redford in una scena di The Old Man & the Gun (2018) di David Lowery

Altro discorso per la pistola.

L’arma non ha mai un intento violento, è solo un oggetto di scena, un accessorio immancabile per ogni criminale che si rispetti. Insomma, come per i baffi e le cuffie, è solo uno dei tanti particolari del suo travestimento.

E diventa tutto ancora più metanarrativo quando, nel finale, Forrest scappa in groppa ad un cavallo, con addosso una sciarpa che sembra tanto il costume di un cowboy, a raccontare anche il passato attoriale dell’interprete stesso…

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Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri – Le giuste aspettative

Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri (2023) di Jonathan Goldstein e John Francis Daley è un film d’avventura per ragazzi basato sull’omonimo gioco di ruolo.

A fronte di un budget piuttosto consistente – 150 milioni di dollari – ha aperto con 70 milioni in tutto il mondo: un inizio promettente, ma basterà?

Di cosa parla Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri?

Il bardo Edgin Darvis e la barbara Holga Kilgore sono in prigione da due anni, ma hanno finalmente la possibilità di imbarcarsi in una nuova avventura…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri?

Chris Pine, Justice Smith, Michelle Rodriguez e Sophia Lillis in una scena di  Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

Assolutamente sì.

Almeno, se ci andate con le giuste aspettative.

Io mi aspettavo – e volevo – un prodotto d’intrattenimento, un’avventura per ragazzi leggera e divertente, con un umorismo piacevole e una storia coinvolgente.

Ed è esattamente quello che ho trovato.

Oltre ad avermi piacevolmente intrattenuto, anche andando a valutarlo più analiticamente, non mancano alcuni guizzi registici non indifferenti, e la sceneggiatura si dimostra complessivamente solida.

Per farvi un’idea del tono della pellicola, questa coppia di registi si è occupata della sceneggiatura di film come Spiderman – Homecoming (2018) e Come ammazzare il capo…e vivere felici (2011).

Io, comunque, ve lo consiglio.

Una trama a quest

Chris Pine e Regé-Jean Page una scena di  Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

Proprio per la vicinanza al gioco originale, la trama di Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri è suddivisa in quest.

Una prima parte dedicata all’introduzione dei personaggi, con un racconto piuttosto esplicativo del background del protagonista, in una cornice comica e molto funzionante.

E nel primo atto vengono anche definiti i ruoli in campo, si racconta il tradimento di Forge – interpretato da un Hugh Grant davvero convincente – e il conflitto fra il protagonista e la figlia.

La parte centrale è piuttosto ampia, più di quanto sinceramente mi sarei aspettata, ed è dedicata appunto all’articolata quest centrale, con i personaggi che si muovono in una serie di tappe, fra cui la gustosissima scena del cimitero.

In maniera altrettanto inaspettata, l’atto finale è diviso in due parti, del tutto funzionali a concludere le vicende di entrambi i villain in gioco: quello politico e il vero antagonista – Sofina.

Insomma, una campagna di D&D fatta a film.

Piccoli trucchi, nessuna forzatura

Chris Pine in una scena di  Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

La scrittura gioca sicuramente con alcuni piccoli trucchi per portare a certe svolte di trama.

Quello più evidente è il Bastone Qui-e-là, che arriva piuttosto convenientemente in aiuto ai personaggi proprio quando ne hanno bisogno. Ma la sceneggiatura non è così banale da renderlo del tutto inverosimile, ma si cerca un minimo di giustificarne la presenza. Ed è del tutto verosimile che Holga l’abbia rubato senza sapere di cosa si trattasse.

Al contempo, l’unico momento poco credibile è quando i protagonisti devono attraversare il ponte del dungeon ormai crollato: sarebbe stato del tutto sensato se Doric avesse proposto di trasformarsi e portarli dall’altra parte.

E ci sarebbero stati diversi motivi per cui la stessa non avrebbe potuto farlo – anche solo il fatto di non sapersi trasformare in un certo animale o in uno così grande da poterli sollevare. Ma tacere questo aspetto lascia la questione un po’ in sospeso e toglie leggermente credibilità alle dinamiche in scena.

Ma, tutto sommato, è una piccolezza.

Un’evoluzione equilibrata

Justice Smith, Michelle Rodriguez e Sophia Lillis in una scena di  Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

Tutti i personaggi, chi più chi meno, godono di un’evoluzione e una caratterizzazione ben precisa.

Fra tutte, quella più rischiosa era quella di Simon, su cui la trama insiste continuamente riguardo ai suoi poteri non sfruttati. E se la sceneggiatura fosse stata messa in mani meno esperte, nel finale il mago avrebbe scoperto il suo vero potere e sconfitto Sofina.

Invece Simon riesce un minimo a tenerle testa, ma non è assolutamente altrettanto capace – e giustamente. La sua evoluzione si è fermata riuscire a credere in se stesso e ad usare l’elmo, e la sconfitta del villain prende altre strade.

E va benissimo così.

La morale

Chloe Coleman e Hugh Grant in una scena di  Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

Ho decisamente apprezzato la morale conclusiva legata a Edgin.

Mi ha ricordato moltissimo una delle tematiche centrali di Il gatto con gli stivali 2 (2022): l’importanza della famiglia, anche se non quella di sangue. In conclusione, il bardo capisce che il riportare in vita la moglie morta non farebbe davvero la felicità della figlia – per quanto abbia cercato di convincersi del contrario.

Invece, è piuttosto evidente che la vera madre di Kira è Holga, che l’ha cresciuta proprio come sua figlia e che è ancora importante per la sua vita – e che lo potrà essere anche per il futuro.

Pochi nei in un ottimo equilibrio

Daisy Headin una scena di Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

Pensando ai (pochi) punti deboli, il primo pensiero va ovviamente a Sofina.

Paragonata a Forge, che risulta un villain molto più intrigante e piacevole, la maga appare invece piuttosto banale, e così anche il suo padrone. Non che manchi un tentativo di costruire meglio la loro backstory, ma che mi è sembrata comunque abbastanza fumosa e poco interessante.

Allo stesso modo l’estetica e la CGI della pellicola falliscono in pochi punti, in particolare nel character design di Sofina e in alcuni dei suoi incantesimi.

Invece, più in generale si è riuscito a trovare un ottimo equilibrio fra un’estetica molto giocosa, quasi cartoon, coerente con l’opera di partenza, e un’ottima tecnica visiva che ha mantenuto alto il livello complessivo del prodotto.

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Laputa – Il primo, comico Ghibli

Laputa Il castello nel cielo (1986) è il secondo lungometraggio di Hayao Miyazaki come autore completo, nonché il primo film prodotto dal neofondato Studio Ghibli.

E, come il precedente Nausicaä della Valle del vento (1984), fu un ottimo successo commerciale: a fronte di un budget di appena 500 milioni di yen (circa 3 milioni di dollari), incassò 16 milioni in tutto il mondo.

Arrivò in Italia prima direttamente in DVD nel 2004, in una versione ritirata subito dal mercato, e solo nel 2012 venne proiettato al cinema con il nuovo doppiaggio.

Di cosa parla Laputa?

Una misteriosa ragazzina è stata rapita da degli uomini senza scrupoli. Mentre cerca di scappare, cade dall’aeronave, ma riesce a non precipitare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Laputa?

Sheeta e Pazu in una scena di Laputa - Il castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki

In generale, sì.

Laputa è uno dei primi prodotti di Miyazaki, ma in cui mostra già grande abilità nel raccontare una storia ben costruita e una splendida ambientazione fra il mistico e il magico.

Inoltre, dopo Nausicaä della Valle del vento, in questa pellicola il maestro nipponico introduce nuovi spunti di riflessione, che saranno ancora più approfonditi nei suoi prodotti futuri.

Inoltre, vi è un piacevolissimo incontro fra una trama veramente drammatica, quasi paurosa, e alcuni elementi comici, al limite del grottesco e dell’assurdo, alternando così momenti più tragici a sequenze più leggere.

Insomma, da vedere.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Laputa Il castello nel cielo il pericolo è medio-alto.

Il doppiaggio risale al 2012, quando Cannarsi aveva già anche troppa importanza nel settore. E sembra incredibile che sia stato approvato un adattamento così sconclusionato, al limite dell’inverosimile, tanto da risultare quasi comico.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

Una protagonista troppo innocente?

Sheeta e Pazu in una scena di Laputa - Il castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki

Come caratterizzazione, Sheeta non è tanto diversa da Nausicaä, ma come caratterizzazione si compie un piccolo passo indietro.

Forse anche per la sua giovane età, la protagonista di Laputa è davvero un personaggio innocente, in parte intraprendente, ma anche tendenzialmente passiva, che rimette la risoluzione finale dell’avventura nelle mani di Pazu, che più che un compagno è quasi un coprotagonista.

Tuttavia, la sua caratterizzazione è del tutto funzionale alla trama: i toni più drammatici e minacciosi di Laputa e, soprattutto, di Muska, sono in aperto contrasto con la totale ingenuità della ragazzina.

Un personaggio più intraprendente e maturo non avrebbe avuto lo stesso effetto, insomma.

Il doppio nemico

Sheeta e Pazu  e i pirati in una scena di Laputa - Il castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki

Per questa pellicola Miyazaki sceglie di inserire ben tre gruppi di nemici, che si definiscono in una scala di sempre maggiore di cattiveria e spietatezza.

I pirati sono una minaccia per i personaggi limitatamente al primo atto, mentre la loro pericolosità si smorza sempre di più nel corso della pellicola. Diventano infatti dei personaggi fondamentalmente comici, con una leader solo apparentemente arcigna a capo di un gruppo di criminali che sono in realtà dei bambinoni.

Allo stesso modo molto meno minacciosi di quanto sembrino sono l’esercito e, soprattutto, il generale, che in realtà è totalmente nelle mani di Muska, raccontato come nemico piuttosto banale, che desidera solo arricchirsi e ottenere una nuova arma da guerra.

Mazuka Laputa

Mazu in una scena di Laputa - Il castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki

Il vero villain, appunto, è Muska.

Muska è uno degli antagonisti più temibili di tutta la produzione di Miyazaki: volendosi solo apparentemente arricchire, in realtà è un uomo assetato di potere, che non si fa alcuno scrupolo a maltrattare e usare una ragazzina così indifesa.

Molto indovinata la scelta di legarlo così direttamente alla protagonista, dando un sapore più importante al loro conflitto. Al contempo, è un antagonista elegante e ben raccontato, che non si sbilancia mai, ma rimane solo drammaticamente malvagio, a tratti persino inquietante.

Il paradiso inviolabile

Sheeta e Pazu in una scena di Laputa - Il castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki

Anche se Laputa è una destinazione desiderata per le sue ricchezze e la sua potenza, la bellezza del luogo è un’altra.

L’isola è mostrata come un luogo dalla natura incontaminata, con un’atmosfera magica che racconta ancora una volta la bellezza degli ambienti quando sono sottratti al controllo umano.

Così un castello che era un’arma di distruzione, è diventato un paradiso terrestre, con dei robot killer che hanno riscoperto la loro natura gentile.

Robot Laputa

Il robot in una scena di Laputa - Il castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki

La tematica dell’ambientalismo in questo caso è più sottile, mentre i temi centrali sono l’avidità umana e l’orrore della guerra. Il primo è meno incisivo, ma costante: nella loro completa onestà e ingenuità, i due protagonisti raggiungono Laputa per il piacere della scoperta, e non per arricchirsi.

Molto diverso dal comportamento dei soldati mentre spogliano il castello delle sue ricchezze senza pietà.

Più drammatico è il tema della guerra, racconto dall’azione distruttiva – letteralmente – dei villain, ma racchiuso soprattutto nella scena in cui Mazuka utilizza per la prima volta l’isola come arma, che ricorda molto una certa bomba atomica…

Temi che saranno anche meglio raccontati l’uno in La città incantata (2001), e l’altro in Il castello errante di Howl (2004).

La tecnica artistica di Miyazaki in questo film mostra già un’importante evoluzione.

La tecnica generale è ancora molto abbozzata per diversi personaggi, soprattutto nelle scene affollate, e forse è la pellicola in cui si vede di più l’importanza dell’esperienza del regista con Lupin e Heidi.

Sheeta – ma anche Pazu – è molto simile per i tratti del viso ad Heidi, e anche un po’ per la caratterizzazione:

In generale, per il momento Miyazaki rimane sul semplice per la maggior parte dei volti, e alcuni personaggi maschili ricordano Lupin, appunto.

Inoltre, in Laputa si guarda al futuro, ma anche al passato: le volpi che corrono sulle spalle dei robot sono identiche all’animale da compagnia di Nausicaä:

E ci sono due personaggi che sembrano dei bozzetti per prodotti futuri: la sorella di Pazu assomiglia moltissimo alla protagonista di Ponyo sulla scogliera (2008), mentre il macchinista dei pirati sembra la prima versione di quello che sarà poi Kamaji ne La città incantata:

Ponyo Laputa

I passi avanti più promettenti sono i primi studi fatti sui volti anziani, in particolare quello delle matrone, come appunto Dola, che avrà la sua migliore realizzazione in La città incantata con Yubaba e soprattutto in Il castello errante di Howl con la protagonista:

Altrettanto buono è il lavoro fatto sulle espressività del viso dei personaggi, che offrono molti spunti soprattutto per Mazuka, ma anche sempre per Dola:

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Avventura Azione Comico Drammatico Film Nuove Uscite Film

John Wick 4 – Una scommessa vinta

John Wick 4 (2023) di Chad Stahelski è il quarto e (forse) ultimo capitolo della saga omonima con protagonista Keanu Reeves.

Un film molto ambizioso con un budget piuttosto importante – 100 milioni di dollari – e che ha aperto benissimo nel primo weekend: 137 milioni in tutto il mondo!

Di cosa parla John Wick 4?

John Wick è pronto per la sua vendetta contro la Gran Tavola, ma un nuovo nemico si staglia all’orizzonte…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere John Wick 4?

Keanu Reeves in una scena di John Wick 4 (2023) di Chad Stahelski

In generale, sì.

Nonostante abbia molto apprezzato questo quarto capitolo, ci sono indubbiamente alcune barriere all’ingresso: anzitutto, è quanto mai importante aver visto gli altri film della saga, così da avere un’infarinatura generale della storia – e abbiamo visto recentemente come non sia così scontato.

Inoltre, alcuni potrebbero non apprezzare le coreografie dei combattimenti, quantomai rocambolesche e creative, quasi fino all’accesso, nonostante io ne abbia assolutamente apprezzato la grande originalità.

Insomma, non il solito film action.

La pochezza del marchese

Bill Skarsgård in una scena di John Wick 4 (2023) di Chad Stahelski

A primo impatto il Marchese sembra un villain piuttosto tipico e di scarso interesse, nonostante la buona prova attoriale di Bill Skarsgård.

Invece il film riesce a far spiccare i personaggi positivi per la loro moralità ferrea, e a condannare invece totalmente – pur in maniera molto sottile – l’antagonista.

Il marchese infatti non è solamente cattivo e spietato, ma è proprio un inetto ed un codardo, incapace di affrontare direttamente le sfide, preferendo prendere scorciatoie, sentendosi così invincibile nella sua posizione di potere.

Ma la sua arroganza alla fine gli si rivolta contro…

L’unione fa la forza

Shamier Anderson in una scena di John Wick 4 (2023) di Chad Stahelski

Non era facile riuscire a gestire in maniera efficace i personaggi secondari e apparenti antagonisti del protagonista.

Ma John Wick 4 ci è riuscito ottimamente.

Anzitutto Mr. Nobody sceglie di non andare più contro Wick, ma anzi di aiutarlo nella sua impresa, perché lo stesso dimostra di avere una morale che va molto oltre la pura vendetta.

E l’aver salvato il cane non solo è un bellissimo collegamento al primo capitolo, ma riesce soprattutto a legare indissolubilmente lo spietato cacciatore di taglie con il protagonista, in maniera molto convincente e credibile.

Donnie Yen in una scena di John Wick 4 (2023) di Chad Stahelski

Ancora migliore è la gestione di Caine.

Il killer cieco e John Wick sono legati sia da un rapporto di amicizia, sia da un simile passato tormentato. E, soprattutto, sono uniti dal senso dell’onore e del rispetto dei patti. Infatti, Caine avrebbe potuto uccidere facilmente il protagonista quando era in evidente difficoltà anche solo ad arrivare al luogo del duello.

E invece ha deciso di non scendere al livello del marchese – nonostante avrebbe così ottenuto la sua ricompensa in maniera più veloce e meno rischiosa – ma di essere invece un concorrente corretto.

I rocamboleschi combattimenti

Keanu Reeves in una scena di John Wick 4 (2023) di Chad Stahelski

La gestione dei combattimenti potrebbe essere un elemento estremamente divisivo.

Io personalmente ho adorato tutte le coreografie incredibilmente rocambolesche e la loro pazzesca creatività, che è stato sempre uno degli elementi che ho apprezzato della saga e che qui ho ritrovato nella sua forma migliore.

E ancora una volta si combatte con tutto, e ovunque: martelli, spade, pistole, fucili e persino carte da gioco. E con un livello ancora più interessante nel creare uno stile di combattimento assolutamente credibile per un killer cieco.

Nota di merito anche alla scelta del duello finale: lento e imponente, del tutto diverso dal taglio caotico e meno strettamente cadenzato di tutti i combattimenti precedenti, impreziosendo la sequenza finale di un importante pathos e di una intrigante tensione.

La giusta ironia

Un elemento che personalmente mal sopporto dei film action è che spesso si sceglie un tono incredibilmente serioso, con prodotti che si prendono fin troppo sul serio, risultando di spesso ridicoli e persino noiosi – sì, sto parlando proprio di The Gray Man (2022).

Invece in John Wick 4, nonostante la monumentalità della pellicola e della storia raccontata, non manca lo spazio per battute piuttosto gustose.

Ho particolarmente apprezzato la scelta di alzare il livello di assurdità delle scene di combattimento fino a renderle quasi comiche, e, soprattutto, la splendida autoironia di Caine.

Una battuta su tutte:

Vediamo le carte.

Piccole e buone didascalie

Keanu Reeves in una scena di John Wick 4 (2023) di Chad Stahelski

La costruzione della trama è pulita e abbastanza lineare: il protagonista deve arrivare a sconfiggere il boss finale – la Gran Tavola – e deve trovare anche un modo per conquistare la sua libertà.

E si sceglie un modo credibile e perfettamente coerente con la saga stessa. Al contempo, inserendo un’ottima parte centrale scaturita da una quest secondaria praticamente fondamentale per mantenere solidità della trama.

A fronte di una struttura narrativa ben congegnata, la pellicola riesce con grande abilità a fornire allo spettatore tutte le informazioni di lore di cui ha bisogno, senza risultare per questo pedante.

In particolare, la scelta più ingegnosa è stato il quaderno di appunti di Mr. Nobody, con cui identifica alcuni simboli propri della mitologia del film, e così li spiega anche allo spettatore.

John Wick 5 si farà?

Con grande dispiacere, il regista ha dichiarato che per ora la storia di John Wick è finita.

Effettivamente l’avventura di Keanu Reeves sembra conclusa e il protagonista sembra arrivato ad una sua naturale conclusione – per una saga, ricordiamolo, che non era pensata per essere tale.

Nonostante ciò, è in programma uno spin-off con protagonista Ana de Armas, in uscita nel prossimo futuro col titolo di Ballerina.

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2022 Avventura Azione Comico Commedia Film Giallo

See how they run – Un delizioso meta-giallo

See how they run (2022) di Tom George, in Italia noto col titolo molto più blando di Omicidio nel West End, è una pellicola di genere giallo whodunit, con una spruzzata di metanarrativa che irride il genere di riferimento.

Una pellicola che purtroppo, come tanti altri film di piccola produzione in questo periodo, è stato un sonoro flop: a fronte di un budget di 40 milioni di dollari, ne ha incassati appena 22 in tutto il mondo.

Di cosa parla See how they run?

Londra, 1953. Durante i festeggiamenti per la centesima rappresentazione teatrale di Trappola per topi, uno dei titoli minori di Agatha Christie, il regista viene assassinato nel backstage. E l’indagine sarà nelle mani di una coppia di poliziotti piuttosto improbabile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere See how they run?

In generale, sì.

La pellicola è molto forte su alcuni punti, più debole su altri. I punti di forza sono sicuramente l’ambientazione e i personaggi: atmosfere molto curate, dal sapore vintage, che ricordano tanto un film di Wes Anderson e del giallo classico degli Anni Cinquanta.

Al contempo, personaggi piacevoli sul filo del macchiettistico, con due ottimi attori protagonisti: Saoirse Ronan e Sam Rockwell.

Tuttavia, See how they run non vuole essere solamente un giallo, ma in qualche modo giocare con il genere, inserendo elementi metanarrativi anche interessanti, ma che nel complesso risultano abbastanza deboli e non perfettamente congegnati.

Ma nulla che guasti veramente la piacevolezza della pellicola.

Cosa significa il titolo See how they run

Il titolo originale, See how they run, è fondamentalmente incomprensibile se non si è inglesi.

Si riferisce infatti ad un verso di una nursery rhyme, una canzoncina per bambini, Three Blind Mice:

Three blind mice. Three blind mice.
See how they run. See how they run.
They all ran after the farmer's wife,
Who cut off their tails with a carving knife.
Did you ever see such a sight in your life
As three blind mice?
Tre topolini ciechi, tre topolini ciechi
Guarda come corrono, guarda come corrono
Corrono tutti dietro alla moglie del fattore,
che gli ha tagliato la coda con un coltello
Hai mai visto niente di simile nella tua vita
Come tre topolini ciechi?

E probabilmente allude anche all’omonima pièce teatrale del 1944, una farsa dal sapore comico basata su scambi di identità ed incomprensioni.

Quindi il titolo in entrambi descrive la natura stessa della storia: un insieme di situazioni comiche e paradossali, proprio come quella di tre topolini ciechi che inseguono la donna che gli ha appena tagliato la coda.

E questo riferimento nella pellicola si intreccia perfettamente con lo spettacolo teatrale che è al centro della storia: Trappola per topi, appunto.

Atmosfere travolgenti

Le atmosfere e l’estetica della pellicola sono ottimamente congegnate

Soprattutto per le prime scene, mi hanno ricordato Grand Budapest Hotel (2014) – e sicuramente Wes Anderson è stato d’ispirazione per il film. Un’estetica davvero curata sia negli ambienti – che sembrano quasi teatrali – sia nei personaggi e nei costumi, perfettamente in linea con le atmosfere e il tono della pellicola.

Anche gli esterni sono piuttosto suggestivi: vicoli fumosi e strade nella penombra, in cui la brillantezza dei colori si scontra con le lunghe ombre che si allungano sulla scena, minacciando i personaggi e al contempo apparendo come irraggiungibili…

Un semplice buddy movie

Nelle dinamiche, See how they run riprende il taglio del buddy movie.

Una scelta che ha favorito anche l’ovvio inserimento di un personaggio femminile come protagonista, che risulta così ben contestualizzato nel contesto temporale: l’unica donna del corpo di polizia che deve farsi largo in un mondo di uomini che la sottovalutano.

In particolare, Stoppard la sottovaluta moltissimo, cerca costantemente di metterla al suo posto ed è quasi infastidito dalla sua eccessiva emozione nel condurre un caso, da cui cerca sistematicamente di escluderla.

Ma entrambi i personaggi hanno due picchi drammatici che raccontano l’evoluzione del loro rapporto: quando il detective mente alla ragazza dicendo di dover andare dal dentista – e viene scoperto – e quando Stalker lo accusa ingiustamente dell’omicidio.

Ma alla fine è la stessa ragazza a salvare il burbero detective.

Don’t jump to conclusions!

L’elemento metanarrativo che meglio funziona è quello del don’t jump to conclusions!

Questo è infatti l’ammonimento che Stoppard fa alla giovane poliziotta, ma in realtà anche allo spettatore: non saltiamo subito alle conclusioni! Infatti è molto tipico di questo tipo di gialli whodunit essere articolati in un susseguirsi di interviste dei sospettati.

E, per ognuno di loro, il flashback mostrato racconta la loro totale colpevolezza, ricalcata in questo caso proprio dall’irruenza di Stalker. Ma siamo appunto anche noi spettatori a saltare subito a queste conclusioni.

E infatti il film riesce comunque a prenderci bonariamente in giro: l’accusa a Stoppard è davvero credibile!

Una metanarrativa debole

Purtroppo la pellicola, volendo così entusiasticamente giocare con il genere, finisce a perdersi in se stessa.

Funziona molto meglio quando questo elemento è sottile – come abbiamo appena visto – molto meno quando la conclusione del film è stata già praticamente raccontata nella prima parte della pellicola, ovvero tramite la sceneggiatura che Leo Köpernick voleva mettere in scena.

E vederla avvenire esattamente come era stata descritta, poteva apparire sulla carta come un’idea brillante e la conclusione più metanarrativamente interessante per la pellicola stessa, ma in realtà mi è parsa solo piuttosto goffa e semplicistica.

Tuttavia, è l’unico vero difetto che mi sento di segnalare.

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2022 Animazione Avventura Azione Comico Commedia Drammatico Dreamworks Fantasy Film Il gatto con gli stivali

Il gatto con gli stivali 2 – La rinascita?

Il gatto con gli stivali 2 – L’ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford è stata una grande sorpresa fra la fine del 2022 e l’inizio del 2023: un sequel arrivato a più di dieci anni di distanza dal primo – mediocre e dimenticabile – capitolo.

Infatti, aprendo con un incasso non molto promettente – appena 20 milioni negli Stati Uniti – il film ha cominciato la sua scalata verso il successo proprio grazie all’ottimo passaparola, che l’ha fatto arrivare ad incassare 470 milioni di dollari in tutto il mondo, a fronte di un budget di 90.

Ed è un caso più interessante di quanto si potrebbe pensare…

Di cosa parla Il gatto con gli stivali 2?

Il gatto con gli stivali è un eroe amato da tutti, con una vita spericolata e senza freni. Ma un incontro inaspettato gli farà cambiare drasticamente idea…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena vi vedere Il gatto con gli stivali 2?

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Assolutamente sì.

Non avevo inizialmente alcun interesse per questa pellicola – né d’altronde per il primo capitolo, che non avevo mai visto. Mi sembrava il solito strascico senza senso di una saga – quella di Shrek – che boccheggiava già con il terzo film della storyline principale.

E per fortuna il passaparola mi ha salvato.

Il passaparola positivo è stato infatti la salvezza di questo prodotto, che inizialmente sembrava destinato al collasso economico – come la maggior parte dei film d’animazione di questo periodo. E ha portato anche me alla visione.

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Il gatto con gli stivali 2 è un’ottima pellicola d’animazione, che dopo tanti anni riporta la Dreamworks verso quel taglio narrativo che l’aveva resa così diversa dai prodotti della concorrenza.

A questo si aggiunge una tecnica d’animazione che mischia la grafica 3D con quella 2D, ottimamente realizzata, che ricorda molto la bellezza di altri ottimi prodotti come la serie Arcane (2021 – …) e Spiderman into the spiderverse (2018).

Insomma, se non l’avete ancora fatto, recuperatelo assolutamente.

Ma passiamo alla domanda fondamentale…

Per vedere Il gatto con gli stivali 2 devo vedere Il gatto con gli stivali del 2011?

Questa sezione è dovuta perché non voglio che voi facciate il mio stesso errore.

Visto il mio totale disinteresse per il primo capitolo – e il mio totale disprezzo per le ultime morenti fasi della saga di Shreksono passata direttamente al sequel. Poi, per completezza, ho deciso di vedere anche il primo capitolo.

E ho sbagliato.

Non solo il dislivello fra i due film è immenso, ma la visione del primo capitolo è fondamentalmente inutile per fruire del seguito. E potrebbe anzi avere l’effetto contrario: allontanarvi dalla visione de Il gatto con gli stivali 2.

Purtroppo, Il gatto con gli stivali (2011) è veramente mediocre: una trama banalissima e di nessun interesse, personaggi quasi grotteschi e villain assai deboli e mal costruiti. Per questo, nelle prossime righe vi dirò le poche cose che vi servono per godervi appieno Il gatto con gli stivali 2.

Non proseguire se non vuoi spoiler su Il gatto con gli stivali (2011)!

Quando era solo un cucciolo, il gatto con gli stivali fu adottato da una donna che curava un orfanotrofio, e la stessa gli regalò il suo iconico paio di stivali, simbolo della sua futura vita da eroe.

Nel primo film il gatto conosce anche Kitty Softpaws, che ritorna nel seguito, con cui intraprende una relazione romantica, nonostante la gatta sia una doppiogiochista e nel film si scopre essere parte dell’inganno del villain.

Ora potete vedere Il gatto con gli stivali 2!

La caduta dell’eroe

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

L’incipit è davvero ottimo.

La pellicola si apre con un rocambolesco numero musicale con protagonista il gatto, a cui segue un combattimento incredibilmente ben realizzato contro il gigante che ha involontariamente risvegliato e che attacca la città.

Questa sequenza ci racconta tutto quello che dobbiamo sapere sul nostro protagonista.

Il gatto con gli stivali vive una vita a metà fra l’eroismo e la criminalità: salva la città ed è ammirato dal popolo, ma in parte osteggiato dai personaggi più in vista, di cui si approfitta, conducendo una vita piuttosto spericolata e dissoluta.

Ma non è una scelta sostenibile nel tempo.

Il viaggio della maturità

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Il film racconta la maturazione del protagonista, una sorta di passaggio da un’esistenza più giovane e, volendo, adolescenziale, verso una vita più adulta e consapevole.

Infatti, all’inizio della pellicola il gatto viene messo davanti alle sue responsabilità: ha sparato tutte le cartucce che gli hanno permesso di ridere in faccia alla morte, vivere senza pensare alle conseguenze…

…e gli è rimasta una sola vita.

Inizialmente il protagonista si rifiuta di accettare questa possibilità, e sceglie di continuare a vivere come ha sempre fatto. Il momento del drastico cambio di idea, e della decisione di spogliarsi della sua identità, è l’incontro con la Morte.

La Morte è infatti l’unica cosa che fa davvero paura al protagonista.

Un’inquietante ombra che lo insegue per tutta la sua avventura, senza che il gatto sia – per la maggior parte del tempo – capace neanche di raccontarlo ai suoi compagni. E la sua maturazione sta proprio nel come affrontare la Morte o, meglio, la responsabilità di avere una sola vita da vivere, e per questo di trattarla con cura.

E infatti il primo istinto del protagonista è di aggirare il problema, concedendosi ancora molte vite e molte occasioni da utilizzare, ma, soprattutto, da sprecare.

Ma nel finale la sua scelta di non sfuggire dalla morte, ma di guardarla in faccia e sfidarla, è quello che fa capire alla stessa che il gatto non è più quello di una volta, non è più l’eroe sfacciato che non aveva alcun interesse o cura della sua esistenza. E per questo lo lascia andare.

Le favole adulte

Riccioli D'oro e i Tre Orsi in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Con Il gatto con gli stivali 2 finalmente la Dreamworks torna a delle scelte narrative più interessanti e mature, in questo caso portando in scena le versioni adulte delle favole stesse, che in certo senso rispecchiano anche il pubblico di riferimento.

La favola di più immediata comprensione per il pubblico europeo è quella di Riccioli d’oro, che ormai è una giovane adulta che vive insieme a tre orsi: un simpatico quanto temibile quartetto di criminali.

Big Jack Horner in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Anche più interessante è la riscrittura della storia di Little Jack Horner – nel film Big Jack Horner, per ovvi motivi. La sua favola proviene da una canzoncina del folklore inglese, che recita quanto segue (la traduzione è mia):

Little Jack Horner
Sat in the corner,
Eating his Christmas pie;
He put in his thumb,
And pulled out a plum,
And said, “What a good boy am I!”

Little Jack Horner
Stava seduto in un angolo
Mangiando la sua mince pie
Vi mise dentro il pollice
E tirò fuori una prugna
E disse: “Che bravo bambino che sono!”

Quindi la storia di un bambino incredibilmente viziato e dispettoso, per cui i genitori stravedevano e a cui permettevano di fare tutto quello che voleva, fra cui mettere il pollice dentro le torte, appunto.

E, da bambino capriccioso è diventato un adulto capriccioso, che vuole tutto per sé: colleziona ogni oggetto magico esistente, ma ancora non gli basta.

E per questo è un villain perfetto.

Un terzetto di villain

Mentre in un altro contesto la presenza di così tanti villain poteva impattare negativamente sul risultato finale, nel caso de Il gatto con gli stivali 2 questa scelta favorisce invece una narrazione articolata e senza tempi morti.

Il primo gruppo di villain – o quasi – è quello di Riccioli D’oro e i Tre Orsi.

Alle spalle dei Tre Orsi, la ragazza vuole portare indietro i suoi genitori perduti, in un atto di totale egoismo e di mancanza anche di rispetto nei confronti di personaggi che si dimostrano veramente accoglienti e amorevoli nei suoi confronti.

Un bellissimo racconto di come una famiglia si possa formare anche al di fuori dei perimetri più tradizionali, portando Riccioli D’oro ad una consapevolezza non tanto dissimile da quella del protagonista: essere felici della propria vita, che può essere già piena e soddisfacente senza dover inseguire sogni di felicità solo apparentemente risolutivi.

Big Jack Horner in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Due sono gli elementi di forza di Big Jack Horner: il suo ruolo nella trama e il non abbandonare mai la sua natura malvagia.

Per fortuna per il sequel si è scelto di non perpetuare il tremendo e ridondante errore del primo film: far diventare buono il villain. Una scelta solo apparentemente diversa, in realtà diventata col tempo piuttosto prevedibile, con risultati veramente mediocri se gestita così male come in Il gatto con gli stivali (2011).

Invece Jack dice esplicitamente di essere morto dentro, e, nonostante i tentativi del Grillo Parlante di farlo rinsavire, rimane cattivo fino alla fine. E la sua disfatta determina anche la definitiva maturazione dei personaggi positivi, che si alleano ai suoi danni e rinunciano al desiderio tanto ambito.

La sua gestione è altrettanto ottima nel finale: Jack viene messo temporaneamente da parte – apparentemente sconfitto – per far spazio alla Morte.

Morte Il gatto con gli stivali 2

Morte in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

La Morte è uno dei migliori villain mai creati dalla Dreamworks.

Finalmente si ritorna a nemici nello stile di Kung Fu Panda, profondamente malvagi e temibili. In questo caso la Morte è veramente un avversario spaventoso, nell’aspetto e nei comportamenti, e che, soprattutto, viene sconfitto dalla maturità del protagonista.

E fa tanto più paura in quanto si contrappone un animale così possente e pauroso – almeno nel folklore – del lupo, armato di due mannaie, con quello che in fin dei conti è un piccolo gattino, che quasi scompare davanti alla possanza del suo nemico…

Un film per tutte le età

Il grande pregio de Il gatto con gli stivali 2 è stata la scelta di tornare ad un target variegato come era stato per i suoi brand di successo, soprattutto quello da cui deriva: Shrek. Ed è possibile grazie alla scelta di un gruppo di personaggi piuttosto variegato che riesce ad agganciare diversi tipi di pubblico.

Il protagonista racconta una fascia di pubblico intermedia, di giovani adulti che si trovano ad abbandonare l’adolescenza per abbracciare la complessità della vita adulta, con grandi dubbi e paure, ma anche importanti soddisfazioni.

Per un pubblico più giovane e adolescenziale, il punto di riferimento è Riccioli D’oro, che rappresenta proprio la classica adolescente insicura e dal brutto carattere, che però riesce a rendersi conto del valore della famiglia e, in generale, degli affetti che la circondano.

Ma anche il pubblico infantile rimane soddisfatto grazie a Perrito, l’adorabile cagnolino che diventa l’improbabile compagno di avventure del gatto e di Kitty. Il cucciolo – da cui il nome, perrito – racconta proprio lo sguardo infantile e sognante, offrendo quel tocco di dolcezza e tenerezza che non poteva mancare.

Un cambio di passo?

Proprio in questa scelta di un pubblico così variegato come ai vecchi bei tempi io spero di vedere l’inizio di un ripensamento di questa casa di produzione: dopo il cambio di direzione del 2016 – ma per certi versi anche da prima – la Dreamworks ha perso del tutto la sua identità.

Infatti ha cercato di mimare i successi della Illumination Entertainment – madre dei grandi successi della saga di Cattivissimo me e Sing – ma finendo solo per snaturarsi: a differenza dei grandi incassi dei concorrenti – quasi un miliardo solo per il recente Minions 2 (2022) – alla Dreamworks sono rimaste solo le briciole.

Infatti, quando ormai i grandi successi della saga di Shrek erano lontani, dal 2016 i tentativi di rilanciarsi con prodotti solo destinati al pubblico infantile come Trolls o Baby Boss, ma solo il secondo è riuscito a fare un incasso dignitoso.

Per il resto, solo poche centinaia di milioni di incasso per ogni film, se non veri e propri flop.

Che sia il momento della svolta?

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Avventura Azione Drammatico Film Horror Scream - Il secondo rilancio Scream Saga

Scream 6 – La maledizione del sequel

Scream 6 (2023) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett è il sesto capitolo della saga horror cult Scream, nonché il secondo film del franchise diretto da questa coppia di registi.

A fronte di un budget superiore rispetto al precedente – 35 milioni – il film ha aperto con 67 milioni di dollari, prospettando un ottimo incasso.

Di cosa parla Scream 6?

Un anno dopo gli eventi di Scream 5, Sam e Tara si sono trasferite a New York insieme agli altri sopravvissuti. Ma la minaccia di Ghostface è dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scream 6?

Dipende.

Nel contesto delle produzioni horror mainstream in genere, è sicuramente ad un livello superiore per messinscena e regia, soprattutto per le scene degli omicidi, piuttosto creative ed originali, e che non scadono mai nell’eccesso o nel cattivo gusto.

Se lo consideriamo invece nel complesso della saga, è uno dei più deboli insieme a Scream 2 (1997): l’elemento metanarrativo, che distingue questi film dal resto dei prodotti del genere di riferimento, è molto più debole e ripesca a piene mani dai precedenti, ma con molto meno mordente.

Inoltre, ci sono non pochi elementi fondamentali della trama che sono spiegati piuttosto sbrigativamente e in maniera anche complessivamente poco credibile, segno di una sceneggiatura probabilmente messa insieme in poco tempo…

Una messinscena da paura

Come per Scream 5, anche per questo capitolo la coppia di registi si conferma capace di tenere alta la tensione e di portare in scena sequenze di grande creatività ed interesse.

Particolarmente memorabile è tutta la sequenza dedicata alla metropolitana, un luogo precario e in cui tutto può crollare da un momento all’altro, con le luci traballanti e una folla di maschere – derivanti anche da altri franchise horror – dietro ognuna delle quali si può nascondere il killer.

Per tutta quella scena la tensione era alta e palpabile.

Non di minore interesse la scena del passaggio fra le finestre con la scala, in cui ogni personaggio rischia la vita per diversi e interminabili minuti. Due scene ottime, possibili proprio grazie all’intelligente scelta di cambiare location e dare al film un sapore molto più urbano e fresco.

Belle idee ma…

Scream 6 è un film pieno di buone idee.

Mi ha particolarmente colpito – almeno sulle prime – la scelta di utilizzare le maschere dei vecchi killer come sorta di countdown. Tuttavia, la stessa è obiettivamente poco credibile e purtroppo anche mal costruita: quanto è improbabile che i personaggi abbiano ottenuto così facilmente non solamente le maschere degli altri Ghostface, ma tutte le prove dei precedenti casi?

Considerando anche che gli omicidi non sono avvenuti a New York…

E la scusa i poliziotti sono facilmente corrompibili non regge…

E ancora di meno è credibile la scena della telefonata al parco, in quanto non viene minimamente spiegato perché il killer avrebbe dovuto chiamare proprio in quel momento. A posteriori era ovvio che l’avrebbe fatto, in quanto il detective Bailey era il mandante degli omicidi, ma ovviamente i personaggi in quel momento del film non potevano saperlo.

In quel caso è evidente che volessero fare una citazione alla scena analoga di Scream 2, ma, ripensandoci a posteriori, risulta veramente poco convincente. Per non parlare dell’idea per cui il detective abbia potuto scambiare il cadavere della figlia con un altro senza che nessuno se ne sia accorto…

Discorso anche peggiore è la scelta dei villain e delle loro motivazioni.

Is this Scream 2?

La scelta dei killer è stato l’elemento che mi ha meno convinto di tutta la pellicola.

Anche se ovviamente il movente è stato sempre ripreso da Scream 2 – in cui il killer principale era la madre di Billy Loomis – manca dell’elemento metanarrativo che lo rendeva effettivamente interessante. Infatti il reveal di Ghostface si basava sull’idea che solitamente i serial killer sono uomini bianchi, e, al contempo, su quanto la stessa Debbie Loomis chiosava:

My motives isn’t as 90s

Il mio movente è molto meno Anni Novanta

Al contrario, il fatto che non solo il padre, ma tutti e due fratelli di Richie si siano prestati a diventare degli spietati serial killer solamente su istigazione del genitore è molto più banale e, paradossalmente, davvero poco credibile e altrettanto poco spiegato.

La pellicola già da sola offriva un sacco di spunti per raccontare qualcosa di ben più interessante: si sarebbe veramente potuto puntare sull’idea di screditare una persona tramite lo shitposting su internet, magari portando il killer ad essere proprio drogato di questi complottismi.

E magari collegandolo in maniera interessante anche alla questione delle maschere rubate…

Sempre le stesse regole

L’inserimento delle regole metanarrative è uno degli elementi che più apprezzo di Scream, persino nel quinto.

In questo caso ho trovato una grande stanchezza al riguardo: le regole o si realizzano solo parzialmente oppure sono fondamentalmente una copia di quelle del secondo e terzo capitolo.

Everything is bigger

Tutto è fatto più in grande

Nonostante sia una regola abbastanza realistica nel contesto delle saghe, non aggiunge di fatto nulla a quanto già detto nei precedenti capitoli, né si vede in realtà un cambiamento così evidente rispetto al precedente film – nonostante la violenza sia indubbiamente molto spinta.

No one is safe, main characters are totally expendable

Nessuno è al sicuro, i protagonisti sono totalmente sacrificabili

Questa regola è fondamentalmente copiata da Scream 3 (2000) e, di nuovo, non aggiunge niente, se non annunciarti che Courteney Cox si è definitivamente stufata di far parte di questa saga. Ma la più paradossale è la seconda regola:

Whatever happen last time, expect the opposite

Qualunque cosa sia successo la scorsa volta, aspettatevi il contrario

Nonostante sia in un certo senso quello che accade – le motivazioni dei Ghostface di questo film sono totalmente l’opposto di quelle del precedente – risulta paradossale perché di fatto sono le stesse di Scream 2

La componente teen

Un aspetto che ho sempre apprezzato di Scream è che non si è mai perso in sottotrame romantiche che non avessero un’effettiva funzione nella trama stessa.

Mi rendo conto che la rivelazione per cui l’interesse romantico di turno sia Ghostface è ormai ridondante: era il punto centrale in Scream, ci si giocava moltissimo in Scream 2 ed era una rivelazione anche molto interessante in Scream 5.

Tuttavia, questo non significa che inserire sottotrame romantiche, che di fatto non servono alla trama, sia una buona idea, anzi.

Tanto più che ho la sensazione che volessero giocare con l’interesse romantico di Sam allo stesso modo che era stato fatto sia per Scream che per Scream 2, ma di fatto manca del tutto della stessa efficacia, oltre a portare in scena un personaggio veramente insipido e dimenticabilissimo.