Bardo – La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu è un film di genere surreale misto al biopic, prodotto e distribuito da Netflix. Il regista, che ha avuto il suo successo internazionale con Birdman(2014) e The Revenant (2015), torna sui suoi passi con un’opera più intima e personale.
Forse anche troppo.
Candidature Oscar 2023 per Bardo– La cronaca falsa di alcune verità (2022)
(in nero i premi vinti)
Migliore fotografia
Di cosa parla Bardo?
Silverio è un giornalista e documentarista messicano, che verrà premiato negli Stati Uniti per il suo ultimo documentario. E questo gli crea diversi ripensamenti…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Bardo?
Tendenzialmente, no.
Avendo avuto già una complessiva piacevole esperienza con il cinema di Iñárritu, riesco ad essere leggermente più morbida nella valutazione di questa pellicola, e non cadere nel totale respingimento come era stato per Madre! (2017).
E per certi versi i due film non differiscono molto.
Mi sono trovata davanti, in entrambi i casi, a due prodotti con un’interessante idea alle spalle, che però il regista è stato incapace di portare sullo schermo in maniera veramente interessante, diventando eccessivo e inutilmente ridondante.
È il classico film che potrebbe essere adorato da alcuni, anche per affezione nei confronti del regista, e invece odiato da altri. Se vi sentite molto vicini al suo cinema e ad Iñárritu umanamente parlando, e sopratutto vi piacciono i film con taglio profondamente onirico e surreale, potrebbe anche piacervi.
Io, personalmente, non lo consiglio.
Il problema del surreale
Il genere surreale è uno dei miei preferiti, a livello davvero crossmediale: che sia cinema, fumetti, libri, è un taglio narrativo che apprezzo quasi sempre.
Proprio amandolo così tanto, sono anche consapevole che sia un’arma a doppio taglio: alla base di un racconto di questo tipo ci deve essere un’idea forte, che funzioni, e che riesca ad essere distribuita organicamente all’interno di una storia.
E non è così semplice.
Se non si riesce a gestirla con la giusta capacità e intelligenza, si rischia facilmente di andare ad impelagarsi in una narrazione che appare fine a se stessa, che magari ha un significato di base, ma che alla fine non si riesce a trasmettere.
E questo è un po’ tutto il problema di questa pellicola.
Inaccessibile
Per quanto un autore voglia arroccarsi nella sua torre d’avorio e sentirsi incompreso, se la sua opera non viene letta e fruita, scompare.
E così, se un film è comprensibile solo per il suo autore, è un film solo per se stesso.
In Bardo troviamo un racconto fondamentalmente autobiografico e sicuramente sentito, ma che per molte parti diventa comprensibile solamente al regista stesso. Se infatti lo spettatore può complessivamente comprendere il messaggio di base, si perde inevitabilmente nell’oceano di riferimenti e di costruzioni della pellicola.
Ovviamente non mancheranno molti spettatori che avranno solo che piacere a perdersi nell’immensità del racconto dell’interiorità del regista, andandone a scovare tutti i significati nascosti.
Non è il mio caso.
Mancanza di interesse
A livello di esperienza personale, il film non solo mi ha confuso, ma ha smesso di interessarmi praticamente da subito.
Infatti ho seguito la narrazione di Iñárritu fin dove questa mi intrigava, ma mi sono bloccata davanti alla mancanza di chiavi di lettura possibili e a questa narrazione sicuramente intima e sentita, ma inaccessibile e, in ultimo, poco interessante.
Esistono diverse opere – anche al di fuori dal mondo del cinema – che sono difficili da leggere e che presentano diverse chiavi di lettura. È il caso ad esempio di I’m Thinking of Ending Things(2020), uno dei film più complessi che abbia mai visto in vita mia. Tuttavia, in quel caso, mi sono trovata davanti ad un’opera aperta e piena di significati, che avevo interesse di scoprire.
In questo caso, l’unico modo per comprenderla sarebbe farmela spiegare dal regista stesso.
Mettere le mani avanti
C’è solo un elemento che mi ha fatto veramente arrabbiare di questa pellicola.
Come anche abbastanza comprensibile, davanti ad un’impresa così complessa come questa produzione Iñárritu si è sentito già sommerso dalle critiche che avrebbe potuto ricevere. E per questo ha deciso di rispondere alle stesse nella pellicola.
E nella maniera più antipatica e pretenziosa possibile.
Durante la festa infatti, il protagonista parla col pomposo Luis, che critica pesantemente il suo documentario. Così, metanarrativamente parlando, critica l’opera stessa di cui fa parte, dando voce a delle critiche che sinceramente io mi sento abbastanza di avvallare:
E davanti alla scena in cui il personaggio, e quindi il regista stesso, silenzia questa opinione – letteralmente – mi sono sentita personalmente colpita.
Blonde (2022) di Andrew Dominik è un film Netflix incentrato sulla figura di Marilyn Monroe, tratto dall’omonimo romanzo del 1999. Romanzo che, specifichiamo, non è una biografia dell’attrice, ma un racconto romanzato della sua vita.
Personalmente (e non penso di essere l’unica), mi aspettavo un biopic in senso classico, che banalmente ripercorresse, pur in una veste più intima e drammatica, la tragica vita dell’attrice icona degli Anni Cinquanta.
Niente di più sbagliato.
Di cosa parla Blonde?
Blonde ripercorre gli anni della vita di Marilyn Monroe, al secolo Norma Bates, partendo dall’infanzia e percorrendo tutti i momenti più salienti della sua carriera attoriale e della sua vita personale.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Perchè Blonde è un prodotto diverso dal solito
Come anticipato, mi aspettavo un biopic nel senso più classico: il materiale al riguardo non mancava. Invece, mi ha sorpreso. Nonostante parta effettivamente come il più classico prodotto di questo genere, nel giro di poco dimostra la sua natura.
Indubbiamente racconta la vita di Marilyn, ma è il come la racconta: una regia incredibilmente sperimentale, drammaticamente onirica, che non manca di sbavature, ma che al contempo riesce ad ipnotizzarti con proposte visive sempre nuove e sorprendenti.
Tuttavia, non è un film semplice, anzi: oltre alla durata davvero importante (due ore e quarantasette), è comunque un film straziante, che ti immerge nella vita di questa icona del cinema, ma prima di tutto di questa donna dalla vita davvero tragica.
Da vedere, ma prendendosi il proprio tempo.
Un pezzo di carne
Il film è molto incentrato sul corpo di Marylin, tanto da arrivare a spogliarlo continuamente (e anche troppo per i miei gusti), e di come fosse sessualizzato e posseduto continuamente. Al cinema, l’attrice era l’oggetto del desiderio, la donna ammiccante e impossibile, considerata per la maggior parte della sua vita più per il suo corpo che per il suo talento.
Così al primo provino viene stuprata, al secondo non viene considerata la sua performance, ma solamente il suo bel fondoschiena.
E così anche nella sua vita privata, in particolare con il primo matrimonio con Joe di Maggio: uomo che, nascondendosi dietro alla scusa di non voler che la moglie si butti via, fa di tutto per avere il controllo sul suo corpo, che può essere solo suo.
Vivere all’ombra di Marilyn
Tanto più evidente e drammatico è come la fama le stesse stretta: il vero desiderio di Marylin non era diventare famosa, ma di riuscire a costruire una famiglia felice come quella che non aveva mai avuto.
E invece il suo maggiore successo fu proprio il suo essere iconica, ma portando in scena un personaggio che era stato costruito, che si vede la grande differenza fra lei e Norma. La protagonista è infatti una ragazza ingenua e molto fragile, con desideri semplici che le vengono sempre portati via.
Molto diversa invece dall’icona sexy che venne messa in scena, l’oggetto di desiderio di ogni uomo.
I padri
Il rapporto con gli uomini non fu mai felice.
Secondo la visione del film, Norma visse la sua vita nell’inseguire l’immagine del padre mai incontrato, e che di fatto non si mise mai in contatto con lei. E non è un caso che Norma si mise sempre insieme a uomini con almeno vent’anni più di lei.
E il rapporto era proprio quello fra un padre e una figlia, più che quello fra due innamorati. Tanto più sconvolgente quando il Kennedy la forza ad una prestazione orale e gli dice proprio di non essere timida, proprio come se fosse una bambina.
L’eccesso
Come anticipato la regia è molto sperimentale. Ed è una cosa positiva e negativa allo stesso tempo.
Positiva perchè comunque riesce a rendere più interessante e innovativo un biopic, con idee sempre diverse per ogni scena e che riescono a rendere maggiormente viva e interessante la scena, sopratutto tramite le scene dal taglio onirico. In particolare molto interessante la messa in scena delle sequenze di sesso (o stupro), che riescono a dire tutto senza mai sfociare nella volgarità.
Negativa perchè certe volte questo sperimentalismo sfocia nell’eccesso e quasi nel cattivo gusto. A posteriori ho poco apprezzato questo uso poco chiaro del cambio fra immagini a colori e in bianco e nero, così come il cambio di formato video. Allo stesso modo piuttosto grottesco (e nel senso più negativo possibile) il dialogo che Norma ha con il bambino nascente.
È l’anno di Ana de Armas per Blonde?
Ana de Armas in Blonde è stata incredibile.
Sono rimasta semplicemente stregata dalla sua interpretazione, nel modo in cui è riuscita ad entrare nel personaggio, con moltissime scene anche molto dolorose e tragiche. E per quanto mi riguarda per me sarebbe un crimine non candidarla, se non addirittura farle vincere una statuetta ai prossimi Oscar.
Molto probabilmente questo film sarà uno dei prodotti che Netflix porterà ai prossimi Academy Awards (nonostante l’uscita abbastanza anticipata rispetto alla premiazione), insieme a Bardo(2022) di Alejandro Iñárritu, in uscita a Dicembre.
American Animals (2018) di Bart Layton è un heist movie di rara bellezza, capace di sperimentare con il formato del documentario in maniera assolutamente originale e sperimentale. È difficile spiegare questo film a chi non l’ha mai visto: basti sapere che non è ispirato ad una storia vera, ma, come il film stesso spiega fin dall’inizio, è effettivamente una storia vera.
Le notizie sul budget non sono sicure, ma dovrebbe aggirarsi intorno ai 3 milioni di dollari, con un incasso di 4 milioni in tutto il mondo: un incasso piuttosto misero, per un film di grande valore.
Di cosa parla American Animals?
Spencer e Warren sono due studenti universitari annoiati dalla vita, totalmente insoddisfatti del percorso che sembra già stato scelto per loro. Per questo decidono di intraprendere una apparentemente semplicissima rapina…
Vi metto qua il trailer, ma personalmente vi sconsiglio di guardarlo: un caso da manuale di come banalizzare drammaticamente un prodotto, cercando di collegarlo ad un film di maggior successo.
Infatti nella pellicola si cita brevemente Le iene (1992) di Quentin Tarantino, e il trailer italiano gira tutto intorno a questo, quando di fatto è una citazione che, se decontestualizzata come in questo caso, mostra un taglio narrativo che il film di fatto non possiede.
Perché guardare American Animals?
Come anticipato, American Animals è un prodotto incredibilmente sperimentale. All’interno del film ci sono le interviste dei protagonisti reali della rapina raccontata, che interagiscono anche direttamente con gli attori in scena. Quindi la storia raccontata è totalmente genuina e corrispondente agli eventi reali.
Non dovete però immaginarvi un mockumentary: il documentario è reale e ottimamente integrato all’interno della pellicola, ma non finge di essere quello che non è. Ma, per capire di cosa sto parlando, dovete guardarlo voi stessi.
È un film che mi sentirei di consigliare abbastanza a tutti: se siete appassionati di heist movie, sopratutto quelli più interessanti e di concetto come Logan’s Lucky (2017), non potete veramente perdetevelo.
Perché i manoscritti sono così importanti in American Animals?
Ci tengo a spendere due parole riguardo all’importanza e alla preziosità dei manoscritti, perchè potrebbe apparire strana a chi non è del settore.
Anzitutto, certi manoscritti sono considerati effettivamente delle opere d’arte: i cosiddetti volumi illuminati sono impreziositi da miniature, di fatto piccoli dipinti di anche di grande valore, fatti per esempio con la foglia d’oro. Non a caso facevano (e fanno) parte delle collezioni di re e regine.
Inoltre, i manoscritti, anche senza essere belli, possono avere un valore storico incalcolabile: semplificando molto, più un volume si avvicina temporalmente ed a livello di fedeltà al testo originale dell’opera, più è prezioso. E, soprattutto nel caso dei testi a stampa, le prime edizioni hanno un valore altissimo fra studiosi, ma anche e soprattutto collezionisti.
E il mercato nero di questi manoscritti è più prolifico di quanto si possa pensare…
Raccontare una storia vera
L’incontro fra la forma del documentario e filmin senso stretto è fondamentalmente perfetta: oltre ad una messa in scena della parte documentaristica che si vede essere passata nelle mani di un autore capace, il montaggio è magistrale.
La fluidità con cui si passa da una scena all’altra, con un montaggio dinamico e che riesce perfettamente a coniugare le parole delle persone reali della vicenda con gli attori in scena. E la macchina da che riesce veramente a cogliere l’essenza del loro racconto, lasciando che i protagonisti si raccontassero, per riportare visivamente le loro parole sullo schermo.
La scelta degli attori
Il casting degli attori è davvero ottimo: tutti gli interpreti sono scelti e diretti con grande cura, riuscendo oltre ad assomigliare moltissimo alle persone reali, ad essere le loro perfette controparti in scena.
In particolare è stato veramente interessante vedere in scena due attori di grande valore, ma che abbiamo cominciato a conoscere davvero solo recentemente. Anzitutto Evan Peters, che è noto principalmente al grande pubblico per il suo ruolo di Quicksilver negli ultimi due film degli X-Men e come Fietro (Fake Pietro, in riferimento al casting finto di Piero Maximoff) in Wandavision. In realtà ha fatto molto altro, anzitutto vincendo recentemente l’Emmy per l’acclamata serie Omicidio ad Easttown.
E come non parlare di Barry Keoghan, interprete con un volto e un’espressività tutta sua, che lavorato in film molto di nicchia come Il sacrificio del cervo sacro (2017) e che recentemente si è affacciato al grande pubblico con Eternals (2021). Ma probabilmente lo ricorderete soprattutto per il poco che l’abbiamo visto come Jokerin The Batman (2022).
L’insoddisfazione rapace
American Animals si propone anche di esplorare le motivazioni dietro ai protagonisti, che sembrano del tutto essere ricondotti ad una insofferenza e insoddisfazione rapace. La stessa insoddisfazione che sembra divorarli dentro, rinchiusi in una vita già definitiva senza aver fatto nulla di interessante.
Per certi versi mi ha ricordato Bling Ring (2013), anche se in questo caso la motivazione è molto più profonda. I protagonisti si immaginavano al centro di una vicenda avventurosa e avvincente, che gli cambierà la vita e che ricorderanno per sempre. E che sarà di fatto senza conseguenze.
Ma la realtà si rivela molto diversa.
Il punto di rottura
Il punto di rottura gira tutto intorno alla figura della bibliotecaria.
La donna è infatti l’incognita del piano che nessuno, nemmeno Warren, vuole davvero affrontare. Nel suo racconto del piano la questione sembra molto semplice: la donna gli sviene semplicemente fra le braccia.
Ma quando invece deve molto maldestramente colpirla e legarla, quando la donna piange e addirittura si urina addosso, allora tutto crolla. Se notate prima di quel momento i personaggi sono abbastanza contenuti, anzi decisamente scherzosi nei loro rapporti.
Invece, da quel momento in poi la situazione precipita, e tutte le tensioni sotterranee esplodono, arrivando fino al punto in cui Chas li punta una pistola addosso, Eric fa a botte per un nonnulla, Warren ruba stupidamente da un supermercato e Spencer provoca un incidente.
Di fatto tutti i personaggi arrivano ad un punto di esplosione, in cui vogliono solo farsi prendere, farsi punire.
Bombshell (2020) di Jay Roach è una pellicola che racconta lo scandalo che nel 2016 coinvolse Roger Ailes, ex-capo dell’emittente teleivisva FOX, e altri dirigenti accusati da diverse donne di molestie ed aggressioni a sfondo sessuale.
Il film ha alle spalle una produzione molto sentita, con a capo Charlize Theron, che è anche l’interprete principale. Fra l’altro un prodotto che si sbilanciò molto nell’attaccare non solo l’emittente televisiva incriminata, ma anche Trump quando era ancora in carica.
La pellicola purtroppo non è stata un grande successo commerciale, rientrando a malapena nelle spese: appena 61 milioni di dollari di incasso a fronte in un budget di 30.
Di cosa parla Bombshell?
La vicenda ruota intorno a tre donne: Megyn Kelly (Charlize Theron), Kayla Popsil (Margot Robbie) e Gretchen Carlson (Nicole Kidman), tutte accumunate dall’esssere impiegate presso l’emittente televisiva FOX Television e di dover subire attenzioni non volute o effettivi ricatti sessuali per fare carriera. E non sono le sole…
Bombshell può fare per me?
Bombshell si inserisce nella lungo trend che vedremo da qui ai prossimi anni (come il film in prossima uscita incentrato sul caso Weinstain, She said), che racconta i vari scandali sessuali che sono scoppiati a partire dal 2015 in poi anche grazie al movimento Me too.
E vi si inserisce bene, sperimentando anche con il genere mockumentarye offrendo un prodotto che non vuole nè feticizzare nè spettacolarizzare una vicenda assai drammatica. La regia è invece capace di raccontare in maniera potente e coinvolgente il dramma di queste tre donne, particolarmente quello della giovane ed ingenua Kayla, senza praticamente mostrare nulla.
Un film necessario, per conoscere un vicenda che non ha avuto particolare risalto al di fuori degli Stati Uniti.
Raccontare la paura
Come anticipato, non è per nulla semplice riuscire a raccontare una vicenda così importante senza arrivare a spettacolizzarla, anche involontariamente. E Bombshell riesce perfettamente a non farlo: l’unica scena che vediamo rappresentare effettivamente una molestia è diretta alla perfezione, senza sessualizzare il corpo di Margot Robbie, ma anzi enfatizzando la sua ottima recitazione corporea ed espressiva, che già di per sè è molto esplicativa.
Così anche il resto della vicenda non è mostrato, perchè non ce ne era bisogno: basta raccontare la terribile camminata di Kayla verso l’ufficio di Roger: una donna sola, che sa che deve sottoporsi ad un processo umiliante per ottenere un minimo di attenzioni.
E che, lo vediamo, ottiene quello che vuole: più si va avanti nel film, più il suo trucco si fa appariscente, per avvicinarsi al modello di donna perfetta e da mettere in mostra in primo piano per fare audience.
Ogni tipo di molestia
La capacità di Bombshell è di saper raccontare tutto lo spettro di molestie a cui le donne del film (e nella vita reale) sono sottoposte. E nessuna è meno grave: si parte dalla molestia verbale, anche in diretta televisiva, con umiliazioni viste come complimenti e battute innocenti.
Si arriva poi ai ricatti sessuali neanche troppo sottili, ai licenziamenti per le donne che non si volevano far schiacciare, alle ripetute molestie per quelle che hanno ceduto. E non solamente per le tre protagonista, ma per un numero in continua crescita di donne che hanno finalmente la possibilità di farsi avanti.
Un sistema marcio, che non accenna a migliorare.
Nessun cambiamento
Il finale del film non è per fortuna consolatorio nè inutilmente ottimista: lo dimostra chiaramente Kayla, che, anche se i colpevoli sono stati licenziati, decide lo stesso di andarsene. Perchè chiaramente le altre persone che dovrebbero prendere il posto dei colpevoli non hanno interesse a proteggere le vittime nè a cambiare il sistema, ma a solo a salvare la faccia.
Non un finale positivo, ma piuttosto molto duro e realistico, che ho molto apprezzato.
Per quanto in generale il film sia molto fedele agli eventi raccontati, ci sono comunque alcune piccole differenze da segnalare.
Anzitutto, la scelta di Megyn Kelly di mettersi contro Ailes potrebbe essere stata una scelta più opportunistica di quanto la racconti il film: davanti alla causa intentata da Gretchen Carlson, Kelly si trovò davanti alla possibilità di liberarsi da un capo che non la sosteneva più e in generale di poter rimettere in riga i suoi colleghi uomini, oltre che a uscirne meglio come immagine personale e poter avere più potere negoziale per il suo contratto.
Per quanto Kayla Pospisil sia un personaggio inventato ad hoc per il film, effettivamente una delle dipendenti dirette di Ailes, Laurie Luhn, raccontò di aver avuto il compito di procacciare al suo capo delle giovani ragazze dipendenti dell’emitettente, per spingerle ad un incontro privato con lui, consapevole che questo sarebbe probabilmente finito (come minimo) in una molestia sessuale.
Altro in Bombshell
Anche il personaggio di Jess Carr è totalmente inventato: fra le vittime denunciate di Ailes non ce ne era nessuna che portasse il suo nome o avesse attinenze col personaggio. Tuttavia la stessa racconta una realtà sotterranea di giornalisti di tendenze liberali all’interno della Fox News.
Da segnalare che la leg cam del film non è per nulla un’invenzione, anzi è un elmento denunciato più volte negli anni all’interno dell’emitettente. La frase detta da una delle truccatrici riguardo a una delle ragazze che tornava da un incontro con Ailes senza il trucco sul naso e il mento (segno di essere stata coinvolta in delle prestazioni sessuali), è altresì vera.
L’incredibile storiadell’Isola delle Rose (2020) è un film diretto da Sydney Sibilia, conosciuto principalmente per la trilogia di Smetto quando voglio.
Uno dei pochi ottimi registi italiani che cerca di distaccarsi dai soliti e ridondanti generi del panorama cinematografico nostrano.
Il film uscì alla fine del 2020 direttamente su Netflix.
Di cosa parla L’incredibile storia dell’Isola delle Rose
Bologna, 1968. Giorgio Rosa è un giovane ingegnere appena diplomato, con grandi sogni (non sempre vincenti) di creare qualcosa di suo, per smarcarsi dalla pesante eredità della generazione precedente.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale pena di vedere L’incredibile storia dell’Isola delle Rose?
Assolutamente sì.
L’incredibile storia dell’Isola delle Rose è una deliziosa commedia, con un cast internazionale di primissimo livello, che mi sentirei di consigliare praticamente a tutti.
In particolare, di grande valore l’interpretazione di Elio Germano, che ancora una volta si conferma un attore non solo di grande talento, ma dalle capacità davvero multiformi, capace di immedesimarsi in ogni tipo di personaggio.
Insomma, assolutamente imperdibile.
Una storia ancora attuale
Sydney Sibilia sceglie nuovamente di puntare sul racconto di una generazione perduta, una generazione che deve ancora vivere all’ombra della precedente, che cerca di incasellarla precisi schemi sociali.
Nel 1968 come oggi.
Infatti, il film parla soprattutto alla generazione dei millennial, che ancora oggi si affaccia al mondo del lavoro e sente il peso dei propri genitori, nati e cresciuti in un mondo diverso, quando era più scontato seguire un preciso percorso di vita.
E invece per la nuova e la nuovissima generazione non basta più. Dobbiamo reinventarci: Giorgio Rosa quarant’anni fa con la sua isola, tanti giovani e giovanissimi oggi che creano il loro brand da zero.
Così Sydney Sibilla è un regista che ha cominciato con gli spot pubblicitari e in appena tre anni è riuscito ad imporsi con un film nuovo e fresco come Smetto quando voglio (2014), smarcandosi dai soliti canoni del cinema italiano.
Lui, insieme a Matteo Rovere (regista de Il primo re e anche produttore del film di Sibilia), sono le poche giovani voci che si sono ribellate ad un cinema mainstream ridondante e saturo, portando finalmente qualcosa di nuovo e di più ampio respiro.
Scegli una storia, scrivila bene
Al tempo sentii alcune critiche per il fatto che il film avesse poca attinenza con le vicende storiche raccontate.
In generale, bisogna avere coscienza del prodotto: la pellicola non ha l’intenzione di essere fedele alla storia originale, ma di prenderla come spunto per il già accennato racconto tanto caro al regista.
Facendolo molto bene, fra l’altro.
Infatti, il tema di fondo non è esplicito, ma ben raccontato nei vari momenti chiave.
Inizialmente Giorgio viene raccomandato dal padre per un lavoro che è assolutamente evidente che sia svilente per le sue capacità e la sua inventiva. Così anche Gabriella sembra inizialmente contraria a volersi sistemare con Carlo, che la rincorre per un matrimonio, ma per lungo tempo durante il film accetta di sottostare a quello che la società si aspetta da lei.
Ma infine anche lei decide di abbandonare questa idea e abbracciare invece la ribellione di Giorgio.
Parallelamente il mondo adulto è raccontato con una sferzante ironia: i politici, che si sentono tanto potenti e importanti per aver fondato l’Italia del dopoguerra, si dimostrano in realtà interessati principalmente al proprio tornaconto, corrotti con il Vaticano e che si accaniscono sul progetto di Giorgio semplicemente per dimostrare il proprio potere.
Ma non vincono veramente: hanno ucciso un progetto, ma non possono distruggere un ideale.
Il multiforme Elio Germano
Elio Germano è la punta di diamante di questo film.
Un attore estremamente eclettico, che riesce a portare in scena personaggi sempre diversissimi fra loro: dal rozzo romano in Favolacce (2020) al suo Leopardi in Il giovane favoloso (2014), fino al giovane sognatore in questa pellicola.
Il suo personaggio non è del tutto positivo: lo seguiamo con entusiasmo nel suo assurdo progetto, perché ne apprezziamo il coraggio e la follia. Tuttavia, Giorgio è molto fallibile e poco coi piedi per terra: si fa multare due volte, non è capace di relazionarsi con il mondo e si ribella incondizionatamente al potere costituito.
E viene più volte minacciato e disprezzato dagli adulti, prima dal padre, riuscendo infine ad ottenere la sua approvazione, poi sfidato direttamente dal Governo Italiano. Ma non si perde mai d’animo, fino all’ultimo.
Un cast internazionale
Come anticipato, L’incredibile storiadell’Isola delle Rose può godere di un ottimo cast internazionale.
Anzitutto la coppia di ministri del Governo allora in carica, interpretati da due dei migliori attori italiani al momento: Fabrizio Bentivoglio è il Ministro Franco Restivo, che decide in ultimo di attaccare l’Isola delle Rose.
E l’irriconoscibile Luca Zingaretti, l’iconico Commissario Montalbano, è il Presidente del Consiglio Leone. Una coppia irresistibile, comica ai limiti del grottesco, con una recitazione sempre splendida e credibilissima.
Due altri ottimi attori internazionali: François Cluzet, attore francese noto soprattutto per Quasi amici (2011) è il Presidente del Consiglio d’Europa Jean Baptiste Toma, che tifa per Giorgio Rosa fino alla fine.
Così l’attore tedesco Tom Wlaschiha, che ha recitato in Game of Thrones nei panni di Jaqen H’ghar, membro degli Uomini senza volto che addestra Arya nella settima stagione, ma anche Enzo nella quarta stagione di Stranger Things.
Attore quindi capace di recitare in inglese, tedesco, italiano e russo: niente di meno.
Spencer è l’ultima opera di Pablo Larraín, cineasta cileno che si era già fatto notare nel cinema occidentale per Jackie (2016). In questo caso la pellicola racconta di Diana, la Principessa Triste.
Una pellicola che mi ha convinto appieno, con un comparto tecnico di primo livello e un taglio narrativo che mi ha sorpreso.
Poi c’è Kristen Stewart.
E quello è tutto un altro discorso.
Di cosa parla Spencer
Per chi seguisse The Crown, la storia prende temporalmente le mosse dal finale della quarta stagione, ovvero la famosa cena di Natale del 1991. Spencer ci porta in medias res, quando i rapporti fra Diana e Carlo sono già tesi, anche per via della relazione, ormai nota a tutti, fra il primogenito di Elisabetta e Camilla.
La narrazione si svolge nei tre giorni passati da Lady Diana durante le vacanze invernali nella tenuta della regina a Sandringham, con la famiglia reale al completo.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea.
Perché Spencer funziona
Il film non ha alcuna pretesa di realismo in senso stretto, quindi non aspettatevi qualcosa come The Crown appunto (anche se anche la serie stessa inventa a sua volta). Il taglio della pellicola è molto intimo e favolistico, con elementi pseudo-magici, anche se ben contestualizzati.
La narrazione ruota praticamente tutta attorno alla figura di Diana e al suo dramma personale, tanto che non arriva a parlare con altri personaggi della famiglia prima di quasi metà del film. Durante la maggior parte del tempo viene accentuata la sofferenza della sua solitudine, del suo essere lasciata da parte, con grandi inquadrature profondamente vuote.
Un casting azzeccato
In particolare la sua diversità viene raccontata dai colori: nella maggior parte dei casi Diana indossa colori brillanti e carichi, che emergono dal grigiume delle tinte desaturate degli altri personaggi in scena.
Differentemente da The Crown, tuttavia, i membri della famiglia reale non sono rappresentati come persone deprecabili, ma semplicemente come freddi e distanti, ingabbiati in un rigido protocollo a cui Diana non riesce ad adeguarsi. Le scelte di casting in questo senso sono azzeccatissime: attori che già di per sé hanno dei volti taglienti e aristocratici, in particolare la Regina Elisabetta e il Principe Carlo.
Nota di merito anche a Timothy Spall, ottimo caratterista noto al grande pubblico per aver interpretato il personaggio di Codaliscia, il tirapiedi di Voldemort, nella saga di Harry Potter. In questo caso interpreta il maggiordomo Alistar Gregory, agli occhi di Diana estensione della rigidità delle regole della famiglia reale.
Poi c’è Kristen Stewart.
Il mio problema con Kristen Stewart
Partiamo dal presupposto che mi sono approcciata a questa pellicola con la stessa tranquillità del suocero di Giacomo in Tre uomini e una gamba (1997), quando lo aspetta all’entrata della casa col fucile in mano.
Io sono personalmente piuttosto scettica nei riguardi delle capacità recitative di Kristen Stewart. Dopo Twilight, a differenza di Robert Pattinson, non è mai riuscita a decollare. Ha preso pure parte a pellicole di importanti autori, come Café society (2016), dimenticabilissima pellicola di Woody Allen dove ha dato una dimenticabilissima interpretazione. Ma, a differenza di Gal Gadot, che nonostante tutte si impegna, ma almeno non viene esaltata, Kristen Stewart ha pure una schiera di sostenitori che rivendicano la sua capacità recitativa contro ogni evidenza.
Scomparire nel personaggio
Per comprendere il livello della recitazione di Kristen Stewart in questa pellicola bisogna pensare dell’annosa questione degli attori che interpretano se stessi: i casi più celebri sono Will Smith e Dwayne Johnson. In molte pellicole dove sono coinvolti questi non devono fare lo sforzo di entrare nei personaggi, perché i personaggi sono loro.
Non voglio dire che Kristen Stewart faccia parte di questo gruppo (anche perché non ha il carisma necessario), ma risulta evidente il motivo per cui Pablo Larraín l’abbia scelta. Il regista cileno voleva appunto raccontare la storia dellaprincipessa triste. E chi meglio di Kristen Stewart, la cui espressione naturale del viso è un misto di disperazione e confusione?
Tuttavia appunto la capacità di un buon attore è quello di riuscire a scomparire dietro al personaggio che interpreta. I più talentuosi sono ovviamente capaci di destreggiarsi nei ruoli più diversi, come l’ottimo Joaquin Phoenix, capace di raccontare un ingenuo solitario in Her (2013) e uno squilibrato delirante in Joker (2019).
Do nuovo, questo non è il caso di Kristen Stewart.
In Spencer funziona?
Nel complesso, mentirei se vi dicessi che Kristen Stewart in Spencer è stata pessima. Come spiegherò meglio nella parte spoiler, riesce ad essere complessivamente convincente nelle parti in cui deve essere genericamente triste, ma semplicemente perché questo non le richiede un grande sforzo interpretativo: quella è semplicemente la sua espressione normale.
Stesso potrei direi per la recitazione corporea, impacciata e rigida, che non è tanto diversa del suo normale portamento. Tuttavia quando deve cimentarsi in espressioni più complesse, quando deve piangere o essere in qualche modo spiritosa (per fortuna non succede spesso) non è per nulla convincente.
Io avrei preferito senza dubbio che fosse stata scelta un’altra attrice, possibilmente inglese (la differenza fra l’accento reale degli attori britannici e il suo affettato si sente) e che avesse una potenza espressiva ben più convincente.
Per me in definitiva Kristen Stewart non ha veramente nulla a che vedere con l’ottima Emma Corrin in The Crown, che riusciva perfettamente a modulare la sua recitazione per una perfetta Diana.
Spencer fa per me?
Se siete già fan di The Crown come me, molto probabilmente sì, anche se, come spiegato, la pellicola ha un taglio un po’ diverso. Non aspettatevi una pellicola scandalistica (come in parte immaginavo) che copra i principali momenti della seconda parte della vita di Diana e del suo rapporto con Carlo. Aspettatevi piuttosto una pellicola molto intima e profonda, con una messinscena ottima e una fotografia che lo fa sembrare un film veramente risalente agli anni in cui è ambientato.
Non un film perfetto, ma sicuramente da vedere.
Due parole in più con spoiler
Fin dall’inizio ci viene mostrata la freddezza della situazione contro la spensieratezza di Diana: da una parte rigidi militari che trasportano il cibo per famiglia reale, con pure regole severissime da seguire per i cuochi. E dall’altra parte opposta Diana, che si perde, che sogna la sua infanzia, che vuole ritornarci.
Tutto il film non è infatti altro che il racconto di come Lady D riesca a riappropriarsi della propria identità, quindi del suo cognome, che ha ovviamente perso con il matrimonio con Carlo. Non a caso, appunto, il film sia chiama Spencer e non Diana. Nel contesto storico, il film racconta la scelta di Diana divorziare da Carlo.
La solitudine
La solitudine di Diana è potente per tutta la pellicola: come detto, la vediamo conversare con un membro della famiglia reale solamente dopo 50 minuti di film. Per il resto del tempo è isolata, sola nella sua stanza, al massimo conversa coi domestici, che sono i suoi principali interlocutori.
La casa sembra una prigione: è opprimente, tutti i personaggi intorno a lei sono distanti e freddi, la rimproverano, la umiliano, la forzano. Lei è davvero ingenua, disperata e, molto spesso, delirante.
La malattia
Uno dei temi principali è la malattia di Diana: la vediamo in una sola scena mangiare effettivamente, il resto del tempo vomita o scappa dai pasti imposti dalla famiglia. O, peggio, si ingozza di nascosto. E Kristen Stewart ha proprio quel volto emaciato e magrolino che la rende molto credibile.
Eppure il tema del cibo è sempre presente: Diana è sempre richiamata ai pasti, le scene dei cuochi sono molte, e continuano costantemente a parlare del prossimo pasto da cucinare.
L’unica scena in cui mangia è veramente potente: Diana cerca di strapparsi quella collana, quasi una catena al collo, e ingioia sofferente la zuppa, che noi spettatori vediamo piena di perle, che sono come sassi di cui si ingozza.
L’unica scena che non mi è davvero piaciuta è il montaggio quando nella sua casa natale e sta per cadere dalle scale, una sorta di flusso di pensieri. Oltre a non esserne riuscita a coglierne la logica, avrebbe decisamente potuto durare di meno ed è essere molto più efficace.
Due parole in più su Kristen Stewart
Ci sono un paio di scene che mi hanno particolarmente colpito, e non positivamente. Anzitutto la scena iniziale alla tavola calda: Diana si comporta come se fosse una scolaretta impacciata, in maniera così caricata che ero in imbarazzo per lei.
Così riesce a fallire anche in una scena di sofferenza: quando parla col cuoco dei suoi sogni, sembra che cerchi di forzare l’espressione del viso, in maniera totalmente innaturale. Probabilmente complice anche il fatto che non riesce a parlare naturalmente con l’accento britannico.
Ma la cosa peggiore è la scena della notte di Natale con i due figli. Provate a fare questo esperimento: fate partire quella scena e ascoltatela senza guardare. Poi guardatela normalmente: sembra che siano due attrici diverse. Per quanto riesca a modulare adeguatamente la voce, la sua espressività risulta rigida e per nulla eloquente. Quasi come si fosse ridoppiata.
Sul resto mi sono già espressa, ma in conclusione posso affermare con grande sicurezza non gli andava riconosciuto alcunché.
La questione degli Oscar 2022
Come anticipato, Kristen Stewart non doveva essere premiata per nulla, neanche con una candidatura. È stata vagamente meglio del solito, ma presenta una recitazione veramente altalenante. Comunque infine non ha vinto, ma il premio è andato alla ben più meritevole Jessica Chastain per Gli occhi di Tammy Faye(2021).
Questo film poteva essere invece candidato a Miglior colonna sonora e anche Miglior fotografia. Un peccato, secondo me, che venga presentato con la sua parte più difettosa.
Miglior film Miglior regista Migliore sceneggiatura originale Miglior attore non protagonista a Ciarán Hinds Migliore attrice non protagonista a Judi Dench Miglior sonoro Migliore canzone
Belfast (2021) è l’ultima pellicola scritta e diretta da Kenneth Branagh, che abbiamo visto recentemente come regista ed interprete in Assassinio sul Nilo (2021). Belfast è una lettera d’amore alla sua città natale, da cui il film prende il titolo, il racconto di un episodio particolarmente sentito della sua infanzia, sullo sfondo della guerra civile che scoppiò nel suo quartiere nel 1969.
Di cosa parla Belfast
Come anticipato, Belfast è un racconto semi autobiografico: Buddy, protagonista della pellicola interpretato dal giovanissimo e talentuoso Jude Hill, vive a Belfast, nell’Irland del Nord. Davanti ai suoi occhi sgomenti scoppia la terribile guerra civile dei lealisti protestanti, che si accaniscono con violenza contro i cattolici del suo quartiere. La vita procede fra i problemi familiari e i piccoli drammi personali di Buddy, in un bozzetto di quotidianità d’altri tempi veramente ben riuscito.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Un racconto d’infanzia
La particolarità della pellicola risiede soprattutto nel taglio narrativo, che mi ha ricordato molto Il buio oltre la siepe (1960, Harper Lee) e Quel che sapeva Maisie (1887, Henry James): la visione infantile e ingenua della vita, un mondo adulto lontano e incomprensibile. Infatti in quasi ogni scena, anche se a lato e come semplice spettatore, Buddy è lì, che guarda e ascolta. E ci offre le sue ingenue e semplici interpretazioni.
Il tema della guerra civile non è altro che lo sfondo della vera vicenda, ovvero la famiglia di Buddy, con le sue diverse vicissitudini. Di fatto un susseguirsi di quadretti familiari e bozzetti realistici, semplici scene di quotidianità in un quartiere come tanti. Un casting ottimo, con le facce giuste e attori di primo livello, che raccontano un’Irlanda dei tempi che furono.
Proprio come si addice ad un racconto infantile, i personaggi non hanno nome: sono la madre e il padre, la nonna e il nonno. Persino Buddy, il protagonista, non ha un vero nome: buddy in inglese è infatti un appellativo affettivo per indicare un amico.
Lo sguardo profondo
Per rappresentare la semplicità e la familiarità degli ambienti e delle scene, Branagh privilegia inquadrature fisse, in cui la scena si compone da sé e i personaggi esplorano l’ambiente. Uno spazio scenico fra l’altro ristretto ma profondo, con figure messe in primo, secondo e terzo piano nella stessa inquadratura
Ambienti sempre animati e popolati da diverse figure, anche semplici comparse, che passano sullo sfondo o addirittura in mezzo alla scena, donandogli una grande verosimiglianza e vivacità. Addirittura per simulare il punto di vista di Buddy che origlia, in una scena Branagh sperimenta con la camera a mano, rendendo l’inquadratura leggermente (e volutamente) traballante.
Nonostante questo, lo scorrimento del tempo è abbastanza serrato: gli eventi si svolgono uno dietro l’altro, anche con stacchi improvvisi, proprio a simulare l’andamento della memoria del protagonista.
Belfast può fare per me?
Per quanto sia un ottimo prodotto registico, Belfast è tutt’altro che un prodotto complesso, anzi.
Si guarda con grande facilità, ci si appassiona abbastanza istintivamente alle vicende dei personaggi e alla storia raccontata. Persino io, che non sono una grande fan dei drammi familiari, sono comunque riuscita a sentirmi coinvolta della storia e commossa per le scelte sofferte dei personaggi.
Diciamo che se si apprezza il genere dei drammi familiari, è un film che sicuramente può fare per voi, mentre se li mal sopportate, potrebbe non appassionarvi. È l’unico discrimine che mi sentirei di dare in questo caso.
Candidature Oscar 2022 per Gli occhi di Tammy Faye (2021)
(in nero le vittorie)
Migliore attrice protagonista a Jessica Chastain Migliore trucco e acconciatura
Gli occhi di Tammy Faye (2022) è film un po’ passato in sordina, uscito nelle nostre sale questa settimana, con due brillanti protagonisti: Andrew Garfield e Jessica Chastain. Lui, tornato alla ribalta per Spiderman No Way Home (2021), ma che si sta facendo notare anche per Tik, tik…Boom! (2021) su Netflix, per cui ha anche ricevuto una candidatura agli Oscar di quest’anno. Lei, splendida fin da quella parte in The Help (2011), ma che ha avuto anche parti importanti anche in due film spaziali comeInterstellar(2014) e The Martian(2015).
Di cosa parla Gli occhi di Tammy Faye
Cresciuta in un’umilissima e cristianissima famiglia americana, la giovane Tammy Faye al collage si innamora di Jim Bakker. Insieme i due diventano una fortunata coppia di predicatori on the road. In breve tempo approdano anche sugli spazi televisivi, diventando i più famosi e ricchi televangelisti degli anni Settanta-Ottanta.
Tratto da una storia vera, verissima, che poteva accadere solamente negli USA.
Lascio il resto al trailer.
Perché Gli occhi di Tammy Faye funziona
Anzitutto, le interpretazioni pazzesche dei protagonisti: perfettamente in parte, in ruoli per nulla semplici. Ti tengono sulle spine, si amano e si respingono, ti riportano ad un’epoca lontana e un mondo sconosciuto. Jessica Chastain, soprattutto, è davvero incredibile: mantiene perfettamente il personaggio senza sbavature dall’inizio alla fine, ne segue l’evoluzione e la interpreta magistralmente.
La fotografia è un vero tocco da maestro: modulata perfettamente col passare dei decenni, riesce a trasmetterti proprio il mondo attraverso gli occhi di Tammy Faye, con colori esplosivi ma spesso anche freddi, di una ricchezza tanto bella quanto triste.
Il film non è per nulla breve, ma non di meno riesce ad appassionarti sinceramente alla loro coppia e soprattutto a lei, Tammy Faye, che nonostante ogni cosa riesce sempre a rimanere fedele a se stessa, a compiere azioni e gesti incredibili per la sua epoca e mantenere un irremovibile ottimismo anche nei momenti più bui.
Rimango un po’ in dubbio sulla questione trucco: per certi versi i protagonisti sembrano veramente dei pupazzoni, ma è anche vero che riesce a renderteli veramente simili ai personaggi reali.
Perché il film potrebbe non piacerti
La storia ha delle connotazioni al limite del grottesco, sia per gli ambienti che descrive, sia per la storia in sé, che per fortuna non si perde nel melodramma più smaccato. Deve piacerti un tipo di ambientazione, profondamente statunitense, ma davvero aliena per uno spettatore europeo.
Inoltre il film è una vera chicca per chi apprezza i racconti delle storie vere e del folklore americano. Io, per esempio, sono una grande fan.
Previsioni sugli Oscar 2022
Per quanto riguarda la candidatura come Miglior Attrice, Jessica Chastain se la batte con altre grandi attrici come Penelope Cruz per Madres Parallelas (2021) e Olivia Coleman per La figlia oscura (2021). Purtroppo, non avendo visto gli altri film, non posso dare un’opinione. Diciamo solo che io tifo per lei, perché a mio parere è una grande attrice che ha bisogno della spinta finale per brillare.
Invece per la candidatura per Miglior trucco e acconciatura sono indecisa, in quanto, come ho detto, in questa pellicola non mi ha convinto del tutto. Ho idea che vincerà House of Gucci, per una semplice questione di popolarità.