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Spider-Man: Beyond the Spider-Verse

Al cinema…?

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Spider-Man: Across the Spider-Verse – Il canone tirannico

Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson è il sequel del quasi omonimo film del 2018, con protagonista Miles Morale – l’altro Spiderman.

Un film che promette molto bene al botteghino: a fronte di un budget di circa 100 milioni, ha già raddoppiato i suoi costi di produzione, con 208 milioni di incasso nel primo weekend.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film d’animazione

Di cosa parla Spider-Man: Across the Spider-Verse?

Dopo più di un anno dall’incontro con lo Spider-Verse, Miles e Gwen stanno facendo i conti con i loro irrisolti problemi familiari…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Spider-Man: Across the Spider-Verse?

Miles Morales in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Assolutamente sì.

Spider-Man: Across the Spider-Verse compie diversi ed importanti passi avanti rispetto al precedente film – che era già ottimo: una tecnica artistica che si evolve in nuove direzioni, raccontando visivamente in maniera nuova e fresca i diversi universi, retta anche da una scrittura molto più consapevole.

Infatti, questo film nasce inizialmente come un unico prodotto, ma si è scelto successivamente di dividerlo in due parti. E, a fine visione, sono sicura che di questo capitolo non avreste tolto un minuto: un’introduzione potente e robusta per una storia monumentale.

Insomma, assolutamente imperdibile.

Ricominciamo da Gwen

Gwen Stacy in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Spider-Man: Across the Spider-Verse ricomincia, a sorpresa, da Gwen.

Il suo personaggio è quanto essenziale, quanto poco esplorato nel precedente capitolo. In questo caso, invece, domina la scena per la primissima parte della pellicola, ri-raccontando per certi versi – ma in maniera più approfondita – il trauma personale che la definisce come Spider Woman.

E da qui si sviluppa anche il dramma del rapporto non risolto col padre, che si esplica anche in un senso di forte solitudine, di necessità di trovare un’identità e di far parte di un gruppo – ovvero la Spider Society.

Ma con una scelta che la porta – e per non poco tempo – ad abbandonare il padre stesso…

I super problemi

Miles Morales in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

La seconda parte del primo atto è invece dedicata a Miles.

Anche il giovane protagonista sta affrontando questioni non tanto dissimili da quelle di Gwen, anche se con un taglio narrativo decisamente molto più ironico – in funzione del finale, che invece raggiunge un picco drammatico non indifferente.

Ancora una volta, scopriamo Miles prima come Miles, e poi come Spiderman.

Un ragazzo che sta vivendo un momento di passaggio in realtà abbastanza tipico per il suo personaggio: pensare a che tipo di vita costruirsi oltre alla sua identità segreta, a vivere il peso di rivelare la stessa ai genitori – soprattutto al padre.

Ma anche Miles si lascia momentaneamente il problema alle spalle, per unirsi alla Spider Society.

Un villain di contorno?

Spot in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Spot ha un ruolo tutto particolare.

Inizialmente sembra veramente un villain puramente comico, il villain della settimana, che Spiderman sconfigge facilmente, per poi passare al prossimo super problema.

Ma lui stesso si ribella da questo ruolo, riuscendo invece a riscoprire i propri poteri come molto più interessanti di quanto aveva compreso finora. Purtroppo, le sue motivazioni sono molto banali: vendicarsi su Spiderman.

Per questo motivo nel terzo atto di fatto scompare, rimanendo solo come una minaccia nell’ombra, che aggrava ancora di più una situazione già di per sé assai spinosa…

Il problema del canone

Il vero nemico di Spider-Man: Across the Spider-Verse è Spiderman stesso.

Con un ottimo gioco metanarrativo, si racconta come tutti gli Spiderman, proprio per riuscire a mantenere intatto quello che volgarmente chiamiamo Spider-Verse, devono accettare e di fatto sottostare alle regole del canone.

In questo modo si giustifica come il personaggio, nelle sue varie incarnazioni cinematografiche – in particolare quelle della Sony – ripercorra bene o male le medesime tappe e affronti i medesimi problemi, pur con le dovute differenze.

Ma è questo il vero dramma.

Miguel O'Hara in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Spiderman per essere tale è costretto ad affrontare anche traumi davvero sconvolgenti, che solitamente riguardano la perdita degli affetti.

Per questo il personaggio di Miguel O’Hara è così tanto grigio: avendo vissuto sulla sua pelle cosa significa davvero andare contro il canone e vivere solamente per sé stessi, lo impone giustamente (?) anche a tutti gli altri.

Ma Miles è ancora troppo giovane, troppo inesperto – ancora una volta – e non è pronto ad affrontare un nuovo trauma in così poco tempo. Un trauma che, con ogni probabilità, lo porterebbe ad una distruzione della sua identità e a chiudersi in sé stesso.

E allora cos’è più importante?

Salvare sé stessi o salvare il multiverso?

Spider-Man: Across the Spider-Verse finale spiegazione

Il finale di Spider-Man: Across the Spider-Verse è piuttosto oscuro.

Quantomeno inizialmente Gwen ottiene un finale positivo: anche se scopre che per colpa sua il padre ha lasciato il lavoro da poliziotto, in questo modo non diventa capitano della polizia, non seguendo quindi la strada del canone che l’avrebbe portato alla morte.

Invece il finale di Miles è quasi macabro.

Finalmente pronto ad affrontare i suoi genitori per rivelare la sua identità segreta, il protagonista si confida con la madre, che sembra non capire di cosa stia parlando. E, se in un primo momento la situazione sembra credibile, minuto dopo minuto la verità comincia ad emergere…

Miles Morales in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Miles ha sbagliato universo, è finito in quello da cui deriva il ragno che l’ha morso, dove proprio per questo manca uno Spiderman. E non è neanche la cosa peggiore: Miles, perdendo il padre e non essendo morso dal ragno, è diventato un supercattivo, Prowler.

Ed è piuttosto credibile: nel primo film veniva raccontato quanto Miles fosse legato allo zio, quindi è altrettanto comprensibile che, in mancanza di un’altra strada, si sia lasciato sedurre dalla possibilità di essere super, ma dalla parte sbagliata…

Spider-Man: Across the Spider-Verse Andrew Garfield Donald Glover

Spider-Man: Across the Spider-Verse è il miglior racconto del multiverso di Spiderman portato finora al cinema.

La tecnica narrativa e artistica si arricchisce, portando nuovi e fantastici personaggi, ognuno definito da una propria estetica, peculiare e unica: dallo Spider Punk all’Avvoltoio di Età Rinascimentale.

Ma anche Gwen ha una propria identità visiva, quasi espressionista: una realtà molto sfumata, che cambia a seconda delle sue emozioni.

Un multiverso incredibilmente intelligente, che riesce anzitutto a portare un’ironia metanarrativa particolarmente indovinata:

Ma, soprattutto, sembra mettere finalmente un punto al rapporto fra live action e realtà animata nell’Universo Marvel-Sony.

Semplicemente, i personaggi in live action rimangono tali, non cambiano entrando nell’universo animato. E così il film si collega a tutti gli altri Spiderman della Sony, in maniera molto più organica rispetto a No Way Home (2021).

Ma il collegamento più importante è anche quello che potrebbe sfuggire: Donald Glover nei panni di Prowler, che molti potrebbero essersi dimenticati che è apparso – pur con un minutaggio limitato – in Spiderman: Homecoming (2016):

Quindi già al tempo sapevamo dell’esistenza di Miles Morales nell’universo live action.

Quindi è probabile che questi due mondi – animato e live action – rimangano divisi – e che altrettanto probabilmente ci sarà un Miles Morales diverso in live action (nel già annunciato film) e un sequel di No Way Home, che sembra già essere in produzione.

Così, se tutto va bene, non faranno un disastro.

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Animazione Avventura Azione Cinecomic Film Sony Sony Spider-Verse

Spider-Man: Into the Spider-Verse – Un inizio inaspettato

Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman è un lungometraggio animato di produzione Sony, con protagonista l’Uomo Ragno in una veste inedita.

Un prodotto che ebbe maggior successo nel suo rilascio in streaming, a fronte di un riscontro economico non eccellente: con un budget di 90 milioni, incassò appena 375 milioni – meno del prodotto più debole della Marvel lo stesso anno, Antman and the Wasp.

Di cosa parla Spider-Man: into the Spider-Verse?

Miles Morales è un ragazzino di quattordici anni, che vive stressato dalle aspettative del padre poliziotto e nell’ammirazione dello zio, non sapendo quali strade prendere nella sua vita. Un incidente gli cambierà per sempre la vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Spider-Man: into the Spider-Verse?

Miles Morales in una scena di Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman

Assolutamente sì.

Spider-Man: into the Spider-Verse è stata una grande sorpresa per molti, soprattutto dopo il recente successo dello Spiderman di Tom Holland, e quando il multiverso al cinema era ancora solo timidamente esplorato.

Io non lo vidi in sala – per colpa anche di una distribuzione piuttosto anomala in Italia – ma lo riscoprì grazie all’ottimo passaparola un paio di anni dopo.

E ne rimasi estremamente soddisfatta: un film veramente ben scritto, con una tecnica d’animazione pazzesca ed originale, che gioca fra l’altro in maniera perfetta con l’elemento metanarrativo.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Un inizio (non) ridondante

Raccontare le origini di Spiderman non è affare da nulla.

La sua origin story è nota tanto quanto quella di Batman, e raccontarla identica per l’ennesima volta poteva apparire incredibilmente ridondante e – di fatto – noioso. Per questo Spider-Man: into the Spider-Verse ha scelto la via più intelligente.

L’autoironia.

Collegandosi direttamente – ma non troppo – a Spiderman (2002) di Raimi, riassume in prima battuta la storia dello Spiderman più canonico, per poi passare a raccontare Miles prima di tutto come personaggio e, solo dopo, come l’Uomo Ragno.

Ma c’è di più.

Non il solito Spiderman

Peter B Parker e Miles Morales in una scena di Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman

L’altro elemento di grande novità di Spider-Man: into the Spider-Verse è che Miles non è Peter Parker.

Anche se le origini sono simili, il fatto che non si tratti del medesimo personaggio permette di spaziare nella scoperta di poteri altri oltre a quelli canonici dell’Uomo Ragno, e, soprattutto, di giocare in maniera davvero interessante con la figura di Peter Parker stesso.

Se infatti Miles si aspettava di avere come mentore il suo eroe del cuore, in realtà si trova in mezzo allo psicodramma di un Peter Parker nella sua versione più fallimentare, che ha preso tutte le scelte sbagliate nella vita.

Sapore di verità

Miles Morales in una scena di Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman

L’altro elemento che ho particolarmente apprezzato è quanto Miles sia un eroe molto quotidiano.

Un aspetto che avevo già adorato in Spiderman: Homecoming (2017), prodotto però mancante – per ovvi motivi – di tutta la parte del primo approccio ai poteri del protagonista.

Una sezione invece presente sia in Spiderman (2002), sia in The Amazing Spider-Man (2012), ma che non mi aveva mai veramente soddisfatto.

In questo caso la scoperta delle nuove abilità non solo ha un taglio molto realistico e piacevole, ma è riuscita anche ad avvicinarmi emotivamente al protagonista, nella sua confusione per questa inedita situazione…

Scoprire sé stessi

Miles Morales in una scena di Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman

A primo impatto il modo in cui Miles accetta i suoi poteri potrebbe apparire forzato.

In realtà, è perfettamente coerente col personaggio.

La figura di Spiderman è legata all’istinto e ai sensi ragneschi. Per questo è del tutto comprensibile che, per riuscire a diventare effettivamente l’Uomo Ragno, il protagonista debba riuscire a fare questo salto di fede e accettare istintivamente questi poteri come propri.

E, sempre per i motivi di cui sopra, ho amato il fatto che l’estetica del suo costume è perfettamente coerente con il suo personaggio e, soprattutto, che Miles non debba crearsi – come in The Amazing Spiderman – il costume da solo, ma solo renderlo suo.

Fantastici secondari

Peni Parker, Gwen Stacy, Peter B Parker, Spiderman Noir e Piggy Parker Miles Morales in una scena di Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman

Uno dei punti di forza di Spider-Man: into the Spider-Verse sono le versioni alternative dell’Uomo Ragno.

Elemento che probabilmente – e felicemente – si confermerà anche in Spider-Man: across the Spider-Verse (2023).

Particolarmente vincente l’idea di portare in scena personaggi così tanto diversi da loro, ma pur sempre legati al canone. E un grande successo è stato anche scrivere così bene Spider-Woman, quando c’erano tutti i presupposti per renderla una Mary Sue

Ma il mio preferito è sicuramente Spiderman Noir, la versione alternativa più iconica e rimasta nel cuore degli spettatori.

Parlando invece di Peni Parker…

Peni Parker Spider-Man: Into the Spider-Verse

Capisco tutto di Peni Parker.

Capisco la necessità di inserire un ulteriore personaggio femminile in un team principalmente maschile, di fare ancora una volta un passo verso il pubblico orientale…

Ma il suo personaggio è veramente l’unica cosa che non mi è piaciuta del film.

Oltre ad essere una versione troppo diversa dal personaggio di partenza, l’ho trovata davvero di troppo, non riuscendo a comunicarmi granché, se non un sincero fastidio…

Spider-Man: into the Spider-Verse animazione

Spider-Man: into the Spider-Verse è ricordato anche per la tecnica veramente rivoluzionaria.

Un incredibile incontro fra animazione 3D e 2D, in questo caso particolarmente azzeccata per rendere – anche metanarrativamente – la dimensione fumettistica.

Una boccata d’aria fresca all’interno di produzioni animate ormai abbastanza standardizzate, che ha aperto la porta anche ad altre interessanti sperimentazioni in questo senso.

Fra le più interessanti, la serie Arcane (2021 – …) e Il gatto con gli stivali 2 – L’ultimo desiderio (2022).

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2023 Avventura Azione Cinecomic Comico Dramma romantico Drammatico Fantascienza Film Guardiani della Galassia MCU Nuove Uscite Film Oscar 2024 Racconto di formazione

Guardiani della Galassia Vol. 3 – Farewell?

Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) è l’ultimo (?) capitolo della trilogia omonima creata e diretta da James Gunn per l’MCU.

A fronte di un budget piuttosto importante di 250 milioni di dollari, è stato il quarto maggior incasso del 2023, con 845 milioni di dollari al botteghino.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023)

in neretto le vittorie

Migliori effetti speciali

Di cosa parla Guardiani della Galassia Vol. 3?

Subito dopo lo Speciale di Natale, i Guardiani si trovano nella loro base, ma improvvisamente una nuova minaccia fa capolino…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Guardiani della Galassia Vol. 3?

Chris Pratt in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

In generale, sì.

Guardiani della Galassia Vol. 3 è un film fatto davvero apposta per i fan – dell’MCU, ma soprattutto del brand. Al punto che, per godere appieno della visione, è quantomai necessario vedere lo Speciale di Natale rilasciato nel 2022: la vicenda prende le mosse proprio da lì.

In generale, è un film che lavora moltissimo sul lato emotivo, con l’evidente intenzione – purtroppo per ovvi motivi – di chiudere dignitosamente tutti i personaggi, rischiando però in molti punti di forzare certe caratterizzazioni…

Ma, se siete fan dei Guardiani, ve ne innamorerete.

Il protagonista assente?

Rocket in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Una particolarità di Guardiani della Galassia Vol. 3 è il cambio di protagonista.

Nonostante infatti si cerchi di dare più o meno spazio a tutti, il centro emotivo non è più Star Lord, ma Rocket e il suo passato. Tuttavia, il personaggio è assente dalla scena per la maggior parte della pellicola, vivendo solamente nei flashback.

Una storia piuttosto dolorosa, che ridimensiona il personaggio e lo porta su binari meno esplorati finora, con un’inedita crudeltà che domina la scena – pur perfettamente nascosta grazie ad una tecnica registica estremamente abile.

Rocket in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Per quanto mi sia profondamente emozionata nel veder raccontare la sua storia – che ha toccato tutti i tasti giusti – d’altra parte un po’ mi è dispiaciuto vedere così poco in scena quel Rocket a cui ero abituata finora, uno dei miei personaggi preferiti dei Guardiani…

Ma ho comunque apprezzato che la missione della pellicola fosse il suo complesso e intricatissimo salvataggio, preferendola ad una narrazione più tipica con il villain di turno da sconfiggere – soprattutto per il collegamento emotivo che è riuscito a creare.

E a questo proposito…

Il villain nelle retrovie

Will Poulter in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Adam Warlock, interpretato dalla stella nascente Will Poulter, era stato venduto se non come il villain principale, sicuramente come una figura importante nel film.

E invece è tutto il contrario.

Un personaggio che è stato quasi sicuramente riscritto e di gran lunga ridimensionato, diventando una sorta di antagonista di contorno, con una caratterizzazione piuttosto abbozzata ed un arco evolutivo altrettanto debole.

Per quanto non avrei personalmente voluto che fosse più centrale nella scena – anzi, l’avrei direttamente eliminato – mi dispiace per l’attore, per cui questo film doveva essere probabilmente un punto di svolta per la sua carriera…

Ma parlando del vero villain…

Un villain per ogni occasione

Chukwudi Iwuji  in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Ho decisamente apprezzato l’Alto Evoluzionario.

Come nel precedente capitolo, Gunn ha scelto di scrivere un villain che fosse profondamente legato ad uno dei personaggi. E questo carattere così altalenante, che passa da una finta docilità ad una rabbia distruttiva, unito al suo totale disinteresse per il valore della vita, ai miei occhi l’ha avvicinato ad un altro villain importantissimo dell’MCU.

Thanos.

Anche se ovviamente l’Alto Evoluzionario non ha la medesima profondità ed importanza, presenta la stessa malvagità giustificata del villain della Saga dell’Infinito, in questo caso nel ruolo di un dio generoso quanto vendicativo. E l’ottima performance di Chukwudi Iwuji ha fatto il resto.

I secondari al centro

Mantis in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Dovendo dire addio per sempre ai suoi personaggi, James Gunn ha voluto dare ad ognuno un proprio arco evolutivo ed una conclusione.

L’esempio più evidente è Mantis.

Personaggio introdotto come secondario in Guardiani della Galassia Vol. 2, con un ruolo da protagonista nello speciale, Mantis ha un’evoluzione essenziale quanto brusca: viene emotivamente più approfondita, diventando al contempo anche quasi aggressiva.

Inoltre, si scopre come i suoi poteri possano essere essenziali non solo come supporto emotivo per il gruppo, ma anche all’interno degli stessi combattimenti e delle intrusioni. E da quello ne deriva il suo finale: l’inizio di un viaggio per riscoprire sé stessa.

Drax in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Drax è un discorso a parte.

Il suo personaggio di per sé non ha un cambiamento significativo, anzi rimane per certi versi troppo uguale a sé stesso. Infatti, la sua comicità è fondamentalmente sempre identica: indubbiamente divertente ma, arrivati al terzo film, non ugualmente brillante come poteva apparire all’inizio…

Ma la parte importante è il suo finale: al pari di Star Lord, anche Drax capisce che è il momento di fermarsi, non essere più Il Distruttore, ma un padre per la nuova famiglia che si è creato. E, anche se è fin troppo didascalica, è comunque una conclusione che mi è parsa coerente e che ho nel complesso apprezzato.

Un protagonista indebolito?

Chris Pratt e Zoe Saldana in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

In questo capitolo, Star Lord è un personaggio estremamente legato all’emotività.

Sia per il salvataggio di Rocket – di cui è il principale motore – sia per la relazione con Gamora. Se per certi versi la sua rappresentazione è forse troppo melensa e il suo rapporto con l’ex-compagna troppo insistente, probabilmente non si poteva fare diversamente.

Infatti, Peter aveva mostrato fin da subito un interesse per una ragazza che faticava anche solo ad accettarlo nella sua vita, con un rapporto, soprattutto sulle prime, assai antagonistico – in particolare da parte di Gamora – che si risolveva solo alla fine del secondo capitolo.

Zoe Saldana in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Tuttavia, ho personalmente apprezzato la conclusione.

Gunn ha scelto saggiamente di non abbassarsi alle dinamiche più tipiche da commedia romantica, con un ricongiungimento amoroso sul finale, magari costruito in maniera pure poco credibile e interessante.

Si mostra invece come Gamora ritorni ad un’altra famiglia, quella che ha ritrovato in questa realtà, e che non deve per forza di nuovo legarsi né a Quill né ai Guardiani – e trovando come loro una inaspettata nuova forma.

Ci saranno altri film sui guardiani della galassia?

All’indomani dell’uscita di Guardiani della Galassia Vol. 3, la maggior parte degli attori ha chiuso le porte a future partecipazioni alla saga.

Zoe Saldana (Gamora) non ha dimostrato ulteriore interesse per l’MCU – e, essendo legata all’estremamente redditizio brand di Avatar, non ne ha francamente neanche bisogno…

Dave Bautista (Drax) ha scelto una via più drammatica per la sua carriera – recentemente come protagonista di Army of the Dead (2021) e Bussano alla porta (2022). Gli altri due personaggi – Mantis e Nebula – per quanto interessanti, non sono così tanto di richiamo da farli riapparire né in singolo né in gruppo.

Come se non bastasse, Sean Gunn, fratello del regista, non solo interpreta l’ex-ravager Kraglin, ma dà anche le movenze a Rocket – e non è da sottovalutare la sua eventuale, ma quasi scontata, assenza…

Una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Quindi è l’ultimo film sui Guardiani?

Secondo me, per tutti i motivi di cui sopra, sì.

E questo anche perché questo brand è troppo legato alla figura di James Gunn, che nel prossimo futuro avrà decisamente molte e altre gatte da pelare…

Tuttavia, rimane la questione Star Lord – che, a quanto pare, ritornerà. Visto l’andamento di carriera di Chris Pratt, che avuto i suoi momenti più economicamente interessanti solo legandosi a grandi brand, non mi stupisce che abbia stretto un altro accordo con l’MCU.

Ma, per quali prodotti, è ancora un grande mistero…

Dove si colloca Guardiani della Galassia 3?

Come i precedenti capitoli di Guardiani della Galassia, anche il terzo film della saga è totalmente autonomo.

E, nonostante sembri che siano passati solo pochi mesi da Guardiani della Galassia (2014), il film si colloca nel 2024, quindi sia dopo Endgame (2019), sia dopo lo Speciale di Natale.

È il secondo film della Fase Cinque.

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Guardiani della Galassia Vol. 2 – Il film della maturazione

Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) è il sequel dell’omonimo film che fece la fortuna di James Gunn, confermata proprio da questo capitolo: dopo il licenziamento del regista per dei tweets di cattivo gusto (ma molto datati), cast e pubblico si rivoltarono contro la produzione.

Il resto è storia.

Fra l’altro un sequel che confermò l’andamento positivo del brand, con anche un aumento degli incassi: 863 milioni, contro 200 di budget – il primo ne aveva guadagnati circa un centinaio in meno.

Di cosa parla Guardiani della Galassia Vol. 2?

Pochi mesi dopo il primo film, i Guardiani sono impegnati in una missione per i Sovereign, ma non tutto va come si immaginavano…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Guardiani della Galassia Vol. 2?

Michael Rooker e Sean Gunn in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

In generale, sì.

Assolutamente sì se avete visto ed apprezzato il primo capitolo: vedendoli per la prima volta a così poca distanza, mi sono resa conto della superiorità di Guardiani della Galassia Vol. 2 rispetto alla pellicola del 2014, indice forse anche di una maggiore maturazione e libertà del regista a seguito del successo ottenuto.

Nonostante non manchi di qualche elemento anche di forte debolezza, riesce a migliorarsi sotto molti aspetti, anzitutto per l’antagonista e per la struttura narrativa, che evade la gestione più classica di questo tipo di prodotti, come era stato invece per il precedente.

Un nuovo obbiettivo

Michael Rooker e Rocket Raccon in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

Nel precedente film l’obbiettivo finale della pellicola era costituire il gruppo, in questo caso Gunn si è trovato davanti all’ostacolo di dover gestire un gruppo piuttosto folto di personaggi – vista anche l’introduzione di Mantis e la maggior importanza di Yondu.

E ha sperimentato una gestione dei personaggi che sarà poi la stessa di Infinity War (2018): dividerli in piccole storyline autoconclusive, per poi farli rincontrare nel finale.

L’arco narrativo più azzeccato è ovviamente quella di Yondu e Rocket, utile ad entrambi per un’interessante riflessione e conseguente maturazione: come Rocket si rende conto della sua irriverenza e incapacità di fare gruppo, Yondu sceglie di abbandonare la sua corazza burbera per rinsaldare il rapporto con Peter.

Ma qui nasce il primo problema…

Come si cambia…in fretta

Rocket Raccon e Groot in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

A conti fatti, l’arco narrativo di Rocket e Yondu è quello meglio costruito, mentre gli altri appaiono complessivamente molto più difettosi.

Escludendo la coppia Drax e Mantis, che rappresenta semplicemente un simpatico siparietto comico, l’arco narrativo che mi ha meno convinto è quello di Peter e suo padre.

Per quanto il film si impegni moltissimo nel raccontare la diffidenza di Star Lord nei confronti di Ego, concede molto meno minutaggio al racconto dell’assuefazione di Peter verso il ritrovato genitore.

Infatti, nonostante Ego riesca a convincere sottilmente il figlio della sua visione, al contempo lo stesso si rivolta fin troppo facilmente e nettamente contro di lui, anche se il trigger è molto potente – il trauma della morte della madre – e rivela immediatamente la vera natura dell’antagonista.

Karen Gillan in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

Altro discorso per Nebula e Gamora.

Il loro rapporto è in realtà una costante anche nei successivi film degli Avengers, ed era già stato introdotto nello scorso capitolo. Tuttavia, il loro parziale rappacificamento mi è parso un po’ troppo veloce, e avrebbe secondo me avuto bisogno di un maggiore screentime.

Tuttavia, mi sono anche in parte ricreduta quando l’argomento viene nuovamente affrontato sul finale, con almeno un parziale ed effettivo confronto fra le due, che verrà poi meglio raccontato nei film successivi, collocato proprio nel momento di riflessione generale di tutti i personaggi.

Lo stesso problema?

Pom Klementieff, Dave Bautista, Chris Pratt, Kurt Russell e Zoe Saldana in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

Uno dei principali problemi di Guardiani della Galassia era proprio la scelta dell’antagonista.

Nel sequel Gunn compie un parziale passo avanti.

E dico parziale in quanto, anche se indubbiamente il personaggio di Ego è ben gestito, raccontando abbastanza approfonditamente la sua psicologia e le sue motivazioni, sostanzialmente le stesse si riassumono – ancora una volta – nel desiderio di conquistare il mondo.

Anche peggio se parliamo dei Sovereign, l’elemento più debole, soprattutto esteticamente, dell’intera pellicola: personaggi veramente anonimi, che potevano essere sostituiti od eliminati dalla pellicola con poche righe di sceneggiatura.

Infatti, la loro vera utilità è introdurre il villain del terzo capitolo, Adam Warlock.

La morte di Yondu è probabilmente una delle più dolorose dell’intero MCU.

Ma era di fatto inevitabile.

È evidente che in questo capitolo Gunn volesse approfondire Yondu: nonostante sia un personaggio davvero accattivante e intrigante, aveva avuto fin troppo poco spazio nel primo capitolo.

E il suo approfondimento è anche finalizzato a farci comprendere meglio il significato della sua morte, essenziale per il personaggio di Quill: il protagonista dice definitivamente addio la figura paterna e scende a patti con un trauma che l’aveva accompagnato per tutta la vita, anche se nella maniera più tragica…

Dove si colloca Guardiani della Galassia 2?

Come il primo capitolo, Guardiani della Galassia Vol. 2 è un film altrettanto autonomo, tanto da essere ambientato appena un paio di mesi dopo la pellicola del 2014.

Non a caso le diverse post-creditben cinque! – non si collegano in alcun modo agli altri film dell’MCU, ma servono ad approfondire alcuni aspetti della pellicola stessa, ad inserire alcune gag per smorzare la tragicità del finale, nonché ad introdurre il villain del terzo capitolo.

La pellicola è fra i primi tre film dell’affollata Fase 3, conclusiva della Saga dell’Infinito.

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Avventura Azione Cinecomic Drammatico Fantascienza Film Guardiani della Galassia MCU

Guardiani della Galassia – Un film indipendente

Guardiani della galassia (2014) è il primo capitolo della trilogia omonima diretta da James Gunn – quando era ancora un regista di nicchia – nonché il film di introduzione di questo gruppo di personaggi.

Un prodotto che ottenne, a sorpresa viste le premesse, un buon successo – e non solo commerciale: con un budget di circa 232 milioni, ne incassò 733.

Di cosa parla Guardiani della Galassia?

Peter Quill, aka Star Lord, è un criminale spaziale che cerca di mettere le mani sul preziosissimo Orb, senza però saperne il vero valore…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Guardiani della Galassia?

Chris Pratt e Dave Bautista in una scena di Guardiani della galassia (2014) di James Gunn

In generale, sì.

Soprattutto se non siete particolarmente appassionati di cinecomic e siete dei casual watcher dell’MCU: a differenza di altre pellicole della Marvel, Guardiani della Galassia è un film così tanto a sé stante che non ci sono neanche delle post-credit che lo collegano agli altri prodotti del franchise.

Infatti, più che un film di supereroi, è un’avventura fantascientifica caratterizzata da una comicità anche piuttosto piacevole rispetto ad altri prodotti MCU, ma che pecca nei soliti problemi di questi film: struttura narrativa ripetitiva e villain insipido.

Tuttavia, come prodotto di intrattenimento, ve lo consiglio molto.

Creare un gruppo

Chris Pratt e Zoe Saldana in una scena di Guardiani della galassia (2014) di James Gunn

Una delle sfide più ardue era il saper creare un gruppo che fosse effettivamente unito e credibile.

Per quanto ci sia qualche debolezza narrativa – anche piuttosto prevedibile – il film riesce complessivamente bene in questo senso, utilizzando due elementi particolarmente vincenti: costruzione di un solido background ed assegnazione di un obiettivo personale ad ogni componente del gruppo.

Il primo elemento sembra molto scontato, ma non lo è per niente: basta pensare a prodotti con finalità analoghe come Suicide squad (2016), quasi comico da questo punto di vista, che allestisce una squadra di personaggi bidimensionali e che non hanno alcun motivo per fare gruppo.

Chris Pratt, Zoe Saldana, Dave Bautista e Vin Diesel in una scena di Guardiani della galassia (2014) di James Gunn

Al contrario, anche e soprattutto attraverso i dialoghi, Guardiani della Galassia riesce a rendere tutti i personaggi abbastanza tridimensionali e a fornire ad ognuno di loro un proprio personale e credibile motivo di fare gruppo con gli altri protagonisti.

Come elemento bonus ai fini della credibilità, i conflitti fra i personaggi non vengono risolti fino in fondo, anzi si ritrovano anche nei film successivi.

Ed è piuttosto indicativo in questo senso che il rapporto fra Gamora e Star Lord non venga concluso alla fine di questo capitolo – e neanche propriamente nel successivo, in realtà.

Tuttavia, qui sorgono i primi problemi.

Tornare all’essenziale

Chris Pratt, Zoe Saldana, Dave Bautista e Vin Diesel in una scena di Guardiani della galassia (2014) di James Gunn

Per i primi due atti del film la narrazione scorre in maniera piuttosto credibile ed interessante, e anche abbastanza anomala per un prodotto di questo tipo, non venendo mai meno all’identità dei personaggi stessi.

Poi, col terzo atto, questo elemento si indebolisce.

Il primo scontro con l’antagonista porta, come sempre, alla sconfitta degli eroi, che devono mettere da parte i propri principi per salvare il mondo, quindi seguendo binari più sicuri e consolidati del genere di riferimento.

Tuttavia, come scelta stona un poco con l’identità dei protagonisti stessi.

Ma non manca comunque una costruzione abbastanza piacevole e una conclusione non del tutto scontata, che apre anche le porte anche al sequel in maniera piuttosto coerente – indice di una progettualità presente fin da questo primo capitolo.

Il solito problema

Lee Pace e Karen Gillan in una scena di Guardiani della galassia (2014) di James Gunn

Un altro problema evidente della pellicola – e in realtà della maggior parte dei prodotti MCU – è la bidimensionalità dell’antagonista, Ronan l’Accusatore. E non è di sicuro un caso che lo stesso sia legato proprio allo snodo narrativo meno efficace della pellicola, di cui sopra.

E personalmente un po’ mi dispiace: si vede che Gunn ha comunque cercato di costruire un minimo di trama politica per contestualizzare il villain, così da non renderlo semplicemente un nemico spinto dal desiderio di conquistare il mondo.

Lee Pace in una scena di Guardiani della galassia (2014) di James Gunn

Tuttavia, è una strategia che purtroppo non funziona fino in fondo.

E mi dispiace anche per Lee Pace, attore che io ho sempre apprezzato, sia come l’elfo altezzoso in La desolazione di Smaug (2013), sia in quel ruolo veramente indovinato per le sue capacità di Fratello Giorno nella serie tv Fondazione (2021- …).

E questo è anche il motivo per cui Guardiani della Galassia è il mio secondo film MCU preferito, dopo a Spiderman Homecoming…

Gamora Guardiani della Galassia

Il personaggio di Gamora purtroppo fu un personaggio scritto nel periodo peggiore dell’MCU per i personaggi femminili, che dovevano essere o delle insopportabili Mary Sue, possibilmente anche acide, oppure ipersessualizzate come Black Widow in Iron Man 2 (2010).

E ovviamente il picco è stato Captain Marvel (2019).

E Nebula non è da meno.

Tuttavia, bisogna ammettere che quantomeno in questo caso entrambi i personaggi femminili sono ottimamente contestualizzati nella storia e nella loro caratterizzazione – qui e anche – e soprattutto – nei successivi prodotti.

Dove si colloca Guardiani della Galassia?

Come detto, Guardiani della Galassia è un film molto autonomo, ma dovrebbe indicativamente collocarsi nel 2014 durante Captain America – Civil War (2016) – e così anche il sequel.

Si trova a circa a metà della Fase 2.

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Watchmen – Trasporre un capolavoro

Watchmen è una graphic novel cult ad opera di Alan Moore, uno dei più grandi fumettisti viventi, autore anche di altri prodotti di culto come V per Vendetta e Batman – The Killing Joke.

Non conoscevo la sua opera se non per i prodotti derivativi, ma per anni ho avuto il desiderio di leggere il suo fumetto più importante: Watchmen, appunto. E da questa lettura è nata la necessità di una più ampia riflessione in merito alla possibilità di trasporre un prodotto già così perfetto di per sé.

E ho avuto anche la fortuna di potermi confrontare con un’opinione diversa dalla mia.

Per questo ringrazio Simone di Storie e Personaggi (@storie_e_personaggi) per il prezioso contributo.

Perché Watchmen è un’opera fondamentale

Prima di cominciare la valutazione delle trasposizioni del fumetto, è fondamentale chiarire l’importanza dell’opera di partenza.

I dodici albi che compongono l’opera uscirono fra il 1986 e il 1987, ovvero agli sgoccioli della Guerra Fredda. E, infatti, una delle tematiche principali dell’opera è proprio il conflitto nucleare stesso, una minaccia costante e onnipresente.

Una paura vera, reale.

Al contempo, anche confrontando l’opera con prodotti più recenti, non esiste niente di paragonabile, nessun prodotto che abbia saputo raccontare una storia apparentemente supereroistica nella maniera meno convenzionale possibile, uscendo da tutti i canoni e raccontando davvero cosa significherebbe l’esistenza di supereroi nella società statunitense.

Insomma, prodotti come The Boys e Invincible sono solo la pallida ombra di Watchmen.

Il resto, lo lascio alla vostra lettura.

Watchmen di Snyder

Per anni ho avuto un rapporto molto altalenante e conflittuale con il film di Snyder del 2009: inizialmente, per la troppa violenza, non riuscivo neanche a guardarlo fino in fondo. Poi ho cominciato ad apprezzarlo, e, ad oggi, non lo sopporto.

Questa analisi vuole essere il più equilibrata possibile, riconoscendo i meriti, i difetti e i limiti di una trasposizione così complessa, partendo dalla chiosa di Simone, persona molto più esperta di me in materia:

L’opera di Moore è talmente un capolavoro che neanche Snyder poteva rovinarla.

Iniziare col botto

Una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Un elemento abbastanza incriticabile – persino per me – sono i titoli di testa.

È ormai iconica la sequenza di immagini che racconta la gloria e la caduta del Minutemen, riesce subito a farti immergere nello spirito della storia di Moore: eroi che sembrano una carnevalata in un modo duro e sanguinoso.

Altrettanto d’impatto l’inizio vero e proprio e, più in generale, le scene dedicate all’indagine di Rorschach – le uniche per me veramente funzionanti all’interno della pellicola – che riescono effettivamente a rendere adeguatamente la controparte fumettistica.

Oltre ad essere anche quelle più ricordate e citate.

Ma se di Rorschach possiamo parlar bene…

Un casting bello a metà

Jackie Earle Haley nei panni di Rorschach in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Il casting dei personaggi del film mi ha convinto a metà.

Sia per quanto riguarda le capacità recitative degli attori, sia per l’estetica in generale.

Per come sono rimasta positivamente convinta del casting di Rorschach, del Comico e del Gufo – sia per il loro physique du rôle, sia per le loro capacità recitative, due sono invece gli attori che non mi hanno convinto.

A livello più estetico che interpretativo, ho trovato poco convincente la scelta di Matthew Goode come Ozymandias: nel fumetto il suo aspetto da adone, una figura quasi eterea che si paragona al mitico Alessandro Magno, era fondamentale anche per la sua caratterizzazione.

Un ruolo poco calzante purtroppo per questo attore.

Malin Åkerman nei panni di Spettro di Seta in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Invece è stata veramente una scelta pessima da ogni punto di vista castare Malin Åkerman come Spettro di Seta.

Per quanto non apprezzi neanche particolarmente la controparte cartacea, le capacità recitative di questa attrice me l’hanno fatta quasi rivalutare: Laurie non era semplicemente una ragazzina isterica e senza sapore come appare nel film.

E si collega anche il primo grande problema della pellicola.

Attualizzare i costumi?

Jeffrey Dean Morgan nei panni del Comico e Matthew Goode nei panni di Ozymantis in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Bisogna ammetterlo: i costumi del fumetto potevano apparire quasi ridicoli in un film con questo tono.

Infatti, sembrano molto più vicini a quelli dei titoli di testa: banalmente, molto fumettosi. Tuttavia, arrivare nella maggioranza dei casi a banalizzarli e a renderli simili al costume di Batman – e non uno qualsiasi, ma proprio quello di Snyder – è stata una scelta al limite del ridicolo.

E mi interessano sinceramente poco le motivazioni che ci possono essere state.

Il picco di bruttezza è ovviamente Laurie, che appare come una Vedova Nera ante-litteram, con la sua tutina provocante in latex che non fa altro che amplificare la poca cura e profondità del suo personaggio nel film.

L’eccesso

Patrick Wilson nei panni del Gufo Notturno Malin Åkerman nei panni di Spettro di Seta in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Il secondo grande problema del film, almeno per quanto mi riguarda, è che comunque l’ha diretto Snyder, autore – ricordiamolo sempre – di capolavori come 300 (2006) e Sucker Punch (2011).

Un regista che a livello tecnico sa comunque il fatto suo, che sa mettere la sua impronta nei progetti di cui si occupa, ma che proprio per questo è capace di raggiungere delle vette di bruttezza inimmaginabili.

Billy Crudup nei panni di Dr. Manhattan in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

In questo caso non so se abbia voluto fare il suo compitino attraverso il citazionismo esasperato o se sia stato tenuto al guinzaglio: in ogni caso, rendere alla lettera un’opera non rende un prodotto bello – come Ghost in the shell (2017) in parte ci dimostra.

E l’impronta di Snyder si percepisce nei continui ed estenuanti slow-motion, nella assoluta mancanza di comicità, nelle scene soft porn che non hanno un briciolo dell’eleganza di quelle del fumetto, e nella scelta piuttosto dozzinale della colonna sonora.

Insomma, poteva anche andare peggio, ma non significa che in questo meno peggio ne emerga un buon prodotto.

Il finale (e oltre)

 Matthew Goode nei panni di Ozymantis in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Il finale mi ha non poco innervosito.

Non perché di per sé non funzioni o non abbia senso, ma perché di fatto cambia e banalizza quello che, nell’opera di Moore, era una conclusione magistralmente pensata e che ha lasciato un segno indelebile nella storia del fumetto.

La chiusa invece del film la posso paragonare a molte altre e, come concetto, a quello che si vede in Batman vs Superman (2016), proprio per dirne una.

Per costruire un finale al pari dell’opera originale, semplicemente, non si sarebbe dovuto provare a comprimere una storia di così ampio respiro come quella di Watchmen in un film di appena due ore e mezza – impresa che neanche l’autore più abile sarebbe riuscito a compiere.

Infatti, così ne viene fuori un prodotto veramente pesantissimo e che non lascia il giusto spazio né la giusta dignità ad un’opera così immensa.

Insomma, Snyder non ha rovinato Watchmen, ma è stato totalmente incapace di eguagliarlo.

La miniserie Watchmen

Quando uscì la serie nel 2019 la guardai avendo solo una vaga conoscenza del mondo di Watchmen, tramite proprio il ricordo del film di Snyder.

E, seppur con le dovute differenze, le mie conoscenze fumettistiche non hanno più di tanto mutato le mie opinioni originali.

Is this a requel?

Regina King nei panni di Sister Night in una scena della miniserie Watchmen

Cominciamo mettendo da parte le dichiarazioni degli autori del fumetto, viziate da interessi probabilmente del tutto estranei ad un puro giudizio artistico.

Come Scream 5 (2022) ben ci insegna, di fatto la serie di Watchmen è un requel, ovvero un sequel reboot: una riproposizione della medesima storia prendendo direzioni diverse.

E per me è un ottimo requel.

Fondamentalmente, è tutto quello che io vorrei vedere quando un autore, soprattutto se un autore di talento, prende in mano un’opera e la fa sua, scegliendo strade diverse, ma senza mai tradirne lo spirito originario della materia prima.

Per fortuna Lindeloff, lo showrunner, ha deciso sapientemente di prendere totalmente le distanze dalla trasposizione di Snyder, in primo luogo mettendo il vero finale del fumetto e dando decisamente maggior dignità ai personaggi rispetto al film, in particolare per Laurie.

Purtroppo, ha fatto un unico, grosso, buco nell’acqua.

Il Dr. Manhattan.

Un dio in pigiama

Yahya Abdul-Mateen II nei panni di Dr Manhattan in una scena della miniserie Watchmen

Partiamo col dire che il Dr. Manhattan della serie non è tutto da buttare: i suoi punti forti sono l’interpretazione di Yahya Abdul-Mateen II e la prima apparizione del personaggio.

Il momento in cui Manhattan entra per la prima volta in scena è davvero incredibile: rimane per tutto il tempo di spalle per non svelarne il vero volto. Infatti, proprio come un dio, il suo aspetto esterno è utile solamente per mostrarsi agli uomini. Inoltre, tutta quella scena riprende evidentemente lo splendido Capitolo IX, Nelle tenebre del puro essere.

E in generale l’attore è riuscito davvero a calarsi nella parte, portando in scena un personaggio per la maggior parte del tempo apatico e freddo, con un intenso sguardo vitreo davvero affascinante e convincente.

Il problema è il resto del tempo.

Yahya Abdul-Mateen II nei panni di Dr Manhattan in una scena della miniserie Watchmen

Purtroppo si è scelto rendere il personaggio più accessibile ed emotivo, legandolo sentimentalmente ad Angela. Tuttavia, si tratta del tutto di una scelta out of character, che esce proprio dai principi fondanti del Dr. Manhattan e del suo totale distacco dalle vicende umane.

Inoltre – come ben mi ha fatto notare Simone – è problematica anche la messinscena: scegliere di non far brillare il personaggio, di tenerlo vestito per la maggior parte del tempo, ovvero renderlo così umano ha il solo esito di non trasmettere per nulla l’imponenza della sua figura.

Purtroppo, su questo devo dire che Snyder ha fatto meglio.

Un mistero stratificato

Watchmen è una serie che vive di tensioni.

Il mistero è complesso, intricato, ben stratificato e, in ultimo, torna per tutte le sue parti – anche per quelle di Manhattan. Infatti, per quanto il suo personaggio non sia sé stesso, all’interno della reinterpretazione – pur sbagliata – della serie, ha perfettamente senso.

Inoltre, il suo legame emotivo non è così determinante per la storia nel complesso: sarebbero bastati pochi tocchi di sceneggiatura e una maggiore fedeltà al personaggio per far tornare comunque tutto: semplicemente, Manhattan sapeva di dover morire perchè era la cosa migliore nel complesso degli eventi.

Yahya Abdul-Mateen II nei panni di Dr Manhattan e Regina King nei panni di Sister Night in una scena della miniserie Watchmen

Tuttavia, per la questione dell’uovo c’è da fare un discorso a parte.

A livello strettamente narrativo, il cliffhanger finale è per me una delle scelte migliori mai viste in una serie tv – soprattutto a fronte della giusta e ferma decisione di non fare un’inutile seconda stagione. È una splendida chiusura, che lascia per sempre il dubbio sullo svolgimento futuro della storia.

Tuttavia, a livello invece più canonico, mi ha poco convinto.

L’idea che Dr. Manhattan possa trasferire i suoi poteri ad un altro, nonostante la logica interna della serie, depotenzia tantissimo il personaggio e la sua origine, rendendo potenzialmente il suo potere accessibile a chiunque.

E privandolo della sua fantastica unicità.

La ridicolizzazione dei villain

Hong Chau nei panni di Lady Trieu in una scena della miniserie Watchmen

Un altro elemento che ho semplicemente amato del finale è la ridicolizzazione dei villain, nessuno escluso.

Per tutto il tempo infatti gli stessi vogliono farsi passare come intelligenti e onnipotenti, in realtà nel finale si rivelano per tutte le loro debolezze. Al minimo imprevisto sembrano infatti dei bambini capricciosi che vogliono avere il pubblico per il loro spettacolo di magia.

E per cui non avevano neanche considerato tutte le conseguenze.

Jeremy Irons nei panni di Ozymantis in una scena della miniserie Watchmen

Soprattutto, finalmente, Adrian viene punito come non era possibile invece nel fumetto.

E viene fatto in un contesto del tutto credibile: come ai tempi della Guerra Fredda era del tutto plausibile la sua scelta, nel contesto sociopolitico mutato contemporaneo queste manie di onnipotenza e di voler risolvere tutto con uno schiocco di dita non hanno più spazio.

E quindi, per lui come gli altri, i discorsi da villain dei fumetti sono più volte smentiti e interrotti.

Come è giusto che sia.

Costumi terreni

Regina King nei panni di Sister Night in una scena della miniserie Watchmen

Sui costumi e gli interpreti ci sarebbe un enorme discorso da fare.

In breve, adoro ogni scelta che è stata fatta.

Gli interpreti sono tutti perfetti, perfettamente in parte, carismatici, bucano lo schermo. Particolarmente ho apprezzato moltissimo Jeremy Irons come Ozymandias e Jean Smart come Laurie – le perfette controparti anziane dei personaggi del fumetto. E finalmente degli attori che abbiano un physique du rôle credibile.

Discorso a parte per Regina King come Angela, perfetta nella sua parte e con uno dei costumi più belli di tutta la serie, che si integra perfettamente in un’idea di maschere terrene ed attuali – insomma, tutto il contrario di quelle di Snyder.

E già solo il costume è un discorso a parte.

Una rete di riferimenti

La serie è piena di riferimenti al fumetto.

Solo per citarne alcuni: il gufo di Laurie che richiama Gufo Notturno, l’inquadratura sul sangue che cola da sotto la porta dopo il pestaggio di uno dei Seventh Cavalry che richiama la scena del pestaggio di Rorschach nella prigione, lo schizzo di sangue sul distintivo di Judd Crawford quando muore…

Dei richiami ben contestualizzati che si distanziano molto dal puro e pigro citazionismo del film, ma più che altro dei piccoli easter egg per gli appassionati.

Inoltre, la serie ha una serie di citazioni interne, che rendono il tutto perfettamente collegato: si parte dal cappuccio bianco del Ku Klux Klan che l’allora Hooded Justice cerca di combattere, mettendosi a sua volta un cappuccio nero, ma in realtà la cui vera maschera è la tinta bianca sugli occhi.

La stessa tinta, però nera, della nipote quando si traveste da Sister Night.

In chiusura, il prezioso contributo di Simone Storie e Personaggi (@storie_e_personaggi) riguardo alla serie.

Guardai la serie per la prima volta nel 2019 e l’ho riguardata in occasione di questa recensione. Esattamente come quell’anno, ho cercato di abbandonare tutti i pregiudizi, ma rimango comunque dell’idea che all’inizio sembri un prodotto molto interessante, ma che le ultime tre puntate facciano crollare tutto come un castello di carta.

Per questa recensione voglio dire tre cose che mi sono piaciute, e tre che trovo quasi delle bestemmie in confronto al prodotto di partenza.

E spiegare soprattutto il perché.

Serie tv Watchmen

Premetto che le colpe delle ultime tre puntate non vanno solo affibbiate allo showrunner – la writer’s room era piuttosto ampia – ma piuttosto si può parlare di un concorso di colpa.

Soprattutto perché all’interno della serie ci sono tantissimi e ripetuti ammiccamenti allo spettatore, continuando a sottolineare la conoscenza dell’opera di partenza. Tuttavia, questo diventa totalmente inutile quando non si rispettano i canoni dell’opera stessa che si cita.

Anzi, li si stravolge.

Ma partiamo dai pro.

La sequenza iniziale

La serie si apre con una sequenza dedicata ai disordini di Tulsa del 1921 – fatto storico avvenuto realmente – ponendo le basi per il tema di fondo di tutta la serie.

Il razzismo.

Se infatti la graphic novel rifletteva sulle paure della società di metà degli Anni Ottanta – l’Olocausto Nucleare e la minaccia della Guerra Fredda – nella società contemporanea la paura più grande è il razzismo, la xenofobia, la circolazione delle armi degli Stati Uniti.

Quindi la serie punta su temi molto attuali.

Seventh Kavalry

Per questo mi sento di fare – l’unico – plauso agli sceneggiatori, per essere riusciti a capire perfettamente la frangia di estremisti, nazionalisti e anarchici trumpiani e prevedere in qualche misura in cosa sarebbe sfociata.

E l’assalto al Campidoglio del 2021 non era ancora successo…

In particolare nella seconda puntata si mette in scena il raid alla baraccopoli della Seventh Cavalry, mostrando questi redneck con la camicia di flanella e la maschera di Rorschach, con il pupazzone di Nixon – ma che potrebbe facilmente essere quello di Trump.

Insomma, la rappresentazione di quella che negli Stati Uniti è una paura reale e concreta.

I poliziotti come vigilanti

Mi ha altrettanto positivamente colpito la scelta di raccontare la polizia di Tulsa che diventa sostanzialmente un gruppo di vigilanti: la polizia mascherata è il sogno di ogni società fascista, in cui le forze dell’ordine possono agire senza paura delle conseguenze.

Nell’opera originale il Decreto Keene, che mette al bando i vigilanti, deriva dal malcontento e dagli scioperi della polizia, mentre nella serie i poliziotti diventano i vigilanti stessi, con tanto di nomi da battaglia.

Un sovvertimento del canone che ho davvero apprezzato.

La scrittura della serie

La scrittura della serie è molto buona.

Gli incastri sono ottimi, la protagonista, Angela, è un personaggio ben scritto, sempre in bilico fra il concetto di giustizia e vendetta, che riflette sul peso della sua maschera, anche riscoprendo le sue radici. E, soprattutto, non ci sono buchi di trama, e si riparte dal finale del fumetto e non del film.

Ma non basta.

Non basta dare coerenza alla trama, se poi si stravolge il cuore dell’operazione e non si rende giustizia al prodotto originale. E purtroppo non possiamo neanche avere un confronto credibile con gli autori del fumetto.

Gibbons, il disegnatore, è stato consulente della serie e ha dichiarato che il prodotto l’ha reso molto contento, ma non possiamo ovviamente sapere quanto il denaro che gli è stato offerto abbia viziato la sua opinione. Moore, dal canto suo, ha bocciato il prodotto – ma lo avrebbe fatto a prescindere.

Passiamo quindi ai contro.

L’incoerenza di Laurie

Il personaggio di Laurie è per molti versi sprecato.

Nella serie ha per la maggior parte un ruolo importante, forte, da spietata detective dell’FBI che ha sempre la risposta pronta e il polso fermo. Finché non cade in una botola, finisce legata ad una sedia, e lì si esaurisce il suo personaggio.

Ma non è neanche quello il problema peggiore.

La genialità di Moore in Watchmen stava proprio nella sua satira contro le maschere: nel fumetto si raccontava cosa sarebbe successo in una società reale dove per cinquant’anni si vedevano eroi scendere per strada e picchiare i cattivi. E quello che sarebbe successo è la paura delle persone, proprio per la presenza della maschera – e tutto quello che ne consegue.

Il Comico, come anche Laurie, rappresentava questo paradosso, in un contesto sociale con un sentimento popolare ben preciso. Quindi, anzitutto, perché Laurie fa parte di una task force contro i vigilanti, ma soprattutto perché sembra che il sentimento sia cambiato?

Infatti, nella scena in cui Laurie arresta un vigilante, la folla sembra essere contro l’FBI, mentre dovrebbe essere totalmente il contrario. Insomma, si va a distruggere un elemento portante della trama di Watchmen, che era anche il punto di partenza delle vicende dei protagonisti.

Questo non è Manhattan

La gestione di Manhattan è uno dei problemi maggiori della serie.

Il Dottor Manhattan è uno dei personaggi meglio scritti nella letteratura del XX sec.: come viene raccontato il suo distacco dall’umanità, la sua percezione del tempo, la narrazione della sua vita sono tutti elementi che hanno contribuito a rendere Watchmen un capolavoro.

Considerato il fatto che la serie è sequel di Watchmen e con tutti i riferimenti al fumetto, ci si aspetterebbe come minimo una certa sensibilità e rispetto del canone del personaggio. Invece è tutto il contrario: Dr. Manhattan – chiamato fin troppe volte Jon – è totalmente umanizzato e porta lo spettatore a dimenticarsi che si tratta praticamente di un dio.

Anzitutto è problematica l’idea che ritorni sulla terra: nel fumetto la sua storia è chiusa perfettamente e il personaggio non avrebbe nessun motivo per comportarsi così. Invece si è deciso di piegare la sua figura alle necessità della serie, banalmente perché non si poteva fare un prodotto di Watchmen senza il Dr. Manhattan.

Ma se si doveva fare così, meglio non farlo.

Soprattutto davanti ad una serie di sequenze assurde e totalmente fuori dal personaggio, in particolare la scena dell’incontro con Angela: Manhattan sembra in difficoltà davanti alle domande di questa donna e sembra volerle fare la corte.

Lo stesso personaggio che, ricordiamolo, durante la Guerra in Vietnam aveva lasciato che il Comico sparasse ad una donna incinta.

Giusto per fare un esempio del suo distacco dall’umanità.

Dr. Manahttan Watchmen serie

Questo non è il Dr. Manhattan.

Anche se per assurdo dovessimo accettare questa rappresentazione, il make-up e gli effetti sono ingiustificabili. Stiamo parlando di una serie da milioni di dollari e che ha vinto diversi Emmy, dove il personaggio è ridotto ad un trucco posticcio, finto, che lo umanizza terribilmente e che gli toglie tutta l’aura divina.

E, soprattutto, non brilla.

Come se tutto questo non bastasse, si sono anche permessi di ucciderlo. E, soprattutto, Gibbons ha detto sì a questa idea.

La distruzione di Adrian

Non voglio dare colpe a Jeremy Irons: è anche accettabile che non abbia mai letto il fumetto e si sia semplicemente rifatto alla sceneggiatura che si è trovato ad interpretare.

Il problema è che Adrian Veidt viene ridotto alla sottotrama comica della serie: siamo passati dalla mente dietro ad un piano machiavellico, responsabile di tre milioni di morti, che si paragona ad Alessandro Magno…a Rick Sanchez di Rick & Morty – una sorta di patetico scienziato pazzo.

Tutta la sua storia poteva essere raccontata mantenendo il carattere del personaggio: un cattivo furbo e abile che pianificava la sua fuga dal suo pianeta di prigionia, senza doverlo esasperare in gag comiche improponibili.

Adrian Veidt Watchmen

In più, Adrian non ci sarebbe mai andato nel paradiso di Manhattan: semplicemente, perché non se l’è conquistato lui. E invece lo stesso uomo che si rivede in Alessandro Magno quasi si commuove davanti all’offerta di andare in quell’utopia.

E ancora peggio il finale.

Tutta la maestosità del personaggio viene totalmente distrutta da una semplice chiave inglese e si banalizza il concetto finale del fumetto: se con questo arresto verrà rivelato il suo inganno che ha salvato l’umanità, allo stesso modo così si vanifica il senso del finale stesso.

Infatti l’intento dell’opera di Moore era di permettere ai lettori di scegliere quale fosse la proposta moralmente più giusta, senza prendere posizione. Invece, la serie toglie questa possibilità e decide quale finale giusto dare alla storia.

La scelta più abietta di tutta la serie.

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The Batman 2

Coming soon…

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Antman and the Wasp: Quantumania – Is this Antman?

Antman and the Wasp – Quantumania (2023) di Peyton Reed è il terzo film dedicato al personaggio di Antman – o, almeno, lo dovrebbe essere. Un prodotto che neanche si pensava di fare in prima battuta, visto lo scarso riscontro commerciale dei film dedicati a questo personaggio.

Nonostante tutto, il film ha incassato finora 357 milioni di dollari in tutto il mondo, prospettando un buon guadagno, che sicuramente ripagherà l’investimento di 200 milioni.

Di cosa parla Antman and the WaspQuantumania?

Dopo gli eventi di Endgame, Scott Lang sta cercando di vivere una vita normale con la sua famiglia, in particolare con la figlia adolescente. Ma la stessa ha una sorpresa in serbo per lui…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea – ma vi sconsiglio di guardarlo, visto quanto è spoileroso:

Vale la pena di vedere Antman and the WaspQuantumania?

Paul Rudd e Evangeline Lilly in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

Sì e no.

Non lo considero un film totalmente da buttare: ha molte idee buone sulla carta e un villain veramente incredibile, ma entrambi sono davvero mal sfruttati, per via di una scrittura molto carente, in particolare nei dialoghi e in certe battute al limite dell’agghiacciante – livello Thor Love & Thunder (2022) per capirci.

Un film che non sconsiglio in toto, ma che non mi sento di raccomandare se cercate un film su Antman.

Non lo è.

Un inizio brillante

Paul Rudd e Kathryn Newton in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

Nelle battute iniziali del film ero fiduciosa.

L’incipit sembra davvero proprio di un film di Antman, con la sua gustosa ironia e con Scott al centro della scena. E ho anche il sospetto che fosse veramente l’incipit di un film dedicato ad Antman, ma che poi risulta del tutto inutile nel contesto generale della pellicola.

Infatti, a parte questi pochi minuti iniziali, il film manca totalmente di un atto introduttivo, che lasci un po’ di respiro allo spettatore prima di immergerlo nel cuore della narrazione. Così, nel giro di neanche venti minuti, i protagonisti sono già nel Regno Quantico e già si parte immediatamente con l’azione.

E non è neanche il problema principale…

Senza sapore

Jonathan Majors in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

L’idea sulla carta era quella di costruire un primo atto basato sulla minaccia incombente di Kang, spiegare il passato di Janet tramite flashback, mostrare la potenza e la malvagità del villain e poi arrivare allo scontro finale.

Nella pratica, queste idee non sono sorrette da una buona scrittura.

La maggior parte degli snodi narrativi non sono ben raccontati e appaiono poco credibili. Due su tutti: la genialità riscoperta di Cassie e del suo macchinario costruito in segreto, e sopratutto Janet che non racconta qualcosa di così fondamentale come la presenza di Kang. Senza parlare della conversione di Modok: sulla carta ha perfettamente senso, ma accade per tutti i motivi sbagliati.

Jonathan Majors in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

E questo anche per i dialoghi veramente scritti male, deboli e per certi versi imbarazzanti, sopratutto quando scadono in un umorismo davvero infantile, che probabilmente potrà far divertire un pubblico molto giovane, ma che a me non ha per nulla coinvolto.

Altrettanto poco mi ha coinvolto la sottotrama dei popoli distrutti da Kang: gli viene dedicato pochissimo spazio, tanto che non abbiamo modo per conoscere i personaggi e la loro storia, a cui invece era importante dedicare la parte centrale.

In questo modo, invece, non sappiamo niente di loro e ancora meno ci interessa della loro sorte nella battaglia finale.

Parliamo di Kang

Jonathan Majors in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

Kang è l’elemento più forte del film.

Ma anche lui non manca di difetti.

Jonathan Majors riesce indubbiamente, con la sua presenza scenica, a raccontare un villain minaccioso e profondamente malvagio, un villain da temere. Tuttavia, la messinscena non lo premia del tutto in questo senso: viene raccontato il suo enorme ed inimmaginabile potere, ma alla fine lo stesso non viene davvero mostrato nell’effettivo.

Si temeva l’effetto Captain Marvel, per cui il personaggio sarebbe risultato troppo potente?

Comunque tutta la drammaticità e l’interesse per il personaggio mi è abbastanza scesa nel mid-credit con i vari Kang: nonostante indubbiamente l’attore si sia impegnato nel caratterizzare diversamente le sue varie versioni, il loro character design mi è sembrato veramente molto dozzinale.

Senza considerare i preoccupanti cori da stadio dei vari Kang, quasi scimmieschi…

Il ridicolo

I prodotti MCU sono sempre stati per la maggior parte caratterizzati da un umorismo piuttosto frizzante e giocoso.

Tuttavia, ultimamente, hanno smesso di farmi ridere, complice un umorismo davvero infantile e poco indovinato, che purtroppo ha cominciato a caratterizzare questi prodotti già con Thor Love & Thunder (2022) e con She Hulk (2022).

In questo film, il picco di bruttezza per me è Modok.

Il suo personaggio è veramente troppo, da ogni punto di vista: non mi ha fatto ridere sostanzialmente mai, e mi sono sentita in particolare veramente imbarazzata davanti alla sequenza dedicata alla sua morte. Ed è anche preoccupante che lo abbiano caricato della maggior parte della linea comica, quando il film ha – o dovrebbe avere – come protagonista un personaggio che si presta così ben al ruolo di comic relief.

Un rapporto buttato in faccia

Paul Rudd e Kathryn Newton in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

Il rapporto fra Cassie e Scott era sempre stato molto importante sia per la caratterizzazione del protagonista, sia per il coinvolgimento emotivo che portava.

Era evidente che a questo punto il loro rapporto doveva essere riscritto e raccontato in una veste nuova, in quanto Cassie è ormai un’adolescente. Tuttavia, l’inizio del loro arco narrativo doveva essere posta nell’incipit, ma, come abbiamo visto, a questa parte si lascia pochissimo spazio.

Durante il film più in generale la costruzione del loro rapporto è molto debole e vive di spunti poco esplorati. Ma, nonostante questo, il loro rapporto è continuamente sbattuto in faccia allo spettatore, in maniera alla lunga davvero fastidiosa – quasi come se la pellicola fosse consapevole della mancanza di ulteriori elementi a supporto…

Una trama per tutti

Paul Rudd, Kathryn Newton e Kathryn Newton in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

A visione conclusa, mi sono resa drammaticamente conto di come questo non sia un film su Antman.

È un film su Kang.

Evidentemente Antman and the Wasp – Quantumania è stato pensato per introdurre Kang come villain della Fase Multiversale, che avrà il suo picco con Avengers: Secret Wars (2026). E, per questo, molti altri personaggi si sarebbero prestati perfettamente per questa trama e per questa ambientazione – i Guardiani e Thor, per esempio.

Quindi, con ogni evidenza questo non è un film ideato per chiudere la trilogia di Antman.

La bellezza del personaggio infatti era di essere un eroe urbano con ambientazioni molto terrene, con un taglio narrativo simpatico e giocoso. E nonostante si potessero esplorare anche ambientazioni e trame differenti, sarebbe stato bello se lo si fosse fatto avendo in mente di mettere in scena un film dedicato a questo personaggio, appunto.

E la mancanza dei personaggi secondari degli altri due film è piuttosto indicativa in questo senso…

Dove si colloca Antman and the Wasp: Quantumania?

Antman and the Wasp – Quantumania è fondamentale nel racconto complessivo dell’MCU, soprattutto della nuova fase.

Infatti introduce sul grande schermo il villain della Fase Multiversale ed è non molto successivo a Endgame (2019), quindi si ambienta probabilmente nel 2024.

È il primo film della Fase 5.

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Antman and the Wasp – Un piccolo pasticcio

Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed è il sequel di Antman (2015), che vede il ritorno del personaggio dopo il suo coinvolgimento in Civil war (2016).

Un film che incassò abbastanza bene, ma che confermò il poco interesse per questo personaggio: a fronte di un budget di circa 150 milioni di dollari, ne incassò appena 622 in tutto il mondo.

Di cosa parla Antman and the Wasp?

Due anni dopo Civil war, Scott è agli arresti domiciliari e ha apparentemente tagliato i rapporti con la famiglia Pym. Ma qualcosa di inaspettato sta per succedere…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena guardare Antman and the Wasp?

Scott Lang e Hope Pym in una scena di Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed

In generale, sì.

Anche se secondo me è meno riuscito rispetto al primo capitolo, rimane comunque un buon prodotto di intrattenimento.

Il principale problema è la trama molto meno lineare e molto più pasticciata, con diverse (forse troppe) storyline e diversi personaggi. E, in particolare, fa una cosa che personalmente non sopporto: inserire più nemici nello stesso film.

Ma, a parte questo, non è un prodotto che vi sconsiglio, anzi.

Una buona retcon

Janet Pym in una scena di Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed

L’incipit del film riprende le fila di Antman, e in particolare lo spunto narrativo di Janet, la moglie di Hank Pym, dispersa nell’Universo Quantico.

Tuttavia, per ovvi motivi, ha dovuto in parte riraccontarla.

Anche se la storia è fondamentalmente uguale, vengono aggiunti dettagli fondamentali e, soprattutto, viene finalmente rivelato il volto del personaggio, che nel primo film era stato del tutto nascosto allo spettatore.

Un caso di una retcon fatta bene.

Ancora più vicino

Scott Lang in una scena di Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed

Per rendere ancora più simpatico e affabile, in Antman and the Wasp Scott viene ancora caratterizzato per essere la vittima buona della situazione.

Nonostante il pubblico sappia che il protagonista è un eroe che ha combattuto per una giusta causa – la propria libertà – viene comunque punito. E oltretutto, dimostra anche di voler sottostare alla sua punizione.

E il suo essere costretto a mettersi in pericolo – e rischiare di perdere per sempre la figlia – lo rende ancora più vicino allo spettatore.

Un pasticcio di villain

Ghost in una scena di Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed

Invece di mettere in scena una trama lineare come nel primo, questa pellicola tende a perdersi in una trama molto più dispersiva, appunto.

Di fatto, la trama di base è molto semplice: i personaggi devono arrivare da un punto ad un altro per completare una missione. Tuttavia, gli vengono continuamente messi contro degli ostacoli e degli imprevisti.

E, se questa scelta da una parte tiene continuamente alta la tensione, dall’altra alla lunga può apparire fastidiosa e ridondante. Tanto più che gli ostacoli sono rappresentati dai due antagonisti.

Sonny in una scena di Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed

E ce n’è almeno uno di troppo.

Se già non apprezzo le storie con due antagonisti, ancora meno le apprezzo con due personaggi così poco interessanti. Da una parte il solito villain tormentato dal suo passato, dall’altra il classico stereotipo del boss criminale.

E non fatemi cominciare sul livello della recitazione…

Sempre peggio

 Hope Pym in una scena di Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed

Con Antman and the Wasp siamo vicini al picco di bruttezza della gestione dei personaggi femminili della MCU, rappresentato da Captain Marvel (2019) prima e la famosa scena del girl power in Endgame (2019) dopo.

E il personaggio di Wasp, se possibile, riesce persino a peggiorare.

Hope in questa pellicola diventa definitivamente una Mary Sue, non riuscendo ad essere in nessun modo interessante o appassionante, o anche solo lontanamente un personaggio in cui identificarsi.

Un po’ di respiro

Davanti a questi evidente difetti, la pellicola riesce comunque a non risultare una visione pesante grazie alla comicità indovinata.

I momenti comici sono tanto più riusciti perché prendono in giro cliché del genere stesso: da Scott che ridicolizza i travestimenti tipici del genere – col classico cappellino e occhiali da sole – allo scambio finale con Woo.

Momenti cominci ben pensati e soprattutto ben posizionati, che lasciano respirare lo spettatore in un film che risulta molto più drammatico del precedente, ma che decide comunque di non prendersi più di tanto sul serio.

Dove si colloca Antman and the Wasp?

Rispetto al primo capitolo, Antman and the Wasp dipende molto di più dall’universo MCU.

La pellicola è infatti esplicitamente collegata a Civil war (2016), di cui è due anni successiva: si ambienta quindi nel 2018. Rispetto agli eventi successivi, è contemporaneo ad Infinity War (2018) e si conclude proprio con lo snap.

Fa parte della Fase Tre ed è – insieme a Captain Marvel (2019) – uno dei due film di intermezzo fra Infinity War e Endgame.